Pallone blindato: il riarmo globale e il calcio italianoQuando siamo allo stadio o, sempre più spesso, davanti alla televisione per
tifare la nostra squadra del cuore, vediamo undici uomini che ci fanno
emozionare con gesti tecnici e atletici sempre più impressionanti; veniamo
trascinati dalla dinamica della partita, dalle scelte tattiche dell’allenatore e
dalle giocate dell’ultimo “colpo di mercato”. Quello che non vediamo però è
tutto quello che si trova dietro, la base di un’architettura complessa che
sostiene, seppur in modo fragile, il calcio come lo intendiamo oggi.
Dietro i gol e le coreografie, infatti, si muove una rete di capitali globali,
di interessi finanziari e industriali che non hanno nulla a che fare con la
passione per il calcio. In particolare, nel cuore pulsante del calcio europeo e
italiano si stanno inserendo giganti che operano su un altro fronte: quello
della produzione e gestione della guerra. In un mondo attraversato da una nuova
corsa agli armamenti, il calcio si è trasformato in un asset strategico: non
solo una piattaforma d’investimento, ma anche uno strumento di legittimazione
sociale, di propaganda e persino di copertura mediatica.
Nel 2025, la spesa militare globale ha superato i 2.718 miliardi di dollari e
non è per nulla una coincidenza se, nello stesso momento storico, il controllo
dei club calcistici è passato sempre più nelle mani di fondi finanziari legati
all’industria bellica o di Stati che traggono potere e ricchezza proprio dai
conflitti in corso. Grandi fondi di investimento, colossi della difesa, fondi
sovrani del Golfo: tutti stanno trovando nel calcio uno spazio in cui investire,
legittimarsi e infiltrarsi.
Il calcio nella nuova fase storica del riarmo
Dal 2022 in poi, il mondo ha assistito a un’impennata senza precedenti nella
spesa militare globale. Con la crisi dell’industria europea e nordamericana e il
crescente debito pubblico, l’industria bellica e quella delle tecnologie
dual-use hanno velocemente esercitato una fascinazione nei confronti dei leader
mondiali, i quali, supportati dal ritorno di un’ideologia suprematista e
neocoloniale, hanno spinto per regalare miliardi alle aziende militari. In
questo contesto, la grande finanza ha trovato nel comparto bellico una nuova
frontiera di profitto e i grandi fondi globali — da BlackRock a Vanguard, da
Carlyle ad Apollo — non hanno esitato a posizionarsi nel cuore dell’industria
della difesa. Ma la stessa finanza non investe solo in aerei da guerra o missili
ipersonici, anzi: investe dove il capitale circola più velocemente, dove
l’opinione pubblica è più permeabile, dove la legittimazione sociale è più
immediata. Investe nel calcio.
Perché i fondi della guerra comprano squadre di calcio
Il calcio è l’asset perfetto nel capitalismo del XXI secolo: è liquido, perché
produce utili da diritti TV, sponsorizzazioni, marketing e plusvalenze; è
popolare, perché penetra ogni ceto sociale, territorio, identità; è politico,
perché veicola immaginari, costruisce consenso, produce simbologie e linguaggi.
Per questo motivo, l’intreccio tra fondi finanziari e club calcistici non è
casuale, ma funzionale: chi arma governi genocidari, supporta l’occupazione di
territori o sfrutta risorse comuni, ha bisogno anche di ripulire la propria
immagine; ha bisogno di distrazione, di consenso, di strumenti per presidiare
culturalmente lo spazio pubblico. Il calcio, oggi, è parte della catena del
valore dell’economia di guerra.
Le tre maggiori società di investimento del mondo, i cosiddetti “Big Three”,
ovvero BlackRock, Vanguard, State Street, amministrano complessivamente oltre
20.000 miliardi di dollari e possiedono quote rilevanti in tutti i principali
colossi dell’industria bellica: Lockheed Martin, Raytheon, Leonardo, Northrop
Grumman, Boeing; queste società sono però anche dentro ai fondi che possiedono
club calcistici e accanto a loro si muovono i fondi sovrani della penisola
arabica: Mubadala (Abu Dhabi), PIF (Arabia Saudita), QIA (Qatar). Sia le società
di investimento che i fondi sovrani, data la quantità infinita di denaro che
movimentano, sono attori politici prima ancora che finanziari, e utilizzano il
calcio per quello che è da quasi sempre stato: un veicolo di legittimazione, di
influenza, di soft power. Nella maggior parte dei casi questi fondi sono
direttamente coinvolti nel riarmo dei propri Stati o degli Stati di riferimento
e nei conflitti regionali e quando investono nel pallone, lo fanno per rendere
accettabile, desiderabile, perfino vincente, un sistema economico e politico
basato sulla guerra, l’imperialismo e lo sfruttamento del lavoro.
Club italiani, capitali globali
Nel 2024 l’Internazionale Milano, stremata finanziariamente, passa al fondo
statunitense Oaktree Capital Management, che aveva già prestato alla precedente
proprietà 275 milioni durante la pandemia tramite l’emissione di bond. Quando i
debiti lievitano e diventano impossibili da ripagare, Oaktree, di proprietà dal
colosso canadese Brookfield Asset Management, a sua volta partecipato dalle Big
Three in diversa misura, ne entra in possesso. Di pochi giorni fa, inoltre, è la
notizia che il fondo Oaktree, per rifinanziare il debito di 400 milioni del club
nerazzurro, si è affidata alla Bank of America, detenuta al 21,3% dalle Big
Three.
La storia recente del Milan riflette l’intreccio tra finanza speculativa
occidentale e capitale sovrano del Golfo. Dopo aver risanato il club e centrato
importanti risultati sportivi, il fondo statunitense Elliott, assistito da Bank
of America Merrill Lynch, avvia nel 2022 una trattativa esclusiva per la
cessione del Milan al fondo bahreinita Investcorp, affiancato da Goldman Sachs.
L’operazione, poi fallita a favore di RedBird Capital, avrebbe potuto vedere
Elliott restare inizialmente con una quota di minoranza; il vero nodo
geopolitico, in questa operazione, è rappresentato dalla presenza in Investcorp
del fondo sovrano di Abu Dhabi, Mubadala, che ne detiene il 20%. Mubadala, che
gestisce oltre 240 miliardi di dollari, ha partecipazioni globali in energia,
difesa, semiconduttori, ed è legato a stretto giro al Manchester City attraverso
figure di vertice come Mansour bin Zayed e Khaldoon Al Mubarak. Il fondo
emiratino ha anche intrecci con l’Italia e con industrie italiane attive nel
settore della difesa, con investimenti passati in Ferrari, UniCredit e Piaggio
Aero, Ferretti, promossi da Alberto Galassi, oggi nel board del Manchester City.
Va, infine, ricordato che l’effettivo passaggio di proprietà è avvenuto verso
RedBird Capital Partners, anch’esso legato a fondi sovrani attraverso RedBird
IMI, joint venture con il fondo emiratino di Abu Dhabi.
A segnare la connessione tra i proprietari dei club delle due squadre di Milano
e l’industria della difesa, nel 2023, le società Brookfield Infrastructure
Partners L.P., proprietaria di Oaktree e, dunque, dell’Inter, annuncia di aver
acquisito, insieme ad un partner, la società Compass Datacenters, un’azienda che
costruisce e gestisce data center (centri di elaborazione dati), con il sostegno
finanziario di Redbird, proprietaria appunto del Milan, e il gruppo Azrieli, un
conglomerato israeliano con forti interessi nel settore immobiliare e della
tecnologia dual-use.
Lasciando Milano sbarchiamo a Torino, per osservare la Juventus, squadra che
incarna perfettamente l’intreccio tra calcio e industria bellica: la squadra è
sotto il controllo dell’impero finanziario della famiglia Agnelli-Elkann
attraverso Exor N. V., che domina la filiera militare in Italia tramite
Stellantis e IVECO Defence Vehicles, produttrice di mezzi blindati per le forze
NATO e ora nel mirino di Leonardo-Rheinmetall.
Nel 2022, anche la Roma si consegna ai fondi. Per ottenere liquidità, la
proprietà Friedkin emette un bond da 175 milioni di euro, sottoscritto in larga
parte da Apollo Global Management tramite la sua controllata Athene; Apollo, tra
le prime dieci entità finanziarie USA, è uno dei principali gestori di fondi
legati a Lockheed Martin, primo produttore mondiale di armi convenzionali.
A Palermo, il passaggio sotto il controllo del City Football Group, braccio
calcistico del fondo sovrano emiratino, conferma la strategia. Mentre Abu Dhabi
è coinvolta in operazioni militari in Yemen e sostiene una rete di influenza
nell’intero Medio Oriente, utilizza i club di calcio per costruirsi una
reputazione internazionale “moderna e progressista”. È la versione sportiva del
greenwashing: qui, è sportwashing.
Neppure l’Atalanta è rimasta immune. Bain Capital, fondo guidato da Stephen
Pagliuca, rileva il 55% del club bergamasco nel 2022. Per l’operazione vengono
usate holding in Lussemburgo e nel Delaware e si emette un bond da 152,5
milioni, sottoscritto dai fondi Carlyle e Ares Management. Carlyle, in
particolare, è storicamente tra i maggiori finanziatori del Pentagono e dei
contratti di difesa americani. Una volta di più, i Big Three compaiono come
investitori istituzionali.
E infine Napoli. Il volto più noto è quello di MSC, sponsor principale, presente
sulla maglia che ha accompagnato lo scudetto. MSC, colosso globale della
logistica e del trasporto container, è guidato dalla famiglia Aponte, una delle
più potenti del Mediterraneo. Proprio nel 2023, Aponte ha stretto un accordo con
BlackRock per la gestione strategica dei porti e del Canale di Panama, uno dei
nodi più sensibili della circolazione globale di merci, armi e
approvvigionamenti militari. Anche qui, il legame è più che simbolico: è
strutturale. Il Napoli, nel nome della “napoletanità”, diventa vetrina di un
potere logistico e finanziario globale che dialoga direttamente con la nuova
geopolitica del commercio e della guerra.
In ogni città, sotto ogni curva, si ripete lo stesso schema: il calcio come
accesso al consenso, come strumento di investimento, come copertura per i flussi
del potere. Che siano droni prodotti da EDGE, radar sviluppati da Leonardo o
porta-container che attraversano il Canale di Panama, i capitali che finanziano
la guerra sono già seduti nelle tribune vip che sempre più espropriano spazio ai
tifosi negli stadi.
Sportwashing e dominio
I casi italiani non sono eccezioni, ma specchi. Il calcio oggi è un dispositivo
ideologico e discorsivo: serve a deviare l’attenzione, a costruire consenso, a
ripulire l’immagine di soggetti che altrimenti sarebbero esposti a critiche
durissime. Il legame tra calcio e guerra passa per i mercati finanziari, ma
produce effetti culturali: l’accettazione sociale del potere, la normalizzazione
del controllo, la spettacolarizzazione della violenza.
Per vivere un calcio diverso
In un contesto globale segnato da molteplici ingerenze politico-economiche,
l’impegno delle tifoserie in tutto il mondo e in Italia rappresenta un esempio
di speranza e responsabilità. La campagna “Show Israel the red card”, promossa
dal gruppo ultras del Celtic Glasgow Green Brigade, e promosso in Italia da
Calcio e Rivoluzione, dimostra come il calcio possa essere un potente strumento
di solidarietà e giustizia, di aggregazione e di mobilitazione, capace di
sfidare le narrazioni unilaterali e le complicità istituzionali, promuovendo
valori di uguaglianza e giustizia. La mobilitazione globale, che coinvolge
centinaia di tifoserie in decine di Paesi, offre un modello positivo di come si
possa costruire una presenza nel calcio diversa, lontana da logiche di profitto
e potere che spesso lo collegano a interessi mortali, inclusa l’industria
bellica.
*L’articolo ha preso le mosse dalle riflessioni contenute nel libro di Luca
Pisapia, Fare gol non serve a niente. Il pallone nella rete della finanza, Add
editore: Torino 2024, in cui si analizza la crescente finanziarizzazione del
mondo del calcio europeo.
Emiliano Palpacelli