Tag - biodiversità

L’esercito statunitense è il più grande nemico della Terra
> Nella scena di apertura del nuovo documentario di Abby Martin e Mike Prysner, > Earth’s Greatest Enemy (Il più grande nemico della Terra), un veterano > senzatetto suona il pianoforte in una tendopoli a Brentwood, in California. > Vive  nell’accampamento popolarmente noto come “Veterans Row”, dove le tende > sono drappeggiate in bandiere statunitensi e le persone che vi passano accanto > ricordano quanto spesso l’esercito americano rovina le persone e poi le > rifiuta. L’uomo inizia a recitare le battute di una vecchia pubblicità di > reclutamento dell’esercito; poi il film fa vedere la pubblicità stessa, con lo > stesso veterano. Lui ne ricorda tutte le battute. Earth’s Greatest Enemy è un documentario sulla crisi climatica e l’imperialismo: su come l’esercito americano sia la più grande istituzione che ci spinge verso il collasso ecologico. A prima vista, la scena di apertura di un veterano che vive per strada potrebbe sembrare non correlata. Nel corso del film, Martin, con attenta precisione, illustra che i danni al clima da parte dei militari statunitensi non vengono inflitti solo all’ambiente che ci circonda, ma a tutti noi, come viene mostrato nelle scene che evidenziano l’acqua contaminata a Camp Lejeune. Il più grande nemico della Terra cattura l’ampiezza insondabile della sofferenza ecologica e umana causata dal militarismo. Evidenzia il costo della guerra per gli oceani, la vita animale e vegetale, l’acqua dolce e altro ancora. Se qualcuno vive nel ventre di questa bestia militare, dovrebbe assolutamente guardare questo documentario. Un segmento del film si concentra sull’impatto delle forze armate statunitensi sugli oceani della Terra, in particolare durante i giochi di guerra guidati dagli Stati Uniti, RIMPAC, la più grande esercitazione militare marittima del mondo. Fanno volare jet  Growler sull’oceano e praticano esercizi di affondamento, facendo esplodere navi dismesse in mare aperto. Sparano proiettili vivi e inquinano l’oceano per cinque o sei settimane consecutive. Martin documenta i militari statunitensi che fanno esplodere le montagne di Okinawa e prendono la terra per riempire le barriere coralline in modo che i militari possano usare il terreno così creato per ampliare la base militare. Una delle rivelazioni più sorprendenti del film è che l’esercito americano determina quanti mammiferi marini possono uccidere. Tutto ciò, ovviamente, influisce sulla pesca e sulla biodiversità che sostiene gli oceani e la vita umana e animale in tutto il mondo, più direttamente le persone del Pacifico, che si tratti delle Hawaii, di Okinawa o di altre isole in cui gli Stati Uniti hanno istituito avamposti militari permanenti. Earth’s Greatest Enemy esplora anche l’inquinamento delle acque causato dall’esercito americano. A metà del film, sentiamo Kim Ann Callan, che ha trascorso gli ultimi 15 anni a scoprire l’impatto dei rifiuti tossici dei militari a Camp Lejeune negli Stati Uniti. Per anni, i militari hanno avvelenato le acque sotterranee che, a loro volta, hanno avvelenato le famiglie dei militari. Di conseguenza, intere famiglie si ammalarono di cancro; l’esercito americano cercò di coprire questa situazione. Il film mostra Callan che cammina attraverso un cimitero con file di lapidi di bambini con la scritta “nato e morto” nella stessa data. Molte famiglie hanno perso più di un bambino per le malattie causate dall’inquinamento dei militari. > Callan riflette: “All’inizio avevo una visione completamente diversa > dell’esercito. E avevo molto rispetto per l’esercito… Ora non ho più rispetto > né per il governo né per l’esercito”. L’avvelenamento delle famiglie militari nella base non è accaduto solo a Camp Lejeune: il film espone quanto siano tossiche le basi militari statunitensi in tutto il mondo, con storie altrettanto devastanti in ciascuna delle oltre 800 basi militari a livello globale in oltre 80 paesi e in centinaia in tutti gli Stati Uniti Martin, ovviamente, discute dell’impatto che la guerra convenzionale ha sul pianeta, come quando gli Stati Uniti o uno dei suoi delegati, come Israele, bombardano incessantemente la terra per un lungo periodo di tempo. Il risultato è spesso un ecocidio totale, in cui i sopravvissuti non hanno quasi più nulla di cui crescere e vivere. Il film rivela l’impatto cumulativo dei proiettili sparati in Iraq. Stime prudenti suggeriscono che, per ogni persona uccisa nelle guerre statunitensi in Iraq e Afghanistan, sono stati usati più di 250.000 proiettili. Ogni proiettile inietta piombo, mercurio e uranio impoverito in aria, acqua e terra. Inoltre, studi hanno trovato titanio nei polmoni dei soldati statunitensi nelle basi e nei capelli di bambini in Iraq e Afghanistan. Gli Stati Uniti dichiarano guerra non solo all’aria, all’acqua e alla terra, ma anche ai corpi e alle generazioni di esseri umani. L’esercito americano sta distruggendo tutte le forme di vita. E per cosa, poi? Anche coloro che combattono le guerre alla fine vengono lasciati per strada quando tornano a casa. Alla fine del film, è abbondantemente chiaro: l’esercito americano è davvero il più grande nemico della Terra. Controlla e minaccia tutta la vita sulla Terra. Come organizzatori all’interno del movimento contro la guerra, ci è molto chiaro quanto la lotta contro di essa possa essere isolata dal resto del movimento ambientalista. Per lottare a favore del futuro del pianeta, noi del movimento contro la guerra dobbiamo unire le forze con il movimento per il clima. I nostri nemici sono gli stessi: gli speculatori di guerra e i politici che ci spingono verso il collasso climatico. Gli organizzatori in prima linea nella lotta contro questa crisi planetaria del militarismo — dalle Hawaii a Okinawa ad Atlanta — lo capiscono. La lotta per la terra è indissolubilmente legata alla lotta contro il militarismo. Non abbiamo altra scelta che tagliare le linee rosse politiche, filantropiche e organizzative che ci separano. Perché, come spiegano Martin e Prysner, attraverso una narrazione umana compassionevole e un giornalismo radicalmente onesto, la macchina da guerra alla fine colpirà tutti noi. Dobbiamo intervenire ora. -------------------------------------------------------------------------------- Aaron Kirshenbaum è attivista della campagna War is Not Green (La guerra non è verde) di CODEPINK e organizzatore regionale della costa orientale. Originario di Brooklyn, New York, dove risiede, Aaron ha conseguito un master in Sviluppo e pianificazione comunitaria presso la Clark University. Ha inoltre conseguito una laurea in Geografia umana-ambientale e urbana-economica presso la stessa università. Durante gli studi, Aaron ha lavorato all’organizzazione di programmi internazionali per la giustizia climatica e allo sviluppo di programmi educativi, oltre che all’organizzazione di iniziative a favore della Palestina, degli inquilini e dell’abolizionismo. Danaka Katovich è co-direttrice nazionale di CODEPINK. Si è laureata in Scienze Politiche alla DePaul University nel 2020. È una voce di spicco contro l’intervento militare degli Stati Uniti, sostenendo il disinvestimento dai produttori di armi e contestando il crescente budget del Pentagono. I suoi scritti sono pubblicati su Jacobin, Salon, Truthout, CommonDreams e altri. -------------------------------------------------------------------------------- TRADUZIONE DALL’INGLESE DI FILOMENA SANTORO. REVISIONE DI THOMAS SCHMID. Codepink
I pastori che fanno rifiorire la terra in Senegal
In Senegal un gruppo di pastori sta sperimentando il “mob grazing”, un’innovativa tecnica pensata per rigenerare pascoli degradati, aumentare la biodiversità e migliorare l’assorbimento dell’acqua in ambienti semi-aridi. Nello specifico si tratta di pascolare gli animali in spazi ristretti invece che in un terreno dispersivo, per brevi periodi, spostandoli poi su nuovi terreni. Un modo per fare respirare il suolo e favorirne la rinascita. Lo riporta il Guardian. L’intervento pilota del “mob grazing” è stato guidato negli ultimi mesi da Ibrahima Ka, capo del villaggio di Thignol. L’obiettivo è quello di rigenerare le praterie degradate dal sovrapascolo e dalla siccità dovuta ai cambiamenti climatici, migliorando la biodiversità e la capacità del suolo di trattenere acqua. Quello dei terreni degradati e aridi è un problema irrisolto nel Paese. Secondo il dottor Tamsir Mbaye, direttore del Pastoralism and Dryland Centre un terzo dei pascoli del Senegal è degradato, con poca erba e rari alberi. Le cause principali sono il sovrapascolo e le piogge irregolari provocate dal cambiamento climatico. Dopo soli 18 mesi, i primi risultati sono incoraggianti: grazie al mob grazing sono tornate specie di erbe e insetti scomparse da decenni. Nonostante questi primi buoni risultati, gli scienziati sono ancora scettici nel considerare questo metodo la soluzione definitiva per rigenerare i pascoli. Si tratta ancora di una sperimentazione e, secondo il Guardian, occorre trovare un equilibrio per evitare di danneggiare il suolo. Se applicato nel modo giusto può diventare un espediente efficace per affrontare la crisi climatica, anche in zone più aride del continente.   Africa Rivista
Anche la Rete Zero Pfas Italia alla Cop30 per chiedere la messa al bando universale dei Pfas
Anche la Rete Zero Pfas Italia è presente al Vertice dei Popoli COP30 che è aperto proprio oggi a Belèm in Brasile e proseguirà fino al 12 novembre con 250 delegazioni internazionali. E proprio stamattina abbiamo parlato con la portavoce della RZPI, Michela Piccoli, che insieme alla Mamme No Pfas di Vicenza sta portando avanti da anni una battaglia straordinariamente efficace per la totale messa al bando dei Pfas. L’abbiamo sentita proprio oggi, come sempre super positiva: “Sono qui dall’altra giorno, anche oggi è stata una giornata intensissima di incontri con queste comunità assediate da ogni genere di progetto cosiddetto di sviluppo, gravemente impattante sull’equilibrio di interi territori: grandi dighe, estrattivismo…  E’ davvero inquietante capire che ovunque la logica è la stessa, per quanto valide possano essere le obiezioni da parte delle comunità colpite, la vincono sempre loro… Ma per questo siamo qui, per capire come lavorare al meglio insieme su vari fronti: 1) acqua per la vita e non per la morte: 2) cambiare il modello per la gestione dell’energia e dell’acqua; 3) l’acqua e l’energia non sono merci; 4) fiumi liberi per popoli liberi! Fare rete è alla base del cambiamento, l’unione fa la forza! E soprattutto cercherò di far conoscere il più possibile questa nostra esperienza di Mamme No Pfas, perché mi sono accorta che non tutti sanno quanto sono pericolosi!” Tanti auguri a Michela Piccoli per le prossime intense giornate (domani toccherà a lei esporre la sua relazione) e a seguire ecco questo “Appello alla democrazia dal basso” diffuso nei giorni scorsi dalla Rete Zero Pfas Italia. Solo la costruzione di un’enorme e diffusa rete globale composta da città, territori, università, associazioni, ci renderà capaci di proteggere le fondamenta democratiche della società, attualmente sottoposte a una costante erosione da parte di istituzioni focalizzate esclusivamente sugli interessi economici di pochi potenti. Quegli stessi interessi che hanno avvelenato il territorio e le acque che stiamo cercando di proteggere. In un momento tanto buio è compito dei popoli e quindi dei singoli riuniti in reti di solidarietà, costruire una resistenza di diplomazia civile. Difendere democrazia e solidarietà internazionale per affrontare la finanziarizzazione della natura La grave compromissione del territorio e delle acque, che come rete ZeroPfas stiamo tentando di arginare, è in modo manifesto il frutto di un avido, insensato ed ottuso sfruttamento dell’ambiente. Un abuso miope, orientato al profitto immediato e totalmente incurante non solo delle conseguenze attuali, ma purtroppo anche di quelle a lungo termine per le generazioni future. E’ quindi fondamentale una cooperazione internazionale su temi declinati in modo diverso nei diversi territori, ma tutti ugualmente provenienti dalla stessa matrice di aggressione ai valori umani intesi in senso lato. Ingiustizie ambientali verso coloro che hanno meno contribuito alla crisi Concetto nel quale la Rete si può facilmente riconoscere, in quanto portatrice del dovere di salvaguardare cittadini inermi e ignari dall’esposizione a ciò che soggetti economici spregiudicati hanno sversato nelle acque e nei terreni. Abbiamo spesso posto l’attenzione sull’accumulo dei Pfas nell’organismo umano e sul loro essere disgraziatamente veicolati nel latte materno. Quale creatura può essere meno responsabile di tale degrado del valore e della qualità della vita di un neonato? Giustizia climatica, revisione del modello economico attuale, responsabilizzazione delle multinazionali Aspira precisamente a questi obiettivi il cammino impervio che la Rete ha intrapreso cercando di difendere i cittadini dai comportamenti voraci delle grandi aziende. Queste ultime, in nome del profitto, distruggono e compromettono al limite dell’irreparabile l’ambiente e le conseguenti condizioni di vita e di salute di chi vi abita. La produzione può e deve essere convertita verso schemi di sostenibilità ecologica, economica e sociale. Riconoscimento della natura come soggetto di diritti. Protezione della biodiversità Giungere a riconoscere la natura e gli ecosistemi come soggetti di diritto è un passaggio fondamentale nel tentativo di invertire la rotta di un capitalismo sfrenato e ormai morente, che mentre si autodivora distrugge il pianeta. La sentenza con cui un gruppo di donne peruviane del popolo Kukama è riuscito ad ottenere il riconoscimento dello status di soggetto giuridico del fiume Marañón è tutt’altro che poesia e speranza. E’ la base concreta per la costituzione di un comitato di bacino, soluzione che consentirà la partecipazione della società civile alla gestione del fiume e pertanto alla sua protezione dalle continue fuoriuscite di petrolio dall’oleodotto Nordperuano. Questa è la direzione nella quale tutti noi dobbiamo muoverci. Infine è possibile ravvisare una comunione di intenti nel mobilitare l’opinione pubblica, rafforzare la democrazia partecipativa e popolare, denunciare e fermare i passi indietro. Sono tutti capisaldi del tentativo di costruire un modello economico, culturale e sociale più dignitoso di quello attuale. Non dobbiamo lasciarci fuorviare dalla specificità degli obiettivi di singole associazioni o di questa nostra Rete in particolare. Il risultato che vogliamo raggiungere deve essere incastonato in un panorama più ampio. Infatti potremo arrivare alla meta solo aprendo i nostri orizzonti, collaborando e sostenendoci a vicenda con enti e organismi nazionali e internazionali. Le singole problematiche che ogni gruppo o rete cerca di fronteggiare sono il risultato di un diffuso e comune atteggiamento di produzione e commercializzazione improntato esclusivamente al profitto immediato, incurante di tutte le conseguenze ambientali ed umane che ne derivano. Lentamente, ma con ostinazione dovremo arrivare a modificare l’impianto ideologico, etico e culturale delle attività umane che si ripercuotono sull’ambiente; questo sarà possibile solo creando una comunicazione multilivello capace di sensibilizzare la comunità creando così la base per costruire diritto. Ci trovi anche su Facebook, Instagram, Twitter/X     Redazione Italia
“Biodiversità è vita”, un breve film di Navdanya International
Il cortometraggio “Biodiversity is Life” racconta un’esperienza di educazione ecologica che trasforma i giovani in custodi del futuro. Questo video documenta il progetto educativo “Biodiversità è vita“, co-finanziato dall’8 per mille dell’Unione Buddhista Italiana e della Chiesa Valdese e promosso da Navdanya International, che offre a giovani e comunità un percorso di scoperta e apprendimento sui temi della biodiversità, dell’agroecologia e della cura della terra. Un percorso che inizia in India, presso l’Università della Terra di Navdanya, che da oltre vent’anni accoglie studenti da tutto il mondo per trasmettere pensieri e pratiche dell’agro-ecologia. E’ proprio Vandana Shiva, presidente di Navdanya, a spiegare il legame fra la tutela della biodiversità e il nostro benessere fisico e spirituale. Un insegnamento che trova eco in Europa attraverso i programmi di formazione di Navdanya International. Attraverso immagini e testimonianze, il cortometraggio mostra come i partecipanti hanno esplorato le connessioni tra suolo, paesaggio, comunità e giustizia ecologica, sviluppando pratiche rigenerative e una profonda consapevolezza del loro ruolo come agenti di cambiamento. Una narrazione visiva che dà voce alle comunità, ai giovani, agli agricoltori e ai custodi dei semi che ogni giorno costruiscono democrazia dal basso attraverso la cura della terra e la difesa della diversità. Il film mostra come la biodiversità non sia solo un patrimonio naturale, ma il cuore pulsante di sistemi alimentari giusti, resilienti e realmente democratici. Attraverso testimonianze dirette e immagini dal campo, il cortometraggio riflette il nostro impegno politico: rigenerare ecosistemi e comunità, restituendo centralità alle persone e ai saperi locali nella governance alimentare. I programmi educativi di Navdanya International mirano a ispirare e dotare la prossima generazione delle competenze, delle conoscenze e dell’alfabetizzazione ecologica necessarie per sostenere comunità resilienti eque, eque ed ecologicamente consapevoli. Al centro del nostro lavoro c’è la volontà di creare legami profondi tra persone, terra, comunità, fattorie ed ecosistemi complessi che ci sostengono. Riprogettiamo la classe tradizionale trasformando il quartiere, le fattorie e la comunità stessa in veri e propri spazi di apprendimento politico e partecipato. La partecipazione attiva dei membri della comunità rende questo processo un’esperienza condivisa e viva, dove la democrazia alimentare si costruisce giorno dopo giorno. Il nostro metodo si basa sull’“imparare facendo”, accompagnato da uno scambio continuo di conoscenze tra generazioni. Così, i giovani diventano custodi di un sapere ecologico prezioso e protagonisti attivi del cambiamento nelle loro comunità, attraverso un rapporto diretto e concreto con la terra, coltivando un rispetto profondo per la complessità della natura e per la resilienza dei sistemi agro-ecologici. In questo modo, le nuove generazioni riconoscono il loro ruolo fondamentale come custodi dell’ambiente e cittadini consapevoli. Incoraggiamo una transizione verso pratiche di vita sostenibili che privilegiano la resilienza ambientale, la conoscenza locale e l’esperienza globale. Attraverso pratiche rigenerative, l’educazione ai principi dell’ecologia profonda e l’azione guidata dalla comunità, cerchiamo di costruire comunità resilienti che siano consapevoli dal punto di vista ecologico e siano in grado di intraprendere azioni significative per il pianeta. Questo video è un invito a unirsi a noi nella costruzione di un futuro in cui persone, culture ed ecosistemi possano coesistere in equilibrio e armonia. Navdanya International
Dalla parte del suolo e della biodiversità: il futuro sotto ai nostri piedi
Il suolo e la biodiversità sono due realtà profondamente interconnesse, elementi vitali per l’equilibrio ambientale e per il nostro futuro collettivo. Temi centrali per chi si occupa di ambiente, ma ancora troppo spesso trascurati nel dibattito pubblico. Per questo motivo, le associazioni 5R Zero Sprechi ed Evergreen Brescia promuovono una serata di approfondimento e riflessione aperta alla cittadinanza, che si terrà venerdi 24 ottobre alle ore 18.30, Auditorium Capretti Brescia. Due ospiti d’eccezione guideranno l’incontro: Il Prof. Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale e ambientale presso il Politecnico di Milano, autore di importanti pubblicazioni dedicate al tema della tutela del suolo. In questa occasione presenterà il suo ultimo libro, “Dalla parte del suolo”, un’opera che invita a rivedere il nostro rapporto con il territorio, a partire dalla consapevolezza del suo valore ecologico, culturale e sociale. Il Cav. Antonio De Matola, filosofo, botanico e curatore degli orti botanici di Ome, da anni impegnato nella valorizzazione della biodiversità vegetale e nella promozione di una cultura del rispetto per gli ecosistemi locali. A moderare la serata sarà la giornalista Simona Duci, da sempre attenta ai temi ambientali e alla narrazione del territorio. Durante l’evento sarà possibile acquistare il libro “Dalla parte del suolo” e partecipare al firmacopie con l’autore. L’ingresso è libero e domande, spunti e riflessioni da parte dei partecipanti saranno i benvenuti. Un appuntamento pensato per chi ha a cuore il futuro del nostro territorio e desidera approfondire, con competenza e passione, uno dei temi più urgenti del nostro tempo. Redazione Sebino Franciacorta
Valentinelli: «La Rete ecologica va ampliata e potenziata»
Il Piano regolatore di Roma approvato nel 2008 fra gli elaborati prescrittivi aveva 11 fogli a scala 1:20.000 della Rete Ecologica. Oggi dopo quasi vent’anni dall’approvazione di quel Piano, l’Amministrazione ha deciso di introdurre alcune varianti alle Norme Tecniche di Attuazione, ma non ha in alcun modo previsto l’aggiornamento degli elaborati della Rete ecologica. Molte associazioni e vertenze territoriali hanno chiesto che la Rete ecologica sia ampliata al fine di garantire una migliore qualità dell’abitare per la sua importanza nel rafforzare un sistema di collegamento e di interscambio tra aree ed elementi naturali isolati e contrastare la frammentazione e i suoi effetti negativi sulla biodiversità.  Le lotte territoriali sono state gli ultimi baluardi in difesa dei diritti della cittadinanza e dell’ambiente, e hanno nel tempo permesso la difesa di ampi spazi naturali. Per sottoscrivere l’appello  inviare l’adesione a forumenergie@inventati.org Avete lavorato da tempo sulla questione ecologica e le aree verdi di Roma, mettendo in risalto come il consumo di suolo impedisca l’attuazione del Regolamento Europeo sul ripristino della natura all’interno delle aree urbane. Avete formato un Comitato per stendere l’appello? Se si da chi è formato? Ad aprile, quando il Consiglio comunale ha iniziato a discutere della revisione delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore vigente, trenta associazioni e vertenze territoriali si sono incontrate e dalla discussione è uscito un documento nel quale si chiedeva all’amministrazione di aggiornare, insieme alle Norme tecniche, anche gli elaborati della Rete ecologica. Fin dall’inizio hanno partecipato il Forum Territoriale Permanente Parco delle Energie ex SNIA, il Comitato Pratone di Torre Spaccata, Quarticciolo Ribelle, il Comitato di Quartiere Villa Certosa, l’Associazione Roma Ricerca Roma, Italia Nostra, il Comitato Si al Parco No allo Stadio, Italia Nostra,  Fridays For Future, Carte in Regola e molti altri. Lo sviluppo della città ha tenuto conto della rete ecologica e di come la  crisi climatica, che si è aggravata da allora, renda necessario un cambiamento delle politiche di trasformazione del territorio? Roma è cresciuta, si è trasformata, i valori ambientali sono stati stravolti, molti spazi sono stati edificati, mentre le aree indicate negli elaborati della rete ecologica sono rimaste immutate. Oggi bisognerebbe ridisegnare il sistema dei parchi, le aree protette e i corridoi ecologici per garantire i varchi fisici e funzionali aperti sull’Agro e il collegamento fra le aree verdi. Sembra invece che le scelte dell’amministrazione non attribuiscano il giusto valore ai temi ambientali e climatici nel programmare le trasformazioni urbane. Il consumo di suolo non si è mai fermato, neanche negli anni della pandemia e i cambiamenti climatici in queste condizioni provocano devastanti effetti ecologici e sanitari. Il consumo di suolo cancella 20 ettari al giorno di aree agricole e naturali e si agisce come se la risorsa suolo fosse inesauribile. La modifica delle Norme Tecniche del PRG, oltre a rendere più “snelle” le procedure per ottenere autorizzazioni a chi vuole costruire, hanno previsto un aggiornamento degli elaborati della rete ecologica? Il piano regolatore approvato nel 2008 al Titolo III regolamenta il sistema agricolo e ambientale e afferma che tutte le componenti della Rete ecologica servono a garantire il funzionamento ecologico del territorio. Oggi dopo quasi vent’anni con tutte le trasformazioni avvenute nel territorio pensiamo sia necessario per tutelare gli ecosistemi esistenti aggiornare il disegno e la normativa della Rete ecologica. Molte zone andrebbero inserite nella rete ecologica perché hanno assunto un grande valore naturalistico, zoologico e botanico e queste aree vanno considerate inedificabili. La Rete deve essere potenziata e non considerata inutile, devono essere inserite aree utili a mitigare il clima e assorbire le acque. Anche i terreni frammentati possono contribuire alla riconnessione di componenti isolate fra il tanto costruito. Su questi temi abbiamo fatto delle proposte e aspettiamo di vedere come saranno valutate in sede di approvazione delle nuove norme in Consiglio Comunale. Come intendete portare avanti la battaglia per garantire a tutte le persone un eguale diritto al benessere sociale, sanitario, climatico e ambientale? Abbiamo scritto un appello che ha raccolto già numerose adesioni. Pensiamo che tutta la città debba prendere consapevolezza che l’attività edilizia inarrestabile con i suoi premi edificatori, incentivi volumetrici e monetizzazione degli standard impedirà di avere servizi adeguati, spazi verdi pubblici, qualità dell’aria e dell’abitare. Sarà negato il benessere ambientale, sociale, sanitario e climatico. Le piogge torrenziali e le bolle di calore renderanno la città sempre più invivibile. Il potenziamento della Rete ecologica, oltre a garantire la conservazione della biodiversità, consentirà la fruibilità delle aree per le popolazioni locali, con la valorizzazione del sistema paesistico con funzioni di tipo ricreativo e percettivo. Si potranno creare percorsi a basso impatto ambientale, sentieri e piste ciclabili, che consentano alle persone di attraversare il territorio e di fruire delle risorse paesaggistiche. La difesa dell’area dell’ex-fabbrica Snia Viscosa e del lago, che è oramai una parte importante del recupero naturalistico del territorio, a che punto è? Dopo trent’anni ancora non si è riusciti a tutelare e valorizzare interamente l’ecosistema e la memoria storica  della fabbrica. Le pressioni della proprietà dell’area continuano a essere molto forti. Abbiamo sventato gli attacchi che volevano fare lì un polo natatorio per i Mondiali del 2009, poi le proposte di residenze universitarie private e di un polo logistico. Dall’attuale amministrazione è stato rilasciato un titolo edilizio per 280mila metri cubi. Noi continueremo a batterci per l’esproprio totale dell’area dell’ex-Snia, la demanializzazione del Lago Bullicante e delle sue sponde, la definizione di un progetto di recupero coerente, sostenibile e compatibile con la tutela del Monumento Naturale, la salvaguardia della biodiversità dell’ecosistema del Lago e il contrasto ai rischi climatici. La copertina è a cura di Lago Bullicante ExSnia SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Valentinelli: «La Rete ecologica va ampliata e potenziata» proviene da DINAMOpress.
Un approccio empatico ai dilemmi dell’ambientalismo contemporaneo
L’ultimo libro in ordine di pubblicazione di Laura Boella, Per amore del mondo. L’ecologia e la nuova condizione umana (Castelvecchi, 2025), ha un titolo che in tempi così rabbuiati alletta alla lettura donne e uomini che hanno a cuore la questione ambientale e la condizione umana. Docente di Storia della filosofia morale e Etica dell’ambiente, Laura Boella ha dedicato molteplici studi a György Lukacs e Ernst Bloch così come alle filosofe Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano e alle scrittrici imperdonabili del Novecento (Etty Hillesum, Cristina Campo, Ingeborg Bachmann, Marina Cvetaeva); fondamentali sono altresì le sue ricerche intorno alla conoscenza e alla pratica dell’empatia.   Il titolo del libro rimanda all’opera di Arendt pubblicata nel 1958, Vita activa. La condizione umana, che avrebbe dovuto intitolarsi “Amor Mundi”; a essa oggi si volgono quante/i occupandosi di Antropocene si interrogano sull’idea di una nuova condizione umana nel processo di cambiamento in corso, visto perlopiù senza sbocchi positivi; invece Boella, aliena da angosce apocalittiche e lusinghe post-umane, ci invita a fare nostra la sensibilità della politologa tedesca naturalizzata statunitense «per una realtà in trasformazione, per fenomeni inediti che richiedono un nuovo pensiero e nuove forme di convivenza» e a «scrivere, parlare, discutere, mettere in atto iniziative per affrontare la grande scommessa di rinegoziare il nostro patto con l’ambiente» (p. 12).    Di fronte a un cambiamento dagli esiti imprevedibili confermato dai dati delle Scienze della Terra a partire dagli anni Ottanta riguardo all’interazione tra i processi biologici, chimici e fisici del pianeta e le attività umane e in presenza di una consapevolezza crescente che la soluzione della questione ecologica non può consistere soltanto nel non oltrepassare le cosiddette soglie di sicurezza, si è affermata negli ultimi anni l’idea di giustizia del sistema Terra ad opera della scienziata sociale indiana Joyeeta Gupta. Un’idea di giustizia ispirata a un ordine di rapporti fra gli esseri viventi tale da rendere gli spazi terrestri abitabili da tutti e in particolare da chi patisce, a causa delle ingiustizie perpetrate dai dominatori di turno, condizioni di esistenza segnate dalla fame, dalla sete, da malattie che sarebbero facilmente curabili, da mancanza di infrastrutture… E per di più in territori spogliati delle loro ricchezze ad opera delle ex potenze coloniali e ridotti dagli attuali monopoli e potenze finanziarie a discariche a cielo aperto dove finiscono gli oggetti usa e getta che la società dei consumi illimitati rende fruibili a noi priviligiati. Si tratta in definitiva di redistribuire le risorse terrestri secondo principi di equità, in direzione contraria al persistere delle disuguaglianze sociali oggi più acuite che in passato, e di trovare metodi e mezzi per ridurre accumuli e consumi che gravano sugli ecosistemi terrestri. Laura Boella delinea in modo esemplare l’inedita condizione di vulnerabilità che noi umani avvertiamo «di fronte a una realtà biofisica in cui tutto è interconnesso, si trasforma, glissa, scivola, come i ghiacciai» (pp. 15-16) e propone un approccio empatico alla questione ecologica. Dopo aver chiarito che il nucleo di fondo dell’empatia è la relazione che si vive nell’esperienza degli incontri con un altro individuo umano e non umano, animato e inanimato, con gli echi che giungono a noi dai paesaggi che abitiamo, con i suoni che scegliamo o ci capita di ascoltare, la ricerca della filosofa interroga la possibilità di superare il punto di vista antropocentrico e di «adottare una prospettiva che tenga conto della vastità dell’universo biofisico» facendo leva sulla capacità empatica. Questa «si situa  nell’angolo d’incidenza tra i singoli individui con i loro legami, le loro vulnerabilità e potenzialità, e la pluralità di forze agenti nell’universo fisico-materiale» (p. 18).  Collocandosi nel punto d’intersezione dell’esperienza empatica, l’autrice parte da sé, dalla sua esperienza anzitutto di camminatrice nei sentieri delle Alpi Marittime che hanno segnato il suo percorso di vita e di pensiero, registra il suo impatto con i mutamenti intervenuti nella sua montagna, la Maledìa, custode di una memoria collettiva e s’inoltra nelle ripercussioni su di sé del contatto con il mondo in seguito al suo insediamento a Milano, in «un paesaggio ibrido». La sua esperienza è toccata dunque da una varietà di paesaggi: «i paesaggi del cuore (delle passioni amorose e alpinistiche), i paesaggi contaminati dalla guerra e dalla persecuzione antiebraica, i paesaggi trasformati dallo sviluppo industriale, i paesaggi dipinti e scritti da poeti e pittori tra Settecento e Ottocento, i paesaggi metropolitani composti di schegge di storia, memoria, natura, tecnologia» (p. 38).    Interessata alle empatie, Boella propone l’idea di estenderne le modalità relazionali comprensive della cura e della compassione al mondo più che umano nel contesto dell’ecologia, un’idea che richiede una trasformazione radicale dell’esperienza umana individuale, perché nel multiverso circostante non occupiamo più una posizione centrale, essendo cambiato il nostro immaginario e con esso le interazioni con i corpi e gli oggetti che ci troviamo vicini e lontani:  «l’esperienza empatica» diviene pertanto «un antidoto nei confronti dell’impoverimento dei parametri sensuali e affettivi che nutrono il senso di realtà, provocando il sentimento d’impotenza oggi molto diffuso» (p. 44).  Per superare l’apatia, l’ansia, il senso di perdita di fronte alla crisi ecologica e sociale determinata da processi globali governati da forze anonime (lo Stato, la finanza, il turbocapitalismo, le emissioni di anidride carbonica…), Boella invita a tenere conto dell’approccio empatico che non offre soluzioni, ma sollecita a prendere atto delle relazioni che ci attraversano e ci trasformano trasformando la nostra visione del mondo. Abitiamo un mondo in cui coesistono diverse e varie comunità di organismi interdipendenti e interconnessi; dato il mutamento di paradigma, la specie umana non può più quindi arrogarsi alcuna superiorità sulle altre forme di vita; e ciascuno/a di noi  non può più continuare ad assistere  da spettatore alle trasformazioni in corso, bensì avverte la necessità di fare spazio dentro di sé al coinvolgimento nella relazione con ciascuna delle altre entità, entrando così «in contatto con la trama delle infinite differenze che fanno di ogni essere animato e inanimato un’occasione di meraviglia, di minaccia, di indignazione per la crudeltà e il disprezzo con cui è trattato» (p. 51).    Ma come tenere insieme «la prospettiva umana e l’orizzonte impersonale dei processi del pianeta Terra in cui siamo implicati»? (p. 55). Come superare il disorientamento esistenziale, etico e politico nel vivere il tempo della storia umana e il tempo geologico e biologico nel mondo che condividiamo con gli altri umani e non umani e in un mondo esistito prima di noi e che esisterà dopo di noi? Boella richiama la prospettiva dello studioso di origini indiane Dipesh Chakrabarty, il quale «ritiene che i cambiamenti nel sistema Terra provocati dal capitalismo e dalla tecnologia non siano sufficienti per spiegare la situazione attuale poiché restano aperti nei loro esiti, combinandosi con agenti indipendenti da quelli umani. Gli esseri umani da questo punto di vista sono nella stessa posizione delle altre specie, in competizione per la sopravvivenza e “incidentali” per quanto riguarda la storia del sistema Terra che contempla il ruolo di molteplici co-attori. Ciò significa che il pianeta non si adatta al linguaggio della speranza e della disperazione, ancor meno alle illusioni e agli inquietanti effetti del geoengineering» (pp. 58-59).    Dinanzi al tempo breve delle decisioni umane e al deep time delle trasformazioni del nostro pianeta in cui siamo tutti coinvolti, interconnessi come siamo con il multiverso biofisico, se desideriamo fare davvero i conti con il presente  è necessario cambiare modi di sentire, pensare e agire, e per farlo occorre, scrive Boella,  il coraggio  di «un’immaginazione che aiuti a entrare in contatto con l’imprevisto dell’universo che ci circonda e favorisca un ritorno alla realtà» (p. 67), un’immaginazione creativa che nulla ha a che vedere con le illusioni  e le fantasticherie in cui volenti o nolenti siamo immersi e da cui siamo sommersi. È questo il coraggio che alimenta le pratiche empatiche di scienziate/i, storiche/storici, scrittrici e scrittori, artiste/i che offrono «una serie di strategie discorsive, visuali e sensuali grazie alle quali i dilemmi dell’ambientalismo contemporaneo diventano occasioni di esperienza personale, vengono incontrati in luoghi concreti attraverso l’osservazione diretta, la presenza fisica e la cooperazione con altri, per trarne ispirazione e motivazione ad agire – in una parola, speranza» (p. 70).  Alle pratiche empatiche di una filosofa sul campo (Dehlia Hannah), di uno storico del Romanticismo (Gilles D’Arcy Wood), di una biologa della conservazione (Julianne Lutz Warren), di una naturalista diventata scrittrice (Helen Macdonald), di un gruppo di scienziati che sperimentano la riproduzione in vitro dei coralli nello scantinato di un museo (Project Corals) e di un fotografo (Edward Burtnsky) sono dedicate le pagine più commoventi del libro Per amore del mondo. Si tratta di storie di esperienze vissute fuori dagli archivi, dai laboratori, dai musei che tengono aperto lo spazio del futuro e trasmettono il senso e il valore della capacità empatica, vale a dire la capacità di scommettere sull’uscita dalla solitudine, dall’apatia, dal disorientamento e di mettersi in ascolto di esseri concreti minacciati o estinti, di rispondere corpo e anima al loro richiamo, di partecipare dunque attivamente e responsabilmente in prima persona al destino del mondo stimolando l’altrui collaborazione creativa, e non la competizione, e favorendo l’incontro e la nascita di nuovi legami e nuove comunità.      Da queste pagine traggo il racconto crudele e surreale della cicogna Mènes a cui fu applicato nel 2013 in Ungheria un contrassegno satellitare: «Dopo la partenza dal nido, Mènes viaggia verso sud attraversando Romania, Bulgaria, Grecia, Turchia, Siria, Giordania e Israele, atterra in Egitto nella valle del Nilo, viene catturata da un pescatore e data in custodia alla polizia. Essendo dotata di un dispositivo elettronico sospetto poteva trattarsi di una spia» (p.85); liberata una volta fugati i sospetti di spionaggio, la si ritrova vicino ad Assuan oramai ridotta a un misero cadavere infangato. In un mondo nel quale abbondano i tipping points (punti di non ritorno) non è facile parlare di speranza, commenta Boella, che nondimeno evoca la Spes di Andrea Pisano (Battistero di Firenze, porta sud) con le parole di Walter Benjamin: «Seduta, leva impotente le braccia verso un frutto che le rimane irraggiungibile. E tuttavia è alata. Nulla di più vero» (p.86).    A mio parere Per amore del mondo risponde alla crisi in corso che chiama in causa non solo i fattori economici e politici ma anche i nostri vissuti, il nostro coinvolgimento sensibile ed emotivo e ci sprona a prendere atto della «nuova condizione umana» in un mondo che non ci è più familiare e nel quale non siamo solo agenti politici interdipendenti ma una vera e propria forza geologica interconnessa ad altre forze geologiche sulle quali non possiamo esercitare alcuna sovranità. Laura Boella ha ragione nel definire l’empatia come l’unica capacità all’altezza dei tempi che stiamo vivendo:  anche se è consapevole che con essa non si salverà il pianeta, si potrà tuttavia «immaginare  nuovi modi per abitare la Terra come scena condivisa» (p. 106). Una scena «in cui viene in primo piano il mondo che sta “tra” le persone, nella pluralità dei contesti sociali, antropologici, materiali. […] Questo è il mondo che deve durare, rilanciando le finalità del vivere insieme: come vivere, come agire, come lavorare sulla propria singolarità, sull’autonomia e la libertà autentiche di ognuno aprendosi al mondo, ossia a un sistema di percezioni e di relazioni più ampio che includa tutti gli abitanti del pianeta» (pp. 109-110).   Redazione Italia
Sentirsi parte di una narrazione a più voci
TRA MILLE DIFFICOLTÀ E CONTRADDIZIONI IL MONDO CONTADINO RACCOGLIE OGGI SEMPRE PIÙ ESPERIENZE DIVERSE DI RITORNO ALLA TERRA E DI CREAZIONE DI COMUNITÀ LEGATE ALL’AGRICOLTURA CONTADINA, COME PRATICHE CARICHE DI SENSO, RICCHE DI NUOVE E VECCHIE DOMANDE. QUESTO UNIVERSO È GIÀ IN GRADO DI INDICARE STRADE DI DISOBBEDIENZA, OFFRIRE SAPERI, ROMPERE L’INDIVIDUALISMO DELLA SOCIETÀ ATOMIZZATA. SI TRATTA PERÒ DI NON DIMENTICARE MAI CHE I CAMBIAMENTI CULTURALI NON AVVENGONO IN MESI O ANNI MA IN DECENNI E PER QUESTO QUALSIASI ECOSISTEMA DEVE RESTARE APERTO, MA SI TRATTA ANCHE DI NON DELEGITTIMARE, SCREDITARE, ISOLARE ESPERIENZE DIVERSE DALLA PROPRIA. ALCUNE RIFLESSIONI DALLA TRE GIORNI “STORIE E RESISTENZE CONTADINE” IN VAL PELLICE Raccolte d’autunno: Ortica per il pasto, Prugnolo-Sambuco&Biancospino per la composta. Foto di Daniela Di Bartolo -------------------------------------------------------------------------------- In giugno ho partecipato per un giorno e una notte all’incontro “Storie e resistenze contadine” in Val Pellice. Un luogo incantevole, una cornice bella e accogliente, fra uno spazio per le tende, un prato al centro che ospita un grande cerchio, un bellissimo torrente d’acqua fresca e cristallina che attraversa lo spazio comunitario quasi a rigenerarlo e a ricordare che nulla è fermo. E ancora: una cucina aperta e un operoso collettivo che sforna ottimo cibo, una spina di birra artigianale e un box di ottimo barbera a offerta libera stanno a ricordare che la fiducia è una pratica e un esercizio politico essenziale. Una comunità biodiversa si pone delle domande nella creazione di esperienze e pratiche di contadinanza a partire da una critica radicale al modello dominante che considera la città come il grande parassita, il mostro che tutto colonizza, tutto sussume, tutto mercifica, tutto intossica e abbruttisce fuori e dentro di noi. La critica alla città come fonte ed emblema del problema, contesto mortifico da lasciarsi alle spalle per dare vita ad altre forme di economia e di autonomia, a partire dalla cura della terra come cura di noi stessi e noi stesse e dall’autoproduzione di cibo, come primo passo di autosussistenza e autodeterminazione. Città come epicentro dell’inutile e del fittizio, che non risponde ad alcun bisgno se non a quello della sopravvivenza e delle perpetuazione del capitalismo. La città irradia modelli e gerarchie come fossero assiomi assoluti e immodificabili ed espande la dipendenza dal denaro e la cupidigia dell’accumulo come unica prospettiva che avviluppa tutto, a partire dal pensiero. Nella convivialità dell’incontro colpisce la presenza giovanile, che costituisce la maggioranza delle e dei presenti e l’eterogeneità dei partecipanti, tra chi da tempo lavora con la terra, chi si sta avvicinando, chi ne è affascinato e sta pensando a come lasciare la città, chi si muove in funzione di raccolte e lavori temporanei senza avere riferimenti fissi. C’è chi conduce piccole aziende agricole che di fatto sono piccole imprese, chi non ne vuole saperne di burocrazia e compromessi e si dedica a sviluppare progetti di sussistenza nell’informalità, chi in modo comunitario, chi in forma collettiva. Diverso anche il rapporto col denaro tra chi riceve contributi pubblici per portare avanti il proprio progetto e chi li rifiuta, chi ha contratto dei debiti per avere accesso a trattore e altre forme di tecnologia e vive fatiche e ansie legate a mole di lavoro, costi e debiti che allontanano dalle speranze originarie di una vita armonica e serena in natura e chi ha deciso di proseguire secondo un approccio rigorosamente low tech, vivendo diverse forme di fatiche. Una ragazza racconta il timore di lasciare la città e un lavoretto che le garantisce delle entrate certe anche solo per mantenersi una macchina e qualche minima tutela e certezza. Nella pluralità delle visioni e nell’apertura del confronto, un contadino della Val Pellice contesta il carattere antispecistico dato alla tre giorni e al relativo menu. La dimensione del rapporto con le bestie anche crudele ma non industriale fa parte dell’agricoltura, delle pratiche ancestrali e della storia dell’uomo (leggi anche ). Tra diversi racconti ed esperienze che esprimono soprattutto spinte embrionali e recenti tentativi di avvicinarsi alla terra, spiccano esperienze più solide, durature e con le idee chiare. Atelier Paysan con il suo articolatissimo lavoro “Liberare la terra dalle macchine” approfondisce nella storia i meccanismi politici, economici e culturali di espropriazione che hanno relegato il settore primario ai margini delle civiltà europee e denuncia le minacce e i pericoli di controproduttività insiti nell’agricoltura 4.0, dominata dall’alta tecnologia e dalla dipendenza da grandi capitali, dalla proprietà delle sementi e dai nuovi ogm. A fronte delle concrete minacce rivolte alla sovranità alimentare di tutti e tutte, Atelier Paysan propone la sfida di un ritorno diretto alla terra per un milione di contadini e del recupero delle pratiche, dei metodi e dei contenuti dell’educazione popolare per un cambiamento più profondo e integrale. Per la rivoluzione sociale sono necessarie alleanze e strategie con vari settori della popolazione, per cambiare i rapporti di forza a partire dal legame con la terra. Servono ecosistemi aperti e dinamici, non esistono isole felici: la comunità chiuse alla lunga implodono… Il livello e la portata della discussione si alza molto. A comprenderlo e reggerlo ci sono diversi contadini storici. Nonostante il Italia le realtà agricole, controllate da grandi organizzazioni di secondo livello molto colluse col sistema, stentino a dar vita a movimenti politici di massa, è rimasta viva dall’inizio del terzo millennio una rete di agricoltori che era riuscita nel 2013 a fare approvare una legge nazionale che definiva il concetto di “Contadinanza”, a protezione dalle politiche, dalle leggi e dalle normative che privilegiano le grandi imprese. L’impegno, seppur frastagliato, era quello di dar vita a cooperative territoriali integrali, che possano garantire sicurezza alimentare e sociale sui territori, con l’idea di uscire da una dimensione di minoritarietà e marginalità, per fondere i movimenti per i diritti politici e sindacali con quelli contadini, in nome della sovranità territoriale locale. Un tentativo che con molta fatica ha coinvolto circa 250 realtà agricole solo in Piemonte… A fronte di tante esperienze diverse e di nuove e vecchie domande quello che accomuna è vedere nel ritorno alla terra e nella creazione di comunità radicate nella terra una possibile via per resistere al dominio, e praticare sentieri generativi e in qualche modo carichi di senso, maggiore libertà e felicità mentre il futuro si fa sempre più tetro e il disastro intorno incombe. Accomuna il rifiuto di un mercato che penetra ogni ambito della vita in una escalation che porta inevitabilmente alla guerra, di un paesaggio dentro e fuori di noi che si uniforma, di un sistema normativo inibente e senza senso che atrofizza gusto e sensi, rende asettiche pratiche e relazioni e insapore il cibo, di un sistema di controllo che si articola in vari apparati e disegni concorrendo in modo coordinato alla devastazione. Espropriazione dell’acqua, della terra e della possibilità di coltivare e produrre cibo sono la prima forma di attacco e annichilimento, materiale e spirituale. In questo senso un pensiero non può che andare alla Palestina. In questo senso un movimento verso un ritorno reale alla terra pare l’unica forma di irriducibilità e resistenza. Nell’incontro emerge dunque la visione di un sistema totalitario e totalizzante che fa della mercificazione, dell’estrattivismo, del controllo e della paura le principali forme di dominio, dall’altra una molteplicità di esperienze e percorsi di lotta ed emancipazione a partire dal ritorno alla terra. In realtà quello che percepisco e che vorrei mettere in luce in questo testo è che il problema è non solo esterno ma anche interno al movimento. Il problema siamo anche noi. Mi riferisco, di fondo, a una mancanza di rispetto ai percorsi personali e collettivi. Quella biodiversità delle esperienze che sopra descrivevo, anziché essere un punto di forza diventa un terreno di conflitti, denigrazioni, screditamenti, diffamazioni, diaspore. Si erigono feudi per mettere in campo espressioni di narcisismo, edonismo, nichilismo per espiare drammi, fallimenti, frustrazioni, ambizioni e incapacità personali. Continuiamo a guardare, denunciare, colpevolizzare il nemico fuori senza riconoscere i limiti e blocchi che abbiamo dentro. “La mia o la nostra esperienza è sempre la più giusta, la più rivoluzionaria e radicale…”. Manca di fondo un’etica e una pratica fondata sul rispetto e il supporto ai percorsi altri. Uno dei principali ostacoli alla creazione di un movimento più allargato e al dipanarsi di alternative credibili è la tendenza interna ai movimenti di giudicare, delegittimare, screditare, isolare esperienze diverse dalla propria che rappresentano invece percorsi che ciascuno, secondo propri equilibri e sensibilità, intraprende per provare a vivere nel modo più libero e coerente possibile gestendo le proprie contraddizioni in una cornice oppressiva e in un momento storico deprimente ma proprio per questo colmo di domande e di possibili scelte radicali. In permacultura il concetto di omeostasi si riferisce alla capacità della natura di rafforzarsi e far fronte ai pericoli grazie alla capacita di creare relazioni tanto più solide quanto più agite da soggetti biodiversi. Noi facciamo esattamente il contrario e in questo modo ci indeboliamo. Si tratta invece di accogliere i precari equilibri e gli ecosistemi personali che ogni persona e realtà sta costruendo e di inventare forme creative di mutuo aiuto, fuori dal sistema e dal pensiero dominante. Evitare il reduzionismo che porta a vedere il mondo e le prospettive di cambiamento da un solo tema e angolatura, visto che tutto è collegato. Ciascuno di noi contiene moltitudine e si tratta di accettare che ognuno sceglie e riesce a gestire ambiti di antagonismo e radicalità e ambiti di negoziazione e convergenza perché non ne ha le forze o sente anche di impazzire e implodere nel combattere contro tutto e tutti. In qualche caso riesce ad agire senza denaro e secondo le pratiche che sente proprie dedicando tempo, energie e amore, in altri deve scendere a patti. Chi decide di occupare e chi ritiene aver più margine di azione tenendo aperto un circolo ARCI, chi decide di comprare la terra e chi valuta che la terra non può essere comprata, chi ritiene imprescindibile il rifiuto verso ogni pratica burocratica e chi decide di aprire una piccola impresa o cooperativa agricola per avere risorse per partire e riconoscersi un reddito, chi sceglie per la certificazione biologica e chi no… si tratta di porsi in una posizione di ascolto e apprendimento senza la pretesa di sentirsi più rivoluzionario e più radicale degli altri. Per essere più esplicito: si tratta di imparare a non romperci i coglioni e di perderci in quisquiglie e rivalità personali e di utilizzare tutte le energie a supportarci, a creare un ecosistema basato su rispetto e fiducia e una cornice versatile in cui tutti e tutte in diversi momenti possano trovare spazio e dare supporto, secondo una disciplina e delle pratiche condivise. Stefania Consigliere ci ricorda il valore della molteplicità. Siamo cresciuti nel dualismo dell’o/o, pro o contro, con me o contro di me invece dobbiamo imparare a ragionare con la categoria dell’e/e…. Più esperienze, più relazioni, più percorsi, più forme di intreccio, più esiti, più collaborazione. Di fondo più rispetto e supporto riconoscendo che non ci siano gerarchie ma nemmeno uniche certezze e verità o modelli validi per tutti. Servono disobbedienza, opposizione, massa critica, esperienze concrete che possano essere di riferimento. Servono saperi che rischiano di essere persi e depredati. Saperi tecnici legati alla natura e all’agricoltura ma anche saperi di base. Anche cooperare, come ci ricorda sempre Stefania Consigliere, è un sapere, una parte di noi da riprendere e coltivare in una società atomizzata che ha fatto dell’individualismo l’unica forma di sacralità fino a farci sentire tutti soli e divisi… Si tratta di interrogarsi sul lavoro: ripensare forme di lavoro basate sull’economia di sussistenza e centrate sul valore d’uso del nostro impegno e delle nostre relazioni di scambio e/o difendere i diritti conquistati dai nostri padri e nonni all’interno dei rapporti di lavoro salariato? Per quale approccio tendere considerando che ciascuno dei due approcci è portatore di un diverso modo di intendere il tempo, le relazioni, la proprietà? Si tratta di calibrare sforzi e fatiche legate al lavoro, stabilire un equilibrio nella gestione del tempo, mettendo al centro e calibrando il valore del limite e della misura che per ciascuno è soggettivo e diverso. Si tratta di provare a star bene ricostruendo un tessuto di relazioni resistenti, nella convivialità, secondo l’accezione di Ivan Illich, equiparando il più possibile mezzi e fini: liberarsi liberandosi! I cammini si tracciano camminando, caminando se hace il camino… Ma ci vuole tempo… Sempre Stefania Consigliere ci ricorda che i cambiamenti culturali non avvengono in mesi o anni ma in decenni. L’importante è che gli ecosistemi siano aperti nello sviluppo e nelle relazioni e che dibattito e confronto siano ricchi, generativi e trasformativi. Il potere si gongola della nostre divisioni, deride i nostri numeri, si beffa delle nostre fatiche ma non dorme sonni tranquilli quando sappiamo organizzarci, radicare delle pratiche e delle esperienze credibili che sappiano contaminare e avvicinare altri giovani (non a caso si discuteva a Monza come a Venaus come oggi i più giovani siano le principali vittime delle più severe repressioni, quasi in una logica preventiva e intimidatoria). Uno dei più grandi apprendimenti che possiamo acquisire oggi è l’importanza della centratura personale. La dimensione delle emozioni e dello spirito che aiutano nelle scelte. Forse non è tanto l’appartenenza alla classe, non sono gli slogan e le parole d’ordine di un movimento o di un’ideologia che ci portano a scelte e percorso coraggiosi ma è un profondo sentire personale, una connessione con se stessi, col pianeta, con la vita, col genius loci dei territori che abitiamo, le relazioni e le forme di armonia invisibili che ci legano agli altri, umani e non. Forse è questa parte del sentire, a volte estromessa dai movimenti più orientati a sensi di appartenenza basati su altre categorie e dimensioni, quella che può dare autenticità e profondità alle scelte e favorire tante contaminazioni liberatrici. Rassegnazione, disincanto, senso di inutilità sono tra le principali armi del potere per infondere passività, assuefazione e sottomissione. Come ci suggerisce Marco Deriu la rabbia non può essere l’unica emozione che ci muove. La rivolta passa dal reincanto del mondo, dal ritrovare meraviglia, gioia, magia, dal riappropriarsi della consapevolezza di sé, coltivando l’immaginazione del possibile. Sentirsi parte di una narrazione a più voci, che faccia del valore e della pratica della biodiversità il proprio paradigma, senza dover aderire a un modello monolitico o a delle certezze definitive e incontrovertibili da difendere, ci può aiutare a trovare lo spirito e il coraggio per affrontare sotto mille forme e prospettive l’attacco all’umano e al pianeta da cui insieme dobbiamo difenderci contrattaccando. La chiave della biodiversità ci può anche aiutare a vedere intorno a noi tanti e sempre nuovi possibili amici e alleati e a trovare nuove chiavi per interpretare incontri generativi ed esperienze significative come quelle vissute in Val Pellice. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Sentirsi parte di una narrazione a più voci proviene da Comune-info.
Il concerto all’alba con Bucalone one man show di domenica 24/08/2025 a Torre Gianola di Minturno (Latina) non va autorizzato
Il Coordinamento CI. T.A.N.G.E. si oppone alla realizzazione dei grandi concerti estivi in un’area ad alto valore ecologico e in violazione delle normative nazionali ed europee. Il Coordinamento Nazionale C.I. T.A.N.G.E., che riunisce oltre cinquantacinque associazioni nazionali e locali impegnate ad assicurare la tutela dell’ambiente dai grandi eventi programmati in ambienti naturali, al fine di scongiurare la realizzazione del cosiddetto “Concerto all’alba con Bucalone One Man Show”, programmato in località Torre di Gianola (Minturno – LT) per il giorno 24/08/2025 ha appena inviato una formale diffida al Comune di Minturno (LT) e, per conoscenza, alla Regione Lazio, all’Ente Parco Naturale Regionale “Riviera di Ulisse – Gianola e Monte di Scauri” ed al Gruppo Carabinieri Forestale di Latina. Nel documento il Coordinamento avverte che se la manifestazione si svolgesse, nonostante la mancata attivazione della necessaria procedura di Valutazione di Incidenza Ambientale, ci sarebbero conseguenze penali per gli organizzatori e le amministrazioni che autorizzassero la manifestazione. Lo svolgimento della manifestazione, infatti, è programmato nel territorio del Parco Naturale Regionale “Riviera di Ulisse – Gianola e Monte di Scauri” e in quello dell’area della Rete Natura 2000 dell’Unione Europea Zona di Speciale Conservazione n. IT6040023 “Promontorio Gianola e Monte di Scauri”, dove sono presenti 7 habitat e 10 specie di interesse UE, alcuni dei quali considerati in stato di conservazione inadeguato. Tra le pressioni/minacce sullo stato di conservazione di questi habitat e di queste specie è citata, nelle misure di conservazione sito-specifiche obbligatorie per legge (approvate con D.G.R. n. 160/2016 e con D.M. del 06/12/2016), il “disturbo legato alle attività turistiche”. Appare quindi chiaro che le attività preparatorie e quelle di svolgimento della manifestazione musicale programmata sono idonee, almeno potenzialmente, a provocare un deterioramento dello stato di conservazione delle specie e/o degli habitat, mettendo quindi in pericolo lo stato dell’ecosistema, della biodiversità, della flora o della fauna. E’ quindi necessario ed obbligatorio per legge espletare la procedura di Valutazione di Incidenza Ambientale, al seguito della quale, solo in caso sia acquisita la certezza che la realizzazione della manifestazione non pregiudichi l’integrità del sito e lo stato di conservazione delle specie e degli habitat, l’Amministrazione Regionale potrà eventualmente autorizzare la manifestazione. In mancanza, potrebbero configurarsi gravi reati a carico dell’Amministrazione Comunale di Minturno, quali quelli previsti dal D.lgs. n. 42/2004, art. 181, c. 1 (Codice del paesaggio – interventi eseguiti in assenza di autorizzazione in area vincolata, con le sanzioni della L. n. 47/1985, art. 20) e dagli art. 733-bis (Distruzione o deterioramento di habitat all’interno di un sito protetto), 727-bis (Uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette) e 452-quinquies (delitti colposi contro l’ambiente) del codice penale. In tal caso, emergerebbero chiare responsabilità penali anche a carico delle eventuali altre amministrazioni che dovessero autorizzarla illegittimamente (favoreggiamento reale, art. 379 del codice penale); infatti, in base al D.P.R. n. 357/1997, art. 5, c. 8 (come modificato dal D.P.R. n. 120/2003, art. 6, c. 1), “l’Autorità competente al rilascio dell’approvazione definitiva del piano o dell’intervento deve acquisire preventivamente la valutazione di incidenza”. Il Coordinamento continuerà a vigilare sul rispetto della natura e delle normative nazionali ed europee poste a sua tutela, riservandosi in caso contrario di attivare azioni legali a tutti i livelli. Aderiscono al Coordinamento CI TANGE: A SUD Onlus, Altura, Ambiente Basso Molise, APS Sotto al mare, Arci Comitato Chieti e Vasto, AsOER – Accademia di Ecologia ed Arte Riarteco A.P.S., Associazione di promozione sociale Basta Plastica in Mare Network, Associazione Ornitologi dell’Emilia Romagna, Associazione APPENNINO ECOSISTEMA, Associazione Ardea, Associazione Studi Ornitologici Italia Meridionale, Associazione Ornitologi Marchigiani, Associazione Paliurus di Pineto, Associazione Terra Blu ODV, Caretta Calabria Conservation, CDCA – Abruzzo APS Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali, Comitato Dora Spina Tre, Comitato in difesa della Pineta di Viareggio, Coordinamento Tutela Vie Verdi Abruzzo, CO.RI.TA. – Comitato Rimboschimento Città di Taranto, CREN – Centro Ricerche Ecologiche e Naturalistiche, Difesa dei diritti e dei Beni Comuni, EBN Birdwatching Italia, Ecomapuche, ENPA – Ente Nazionale Protezione Animali – Sezione Barletta, ETICOSCIENZA, Federazione Nazionale Pro Natura, Fondazione Cetacea Onlus, Fondazione MAREVIVO Onlus, Forum Ecologista Vasto, Forum Nazionale Salviamo il Paesaggio, GAROL – Gruppo Attività e Ricerche Ornitologiche del Litorale – referente regionale nel Lazio del CNCF (Comitato Nazionale Conservazione Fratino), Gridas- Gruppo Risveglio Dal Sonno, GrIG – Gruppo d’intervento Giuridico, Gruppo Cittadini Volontari e Attivisti per l’Ambiente, Gruppo Fratino Vasto, Italia Nostra, LAC – Lega per l’Abolizione della Caccia, LAV – Lega Anti Vivisezione, Legambiente Marsala, LIPU – Lega Italiana Protezione Uccelli Coordinamento regionale Lazio, LIPU – Coordinamento regionale Calabria, LIPU – Coordinamento regionale Marche, LitorAli – Associazione per la tutela del Fratino e del suo habitat, MEDITERRANEO NO TRIV, Mountain Wilderness Italia aps, MUSEO LABORATORIO DELLA FAUNA MINORE, OIPA Italia – Organizzazione Internazionale Protezione Animali, Rewilding Apennines ETS, Salviamo l’Orso, SEA SHEPHERD, SOA – Stazione Ornitologica Abruzzese, StOrCal – Stazione Ornitologica Calabrese, TAG Costa Mare – Coordinamento di associazioni ambientaliste marchigiane.   Redazione Italia