Tag - afghanistan

“L’ICE funziona come un esercito di occupazione. Lo so perché ne ho fatto parte”
Gli elicotteri dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) sorvoleranno senza dubbio il mio quartiere in cerca di riparatori di tetti e giardinieri in questo “Veterans Day”, proprio come hanno fatto per settimane. Negli Stati Uniti, sei un bersaglio facile se hai la pelle scura e il tuo lavoro richiede di lavorare […] L'articolo “L’ICE funziona come un esercito di occupazione. Lo so perché ne ho fatto parte” su Contropiano.
Pakistan, inondazioni, cambiamento climatico e tensioni internazionali
Negli ultimi 10-15 anni abbiamo assistito a un allarmante aumento del numero, della frequenza e della natura irregolare delle inondazioni in Pakistan. Quando queste inondazioni colpiscono, causano un’immensa mortalità, morbilità e sfollamenti su larga scala. Solo pochi anni fa, nel Sindh, migliaia di anni di civiltà sono stati letteralmente spazzati via: moschee, templi, scuole, ospedali, vecchi edifici e monumenti. Anche quest’anno, le inondazioni in Pakistan hanno segnato un nuovo record. Da fine giugno 2025 a fine settembre, il Pakistan è stato sommerso da inondazioni che hanno devastato le province di Khyber Pakhtunkhwa, Punjab, Sindh e Gilgit-Baltistan, con oltre 1.000 morti, 3 milioni gli sfollati, e quasi 7 milioni di persone colpite. Ad aprile 2025, inoltre, l’India ha sospeso unilateralmente la sua partecipazione al Trattato sulle Acque dell’Indo del 1960, aggiungendo incertezza a una situazione già critica. La decisione indiana di sospendere il Trattato delle acque dell’Indo rappresenta un precedente storico: nonostante decenni di tensioni e crisi diplomatiche, il trattato era sempre stato rispettato da entrambe le parti. L’agricoltura, settore vitale per l’economia pakistana, è in ginocchio. Migliaia di ettari di terreni coltivati e 6.500 capi di bestiame sono andati perduti. I danni economici totali sono stimati in decine di miliardi di dollari. Come ricorda la giornalista Sara Tanveer in un suo recente articolo, il paradosso più crudele è che il Pakistan, con una produzione di appena 2,45 tonnellate di CO2 per persona all’anno, contribuisce meno dell’1% alle emissioni globali ma subisce le conseguenze più devastanti del cambiamento climatico. Due paesi, Cina e USA, producono il 45% delle emissioni globali, e i primi 10 sono responsabili di oltre il 70%. Eppure l’85% dei finanziamenti verdi va a questi stessi 10 paesi. Abbiamo chiesto a Sara Tanveer, scrittrice e giornalista free lance italo pakistana, di parlarci della situazione attuale del Pakistan per quanto riguarda le conseguenze della crisi climatica, e dei rapporti del Paese con India e Afghanistan. Ascolta o scarica l’approfondimento.
BASTIONI DI ORIONE 06/11/2025 – IN QUESTA PUNTATA SPICCANO: LA FIGURA DI MAMDANI, ILLUSIONE DI UNIONE DAL BASSO O DURATURA REAZIONE AL TRUMPISMO; LE FOSSE COMUNI A DAR ES SALAAM, COME RISULTATO DELLE “URNE”; LE GUERRE DI TALEBANI INCRINANO LA DURAND LINE
Le molte meteore dell’empireo costellato da fulgide stelle di leader progressisti che si erigono a paladini dei più deboli ci rendono prudenti anche nei confronti di una figura così fresca e spontanea come Zohran Mamdani, figlio della regista indiana Mira Nair e di un docente ugandese, eletto sindaco della più emblematica e contraddittoria metropoli al mondo; abbiamo sentito la necessità di esprimere le nostre perplesse cautele con Giovanna Branca, giornalista che ha seguito per “il manifesto” le elezioni per il municipio di New York. Abbiamo poi proseguito con risultati di elezioni più sanguinose, andando in Tanzania con Elio Brando, africanista per l’Ispi, ne è scaturita una interessante analisi sul paese che si riteneva immune dalla necessità di esibire scontento e istanze di liberazione dal regime autocratico instaurato da Samia Suluhu, subentrata nella democratura alla morte di Magufuli, perpetuando il potere del Partito della Rivoluzione. Il numero di morti risultato dalla repressione ancora a distanza di una settimana oscilla tra 700 e 3000 nel paese che detiene una delle progressioni più ampie di sviluppo grazie alle sue infrastrutture. Questo ha dato il destro al nostro interlocutore per inquadrare quella economia nella regione. Un terzo contributo alla trasmissione è stato assicurato da Giuliano Battiston, che ci ha illustrato la situazione afgana a 4 anni dal ritorno dei talebani mentre è in corso una guerra vera e propria a cavallo del confine tracciato da Durand un secolo e mezzo fa, dividendo clan tra territorio pakistano e territorio controllato da Kabul. Tra terremoti, gender apartheid, remigrazione (9 milioni di profughi in Iran e PAkistan rischiano il rimpatrio), bombardamenti e indifferenza occidentale si assiste a nuove relazioni internazionali tra il potere dei talebani afgani e grandi potenze come Russia e India (motivo dei dissapori con Islamabad) ANOMALIA ZOHRAN? Come nella cultura pop dei film di Mira Nair si alleano i più diversi bisognosi anche nella squadra di suo figlio Zohran si è assistito a un successo derivante dal concentramento di bisogni che sono stati finalmente nominati, ed è bastato questo per travolgere l’establishment. Da ultimo persino Obama ci ha messo il cappello democratico su un’operazione del tutto nata dal basso che ha potuto contare sul moltiplicatore della rete social per ridicolizzare la tracotanza menzognera dello strapotere trumpiano dal lato della narrazione che s’impone, dando voce alla coalizione interclassista dei multimiliardari e dei deprivati redneck razzisti per tradizione e cultura della America Profonda che odia proprio i woke newyorkesi, i quali a loro volta rappresentano l’altro lato della narrazione dell’establishment. La vittoria di Zohran Mamdani non è ascrivibile al Partito democratico, che se l’è intestata. Chi ha portato alle urne l’America avversa a Trump sono stati gli argomenti condivisi da chi abita New York senza avere le risorse per sopravviverci, non la struttura del partito, né le sue strategie. Ma basta questo per collocare Zohran Mamdani in un circuito virtuoso di lotta sociale, senza la superficialità populista delle promesse, anche se queste sono lo specchio delle reali necessità per consentire la sopravvivenza dei newyorchesi alla New York delle lobbies che hanno appoggiato Cuomo? E riuscirà la squadra di avvocati subito schierata a salvarlo dallo strapotere di Potus? Un po’ questo è il centro della nostra chiacchierata con Giovanna Branca che ha seguito per “il manifesto” l’elezione per il sindaco della Grande Mela. CATASTE DI CADAVERI SOSTENGONO LE INFRASTRUTTURE DI DAR ES SALAAM Abbiamo sentito Elio Brando, perché ci eravamo lasciati il 18 ottobre con Freddie del Curatolo reduce dall’aver appena insufflato il dubbio ad alti funzionari governativi in una Dar es Salaam blindata che i giovani potessero assumere come modello la Generazione Z dei paesi limitrofi, ottenendo una risposta che non ammetteva repliche: «Qui non ne hanno bisogno». Avevamo immaginato alludessero al fatto che la Tanzania è un paese in pieno sviluppo, grazie alla collocazione strategica delle sue infrastrutture e dei suoi porti; probabilmente era invece una risposta minacciosa, che alludeva all’apparato repressivo connaturato al regime che Samia Suluhu Hassan ha ereditato dal sanguinario Magufuli, di cui era vicepresidente. E infatti già il 21 ottobre stesso si sono sollevate proteste con urne ancora aperte e dichiarazione di elezione della presidente, fino a una insurrezione stroncata con centinaia di morti, la cifra esatta delle cataste di cadaveri non è ancora chiara e forse non si saprà mai, ma si parla di più di 700 morti. Abbiamo preso spunto dalle violenze postelettorali in Tanzania per aprire una finestra sulla regione e per cogliere se l’establishment avesse compreso quanto una società in evoluzione rapida potesse ancora accettare dei giochetti della vecchia politica e quanto conta la generazione Z negli equilibri dei paesi africani più in sviluppo. Qui si innesca un’analisi dei movimenti di contestazione diversi che si sono affacciati nella regione, a cominciare dal Kenya per arrivare al Madagascar e ora in Tanzania, comparando le differenze tra le istanze e le forme di lotta e la composizione sociale dei “ribelli” e invece la composizione del dissenso e dell’opposizione nei paesi che compongono la regione africana che si affaccia sull’Oceano indiano. E poi le modalità della collaborazione tra i governi nella repressione in opposizione ai rapporti tra contestatori. Allargando un po’ lo sguardo Elio Brando ci ha aiutato da un lato a descrivere le compromissioni di potenze locali (Turchia, Sauditi, Emirates… Israele), che occupano direttamente o sovvenzionano proxy war o gruppi jihadisti e poi il coinvolgimento delle grandi potenze (Cina, Usa, Russia… India) per lo più relativo a infrastrutture e sfruttamento di risorse attraverso corridoi comunicativi e porti; dall’altro l’importanza per l’economia mondiale di siti come i porti tanzaniani – Dar es Salaam in primis –, di infrastrutture come il corridoio di Lobito e la risposta cinese corrispondente, ferrovie e infrastrutture in generale. Dove il colonialismo parla più cinese. ANCORA UNA GUERRA SULLA DURAND LINE In guerra con il Pakistan ma diplomaticamente riequilibrati con India, Sauditi, Emirates… Usa  Dall’ultimo vergognoso volo partito da Kabul nell’agosto del 2021 in Occidente è stata messa la sordina sull’Afghanistan, ma forse questo è il frutto di come si è sbagliato l’approccio, procedendo per preconcetti di cui si andava a cercare una conferma, senza realmente guardare il panorama del paese: di questo Giuliano Battiston ha discusso in un’intervista con un grande fotografo, Lorenzo Tugnoli per “Alias” e poi ripreso su “Lettera22”. Dopo la guerra, quella conclusa da Biden con la fuga precipitosa, bisogna cambiare ulteriormente le lenti dell’ottica con cui illustrare il paese dopo 4 anni di nuovo con i talebani al potere tra terremoti, apartheid di genere, povertà. E nei rapporti con l’esterno come si possono inquadrare le relazioni con le potenze che hanno riconosciuto il paese: la Russia, ma anche l’India, innescando così i conflitti con il Pakistan, con cui esplodono vere e proprie guerre al confine della Durand Line su questioni relative al rifugio concesso ai talebani delle famiglie pakistane del Waziristan (il Ttp), ma anche il rimpatrio forzato dei 9 milioni di rifugiati afgani a Quetta, Islamabad, Karachi… o in Iran. Una guerra che ha visto protagonisti Qatar e Turchia a intessere colloqui di pace.
“ATTRAVERSARE LA NOTTE”: IL LIBRO CHE RACCONTA DELLE DONNE NELL’AFGHANISTAN DEI TALEBANI DI CRISTIANA CELLA
“Attraversare la notte: Racconti di donne dell’Afghanistan dei talebani” è un libro di Cristiana Cella, scrittrice e giornalista, pubblicato nel 2025 e edito da Altreconomia nella Collana Storie. All’interno del volume sono presenti anche le intense immagini scattate dalla fotografa Carla Dazzi. “Le donne afghane stanno attraversando una notte molto profonda” queste sono le parole dell’autrice che da anni fa parte del CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), che dal 1999 ha contatti con con chi vive in Afghanistan. La speranza si mantiene grazie a queste associazioni che penetrano in territori irraggiungibili. La repressione nei confronti delle donne afghane è talmente pervasiva che “ti mangia da dentro”. Ogni comportamento può essere ed è punito. Si rischia il carcere se una donna parla a voce alta fuori da casa propria, se esce senza l’accompagnamento di un membro maschile della famiglia, se non è completamente coperta. Il tasso di suicidio tra le giovani è aumentato di tantissimo e il fatto più inquietante è che non si hanno più notizie dall’Afghanistan visto che le giornaliste sono state o arrestate o allontanate. Cristiana Cella apre delle finestre su Kabul, sul Nuristan, su un paesino tra le montagne. Nel volume ci sono 70 racconti ispirati dalle testimonianze raccolte dall’autrice in quattro anni, informazioni che servono a sostegno della resistenza delle donne afghane per rompere il silenzio colpevole. Secondo Cella l’Afghanistan è un popolo intero che è soggetto ai capricci dei talebani e le donne afghane non hanno alleati, sono sole. Sulla condizione delle donne sotto il repressivo regime dei talebani in Afghanistan abbiamo intervistato l’autrice del libro Cristiana Cella.  Ascolta o scarica  
PAKISTAN – AFGHANISTAN: PROLUNGATO IL CESSATE IL FUOCO, NONOSTANTE L’ATTACCO A UNA BASE PACHISTANA DI CONFINE
Oggi, venerdì 17 ottobre, un attentatore suicida si è fatto esplodere contro una struttura militare pachistana a Mir Ali, nel Nord Waziristan: fonti locali parlano di 7 vittime, tra cui 6 assalitori e un soldato di Islamabad. Nonostante questo, la tregua di 48 ore tra Pakistan e Afghanistan è stata prolungata: i due Paesi asiatici hanno fatto sapere che durerà fino all’esito dei negoziati che ci saranno a Doha. Da una settimana, la frontiera tra Spin Boldak (lato afghano) e Chaman (lato pakistano, nella provincia del Balucistan) è tornata a essere una zona di guerra aperta. A causa degli scontri, Islamabad ha ordinato la chiusura di valichi strategici, incluso il valico di Torkham— il più importante e trafficato—interrompendo il flusso di farina, carburante e medicinali. Dopo giorni di combattimenti continui, il 15 ottobre è stato concordato tra Pakistan e Afghanistan un cessate il fuoco di 48 ore. “A differenza dei decenni precedenti, dove gli scontri erano spesso limitati a milizie irregolari, questa volta si affrontano direttamente le forze armate statali”, spiega ai nostri microfoni Enrica Garzilli, specialista studi asiatici e profonda conoscitrice della storia di quei luoghi. “Islamabad considera l’attentato una violazione deliberata del cessate il fuoco, compiuta dai militanti del TTP (Tehrik-i-Taliban Pakistan), un gruppo islamista che opera contro lo Stato pachistano. Secondo le fonti di intelligence pachistane, i TTP sarebbero entrati dal lato afghano durante la tregua. L’attacco invia un forte messaggio politico: la tregua è vostra, non è nostra. Noi attraversiamo il confine quando vogliamo.” Le accuse tra Kabul e Islamabad sono reciproche: Islamabad accusa i talebani afghani di offrire rifugio al TTP, mentre Kabul accusa il Pakistan di ospitare l’ISIS-K e di violare la sovranità afghana con bombardamenti oltre frontiera e chiusure unilaterali dei valichi. Nell’intervista a Enrica Garzilli affrontiamo anche le radici profonde del conflitto, che risale al 1893, quando venne tracciata dai britannici la linea coloniale Durand, da sir Mortimer Durand, per separare l’allora India dalle tribù Pashtun dell’Afghanistan. “Tutt’oggi questa linea non è riconosciuta dall’Afghanistan e per le popolazioni locali si tratta di una costruzione coloniale, non di una barriera reale: famiglie, traffici e reti armate tribali la attraversano liberamente nei due lati“. Le vicende oggi sono drammatiche anche perché la chiusura di valichi come Torkham blocca gli aiuti umanitari in un Paese dove 20 milioni di persone dipendono da supporti esterni. Il 15 ottobre si è tenuta la conferenza dei paesi donatori, in Uzbekistan, a cui ha partecipato anche l’Italia, promettendo 35 milioni di euro con la chiara indicazione che i fondi siano erogati solo attraverso i canali ONU e destinati a priorità specifiche: sanità mobile nelle aree rurali, microborse per scuole femminili informali (i talebani proibiscono l’istruzione alle ragazze) e sostegno economico a vedove e donne vulnerabili. Esistono quindi di fatto due Afghanistan: uno militarmente controllato dall’Emirato talebano e un “Afghanistan umanitario” gestito e finanziato dall’ONU e da donatori internazionali. Ascolta su Radio Onda d’Urto l’intervista a Enrica Garzilli, specialista di studi asiatici. Ascolta o scarica
Afghanistan: tra terremoto e apartheid di genere, il destino delle donne invisibili
Domenica 31 agosto l’Afghanistan orientale è stato colpito da un terremoto di magnitudo 6, che ha già causato 2.200 vittime e 3.600 feritə. Tra di loro moltissime donne e bambine, sorprese dal sisma e rimaste intrappolate sotto le macerie delle proprie abitazioni. TRA MACERIE E RESTRIZIONI: IL PESO DEL TERREMOTO RICADE SULLE DONNE Come previsto dalle rigide restrizioni imposte dall’“Emirato”, alle donne è, di fatto, vietato uscire di casa senza autorizzazione e senza la presenza di un accompagnatore di sesso maschile. Questo divieto vale anche in situazioni di emergenza, come nel caso di un terremoto. Per questo motivo, molte hanno esitato a cercare riparo in spazi aperti o in strada, finendo per essere tra le più colpite. > Inoltre, referenti delle principali ONG operanti sul territorio segnalano > gruppi di donne ferite, ammassate all’interno delle abitazioni distrutte, alle > quali i familiari continuano a impedire di uscire e cercare riparo altrove, in > un’escalation di insicurezza e caos sempre più difficile da arginare. Un simile scenario si era già verificato nel 2023, quando nella provincia di Herat una serie di scosse di forte intensità provocò 1.480 vittime e distrusse oltre quaranta siti di soccorso sanitario. In quella occasione, l’UN Women (United Nations Entity for Gender Equality and the Empowerment of Women) riportò un dato allarmante: quasi il 60% delle vittime, dei feritə e delle persone scomparse era composto da donne e bambine. Il sisma verificatosi a fine agosto segna dunque un’ulteriore fase critica nella già drammatica situazione economica, sanitaria e sociale in cui si trovano a vivere le donne afghane, a quattro anni dalla presa di potere dei Talebani. IGNORATE: L’OPPRESSIONE SOTTO LE MACERIE In questo già drammatico quadro si inserisce l’attuale condizione delle donne e delle bambine in seguito al terremoto di fine agosto. > Secondo Pangea Onlus, molte delle vittime rimaste intrappolate sotto le > macerie sono state deliberatamente ignorate perché donne. In quanto tali, > infatti, secondo la “legge” imposta dai  Talebani, non possono essere toccate > dai soccorritori, essendo questi uomini estranei al loro nucleo familiare. Per lo stesso principio dell’haram (proibito), le donne ferite non hanno potuto nemmeno essere trasportate sui mezzi di soccorso, poiché  in assenza di un familiare di sesso maschile. In molte sono state perciò costrette a cercare aiuto presso i checkpoint e, fatte attendere per ore in condizioni gravissime, non sono sopravvissute. Come riporta inoltre l’Osservatorio Afghanistan del CISDA, anche per coloro che riescono a raggiungere uno dei pochi ospedali ancora operativi, le condizioni di accoglienza e assistenza non sono migliori. L’esclusione sistematica delle donne dalle università, dal mercato del lavoro e dalle ONG ha infatti eliminato la componente femminile all’interno del personale medico e infermieristico, che oggi è composto esclusivamente da uomini e, di conseguenza, non è autorizzato a fornire loro cure. Pur non esistendo una legge che vieti a un medico uomo di salvare una donna ferita, di fatto è ciò che sta accadendo da più di dieci giorni. Tutto ciò sta causando, ora dopo ora, un aumento nel numero di donne e  bambine che perdono la vita e che invece potrebbero essere salvate. > Secondo le stime dell’UNFPA (The UnitedNations sexual and reproductive healt > Agency), inoltre, tra le persone colpite dal sisma vi sono circa 11.600 donne > incinte, esposte, in assenza di cure, a un alto rischio di aborto spontaneo, > complicazioni neonatali e, in molti casi, anche di morte. OSTAGGI DEL REGIME: LA VITA DELLE DONNE AFGHANE Quello che è accaduto successivamente al 31 agosto alle donne e alle bambine afghane è la diretta conseguenza di un piano di annientamento patriarcale sistemico, che il fondamentalismo islamico cerca di mettere in atto da anni, non solo in Afghanistan.  Essere donna non è semplice in nessun Paese del mondo, ma esserlo sotto un regime integralista comporta, drammaticamente, un numero elevatissimo di restrizioni e divieti, che incidono profondamente sulla vita, sia privata che pubblica. Dal 2021, con la riconquista del potere da parte dei Talebani dopo il ritiro delle truppe statunitensi, i diritti delle afghane sono stati ulteriormente e drasticamente ridotti. Alle donne è stata impedita qualunque forma di autodeterminazione, sia essa in ambito familiare, personale o pubblico. Da un punto di vista “legale” non vengono loro riconosciuti nemmeno i più basilari diritti umani,  come ad esempio l’accesso all’istruzione – garantito alle bambine solo fino al dodicesimo anno di età – o al mondo del lavoro, incluso il settore pubblico e quello delle ONG. > Secondo la piattaforma MoreToHerStory, circa l’80% delle donne residenti in > Afghanistan viene coattamente “invisibilizzato” ed escluso dalla vita sociale > e politica del Paese, configurando un sistema che a tutti gli effetti può > essere definito come un’ “apartheid di genere”. Le donne sono state estromesse da palestre, parchi e ristoranti, costrette a chiudere le proprie attività commerciali, ad abbandonare le università, a indossare il burqa e a vivere sotto il costante monitoraggio e controllo da parte di un mahram (tutore legale maschio). Come se non fosse sufficiente, nell’ultimo anno il regime ha promosso nuovi editti contro le libertà delle donne, impedendo loro di guardare fuori dalle finestre o di parlare, poiché la loro stessa voce viene considerata awrah, ossia qualcosa che deve essere nascosta. Secondo la AIHRC (Afghan Independent Human Rights Commission), circa l’80% dei tentativi di suicidio in Afghanistan – soprattutto nella zona di Herat – riguarda le donne, a conferma della profonda e collettiva condizione di sofferenza psicologica in cui versano. IL TERREMOTO DOPO IL TERREMOTO: SOPRAVVIVERE SENZA DIRITTI Esiste poi un’ulteriore criticità legata a eventi catastrofici di tale portata: quella delle sfollate. Stando ai dati dell’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees), il terremoto ha raso al suolo numerosi villaggi, distruggendo quasi 7.000 abitazioni e generando un numero di sfollatə pari a circa 40.000 persone, che allo stato attuale vivono in tende improvvisate o all’aperto, senza accesso ad acqua potabile e servizi igienici. Sempre in base alle restrizioni imposte dai Talebani, alle donne è proibito mostrarsi in pubblico e avere interazioni sociali. Questo comporta, per le sfollate, tra le altre cose, l’impossibilità di muoversi, chiedere assistenza, provvedere alla propria igiene personale, cambiarsi d’abito o togliersi il burqa, costringendole a vivere in uno stato di ulteriore confinamento, all’interno di una situazione già durissima di prostrazione fisica e psicologica. A queste si aggiungono poi le numerose bambine e adolescenti rimaste orfane dopo il sisma, che attualmente rischiano di essere rapite per divenire “spose bambine” di soldati o membri dell’organizzazione talebana, oppure di finire vittime di sfruttamento lavorativo, traffico di esseri umani e prostituzione.   Molte di loro rischiano anche di essere cedute come merce di scambio, sia economico che maritale, e portate lontano dai villaggi d’origine, scomparendo così dai radar di tutela delle ONG locali. Un altro gruppo estremamente vulnerabile è poi quello delle vedove. Già escluse dal mercato del lavoro e spesso sottoposte a violenza economica da parte di familiari e parenti,le donne rimaste sole si troveranno presto in una condizione di ulteriore isolamento e grave difficoltà economica. Infatti, in assenza del marito, non potranno accedere al denaro familiare, anche se disponibile, né ottenere assistenza legale o ricevere gli aiuti umanitari che l’OMS sta cercando di distribuire in questi giorni. > Private del sostentamento finanziario, molte di loro saranno costrette, come > già accaduto in passato, a introdurre i loro figli – anche molto piccoli – nel > mercato dello sfruttamento. Secondo una recente indagine di di Save the Children, già prima del sisma, oltre un terzo delle famiglie con capofamiglia donna aveva almeno un figlio impegnato nel lavoro minorile e questo dato è purtroppo destinato ad aumentare. RADICI DI RESISTENZA: LE AFGHANE NON SI PIEGANO Nonostante le gravissime restrizioni e l’altissimo livello di oppressione, le afghane sono tutt’altro che passive. Da sempre, infatti, la resistenza è parte viva e attiva nella vita delle donne, che continuano a unirsi nello sforzo collettivo di combattere la violenza sistemica a cui vengono quotidianamente sottoposte. In clandestinità, e rischiando la vita, proseguono l’alfabetizzazione superiore delle ragazze adolescenti, creano gruppi di formazione professionale, si riuniscono per creare reti di supporto psicologico e per l’accesso all’assistenza ginecologica. Nonostante la possibilità di manifestare ed opporsi apertamente sia quasi nulla, le attiviste sono molte,  e – attraverso canali clandestini – combattono senza sosta. Shamail Naseri è una giornalista ed è una di loro. Ricercata dal regime per aver sfidato le restrizioni e aver tentato di divenire la voce delle donne afghane, è riuscita a sfuggire all’arresto grazie anche alla pratica dell’ “house to house” (di casa in casa) e continua a lottare anche se in esilio forzato. Come lei, molte altre continuano a mettere a rischio la propria vita  per raccontare e documentare la resistenza delle donne afghane. Tra queste, Zahra Nader, caporedattora della redazione femminile Zan Times, che nel documentario intitolato Donne afghane in prima linea testimonia la forza delle attiviste che, negli ultimi anni, hanno manifestato per le strade contro il regime, venendo per questo picchiate e imprigionate. Anche nel caso del terremoto la resistenza non rimane in silenzio. Sebbene non vi siano testimonianze dirette, le principali ONG in campo parlano di mobilitazioni di donne in molte località colpite. É probabile che nelle zone rurali le attiviste stiano già attivando reti comunitarie informazione sanitaria. In un Paese dove la voce femminile è stata ridotta al silenzio per decreto, le donne afghane continuano dunque a resistere – con i piedi nelle strade, con i libri letti di nascosto, con la forza di chi non può permettersi di avere paura. Molte di loro resistono con l’esistenza stessa, con ogni passo compiuto fuori da casa, con ogni sguardo fuori dalla finestra e ogni canzone sussurrata piano. > La loro non è solo una battaglia per i diritti: è una lotta per la dignità, > per il futuro, per il diritto a esistere. E anche se spesso invisibili agli > occhi dell’opinione mainstream, queste donne gridano e sono il volto più > autentico della resistenza afghana. Sono vive, sono tante, sono tutte. Sono Tamana Zaryab Paryani, sono Lalah Osmany, sono Jamila Afghani, sono Zahra Nader, sono Shamail Naseri. Per quelle che ancora combattono e per quelle che non ci sono più: finché anche una sola resterà in piedi, la loro lotta le condurrà alla libertà. L’immagine di copertina è di United nations photo (Flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Afghanistan: tra terremoto e apartheid di genere, il destino delle donne invisibili proviene da DINAMOpress.
Scintille intorno a Taiwan, la NATO schiera le sue navi e alza la tensione
Qualche giorno fa abbiamo riportato di come la strategia per la sicurezza nazionale del Pentagono abbia spostato il suo focus dal ‘resto del mondo’ al ‘cortile di casa’ latinoamericano. Ma i punti di tensione nell’Indo-Pacifico rimangono, e lo dimostra l’ennesimo braccio di ferro avvenuto con la Cina intorno a Taiwan. […] L'articolo Scintille intorno a Taiwan, la NATO schiera le sue navi e alza la tensione su Contropiano.
AFGHANISTAN: TERREMOTO NELL’EST DEL PAESE. CENTINAIA DI VITTIME, IGNOTO IL NUMERO DEI DISPERSI.
Violento terremoto in Afghanistan orientale. Il bilancio parziale è di 800 persone morte e almeno 3mila ferite. Ignoto il numero di dispersi, con i soccorritori in difficoltà nel raggiungere zone interamente isolate. Il sisma di magnitudo 6 ha colpito una serie di città nella provincia di Kunar e Nangarhar, vicino alla città di Jalalabad. La scossa è stata nitidamente avvertita anche nella capitale Kabul, per diversi secondi, così come a Islamabad, in Pakistan, a 400 chilometri di distanza in linea d’aria. “Nel mese di ottobre 2023 l’Afghanistan era già stato colpito da un violento terremoto di magnitudo 6,3 – ricorda Amnesty International Italia – che aveva raso al suolo interi villaggi, causando migliaia di morti. A causa delle sanzioni, dell’isolamento internazionale e delle interferenze dei talebani, secondo quanto riferito allora dagli operatori di soccorso, gli aiuti furono pressoché inesistenti e migliaia di persone rimasero intrappolate per giorni senza ricevere alcun sostegno…oggi più che mai è invece necessario garantire aiuti senza discriminazioni”. Nella zona colpita dell’Afghanistan orientale sono attivi diversi progetti umanitari dell’ong italiana NOVE Caring Humans. Il team locale, in una nota, si dice “sconvolto e profondamente addolorato per il tragico terremoto che ha colpito la scorsa notte le province di Nangarhar e Kunar. Non sappiamo ancora che cosa sia accaduto a molti dei nostri beneficiari: le strade sono interrotte, non c’è rete mobile e le comunicazioni sono quasi impossibili, perciò le informazioni arrivano con enorme difficoltà. Le organizzazioni umanitarie stanno lavorando fianco a fianco per portare almeno cibo e acqua alle famiglie colpite. Ricordiamo con gratitudine la straordinaria ospitalità e la collaborazione di queste comunità, con le quali portiamo avanti il progetto di agro-pastorizia “Semi di Rinascita” sostenuto dalla Cooperazione Italiana. Fino a ieri erano giorni di grande entusiasmo: avevamo appena distribuito mucche e vitelli a 85 delle famiglie più vulnerabili di questi distretti — la maggior parte delle quali guidate da donne. Ricordo ancora la gioia nei loro occhi durante la distribuzione. A loro e a tutte le persone colpite esprimiamo le nostre più sentite condoglianze. Siamo con voi — nel dolore, nella speranza e nell’azione.” Susanna Fioretti, cofondatrice e vicepresidente di NOVE Caring Humans, “i distretti più colpiti sono Nurgul (Kunar), Kuz Kunar e Dar-e-Noor (Nangarhar). Tra i villaggi più danneggiati: Masood, Wadir (Ghazi Abad), Shomash, Arit e Sohel Tangi. La nostra ONG NOVE Caring Humans è una delle pochissime presenti in questi territori, dove l’accesso è difficilissimo e gran parte della popolazione vive già in condizioni di estrema povertà. Il nostro staff è salvo, ma si trova di fronte a bisogni enormi e urgenti. Le comunicazioni sono parzialmente interrotte e la situazione sul campo è drammatica. Il numero di morti e feriti continua ad aumentare. La maggior parte delle vittime si trova nella provincia di Kunar, dove le strade sono ancora bloccate e gli aiuti governativi vengono consegnati solo con elicottero. Molti villaggi restano completamente isolati: per raggiungere alcune zone i soccorritori devono camminare per ore. “Gli ospedali sono al collasso, manca sangue. Molti feriti sono ancora sotto le macerie. Alcuni villaggi non sono ancora stati raggiunti. Le scosse continuano, la gente è terrorizzata e ha un bisogno disperato di cibo, acqua e medicine. Stiamo lavorando senza sosta per salvare vite. Facciamo appello a chiunque possa sostenere questo intervento ogni aiuto è prezioso”. Su Radio Onda d’Urto l’intervista a Susanna Fioretti, cofondatrice e vicepresidente di Nove Caring Humans, ong italiana che ha in corso progetti umanitari proprio nell’est dell’Afghanistan. Ascolta o scarica
Altre sanzioni USA a quattro giudici dell’Aja, Netanyahu si congratula
Mercoledì 20 agosto il Segretario di Stato USA Marco Rubio ha annunciato ulteriori sanzioni a 4 membri – 2 giudici e 2 viceprocuratori – della Corte Penale Internazionale. Stando alle parole del repubblicano, sarebbero stati colpiti da queste misure in quanto tra i principali fautori degli sforzi fatti per perseguire […] L'articolo Altre sanzioni USA a quattro giudici dell’Aja, Netanyahu si congratula su Contropiano.