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COP30, nessun accordo sulle fossili. Le richieste del Sud Globale rimangono inascoltate
La trentesima Conferenza delle Parti si è conclusa e il risultato sembra il peggiore tra quelli ottenuti finora nelle edizioni precedenti. Il documento, infatti, contiene un gran numero di dichiarazioni d’intenti, ma poche indicazioni pratiche e, di fatto, non nomina in alcun modo i combustibili fossili. Un risultato non auspicato ma atteso, dal momento che, anche quest’anno, la COP è stata dominata dalla presenza di lobbisti delle multinazionali, mentre le popolazioni del Sud globale – il più colpito dai cambiamenti climatici – non hanno avuto pari voce in capitolo. Un’implicita ammissione in questo senso è stata fatta dal presidente della COP, che ha ammesso che le speranze della società civile in merito al risultato dell’evento non sono state soddisfatte. Il segretario generale dell’ONU Guterres, dal canto suo, ha invitato popoli e organizzazioni che lottano per il clima a continuare la mobilitazione. Alla cerimonia inaugurale il presidente brasiliano Lula, il cui Paese ha ospitato l’evento, aveva detto chiaramente che la COP30 sarebbe dovuta servire per tracciare l’abbandono progressivo delle fonti fossili, una scelta alla quale alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, si sono mostrati ostili. Tanto che, nel documento finale (la Mutirao Decision) queste non vengono nemmeno nominate. Tra i risultati raggiunti vi sono il finanziamento di 1.300 miliardi di dollari entro il 2035 per l’azione per il clima, mentre ci si impegna a triplicare i finanziamenti per l’adattamento ai cambiamenti climatici entro il 2035. Obiettivi finanziari decisamente ambiziosi, cui non corrisponde un adeguato piano di attuazione e di iniziative concrete. E’ stato istituito un ciclo di ricostituzione per la mobilitazione delle risorse del Fondo per la risposta alle perdite e ai danni dovuti ai cambiamenti climatici e sono state lanciate le iniziative Global Implementation Accelerator e Belém Mission to 1.5°, entrambe destinate ad aiutare i Paesi a realizzare i loro piani nazionali per il clima e l’adattamento. Una novità è rappresentata dall’impegno a lottare contro la «disinformazione sul clima» attraverso il contrasto alle «false narrazioni». L’assenza di un discorso circa i gas serra, principali responsabili del riscaldamento globale, ha allarmato molti Paesi del Sud Globale e organizzazioni della società civile. Eppure, oltre 80 Paesi avevano sostenuto la proposta del Brasile di stabilire una tabella di marcia per agire in tal senso. Secondo lo scienziato brasiliano Carlos Nobre, che ha tenuto un discorso prima della plenaria finale, è necessario azzerare l’utilizzo di fonti fossili entro il 2040-2045 per evitare che la temperatura aumenti fino a 2.5° entro metà del secolo. Se questo si realizzasse, infatti, si verificherebbero conseguenze catastrofiche sui nostri ecosistemi, con la quasi totale perdita delle barriere coralline, il collasso della foresta pluviale amazzonica e un accelerato scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia. Nel discorso di chiusura dell’evento, il presidente André Corrêa do Lago ha riconosciuto che «alcuni di voi nutrivano ambizioni più grandi per alcune delle questioni in discussione» e che «la società civile ci chiederà di fare di più per combattere il cambiamento climatico», promettendo di cercare di non deludere le aspettative durante la sua presidenza. Per tale ragione, Corrêa do Lago ha annunciato l’intenzione di creare due roadmap in merito: una per arrestare la deforestazione e invertirne la tendenza e una per abbandonare le fonti fossili in modo giusto, ordinato ed equo, mobilitando le risorse necessario in maniera «giusta e pianificata». Un messaggio analogo è arrivato dal segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, che ha ammesso come in un periodo di «divisioni geopolitiche» sia complesso giungere a un accordo comune: «Non posso fingere che la COP30 abbia fornito tutto ciò che è necessario [per affrontare la crisi climatica, ndr]». Anche se la COP è conclusa, «il lavoro non è finito». Guterres ha anche esortato coloro che lottano per il clima a continuare a farlo: «non arrendetevi. La storia e le Nazioni Unite sono dalla vostra parte». L’accordo segna una nuova, profonda sconfitta per i popoli del Sud Globale, che durante il vertice aveano protestato contro la presenza delle lobby delle multinazionali fossili, accusando i governi di essere interessati a tutelare unicamente gli interessi di queste ultime, le quali hanno avuto un peso indubbiamente superiore a quello dei popoli originari durante l’evento. A questi rimangono una nuova serie di promesse e dichiarazioni d’intenti, che verosimilmente cadranno ancora una volta nel vuoto.   L'Indipendente
Cuba, Relatrice ONU Douhan: “L’applicazione e il recente rafforzamento delle sanzioni statunitensi aggravano le difficoltà della popolazione cubana”
La Sig.ra Alena Douhan, Relatrice Speciale del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite sull’impatto negativo delle misure coercitive unilaterali sul godimento dei diritti umani (1), ha terminato ieri – 21 novembre – la sua visita ufficiale a Cuba, dopo essere arrivata l’11 novembre 2025. Ieri, al termine della sua visita ufficiale a Cuba, ha affermato in una dichiarazione: “Gli Stati Uniti devono revocare le sanzioni unilaterali imposte a Cuba, che stanno causando effetti significativi in tutti gli aspetti della vita sull’isola. (…) Per oltre 60 anni, gli Stati Uniti hanno mantenuto un ampio regime di restrizioni economiche, commerciali e finanziarie contro Cuba, la più lunga politica di sanzioni unilaterali nelle relazioni estere degli Stati Uniti”. “Di conseguenza, generazioni di cubani hanno vissuto sotto misure coercitive unilaterali, che hanno plasmato il panorama economico e sociale del Paese”. Douhan ha affermato di aver sentito dire che le restrizioni sono state progressivamente inasprite dal 2018, con ulteriori misure imposte a quelle già esistenti e un’intensificazione significativa nel 2021, in seguito alla nuova designazione di Cuba come “Stato sponsor del terrorismo”. Queste e molte altre restrizioni, aggravate dalla riduzione del rischio e dall’eccessiva conformità da parte di terzi, limitano la capacità del Governo e dei cittadini di pianificare a lungo termine e stanno soffocando il tessuto sociale della società cubana. Nonostante l’ampio sostegno costantemente espresso alla risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite “Necessità di porre fine all’embargo economico, commerciale e finanziario imposto dagli Stati Uniti d’America contro Cuba” e la sua inequivocabile richiesta di porre fine al blocco, le misure non solo continuano a rimanere in vigore, ma i loro impatti vengono intensificati dagli Stati Uniti, ha affermato l’esperto. “La carenza di macchinari essenziali, pezzi di ricambio, elettricità, acqua, carburante, cibo e medicine, insieme alla crescente emigrazione di lavoratori qualificati, tra cui personale medico, ingegneri e insegnanti, hanno gravi conseguenze sul godimento dei diritti umani, tra cui il diritto alla vita, al cibo, alla salute e allo sviluppo”, ha affermato. Le iniziative sociali ed economiche sono spesso ostacolate da cancellazioni improvvise, ostacoli amministrativi e incertezza. Le procedure di appalto diventano lunghe e imprevedibili, con cancellazioni dell’ultimo minuto che aumentano i costi, ritardano l’assistenza e ostacolano l’implementazione dei progetti. Douhan ha inoltre osservato che l’imprevedibilità delle misure coercitive unilaterali degli Stati Uniti e le elevate sanzioni imposte a chi le aggira creano diffidenza tra le aziende straniere. Anche in caso di licenze ed esenzioni, gli investitori rimangono diffidenti nell’impegnarsi in progetti a lungo termine, data la possibilità di cambiamenti politici negli Stati Uniti. Per valutare la portata completa della situazione, Douhan ha incontrato un’ampia gamma di stakeholder, tra cui funzionari governativi, diplomatici, agenzie internazionali, organizzazioni non governative, rappresentanti della Chiesa, membri del mondo accademico, personale medico e rappresentanti del settore privato. Ha inoltre ricevuto un numero record di contributi che andranno ad arricchire il rapporto. “Esorto tutti gli Stati ad aderire ai principi e alle norme del diritto internazionale e a garantire che le preoccupazioni umanitarie siano pienamente rispettate, fondate sui principi di rispetto reciproco, solidarietà, cooperazione e multilateralismo”, ha affermato il Relatore speciale. Un rapporto sulla visita, contenente le sue conclusioni e raccomandazioni, sarà presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite nel settembre 2026. https://www.ohchr.org/en/press-releases/2025/11/enforcement-and-recent-strengthening-us-sanctions-deepen-hardships-cuban   (1) Il ruolo di Relatore Speciale del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite sull’impatto negativo delle misure coercitive unilaterali sul godimento dei diritti umani è stato creato da una risoluzione del 2014 al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite presentata dall’Iran per conto del Movimento dei Paesi Non-Allineati, e Alena Douhan è la seconda a ricoprire il ruolo. Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti hanno votato contro la risoluzione per creare il suo ruolo mentre Russia, Cina, Venezuela e Arabia Saudita hanno votato a favore della risoluzione. (2) I Relatori Speciali/Esperti Indipendenti/Gruppi di Lavoro sono esperti indipendenti in materia di diritti umani nominati dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Insieme, questi esperti sono denominati Procedure Speciali del Consiglio per i Diritti Umani. Gli esperti delle Procedure Speciali lavorano su base volontaria; non fanno parte del personale delle Nazioni Unite e non ricevono alcun compenso per il loro lavoro. Sebbene l’Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani funga da segretariato per le Procedure Speciali, gli esperti prestano servizio a titolo individuale e sono indipendenti da qualsiasi governo o organizzazione, inclusi l’OHCHR e le Nazioni Unite. Qualsiasi punto di vista o opinione presentata è esclusivamente quella dell’autore e non rappresenta necessariamente quella delle Nazioni Unite o dell’OHCHR. Le osservazioni e le raccomandazioni specifiche per Paese formulate dai meccanismi delle Nazioni Unite per i diritti umani, tra cui le procedure speciali, gli organi dei trattati e la Revisione periodica universale, sono reperibili nell’Indice universale dei diritti umani .   Lorenzo Poli
Fanon può entrare ma i palestinesi d’Italia no, perché? Perché il palestinese buono è quello morto o rassegnato. Appunti sull’inadeguatezza della sinistra italiana – di Laila Hassan
“La guerra di liberazione non è un'istanza di riforme, ma lo sforzo grandioso di un popolo, che era stato mummificato, per ritrovare il suo genio, riprendere in mano la sua storia e ricostituirsi sovrano” [1]   A 100 anni dalla nascita di Fanon alcune brevi, forse inutili, considerazioni. Se c’è un atteggiamento che in [...]
Assemblea del People’s Forum: Isabella e il coraggio dei palestinesi
Il suo nome è Isabella. Avrà una ventina d’anni ed è davvero bella. Boccoli neri e lucidi le incorniciano il viso e le cadono soavi sulle spalle; sono talmente deliziosi che appaiono morbidi persino alla vista. Gli occhi sono grandi, neri e allungati come quelli delle principesse delle fiabe orientali. Quando parla dal leggio lo fa con passione, scandendo bene ogni parola; vuole essere sicura di averla pronunciata correttamente. Ogni tanto si ferma e guarda il pubblico, ogni tanto sorride e diventa ancora più bella. Oggi però trattiene a stento il pianto. Isabella non è una studentessa italiana che sta facendo un’esperienza a New York; è una ragazza palestinese della diaspora americana che oggi, come tanti altri, non gioisce perché il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato la risoluzione su Gaza. Quell’obbrobrio voluto dal presidente che si tinge i capelli di arancione, quello con cui spera di essersi assicurato il Nobel per la Pace del prossimo anno, quello che i suoi tirapiedi in televisione e sui giornali titolati chiamano pace, ma che tutti sappiamo non lo è. Ogni lunedì Isabella legge un comunicato all’assemblea riunita presso il People’s Forum, ma oggi fa fatica. Le si rompe la voce e la vedo spalancare gli occhioni come a voler fare più spazio alle lacrime; non vuole che le righino il viso; non perché tema che le si rovini il trucco, che non c’è, ma perché non vuole piangere. È orgogliosa come il popolo a cui appartiene. Attorno a lei ci sono tanti amici: la incoraggiamo con un piccolo applauso, ma lei sa che da palestinese non può mai lasciarsi andare, deve essere sempre pronta a resistere. Non so se sia istinto o seconda natura indotta dalla sofferenza, ma la ammiro profondamente. Ed ecco che piuttosto di piangere, riesce a ridere. Non è il riso spensierato di una ragazza ventenne, ma è riuscita a cacciare via le lacrime. Ha vinto! Ho voluto raccontare di Isabella perché so che domani (oggi per chi legge) su tutta la stampa italiana giornalisti e scribacchini scriveranno del piano di pace di Trump studiandone uno per uno i venti punti; butteranno giù analisi in fretta e furia e a seconda del colore della squadra a cui appartengono, lo applaudiranno o criticheranno. L’importante sarà parlarne, non importa se in maniera approssimativa, e poco altro potranno fare, visto che dalle stanze del Palazzo di Vetro è trapelato poco.  Vorrei far sapere a tutti loro che a New York una ragazza sta soffrendo perché al suo popolo è stato negato di nuovo il diritto di autodeterminarsi, ma non è disperata e non cede. Ieri Isabella era davanti all’ONU, al freddo, con il suo cartello a esprimere tutta la propria riprovazione per manovre politiche che calano dall’alto sul suo popolo, la cui colpa originaria è di amare profondamente la propria terra e non volerla lasciare. Un popolo ingegnoso e indipendente che mai sopporterà un padrone, che riesce sempre a trovare nuove forze e nuove idee per reagire e che alla fine vincerà la sua battaglia. Isabella ha meno della metà dei miei anni, eppure mi sovrasta per forza di carattere. Sono certa che è consapevole di quel che ho scritto di lei e del suo popolo e che non ha bisogno di me, eppure stasera avrei voluto rincuorarla. Dirle che tutto passa e che già oggi le cose stanno cambiando; che quelle cartacce non valgono un fico secco; che i gazawi ci passeranno sopra e tutti se le dimenticheranno. E se gli storici del futuro le riscopriranno sarà solo per annotarne l’arroganza coloniale e il sopruso. Isabella non ha bisogno di sentirsi dire queste cose, forse ne ho più bisogno io. Lei è già oltre, è parte del mondo che verrà.     Marina Serina
Il corpo delle donne come campo di battaglia: la violenza sessuale sulle donne durante il conflitto nella Repubblica Democratica del Congo
> RACCONTARE E’ UN ATTO POLITICO.  RACCONTA, DIFFONDI, PARTECIPA AL CROWDFUNDING > DADAxCONGO. > > Trasformiamo la solidarietà in azione, insieme.   Réseau des Femmes pour un Développement Associatif Réseau des Femmes pour la Défense des Droits et la Paix International Alert CAPITOLO 3 La posizione delle donne e le percezioni socio-culturali della violenza sessuale nel Sud Kivu Per comprendere le ragioni per cui si verificano tali atti di violenza sessuale, è necessario prendere in considerazione la situazione sociale ed economica delle donne nel Sud Kivu. Una conoscenza approfondita del modo in cui vengono percepite le relazioni di genere nella società e, soprattutto, delle attitudini degli uomini nei confronti del corpo femminile in tempo di pace — sia nel Sud Kivu che nei Paesi limitrofi da cui provengono alcuni autori di queste violenze — permette di capire più chiaramente come tali atrocità abbiano potuto verificarsi. Questo capitolo analizza quindi brevemente la posizione delle donne nella società del Sud Kivu, e il contesto socio-culturale ed economico in cui vivono. 3.1 La posizione delle donne La posizione delle donne nel Sud Kivu è caratterizzata, da un punto di vista economico, dalla “femminilizzazione della povertà”, aggravata dall’assenza di politiche o meccanismi per la promozione femminile; e, da un punto di vista socio-culturale, dalla persistenza di costumi, pratiche e leggi discriminatorie nei confronti delle donne. Questi fattori le rendono particolarmente vulnerabili in un contesto di conflitto armato: non solo aumentano la probabilità che si verifichino violenze di genere, ma — agli occhi degli autori — contribuiscono persino a legittimarle. 3.1.1 La femminilizzazione della povertà Quando scoppiò la guerra nella Repubblica Democratica del Congo, la popolazione locale — e in particolare le donne — era già stata resa vulnerabile dal malfunzionamento delle strutture statali e dalla mancanza di infrastrutture economiche e sociali adeguate, dovuta a trent’anni di regime dittatoriale sotto il presidente Mobutu. Per decenni gli stipendi dei funzionari pubblici e dei dipendenti delle imprese statali non erano stati pagati regolarmente, e così la popolazione era stata costretta ad assumersi compiti che avrebbero dovuto spettare allo Stato: costruzione di scuole, pagamento degli insegnanti, manutenzione delle strade e fornitura di servizi sanitari. In questo contesto di impoverimento generalizzato, il peso della sopravvivenza è ricaduto sempre più sulle donne. La mancanza di sviluppo economico e sociale ha determinato un ulteriore impoverimento della popolazione femminile, soprattutto nelle aree rurali e semi-urbane. Le donne costituiscono la forza trainante dell’economia di sussistenza del Sud Kivu, basata essenzialmente su agricoltura e allevamento. Circa l’80% della popolazione della provincia si dedica all’agricoltura, e il 70% di queste persone sono donne. Le donne sono attive anche nel settore informale, in particolare nel piccolo commercio, nella sartoria, nella tintura, nella ceramica e nella lavorazione dei cesti. Operano inoltre ai margini dell’industria mineraria, dove vengono impiegate come manodopera sfruttata e sottopagata. La guerra ha avuto un effetto devastante sulle attività economiche e sociali delle donne. Le risorse già scarse e i mezzi di produzione delle organizzazioni femminili di base sono stati distrutti o saccheggiati. Oltre alla situazione di insicurezza, le donne devono affrontare problemi strutturali che aggravano ulteriormente la loro povertà: * difficoltà di accesso alla terra a causa della sovrappopolazione e dell’eccessivo sfruttamento dei terreni fertili, e per via delle tradizioni patriarcali; * distruzione delle infrastrutture economiche o loro assenza; * tassazione pesante imposta dal Rassemblement Démocratique Congolais (RCD), che ha contribuito a erodere ulteriormente i redditi femminili. La guerra ha inoltre prodotto un elevato numero di vedove e donne sfollate, improvvisamente divenute capofamiglia senza alcuna preparazione. Esse vivono al di sotto della soglia di povertà e dipendono in larga misura dagli aiuti alimentari (quando disponibili) per sopravvivere. I tassi di HIV/AIDS sono elevati, anche a causa della diffusione degli stupri commessi dai gruppi armati. La guerra e la povertà hanno costretto molte donne e ragazze alla prostituzione di sopravvivenza, che le rende particolarmente vulnerabili alla violenza sessuale. Tale fenomeno crea condizioni “in cui le relazioni sessuali abusive sono più largamente accettate e in cui molti uomini, civili e combattenti, considerano il sesso come un servizio facilmente ottenibile mediante coercizione”. Parallelamente, la violenza domestica è aumentata, a causa della disoccupazione maschile, delle tensioni e dell’incertezza sul futuro politico del Paese. Questo aumento della violenza domestica durante i periodi di guerra è un fenomeno diffuso, confermato da studi — ad esempio — sull’ex Jugoslavia, dove durante il conflitto si verificarono episodi di violenza sessuale di crudeltà senza precedenti. 3.1.2 Costumi, pratiche e legislazione discriminatori Alcuni costumi, pratiche e leggi ostacolano l’accesso delle donne alla proprietà, all’istruzione, alle tecnologie moderne e all’informazione. Le donne soffrono spesso di analfabetismo o di scarsa istruzione, poiché in molte famiglie i maschi continuano a essere privilegiati rispetto alle femmine nell’accesso alla scuola. Molte ragazze appartenenti ai gruppi più svantaggiati abbandonano gli studi per matrimonio o gravidanza precoce. È difficile per le donne accedere ai mezzi di produzione come terra, proprietà o credito. Alcuni aspetti della legislazione congolese discriminano ancora le donne: ad esempio, una donna sposata deve ottenere il permesso del marito per aprire un conto bancario o richiedere un prestito. Tradizionalmente, le donne non possono ereditare dai padri o dai mariti. Nelle zone rurali, le donne producono e gestiscono il 75% della produzione alimentare, trasformano i prodotti per il consumo familiare e vendono circa il 60% nei mercati locali, ma spesso non ricevono alcun guadagno, poiché i proventi vanno direttamente ai mariti. Molti gruppi etnici mantengono pratiche tradizionali che perpetuano la sottomissione femminile, riducendo le donne allo status di proprietà privata. Tra i Bashi, Bavira, Fulero e Bembe, la consuetudine del levirato — per cui una vedova viene “ereditata” dal fratello del marito — è ancora viva, privando le donne della libertà di scegliere un nuovo coniuge. Tra i Banyamulenge, le donne erano considerate proprietà collettiva del clan: il suocero, il cognato o il marito della cognata avevano il diritto, con il consenso del marito, di avere rapporti sessuali con lei. Sebbene tali pratiche siano state in parte limitate dall’influenza del cristianesimo, non sono del tutto scomparse. Alcuni Bami (capi tradizionali) rivendicavano il droit de seigneur sulle donne della comunità che desideravano, facendole “consegnare” alle proprie case per un matrimonio forzato o per rapporti sessuali. Tali costumi persistono tuttora in alcune etnie (Lega, Fulero, Bembe e Bashi), e i genitori spesso li tollerano per il prestigio e i vantaggi che derivano dai legami con i Bami. 3.1.3 L’assenza di politiche e meccanismi di promozione femminile La provincia del Sud Kivu dispone di pochissimi meccanismi di promozione femminile. Un Ministero per gli Affari Femminili fu creato a livello nazionale all’inizio degli anni ’80, con una sede provinciale a Bukavu. Tuttavia, molte organizzazioni femminili lo consideravano solo uno strumento politico per mobilitare l’elettorato femminile a favore del presidente Mobutu. I fondi destinati alla promozione delle donne furono poi ridotti, e il ministero fu assorbito da quello per gli Affari Sociali, diventandone un semplice dipartimento. Durante l’amministrazione del Rassemblement Démocratique Congolais (RCD), al potere nel Sud Kivu dal 1998 al 2003, fu istituito un Consiglio Provinciale delle Donne (marzo 2001), indipendente dal ministero di Kinshasa ma privo di risorse per sviluppare progetti di sviluppo femminile. Strumenti internazionali come la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW) e la Piattaforma di Pechino sono stati raramente applicati, a causa della mancanza di finanziamenti. Un’indagine condotta nel 2001 dal governo della RDC e dall’UNICEF su tutto il territorio nazionale ha rivelato un quadro allarmante, mostrando che la situazione delle donne e dei bambini era peggiorata sotto quasi tutti gli aspetti dal 1995.   > RACCONTARE E’ UN ATTO POLITICO.  RACCONTA, DIFFONDI, PARTECIPA AL CROWDFUNDING > DADAxCONGO. > > Trasformiamo la solidarietà in azione, insieme.   Questo paper rappresenta un estratto tradotto di uno studio più ampio dal titolo: Il corpo delle donne come campo di battaglia: la violenza sessuale contro donne e ragazze durante la guerra nella Repubblica Democratica del Congo  Sud Kivu (1996–2003) Réseau des Femmes pour un Développement Associatif Réseau des Femmes pour la Défense des Droits et la Paix International Alert 2005 Questo studio è stato condotto e redatto da un team di consulenti composto da: Marie Claire Omanyondo Ohambe Professoressa Associata Institut Supérieur des Techniques Médicales Sezione Scienze Infermieristiche Kinshasa Repubblica Democratica del Congo Jean Berckmans Bahananga Muhigwa Professore Dipartimento di Biologia Centre Universitaire de Bukavu Bukavu Repubblica Democratica del Congo Barnabé Mulyumba Wa Mamba Direttore Institut Supérieur Pédagogique Bukavu Repubblica Democratica del Congo Revisione a cura di: Martine René Galloy Consulente internazionale Specialista in Genere, Conflitto e Processi Elettorali Ndeye Sow Consigliera Senior International Alert Catherine Hall Addetta alla Comunicazione International Alert I dati sul campo sono stati raccolti da un team composto da: Donne del Réseau des Femmes pour un Développement Associatif (RFDA), che hanno condotto la ricerca a Uvira, nella Piana della Ruzizi, a Mboko, Baraka, Fizi e Kazimia: 1. Lucie Shondinda 2. Gégé Katana 3. Elise Nyandinda 4. Jeanne Lukesa 5. Judith Eca 6. Brigitte Kasongo 7. Marie-Jeanne Zagabe Donne del Réseau des Femmes pour la Défense des Droits et la Paix (RFDP), che hanno condotto la ricerca a Bukavu, Walungu, Kabare, Kalehe e Shabunda: 1. Agathe Rwankuba 2. Noelle Ndagano 3. Rita Likirye 4. Venantie Bisimwa 5. Laititia Shindano 6. Jeanne Nkere La ricerca è stata coordinata da: Annie Bukaraba Coordinatrice Programma “Women’s Peace” di International Alert, Repubblica Democratica del Congo orientale    
COP30, ONU e situazione umanitaria a Gaza
La delegazione israeliana è stata espulsa dall’assemblea della COP30. Le proteste di fronte alla sede di Belem in Brasile e il boicottaggio espresso dalla maggioranza delle delegazioni hanno cacciato i rappresentanti del genocidio a Gaza. La notizia è stata censurata dalla stampa scorta mediatica di Netanyahu. La Commissione Onu per gli affari economici e finanziari ha votato a stragrande maggioranza una risoluzione che riconosce il diritto inalienabile del popolo palestinese alla sua terra e alle risorse idriche, considerando nulle e violazioni del diritto internazionale tutte le annessioni compiute da Israele. La bozza di risoluzione è stata avanzata dal gruppo 77 e dalla Cina. Hanno votato contro soltanto otto Paesi (Usa, Israele, Argentina e vari staterelli minuscoli), mentre 152 hanno votato a favore, compresi tutti i Paesi dell’UE e il Canada. 12 astenuti. Secondo il portavoce Unicef “Israele sta impedendo l’ingresso a Gaza di beni essenziali, tra cui siringhe per vaccini e biberon. Dallo scorso agosto sono state trattenute 938.000 confezioni di latte in polvere pronto all’uso. Ciò significa che circa un milione di bottiglie di latte potrebbero raggiungere i bambini che soffrono di diversi livelli di malnutrizione. Le restrizioni all’ingresso di forniture umanitarie essenziali, come kit per la maternità, frigoriferi a energia solare, pezzi di ricambio, generatori e materiali per la depurazione dell’acqua stanno ostacolando gravemente gli sforzi umanitari nel settore”. ANBAMED
Relatrice ONU Alena Douha a Cuba per indagare impatto del bloqueo sui diritti umani del popolo cubano
La Sig.ra Alena Douhan, Relatrice Speciale del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite sull’impatto negativo delle misure coercitive unilaterali sul godimento dei diritti umani (1), è arrivata l’11 novembre 2025 a Cuba per una visita ufficiale. Questa è la sua seconda visita nel Paese, dopo la sua partecipazione a un evento accademico presso l’Università dell’Avana nel 2023. Da ieri, Douha, è in visita a Cuba per indagare – da parte dell’ONU – come il bloqueo imposto dagli Stati Uniti violi i diritti umani del popolo cubano. Un ferrea risposta a tutti coloro che affermano che “el bloqueo non esiste”, soprattutto per chi non vuole vederlo. Alena Douhan visiterà la Repubblica di Cuba dall’11 al 21 novembre 2025. Al suo arrivo all’Avana, la Relatrice speciale è stata ricevuta da Alejandro González Behmaras, Direttore delle Organizzazioni Internazionali del Ministero degli Esteri cubano, e da Francisco Pichón, Coordinatore residente del sistema delle Nazioni Unite a Cuba. Durante la sua permanenza, Douhan completerà un ampio programma di lavoro che comprende visite e scambi con diversi settori della vita economica, politica e sociale, per valutare in prima persona l’impatto del  bloqueo imposto dagli Stati Uniti. Douhan incontrerà funzionari governativi, rappresentanti di organizzazioni internazionali, la comunità diplomatica, nonché associazioni, istituzioni finanziarie, comunità imprenditoriale, mondo accademico e altri soggetti interessati non governativi. La Relatrice Speciale valuterà i vari settori interessati dalle sanzioni unilaterali, tra cui le sanzioni secondarie e l’eccessiva conformità alle sanzioni. Esaminerà inoltre le buone pratiche, nonché iniziative e politiche di mitigazione e gestione. L’esperto terrà una conferenza stampa il 21 novembre 2025 presso il Centro de Presse Internacional (CPI) dell’Avana. L’accesso sarà strettamente limitato ai giornalisti accreditati. Il rapporto finale sulla sua visita sarà presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite nel settembre 2026. Alena Douhan ha assunto l’incarico di Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei popoli della Bielorussia il 25 marzo 2020. È laureata e docente di Diritto Internazionale presso l’Università Statale Bielorussa, controllata da Aleksandr Lukashenko. È anche direttrice del Centro di Ricerca sulla Pace. Douhan ha conseguito un dottorato di ricerca in diritto internazionale presso l’Università statale nel 2005 e una laurea in diritto internazionale e diritto europeo nel 2015. Il riassunto del curriculum vitae pubblicato sul sito web ufficiale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani evidenzia che i suoi interessi di ricerca si concentrano sui settori del diritto internazionale, delle sanzioni e dei diritti umani. Nel dicembre 2020, Douhan ha chiesto agli Stati Uniti di revocare le sanzioni contro la Siria , affermando che “potrebbero inibire la ricostruzione delle infrastrutture civili siriane” distrutte dal conflitto e potrebbero “violare i diritti umani del popolo siriano”. I suoi commenti sono stati accolti con favore dal governo siriano e respinti dall’inviato speciale degli Stati Uniti per la Siria. Nel novembre 2022, Douhan ha visitato la Siria e ha nuovamente invitato gli Stati Uniti, l’Unione Europea e alcuni stati arabi a revocare le loro sanzioni, che, ha affermato, stavano avendo un grande effetto negativo “in tutti i ceti sociali del paese” e stavano “portando a carenze di medicinali e attrezzature mediche che influenzano la vita dei siriani comuni”.  Douhan ha visitato il Venezuela nell’agosto 2020 per indagare sull’impatto delle sanzioni internazionali. Dichiarò nei suoi risultati preliminari, mentre partiva il 12 febbraio: che le sanzioni contro il Venezuela hanno avuto un impatto negativo sia sull’economia che sulla popolazione. Nel suo rapporto, Douhan affermò che le sanzioni contro il Venezuela avevano peggiorato la crisi economica e umanitaria del paese, dando responsabilità politiche ed economiche anche la governo Maduro. Il governo venezuelano accolse con favore il rapporto, mentre la destra venezuelana la accusò di “fare il gioco del regime” di Nicolás Maduro, cosa assolutamente smentita dai fatti. I Relatori Speciali/Esperti Indipendenti/Gruppi di Lavoro sono esperti indipendenti in materia di diritti umani nominati dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Insieme, questi esperti sono denominati Procedure Speciali del Consiglio per i Diritti Umani. Gli esperti delle Procedure Speciali lavorano su base volontaria; non fanno parte del personale delle Nazioni Unite e non ricevono alcun compenso per il loro lavoro. Sebbene l’Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani funga da segretariato per le Procedure Speciali, gli esperti prestano servizio a titolo individuale e sono indipendenti da qualsiasi governo o organizzazione, inclusi l’OHCHR e le Nazioni Unite. Qualsiasi punto di vista o opinione presentata è esclusivamente quella dell’autore e non rappresenta necessariamente quella delle Nazioni Unite o dell’OHCHR. Le osservazioni e le raccomandazioni specifiche per Paese dei meccanismi delle Nazioni Unite per i diritti umani, comprese le procedure speciali, gli organi dei trattati e la Revisione periodica universale, sono disponibili nell’Indice universale dei diritti umani https://uhri.ohchr.org/en/   (1) Il ruolo di Relatore Speciale del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite sull’impatto negativo delle misure coercitive unilaterali sul godimento dei diritti umani è stato creato da una risoluzione del 2014 al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite presentata dall’Iran per conto del Movimento dei Paesi Non-Allineati, e Douhan è la seconda a ricoprire il ruolo. Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti hanno votato contro la risoluzione per creare il suo ruolo mentre Russia, Cina, Venezuela e Arabia Saudita hanno votato a favore della risoluzione.  Lorenzo Poli
OLIVI SOTTO ASSEDIO. Il secondo report della Campagna Olivi-Cultura di Pace
LEGGI, SCARICA E DIFFONDI IL REPORT COMPLETO In questo periodo la stagione della raccolta delle olive in Palestina dovrebbe essere nel pieno del suo svolgimento, ma i contadini palestinesi si trovano ad affrontare ancora una volta una realtà fatta di aggressioni sistematiche, danneggiamenti e restrizioni all’accesso ai terreni. Nella prima settimana dall’avvio ufficiale della stagione, dal 15 al 21 ottobre 2025, coloni e militari israeliani si sono resi responsabili di episodi sempre più intensi e ricorrenti a danno della popolazione civile palestinese, che hanno interessato tutta la regione della Cisgiordania occupata, dopo che numerosi altri attacchi erano stati registrati contro i contadini che avevano provato ad anticipare la raccolta nel tentativo di sfuggire alle violenze. Particolarmente gravi sono gli episodi documentati nella zona di Hebron e Nablus, dove la violenza dei coloni armati e dell’esercito ha raggiunto livelli fuori controllo, con attacchi mirati anche contro donne e bambini, mentre continuano le espulsioni sistematiche, le demolizioni e i tentativi di intimidazione volti a costringere i palestinesi ad abbandonare le proprie terre. Il presente rapporto è il risultato delle attività di monitoraggio e documentazione condotte sul campo dai partner palestinesi della campagna “Olivi – Cultura di Pace”: Arab Agronomists Association (AAA), Palestinian Agricultural Relief Committee (PARC), Palestinian Farmers’ Union (PFU) e Arab Center for Agricultural Development (ACAD), in collaborazione con le comunità rurali e con il supporto di media, istituzioni e organizzazioni locali, nell’ambito della campagna “Olivi – Cultura di Pace”. LEGGI, SCARICA E DIFFONDI IL REPORT COMPLETO
Solidarietà a Francesca Albanese da Giuristi e Avvocati per la Palestina
Giuristi e Avvocati per la Palestina esprimono la loro solidarietà a Francesca Albanese, indebitamente attaccata in pubblico dal rappresentante del governo italiano alle Nazioni Unite. La dr.ssa Albanese è e resta una Relatrice Speciale delle Nazioni Unite, che svolge con scrupolo, competenza e coraggio l’alto ruolo alla quale è stata chiamata; le infondate accuse e le volgari offese che le sono state rivolte, prima dal rappresentante dello Stato di Israele, poi dal rappresentante permanente della Repubblica italiana Maurizio Massari sono una offesa non solo alla sua persona, ma al suo ruolo e al ruolo, al prestigio e all’autorità delle Nazioni Unite. Purtroppo il rappresentante del governo italiano, evidentemente sulla base delle istruzioni ricevute da tale governo, invece di tutelare una propria concittadina che ricopre un ruolo tanto importante nel consesso delle Nazioni Unite dalle deliranti offese di stregoneria pronunziate dal rappresentante del governo di Israele, e di quelle altrettanto gravi provenienti dal rappresentante di Orban, ha deciso di denigrare il lavoro della Relatrice e di accusarla apertamente di aver violato gli obblighi di integrità, imparzialità e buona fede. Ai fatti descritti con coraggio, onestà e rigore da parte di una giurista oggi sostenuta dal consenso della gran parte della popolazione mondiale e di quella italiana, coloro che difendono le ragioni del genocidio in corso che ha fatto finora oramai almeno settantamila vittime di cui oltre un terzo bambini, non sanno opporre altro che accuse sconnesse e deliranti. La scomposta presa di posizione del rappresentante italiano e le sue aperte accuse di violazione del codice di condotta alla relatrice, se condivise e non smentite dal Ministro degli Affari Esteri e dal governo, non fanno che confermare le ipotesi di complicità nel crimine di genocidio che ci hanno condotto a chiedere alla Procura presso la Corte Penale Internazionale di indagare sulle responsabilità dei membri del governo italiano anche contro i nostri governanti, che hanno dato e continuano a dare copertura politica e materiale ai crimini del governo di Israele. Dobbiamo purtroppo registrare al riguardo anche il persistente silenzio del Presidente della Repubblica, che dovrebbe invece far sentire la sua voce di supremo garante dell’ordinamento costituzionale. Giuristi e Avvocati per la Palestina Redazione Italia
Cartel de los Soles, la menzogna del “narco-Stato” come giustificazione di guerra contro il Venezuela
Spesso come argomentazione per sostenere che la Rivoluzione Bolivariana è una “dittatura criminale”, si afferma che il Venezuela sia un “narco-Stato” che inonda gli Stati Uniti di cocaina. Notizia veicolata sia dalla propaganda neocoloniale occidentale (USA ed europea) e spesso cavalcata dalle destre venezuelane in funzione anti-chavista, come successo nelle elezioni presidenziali del 28 luglio 2024. Tutto nacque quando il Comandante Hugo Chavez, notoriamente astemio, rivelò nel 2008 di masticare abitualmente pasta di foglie di coca, una sorta di chewgum tradizionale ed artigianale tipica dell’America Latina che – chiunque voglia tenersi lontano da pregiudizi e stereotipi razzisti e colonialisti – sa essere una delle tante usanze quotidiane delle popolazioni nuestramericane.  Durante un discorso lungo quattro ore dinnanzi all’Assemblea Nazionale, Chavez affermò: «Mastico coca ogni giorno, al mattino (…) e guardate come sto. (…) Ve la consiglio» – mostrando i bicipiti agli interlocutori e dichiarando chiaramente che come Fidel Castro gli inviava «il gelato Coppelia e molte altre cose» che gli arrivavano «regolarmente dall’Havana», così anche il presidente Boliviano Evo Morales lo omaggiava di «pasta di coca». Gli indigeni boliviani e peruviani masticano foglie di coca regolarmente, come stimolante, regolatore della pressione, per non sentire la fame e durante i rituali ancestrali del culto di Pachamama, essendo tutto questo consentito dalla legge. Spiegava a tal riguardo il Miami Herald – quotidiano statunitense pubblicato a Miami dal 1903 di proprietà della The McClatchy Company – che la “pasta di coca” è un prodotto semiraffinato, che determina assuefazione e che viene fumata come il basuco, ovvero il residuo dell’estrazione della cocaina base, di pessima qualità e altamente nocivo[3]. Eppure, a partire da folkloristiche dichiarazioni di analisti colombiani e venezuelani, per l’Occidente colonialista, razzista e ignorante questo era simbolo dell’avallo di Chavez alla cocaina, nonché la prova che il Venezuela Bolivariano fosse un “narco-Stato” e persino “un atto illegale da parte di un capo di stato”. Ne seguirono dichiarazioni schizofreniche da parte di personalità legate a Miami e alla destra venezuelana: «È un altro segnale che Chavez ha perso completamente il senso del limite» – ha commentato Anibal Romero, docente di scienze politiche all’università di Caracas, aggiungendo – «Dimostra che Chavez è fuori controllo». «Nel momento in cui afferma di consumare pasta di coca, ammette di consumare una sostanza che è illegale, tanto in Bolivia che in Venezuela» – affermò Hernan Maldonado, osservatore politico boliviano residente a Miami, aggiungendo – «Di più, si tratta di una vera e propria accusa a Morales di essere un narcotrafficante» per avergli invitato la pasta di coca. La realtà era molto diversa. I governi di Hugo Chavez si sono contraddistinti per la lotta al narcotraffico, sull’onda di quella che è stata la ferrea e intransigente lotta intrapresa ormai da decenni dal socialismo cubano contro la droga che periodicamente viene ribadita[4]. Basta recarsi in Venezuela per vedere con i propri occhi il lavoro anti-droga da parte della Polizia Bolivariana negli aeroporti. Più volte in passato agenti DEA e FBI hanno espresso ammirazione verso le rigorose politiche antidroga dei comunisti cubani. Il Venezuela chavista ha sempre seguito il modello anti-droga cubano inaugurato da Fidel Castro in persona attraverso cooperazione internazionale, controllo del territorio, repressione delle attività criminali. Il mito secondo cui il Venezuela è un “narco-Stato” fu sfatato dall’Ufficio di Washington in America Latina (WOLA) – un think tank di Washington che generalmente sostiene le operazioni di regime-change degli Stati Uniti nella regione – nonché dalla FAIR, 15 y Ultimo, Misión Verdad, Venezuelanalysis e altri enti e siti di giornalismo investigativo. Maduro venne definito da Trump “il narcotrafficante più potente al mondo”, oltre ad essere accusato di armonizzare quello che sarebbe il Cartel de los Soles, un presunto super-cartello della droga che permetterebbe al governo venezuelano di arricchirsi. Secondo questa narrazione, il governo venezuelano avrebbe messo in atto un complotto per inondare gli Stati Uniti con “qualcosa come 200-250 tonnellate di cocaina”. Sebbene tale cifra appaia alta, è importante sapere che gli Stati Uniti sono il maggiore consumatore mondiale di cocaina; la Colombia è il maggiore produttore; e che il Venezuela non coltiva coca, non produce cocaina e, secondo le cifre del governo nordamericano, meno del 7% del totale della droga dal Sud America transita in Venezuela e che meno del 10% del traffico globale di cocaina attraversa il Paese[5], come mostrano le mappe sotto (la regione dei Caraibi orientali comprende la penisola di Guajira in Colombia). Queste mappe, prodotte rispettivamente da Drug Enforcement Agency e Comando Meridionale degli Stati Uniti, sollevano immediatamente dubbi sul perché il Venezuela sia il Paese preso di mira. Pino Arlacchi, già sottosegretario generale dell’ONU e direttore dell’UNDCCP (ufficio ONU per il controllo delle droghe e la prevenzione del crimine), ha affermato nel 2019: «La notizia dell’incriminazione del Presidente Maduro e di membri del suo governo per traffico di droga mi ha lasciato senza parole. Osservando la persecuzione contro il Venezuela ne ho viste tante, ma sinceramente non pensavo che l’associazione per delinquere al potere negli Stati Uniti si spingesse fino a questo punto. Dopo aver fatto una rapina da 5 miliardi di dollari delle risorse finanziarie del Venezuela depositate nelle banche di 15 paesi. Dopo aver messo in atto un blocco dell’intera economia del paese tramite sanzioni atroci, rivolte a colpire la popolazione civile per spingerla a ribellarsi (senza successo) contro il suo governo. E dopo un paio di falliti tentativi di colpo di stato, ecco la mossa finale, la calunnia più infamante. Il colpo è talmente fuori misura che non penso abbia conseguenze di rilievo. Né le Nazioni Unite, né l’Unione europea, né la maggioranza degli Stati del pianeta che lo scorso settembre hanno votato a favore dell’attuale esecutivo del Venezuela e del suo Presidente durante l’Assemblea generale dell’ONU, daranno il minimo peso a questo episodio di guerra asimmetrica. Non succederà nulla perché non esiste la minima prova a sostegno della calunnia secondo cui il Venezuela ha inondato gli Stati Uniti di cocaina negli ultimi anni. Sono rimasto interdetto anche perché mi occupo di anti-droga da una quarantina di anni, e non ho mai incontrato il Venezuela lungo la mia strada. Prima, durante e dopo il mio incarico di Direttore esecutivo dell’UNODC (1997-2002), il programma antidroga dell’ONU, non ho mai avuto occasione di visitare quella nazione perché il Venezuela è sempre stato al di fuori dei maggiori circuiti del traffico di cocaina tra la Colombia – il principale paese produttore – e gli USA, il principale consumatore. Non esiste se non nella fantasia malata di Trump e soci alcuna corrente di commercio illegale di narcotici tra Venezuela e Stati Uniti». Era lo stesso Arlacchi che invitava a consultare le due fonti più importanti sul tema: il World Drug Report 2019, ovvero l’ultimo rapporto UNODC sulle droghe[6]; e il National Drug Threat Assessment del dicembre 2019, documento della DEA, la polizia antidroga americana[7]. Secondo quest’ultimo, il 90% della cocaina introdotta negli USA proviene dalla Colombia, il 6% dal Peru e il resto da origini sconosciute. “Se in quel 4% rimanente ci fosse stato anche il profumo del Venezuela, esso non sarebbe passato inosservato. Ma è il rapporto ONU che fornisce il quadro più dettagliato, menzionando il Messico, il Guatemala e l’Ecuador come le sedi di transito della droga verso gli Stati Uniti. E l’assessment della DEA cita i celebri narcos messicani come i maggiori fornitori del mercato USA” – sottolineava Arlacchi. Nel 2020 il Dipartimento di Stato USA, durante l’Amministrazione Trump, stabilisce vergognosamente una taglia da 15 milioni di dollari sulla testa del Presidente costituzionale del Venezuela, Nicolas Maduro Moros, offrendola a chi avrebbe collaborato al suo arresto. Maduro viene accusato – dagli USA – di essere il capo di un «narco-Stato» che, in collaborazione con una fazione dissidente delle Farc colombiane, era responsabile di «inondare gli Stati Uniti di cocaina». Durante l’amministrazione “democratica” di Joe Biden, la taglia passa dai 15 ai 25 milioni. Nel 2020, lo stesso Arlacchi, intervistato da Ruggero Tantulli per IlPeriodista, affermava che le accuse di narcotraffico e di narcoterrorismo al Presidente Nicolas Maduro e al Venezuela Bolivariano erano “spazzatura politica”: «Sono accuse assurde. Mi occupo di droga da più di 40 anni, ho scritto un po’ di libri sul tema e sono stato ai vertici dell’antidroga mondiale. Non mi è mai capitato di dovermi occupare di Venezuela e non l’ho mai visitato quando ero all’Onu perché non ce n’era bisogno. Sono falsità clamorose: non c’è un solo rigo sul traffico di droga dal Venezuela agli Usa nei documenti americani e dell’Onu. Sono andato a rileggere tutti gli ultimi rapporti della Dea (Drug Enforcement Administration, ndr). L’ultimo è di tre mesi fa. La produzione e le rotte sono quelle classiche». Affermava Arlacchi: «La produzione mondiale di cocaina è, grosso modo, così ripartita: in Colombia il 70%, in Perù il 20% e in Bolivia il restante 10%. La mediazione per arrivare negli Stati Uniti, che sono il principale mercato di consumo del mondo, avviene attraverso i narcos messicani, ma questo lo sanno anche i bambini. Dal lato del Pacifico ma anche dei Caraibi. Una rotta più marginale, poi, passa per Ecuador e Guatemala, quindi per l’America centrale. Ma questi sono tutti dati conosciutissimi, infatti nessuno sta prendendo sul serio queste accuse, nemmeno chi è contro Maduro». Secondo Arlacchi si trattava dell’ennesimo tentativo di ingerenza e di colpo di stato: «E’ una guerra non convenzionale. Gli americani non possono più fare colpi di stato “alla vecchia maniera” con la Cia e i marines, anche perché Maduro ha un ottimo sistema di intelligence e protezione personale. Tentativi, comunque, ne sono stati fatti e ne vengono fatti, ma senza successo. Gli Usa non riescono a sottomettere il Venezuela anche perché con Guaidó hanno scelto una strategia totalmente sbagliata. Juan Guaidó è adesso totalmente isolato. Il blocco economico e finanziario non sta portando alla ribellione contro il governo. Scartata l’invasione militare, quindi, non resta che il character assassination, l’assassinio morale. Ma queste accuse sono un colpo a vuoto per qualunque osservatore obiettivo, un colpo che finirà per rafforzare l’idea che il Venezuela sia vittima di una aggressione da parte degli Stati Uniti». L’11 agosto 2024 l’ANSA pubblicava una notizia insolita: “Gli Stati Uniti stanno tenendo una serie di colloqui segreti per convincere il presidente venezuelano Nicolas Maduro a lasciare il potere in cambio della grazia. Lo riferiscono fonti informate al Wall Street Journal secondo le quali l’amministrazione Biden ha messo “tutto sul tavolo” per convincere il leader venezuelano ad andarsene prima della fine del suo mandato a gennaio. Maduro deve affrontare una serie di incriminazioni da parte del dipartimento di Giustizia americano e nel 2020 gli Usa hanno messo una ricompensa di 15 milioni di dollari per informazioni che potessero portare al suo arresto.”[1] Oltre a propagandare la bufala del “narco-Stato”, l’ANSA e i media mainstream atlantisti ed occidentali hanno diffuso l’idea che ci fosse in atto una trattativa tra USA e il governo bolivariano affinchè Maduro lasciasse la presidenza in cambio della cancellazione della taglia sulla sua testa. La notizia della presunta trattativa oltre ad essere falsa, era stata smentita anche dalla stessa Casa Bianca che ha definito “falsa” la notizia rilanciata, precedentemente, dal Wall Street Journal (WSJ)[2]. Lunedì 19 agosto 2024, è stato proprio il Dipartimento di Stato USA, nella figura del vice portavoce principale Vedant Patel, a smentire categoricamente la falsa notizia di una amnistia per Maduro e per altri alti funzionari venezuelani. Ancora una volta emergono le falsità e la guerra mediatica contro il Venezuela. Anche la Casa Bianca smentisce ma non rinuncia alla sua azione destabilizzatrice contro il Presidente Maduro e la Costituzione Bolivariana del Venezuela. Ad agosto 2025, gli Stati Uniti raddoppiano assurdamente – in contrasto con il diritto internazionale – la ricompensa offerta a chiunque fornisca informazioni utili all’arresto del presidente del Venezuela Nicolás Maduro e sul suo Ministro dell’Interno affinché possano essere processati per “traffico di droga e corruzione”. La taglia passa da 25 a 50 milioni di dollari. La decisione di raddoppiarla è stata annunciata dal procuratore generale Pam Bondi, alla quale il Ministro degli Esteri di Caracas Yvan Gil ha risposto definendo la scelta “patetica” e “propaganda politica”, usata dagli Stati Uniti per distrarre l’opinione pubblica dal caso Jeffrey Epstein. Il fine inoltre è incolpare il Venezuela Bolivariano dell’immissione negli Usa di cocaina tagliata con fentanyl. Dichiarazioni nuovamente assurde che nonr ispecchiano i dati ufficiali mondiali sul traffico di droga. Come afferma Arlacchi in un recente articolo su Il Fatto Quotidiano (ripubblicato da Pressenza Italia): “Il Rapporto Onu 2025, recentemente pubblicato, è di una chiarezza cristallina: solo una frazione marginale della produzione di droga colombiana passa attraverso il Venezuela nel suo cammino verso Usa ed Europa. Il Venezuela, secondo l’Onu, ha consolidato la sua posizione storica di territorio libero dalla coltivazione di foglia di coca, marijuana e simili, nonché dalla presenza di cartelli criminali internazionali. Il documento non fa altro che confermare i 30 rapporti annuali precedenti, che non parlano del narcotraffico venezuelano perché questo non esiste.” (Foto di Infografica da Limes narcotraffico Sud America) I dati sono chiari: solo il 5% della droga colombiana transita attraverso il Venezuela. Afferma Arlacchi: “Ben 2.370 tonnellate – dieci volte di più – vengono prodotte o commerciate dalla Colombia stessa, e 1.400 tonnellate passano dal Guatemala. Sì, avete letto bene: il Guatemala è un corridoio di droga sette volte più importante di quello che dovrebbe essere il temibile “narco-Stato” bolivariano. Ma nessuno ne parla perché il Guatemala è a secco dell’unica droga non naturale che interessa Trump: il petrolio. Il paese ne produce lo 0,01% del totale globale.” Anche il Rapporto Europeo sulle Droghe 2025 dell’Unione Europea, basato su dati reali e non su wishful thinking geopolitici, non cita neppure una volta il Venezuela come corridoio del traffico internazionale di droga, e ignora del tutto il Cartel de los Soles. Secondo il Rapporto Europeo, la cocaina è la seconda droga più usata nei 27 paesi Ue, ma le sue fonti principali sono chiaramente identificate: Colombia per la produzione, America centrale per lo smistamento, e varie rotte attraverso l’Africa occidentale per la distribuzione finale. In questo scenario, Venezuela e Cuba non ci sono. L’Europa ha bisogno di dati affidabili per proteggere i suoi cittadini dalla droga, quindi produce studi accurati. Gli Usa hanno bisogno di giustificazioni per il loro bullismo petrolifero, quindi producono propaganda mascherata da intelligence. Eppure, anche le menzogne USA hanno un limite: quando sono smentite dalle sue stesse istituzioni anti-droga. I Rapporti della DEA 2024 e 2025, infatti, affermano chiaramente che il Venezuela non è toccato dal narcotraffico mondiale. L’Amministrazione per il Controllo delle Droghe degli Stati Uniti (DEA) ha riconosciuto nei suoi rapporti annuali (rapporti “National Drug Threat Assessment” del 2024 e del 2025) che gli Stati Uniti hanno un rapporto strutturale con il traffico di droga. Ha ammesso problemi estremamente gravi, come il fatto che la popolazione è immersa nel consumo di vari tipi di droghe e che il Paese è l’epicentro delle reti di traffico di droga, essendo produttore, mercato di destinazione di stupefacenti e una grande macchina finanziaria del denaro della droga. Nel rapporto del 2024 si afferma che “i cartelli messicani ottengono carichi di diverse tonnellate di cocaina in polvere e base di cocaina dai trafficanti sudamericani, per poi contrabbandarla attraverso rotte terrestri o fluviali costiere in America Centrale, o via mare verso isole caraibiche come Porto Rico e Repubblica Dominicana, prima di introdurla negli Stati Uniti”. In questo riferimento alle rotte caraibiche, non viene fatto alcun cenno al Venezuela. Nel rapporto del 2025, la DEA afferma che la maggior parte dei sequestri di cocaina sono stati effettuati in California, al confine con il Messico, dimostrando che gran parte del traffico di tale stupefacente avviene attraverso rotte terrestri e marittime nell’Oceano Pacifico. In entrambi i rapporti, la DEA cita specificamente Colombia, Perù e Bolivia come paesi produttori di cocaina e fa riferimento a Messico, El Salvador, Honduras, Guatemala, Porto Rico e Repubblica Dominicana come punti chiave della rotta della cocaina verso gli Stati Uniti. La DEA ammette nei suoi rapporti del 2024 e del 2025 che gli Stati Uniti sono il fulcro del riciclaggio di capitali provenienti dal traffico internazionale di droga. Sottolinea che sul suolo statunitense operano riciclatori di denaro che prestano i loro servizi a diverse organizzazioni criminali. La DEA indica metodi quali case di cambio di criptovalute, portafogli digitali, trasferimenti di tipo mirror, compravendita di beni mobili e immobili tramite agenzie immobiliari statunitensi e altri meccanismi esistenti nel sistema bancario nordamericano. Secondo la DEA, e come affermato dall’ONU (ONU contro la droga e il crimine, UNODC), il Venezuela non è un Paese produttore di droga. C’è solo un piccolo accenno al cosiddetto “Tren de Aragua” nel rapporto DEA del 2025, dopo che è stato classificato come “organizzazione terroristica”. Si tratta di un riferimento fondato su prove segrete, che non lo sarebbero se avessero un minimo di consistenza e fossero supportate da altre fonti. “Come può un’organizzazione criminale così potente da meritare una taglia di 50 milioni di dollari, essere completamente ignorata da chiunque si occupi di antidroga al di fuori degli Usa?” – si è domandato Arlacchi. Infatti né nel rapporto del 2025, né in quello del 2024, né in nessun altro rapporto precedente della DEA, compare da nessuna parte il cosiddetto Cartel de los Soles, poichè il Venezuela non figura come Paese produttore di cocaina nemmeno secondo lo stesso governo statunitense, il quale invece mediaticamente lancia accuse false. Il Cartel de los Soles è una finzione comunicativa ed esiste solo sui tavoli di progettazione propagandistica del governo statunitense, dell’opposizione venezuelana e della destra internazionale. Il Cartel de los Soles è una creatura dell’immaginario trumpiano. Il “cartello della droga” che sarebbe “guidato dal presidente del Venezuela Maduro” non viene citato né nel rapporto del principale organismo mondiale antidroga né nei documenti di alcuna agenzia anticrimine europea o di altra parte del pianeta. Quello che viene venduto su Netflix come un “super-cartello della droga” in Venezuela, è in realtà un miscuglio di piccole reti locali, di qualche episodio di corruzione, un tipo di criminalità spicciola che si trova in qualsiasi Paese del mondo, inclusi gli Usa, dove – come ha ricordato Arlacchi – “muoiono ogni anno quasi 100 mila persone per overdose da oppiacei che nulla hanno a che fare col Venezuela, e molto con Big Pharma americana.” Insomma non c’è traccia del Venezuela in alcuna pagina dei due documenti e in nessun altro materiale delle agenzie anticrimine USA degli ultimi 15 anni si fa menzione di fatti che possano anche indirettamente ricondurre alle accuse lanciate contro il legittimo Presidente del Venezuela e contro il suo governo. Il fatto stesso che in Venezuela transiti una minima parte del narcotraffico e che si veda la lotta ferrea del suo governo ad opporvisi con tutti gli strumenti, non fa del Venezuela un “narco-Stato” ma piuttosto di un governo che reprime questo fenomeno. Si tratta quindi di spazzatura politica, che però non è stata trattata come tale nemmeno fuori dal sistema politico-mediatico degli Stati Uniti. Vergognosa è stata l’intervista[8] pubblicata il 21 agosto 2024 su Il Corriere della Sera fatta da Roberto Saviano al giornalista venezuelano Alfred Meza, colui che ha inventato la macchina del fango contro Alex Saab[9], diplomatico venezuelano che è stato prosciolto da tutte le accuse dal giudice della Florida, Robert Scola con una sentenza dell’8 aprile 2024, a seguito dell’indulto firmato dal presidente USA Joseph Biden il 15 dicembre 2023. Il 20 dicembre 2023, Saab è stato liberato a seguito di uno scambio di prigionieri con gli Stati Uniti e, una volta tornato in Venezuela, ha raccontato le torture subite per fargli confessare delitti mai commessi, che avallassero l’idea del Venezuela come “narco-Stato”, e quella di Saab come “prestanome” di Nicolas Maduro[10]. Roberto Saviano ha dimostrato la sua arroganza nel dire: “Studio il narcotraffico in Venezuela da molti anni e questo mi ha permesso di conoscere diversi giornalisti che in questi anni stanno rischiando la vita per raccontare il regime di Maduro e il potere della criminalità organizzata.” Saviano non solo non ha studiato il caso del Venezuela, ma in quell’intervista non ha proposto nemmeno un dato sul narcotraffico tra Colombia e USA e nemmeno un dato sul presunto coinvolgimento del Venezuela. Con un’operazione retorica ha intervistato Alfred Meza, dando adito alla propaganda golpista della destra eversiva che ha messo a ferro e fuoco il Venezuela post-elezioni, paragonando Maduro ad Erdogan e definendo il chavismo come “un movimento fascista” . La verità è che Saviano non ha studiato la storia del Venezuela, del socialismo bolivariano e, con la sua autoreferenzialità, continua a parlare di qualcosa che non conosce perché, se conoscesse, avrebbe i brividi solo ad interfacciarsi con quelli che calunniano la Rivoluzione Bolivariana e i suoi governi. Il vero obiettivo della finzione comunicativa e propagandistica del Cartel de los Soles non è la droga, ma il controllo strategico delle vaste risorse naturali e minerarie del Venezuela, comprese le più grandi riserve di petrolio del pianeta, interamente gestite da un governo socialista e antimperialista i cui proventi reinvesti per il 75% in piani sociali. Siamo dentro alla trama di un film di Hollywood già visto, in cui gli Usa provano a costruire l’immagine del nemico cattivo per giustificare l’ennesima guerra, l’ennesima invasione militare per una “causa umanitaria”.   [1] https://www.ansa.it/amp/sito/notizie/mondo/2024/08/11/usa-offrono-a-maduro-la-grazia-se-lascia-il-potere_e3896f11-15c4-4cea-ae38-891b4d0bddf0.html [2] https://www.cdt.ch/news/mondo/non-abbiamo-offerto-la-grazia-a-maduro-360272 [3] https://www.fuoriluogo.it/mappamondo/chavez-choc_mastico_coca_ogni/ [4] https://italiano.prensa-latina.cu/2024/08/16/cuba-ribadisce-la-sua-intransigenza-di-fronte-al-traffico-di-droga/?fbclid=IwY2xjawEvvehleHRuA2FlbQIxMQABHd8EkRt8uBmPE4WxwK70HVNoq6cfOVFQpOCGQPdHo-cZQZVYSelvVuX5yA_aem_lfxxG74btAgrS5HR6izSaA [5] https://italiacuba.it/2020/03/30/le-accuse-di-trump-a-maduro-sono-una-confessione-sul-golpe-di-guaido/ [6] World Drug Report 2019, https://wdr.unodc.org/wdr2019/prelaunch/WDR19_Booklet_4_STIMULANTS.pdf [7] National Drug Threat Assessment 2019, https://www.dea.gov/sites/default/files/2020-02/DIR-007-20%202019%20National%20Drug%20Threat%20Assessment%20-%20low%20res210.pdf [8] Roberto Saviano, Alfredo Meza: «Quanti errori a sinistra su Chávez e Maduro. Ora il Venezuela è nel caos» https://www.corriere.it/esteri/24_agosto_21/saviano-intervista-alfredo-meza-chavez-maduro-venezuela-e08fa362-840f-47f3-bfd7-7fc208a70xlk.shtml?refresh_ce [9] Geraldina Colotti, Alex Saab. Lettere di un sequestrato, Multimage, 15 novembre 2022 [10] https://www.pressenza.com/it/2024/04/alex-saab-prosciolto-da-tutte-le-accuse/   Fonti: “National Drug Threat Assessment”. Drug Enforcement Administration (2024). Governo degli Stati Uniti: https://www.dea.gov/sites/default/files/2024-05/5.23.2024%20NDTA-updated.pdf “National Drug Threat Assessment”. Drug Enforcement Administration (2025). Governo degli Stati Uniti: https://www.dea.gov/sites/default/files/2025-07/2025NationalDrugThreatAssessment.pdf Presidente colombiano Gustavo Petro difende Maduro dall’accusa di “narcoterrorismo” https://www.youtube.com/watch?v=Xf7ghNJ366U https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-pino_arlacchi__la_grande_bufala_contro_il_venezuela_la_geopolitica_del_petrolio_travestita_da_lotta_alla_droga/5871_62413/ https://italiacuba.it/2020/03/30/le-accuse-di-trump-a-maduro-sono-una-confessione-sul-golpe-di-guaido/ > Il rapporto chiave della DEA per il 2024 non menziona né il Venezuela né il > “Cartello dei Soli” > Legami pericolosi: «Narco» e il suo passato familiare > Stati Uniti: uno Stato narco-trafficante certificato dalla DEA > Il narcotraffico in America Latina e lo stratagemma di Marco Rubio > Il Venezuela da quando ha espulso la DEA statunitense ha sequestrato 182 > velivoli utilizzati per il traffico di droga dalla Colombia > Emergono prove di una cospirazione della DEA in Venezuela Lorenzo Poli