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Sorveglianza e repressione negli Stati Uniti
Secondo 404 Media, che ha esaminato una serie di video, ICE e il Customs and Border Protection (CBP) – ovvero le due agenzie che in vario modo controllano le frontiere e l’immigrazione e che sono in prima linea nelle politiche repressive di Trump verso i migranti – stanno utilizzando la tecnologia […] L'articolo Sorveglianza e repressione negli Stati Uniti su Contropiano.
Un elicottero e un caccia Usa precipitano nel Mar Cinese Meridionale
Un elicottero e un caccia della Marina militare statunitense, entrambi in missione di routine dalla portaerei USS Nimitz, si sono schiantati nel Mar Cinese Meridionale a circa 30 minuti di distanza l’uno dall’altro domenica, come dichiarato dalla Flotta del Pacifico degli Stati Uniti in un comunicato. L’elicottero della U.S. Navy […] L'articolo Un elicottero e un caccia Usa precipitano nel Mar Cinese Meridionale su Contropiano.
I lupi, la caccia, la guerra
SI MOLTIPLICANO IN MOLTE PARTI DEL MONDO LE PRESSIONI PER LA LIBERALIZZAZIONE COMPLETA DELLA CACCIA. IN ITALIA, IL DDL SULLA CACCIA ORA IN DISCUSSIONE AL SENATO, UN’AGGRESSIONE SENZA PRECEDENTI ALLA FAUNA SELVATICA, SI INSERISCE IN QUESTO CONTESTO GENERALE DI ASSALTO ALLA NATURA. FORSE NESSUN ALTRO ANIMALE È STATO TANTO ESECRATO E DEMONIZZATO DALL’UNIVERSO DEI CACCIATORI COME IL LUPO. SCRIVE BRUNA BIANCHI: “NELLA VISIONE PATRIARCALE DELLA VITA FONDATA SULLA VIOLENZA, LE RISPOSTE AI PROBLEMI CAUSATI DALL’INTERVENTO UMANO SULLA NATURA – ESTRATTIVISMO, DEFORESTAZIONE, DEFAUNIZZAZIONE – SI PRESENTANO SEMPRE NELLA FORMA DELLA DISTRUZIONE E INNALZANO IL GRADO DELLA VIOLENZA… L’ANALOGIA TRA CACCIA È GUERRA NON È UNA SEMPLICE CORRELAZIONE TRA ATTIVITÀ SIMILI, ESSE SONO LEGATE DALLA STESSA VISIONE DELLA VITA E DELLA NATURA COME TEATRO DI LOTTA, CONQUISTA E AFFERMAZIONE DI POTERE… LA LIBERALIZZAZIONE DELLA CACCIA È UN ASPETTO DEL PROCESSO DELLA MILITARIZZAZIONE VOLTO A PROMUOVERE E RAFFORZARE UN MODELLO DI MASCOLINITÀ EGEMONICA…”. unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- [I lupi, la caccia, la guerra1] Mentre la perdita di habitat, il cambiamento climatico, l’inquinamento, e non da ultimo le guerre decimano la fauna selvatica, si moltiplicano in molte parti del mondo le pressioni per la liberalizzazione pressoché completa della caccia infrangendo le barriere erette grazie all’impegno di tanti attivisti e attiviste e al sostegno di gran parte dell’opinione pubblica. Ciò sta avvenendo in Europa, in Svezia, negli Stati Uniti, in Australia. In alcuni stati africani sono stati eliminati i divieti alla caccia all’elefante per il commercio dell’avorio e dei trofei e in Tanzania la popolazione Masai viene espulsa dalle sue terre con lo scopo di trasformarle in riserve di caccia. Contemporaneamente in molti paesi i progetti di reinserimento di lupi e orsi, che a partire dagli anni Novanta avevano favorito il ripristino del naturale equilibrio tra prede e predatori, sono stati interrotti, i loro scopi ripudiati, i loro risultati compromessi o annientati. In Italia il Ddl ora in discussione al Senato, contro il quale si sono schierate 55 associazioni, mai ascoltate nelle fasi di elaborazione del provvedimento, si inserisce in questo contesto generale di aggressione alla natura. Esso prevede la possibilità di cacciare ai valichi montani per abbattere gli uccelli migratori diretti verso i luoghi di nidificazione, nelle zone protette, in aree demaniali e lungo i fiumi; si potranno prendere di mira uccellini di pochi grammi, utilizzare richiami vivi e della loro cattura fare commercio. Se approvata, una tale liberalizzazione avrà gravissime ripercussioni sulla biodiversità, accelererà processi di estinzione, aumenterà l’inquinamento da piombo, richiamerà sul territorio italiano i cacciatori di altri paesi, rafforzerà il potere dei produttori di armi e la loro influenza politica2. Le conseguenze più gravi saranno quelle sul piano morale poiché il Ddl favorisce un modo di intendere il posto dell’umanità nel mondo improntato alla violenza, alla sopraffazione, all’avidità; induce a sopprimere sentimenti di empatia e legittima la crudeltà come fonte di piacere. Per quanto riguarda i grandi predatori, anche in Italia i progetti di reinserimento, che negli ultimi decenni avevano consentito loro di riabitare una piccola parte delle terre che avevano percorso per secoli, sono sotto attacco. Il numero attuale dei lupi, valutato in 20.000 in tutta Europa, è stato considerato insostenibile. La recente direttiva approvata dal Parlamento europeo, e riconosciuta dal governo italiano come conforme all’interesse nazionale, ha già declassato il lupo da specie “strettamente protetta” a specie protetta, primo passo verso la caccia indiscriminata. Viziata da una visione antropocentrica e dalla logica del dominio, la direttiva lamenta l’aumento delle aggressioni a greggi e armenti e ignora alcune delle sue cause più rilevanti, ovvero la riduzione delle prede naturali dei lupi in conseguenza di caccia indiscriminata e bracconaggio. Nel “nostro” mondo non c’è posto per il lupo né per gli orsi che, reintrodotti nel Trentino, ora si vorrebbero ancora una volta sradicare. Se i grandi predatori minacciano gli allevamenti, ostacolano l’agricoltura, l’espansione edilizia e della viabilità, se si avvicinano alle abitazioni, sottraggono le prede ai cacciatori, occupano spazi destinati al turismo, la guerra aperta è dichiarata, una guerra che in un contesto di gravissima crisi ecologica non può che tendere all’estinzione. Caccia ed estinzioni Quando la Caccia inizia non c’è futuro per nessuno di noi perché il mondo [dell’animale] che si restringe è anche il nostro. (Visionary Night) Così ha scritto in una lunga poesia dedicata all’orso Sara Wright, ecofemminista, etologa e psicoanalista junghiana. La caccia – per divertimento o commercio – spinge sull’orlo del collasso interi ecosistemi e aggrava costantemente processi di estinzione. L’estinzione di una specie animale, risultato di millenni di evoluzione, è al contempo estinzione dell’esperienza umana nella natura, una alienazione che affligge in particolare i bambini e i ragazzi3. Con l’estinzione di una delle creature che abitano la Terra, il suo modo di vivere e sentire, la sua presenza, la sua voce, una parte del mondo scompare. “Ogni sensazione di ogni essere vivente, ha scritto Vinciane Despret, è un modo attraverso il quale il mondo vive e percepisce sé stesso e attraverso il quale esiste”. Questo senso di dolorosa perdita è stato così espresso dall’ornitologo statunitense William Beebe in un passo posto ad esergo a L’ultimo dei chiurli, un’opera dedicata all’uccellino europeo migratore: La bellezza e il genio di un’opera d’arte possono essere ricreati, anche se la sua prima espressione materiale è andata distrutta; un’armonia svanita può ancora ispirare il compositore, ma quando l’ultimo esemplare di una specie di esseri viventi cessa di respirare, un altro cielo e un’altra terra devono passare prima che uno così possa esistere di nuovo4. Dal chiurlo dal becco sottile, al piccione migratore, dal giaguaro alla tigre della Tasmania, dalla foca dei Caraibi, al lupo delle Falkland, al canguro notturno, all’aquila di mare, l’elenco degli esseri che non rivedremo mai più si allunga di giorno in giorno e la caccia ne è in molti casi la principale responsabile. La guerra al “nemico animale” e il suo sterminio – insetti, lupi, bisonti, volpi volanti, orsi, linci, e molte altre specie – condotta come ogni guerra in nome del diritto all’“autodifesa”, ha trascinato sull’orlo del collasso interi ecosistemi che sostengono la vita umana e non umana. Già Rachel Carson nel 1962 in Primavera silenziosa aveva ammonito sulle “disastrose conseguenze cui si va incontro quando si tenta di sconvolgere gli ordinamenti della natura”. La biologa statunitense non si riferiva solo agli insetti insensatamente sterminati con i pesticidi, un “elisir di morte” che stava compromettendo la rete della vita, ma anche ai cervi kaibab dell’Arizona che in seguito alla eliminazione di lupi, coyote e puma, si erano moltiplicati a tal punto da non trovare più vegetazione con cui sostentarsi; e mentre i suoli si andavano degradando, i cervi “cominciarono a morire in numero maggiore di quello che nel passato finiva nelle fauci dei predatori”5. A causa dell’incapacità di comprendere la complessità delle interrelazioni tra i viventi, dei processi ecologici ed evolutivi, di sentirsi parte della comunità planetaria, la forza generativa del pianeta si sta esaurendo. L’accelerazione di questi processi non a caso ha coinciso con l’aumento della conflittualità a livello internazionale e con la corsa al riarmo. “La caccia, perfetta immagine della guerra senza colpevolezza”6 Nella visione patriarcale della vita fondata sulla violenza, le risposte ai problemi causati dall’intervento umano sulla natura – estrattivismo, deforestazione, defaunizzazione – si presentano sempre nella forma della distruzione e innalzano il grado della violenza. Come la competizione per l’accaparramento delle ultime risorse sfocia guerre sanguinose e genocidi, così la lotta per l’ultimo animale, per scovarlo e ucciderlo in ogni luogo e stagione, tende a varcare ogni limite. L’analogia tra caccia è guerra non è una semplice correlazione tra attività simili, esse sono legate dalla stessa visione della vita e della natura come teatro di lotta, conquista e affermazione di potere. Cacciare gli animali per divertimento insegna agli uomini a godere del senso della vittoria, a versare il sangue senza sentirsene colpevoli, tanto che si può affermare che la liberalizzazione della caccia è un aspetto del processo della militarizzazione volto a promuovere e rafforzare un modello di mascolinità egemonica e militarizzata, personalità inclini a oggettivare gli esseri viventi considerandoli prede, siano esse animali, donne o ogni possibile “nemico”. Ha scritto Andrée Collard nel suo classico saggio sulla caccia dal punto di vista ecofemminista,Shots in the Dark: Alla base [della] caccia c’è un meccanismo che identifica la preda, la insegue, compete per essa e si impegna a colpirla per primo. Questo avviene in modo palese quando la preda si chiama donna, animale o terra, ma si estende a qualsiasi fobia che si impadronisca e ossessioni una nazione, che si tratti di un’altra nazione o di una razza diversa da quella dei gruppi al potere. La caccia, com’è noto, è stata considerata un eccellente addestramento alla guerra e l’immagine della guerra come impresa sportiva ha una lunga storia. Per indurre i giovani a lanciarsi nell’avventura della morte, occultare le sofferenze, i traumi, le mutilazioni, le ferite, le vite stroncate, la guerra è stata spesso descritta con immagini derivate dalle scene di caccia, una attività piacevole, virile, avventurosa e, soprattutto, eterna, ancestrale e come tale indiscutibile. Questa interpretazione della caccia nelle sue connessioni con la guerra come importante stadio evolutivo, sostenuta da una lunga serie di false teorie sviluppatesi negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, ma già da lungo tempo è stata screditata7, negli ultimi anni sta riemergendo. Valga per tutti l’esempio biologo statunitense Jim Heffelfinger, già impegnato nelle agenzie federali per la “conservazione” della fauna selvatica, che nel suo articolo dal titolo La caccia è una questione di sicurezza nazionale, ha scritto: La coevoluzione tra caccia e mentalità guerriera può essere tracciata come un filo ininterrotto lungo tutto lo sviluppo della nostra razza umana. Alcuni hanno ipotizzato che lo sviluppo di un linguaggio complesso e di un pensiero astratto negli esseri umani sia dovuto alla necessità di pianificare strategie di caccia coordinate. Si tratta delle stesse abilità possedute dai migliori guerrieri. Ma anche un semplice contadino abituato a cacciare poteva diventare un buon soldato. A conferma di ciò portava l’esempio di un giovane del Tennessee: Ho eliminato prima il sesto uomo; poi il quinto; poi il quarto; poi il terzo; e così via. È così che spariamo ai tacchini selvatici a casa. Vede, non vogliamo che quelli in prima linea sappiano che stiamo prendendo quelli dietro, così loro continuano ad arrivare finché non li prendiamo tutti. La testimonianza si riferiva ai campi di battaglia della Prima guerra mondiale. Oggi, concludeva il biologo, “con la crescente popolarità delle armi da fuoco, comprese le varianti AR-15 (fucili semiautomatici leggeri), il futuro del nostro esercito e la forza della nostra sicurezza nazionale appaiono ancora più ottimistici”. Se i cacciatori, dunque, rappresentano una informale riserva militare, è importante coltivare le loro abilità, specialmente nell’uso delle armi, e assecondare le loro passioni. In cosa consistono queste passioni? Molto è stato scritto su questo tema e non è possibile affrontarlo qui, neppure per accenni, ma vale la pena richiamare l’attenzione su alcune tesi avanzate dal filosofo e sociologo José Ortega y Gasset in Discorso sulla caccia, l’opera più letta e influente sulla natura di questa attività, che possono in parte spiegare la ferocia con cui sono stati perseguitati i grandi predatori, in primo luogo i lupi che oggi sono tornati nel mirino dei cacciatori. Lupicidio e genocidio Siamo le ombre dei boschi sussurri argentati che si dissolvono […] prima del mattino. Voci solitarie si uniscono in un canto, nel gemito del vento. La nostra eredità, solo una manciata di echi morenti. (Wolves of Sorrow di Kathleen Malley). La caccia, nella sua essenza, scriveva Ortega nel 1942, è un’affermazione di potere su un essere inferiore, l’animale, il quale non ha una vera vita, ma si “lascia semplicemente vivere”. Stroncare quelle vite non ha quindi alcuna rilevanza sul piano morale. Più oltre nella sua trattazione definiva la caccia una presa di possesso” e “la morte [della preda] è il modo più naturale di possederla”8. Se potere e possesso sono alla base della forza seduttiva ed eccitante della caccia – e per descriverla in molti hanno usato analogie con la sessualità, altro tema che meriterà un’analisi attenta –, quale potere più grande di quello di sentirsi arbitri della vita e della morte di un grande predatore nell’illusione di impadronirsi della sua forza, del suo coraggio, della sua intelligenza, della sua bellezza riducendolo a un mucchio di pelliccia insanguinata? Forse nessun altro animale è stato tanto esecrato e demonizzato come il lupo. Dagli Stati Uniti, alla Russia, all’Europa, all’Asia, la guerra al lupo, perseguita per secoli, a partire dall’Ottocento, con lo sviluppo dell’allevamento e dell’agricoltura, ha assunto i caratteri dello sterminio. Da allora i lupi sono stati uccisi con il fucile, nei boschi, dagli elicotteri e dagli aerei, con i veleni, le tagliole; sono stati feriti e lasciati morire, finiti con il bastone, soffocati per le pelli e i trofei, torturati per odio. I cacciatori cosiddetti “sportivi” sono stati determinanti nello sterminio del lupo. Lo confermano le parole di Aldo Leopold, ecologo, cacciatore, fautore di progetti volti a favorire l’incremento di quelle specie animali che i cacciatori amano uccidere e che convinse i cacciatori “sportivi” a collaborare con i progetti statali di sterminio del lupo e del leone della prateria. Ricordando l’incontro e l’uccisione di una lupa, scrisse: “pensavo che un minor numero di lupi significasse abbondanza di cervi e che zero lupi fosse il paradiso dei cacciatori”. In quel paradiso un predatore sarebbe stato sostituito da un altro, ben più nefasto perché non uccide per la propria sussistenza, ma per il piacere di farlo, e pertanto tendenzialmente senza alcun limite. La caccia non ha solo spinto alcuni tipi di lupi nella “nera notte dell’estinzione” – come quelli originari di alcune isole giapponesi – e ridotto altri a poche decine di individui, come quelli del lupo arabo e del Messico, non ha solo messo in moto un processo di degradazione ecologica e di estinzione a catena di altre specie animali e vegetali, ma è stata anche strumento del genocidio. È quanto accadde a partire dal 1870 con lo sterminio dei bisonti che percorrevano le Grandi pianure americane, le antiche prede dei lupi e fonte di sostentamento per i popoli nativi. Lupi, bisonti e “indiani” furono sterminati con la stessa determinazione e spietatezza, obbedendo alla stessa logica del “o noi o loro” che non lascia spazio per la coesistenza e la reciprocità. Nelle terre che i bisonti attraversavano fertilizzandole, una volta che furono “liberate” per l’agricoltura e l’allevamento, il dissodamento eccessivo causò l’erosione dei suoli all’origine delle terribili tempeste di sabbia (Dust Bowls) che negli anni Trenta devastarono le regioni centrali degli Stati Uniti, prima manifestazione della crisi ecologica globale che ci affligge oggi. Un esempio più recente è quello dello sterminio dei “cani da slitta” (qimmiiq) – cani discendenti dal lupo bianco artico per il quale il 23 novembre 2024 il governo canadese ha porto le sue scuse alla popolazione Inuit. Al fine di annientare la cultura dei nativi, costringerli ad abbandonare le loro terre, strapparli alla condizione nomade e impiegarli come mano d’opera a basso costo nelle industrie e nelle installazioni militari, tra gli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta nelle regioni artiche del Canada furono uccisi – prevalentemente dalla polizia, ma anche da tanti volonterosi cacciatori, insegnanti, missionari, impiegati governativi – migliaia cani che, trainando le slitte, consentivano agli Inuit di spostarsi per la caccia di sussistenza distruggendo anche un profondo legame affettivo e spirituale con gli animali. Ne offrono una testimonianza toccante le memorie raccolte dalla Commissione di inchiesta promossa dalla comunità Inuit e riprese nel documentario Echo of the last Howl9. Le parole degli anziani rievocano il dolore per la perdita dei loro compagni animali, membri di una famiglia allargata, collaboratori che con la loro impareggiabile conoscenza del territorio erano in grado di valutare lo spessore del ghiaccio, ritrovare la strada di casa in condizioni atmosferiche estreme quando la vista umana era completamente offuscata. Una cultura millenaria, un modo di vita olistico, in cui “gli umani, la neve e i cani” erano “un insieme unico”, sono stati spezzati per sempre dal potere coloniale. Nella visione coloniale e patriarcale della vita biocidio e genocidio sono strettamente connessi, rispondono alla stessa logica: sradicare l’altro da un luogo definito come “proprio”, rimuoverlo dalla realtà al fine di creare un mondo migliore, “a misura d’uomo”. L’uccisione di massa viene quindi immaginata come una “distruzione creativa”, per eliminare gli inutili, i superflui, gli inferiori, i dannosi. Sottesa a questa distruttività è la svalutazione della vita dell’altro, una concezione della natura come cattiva, imperfetta, ostile di cui il lupo è l’emblema temuto e odiato. Da dove deriva il piacere di uccidere? Quali sono le motivazioni che hanno spinto tanti uomini a farsi esecutori dello sterminio? Quali le giustificazioni che hanno addotto? Su questo tema, a cui sarà dedicato un prossimo articolo, si sono soffermati numerosi studi di orientamento ecofemminista che hanno indagato il rapporto tra maschilità e caccia, analizzato scritti e raccolto le testimonianze dei cacciatori sulla loro esperienza e il loro sentire (Andrée Collard, Marti Kheel, Lisa Kemmerer, Brian Luke). Qui mi limito a citare le parole di Jody Emel in un suo saggio sullo sradicamento dei lupi negli Stati Uniti: Si può uccidere per essere un animale, selvaggio, indomito. Esiste anche l’idea che uccidere, con padronanza e maestria, può rendere un uomo più uomo secondo la tradizione del codice venatorio […]. Si può uccidere per calpestare qualcosa che si odia o si invidia: la libertà, la differenza, un posto nel mondo, “essere allo stato selvaggio”. Si uccide anche per depravazione. […]. Uccidere è un modo per mantenere il controllo […] o per obbedire ad un modello di eliminazione metodico, razionale e tecnologico in cui chi se la cava bene è abile, lodevole o, chissà, un cavalleresco avventuriero. È la congiuntura di questi fattori, di queste sovrastrutture a rendere possibile [lo sterminio]. Chi parla per il lupo? Quando, nel 1995, apparve per la prima volta il saggio di Jody Emel, avevano appena preso avvio i programmi di reintroduzione dei lupi. In Idaho, a Yellowstone, i progetti di più vasta portata e di maggior successo, e in generale negli stati dell’Ovest, così come in Canada, coloro che si sono assunti la responsabilità del reinserimento del lupo, sono stati in gran parte i nativi. In Idaho, come scrive Marcie Carter, biologa appartenente ai Nez Perce, essi hanno accompagnato i lupi nelle nuove terre, hanno seguito i processi di adattamento e riproduzione, pubblicato rapporti, dato vita a progetti educativi, una missione intesa come una rinascita spirituale, una occasione per riaffermare e diffondere i propri valori culturali e il loro ruolo nella difesa della biodiversità. “Si camminava con lo zaino in spalla e si ascoltava. È stato fantastico”. Il primo lupo introdotto in Idaho è stato battezzato da una bambina Nez Perce con il nome di “Chat Chaaht”, “fratello maggiore”. Ha scritto Suzanne Stone, impegnata in vari progetti di reintroduzione del lupo in Oregon ispirandosi alla visione dei nativi: Ho seguito le tracce dei lupi, ho ululato con loro, ho pianto la loro scomparsa e ho festeggiato la loro espansione in Oregon, Washington e California. Continuo a pensare che non ci sia niente di più magico in natura del sentire il canto di una famiglia di lupi echeggiare nelle foreste. È una voce che risuona nel profondo del mio essere. Nel corso degli anni ho lavorato a fianco di allevatori, ricercatori, capi tribù, biologi e altri ambientalisti per aiutare tutti noi a imparare a convivere con i lupi e altri animali selvatici. Se siamo riusciti a riportare i lupi, possiamo e dobbiamo ripristinare altre specie autoctone che arricchiscono la biodiversità del mondo. Meritano i nostri migliori sforzi per proteggere il loro futuro come nostri anziani selvatici e hanno ancora tanto da insegnarci sul nostro legame con la terra. Gli stessi sforzi sono stati messi in atto nella protezione degli orsi. Sempre negli anni Novanta, ad esempio, sono stati i capi spirituali di una riserva indiana nel Montana a proibire per primi la caccia e ad acquistare terreni dove gli orsi potessero vivere e riprodursi. Lo racconta David Rockwell, negli anni Ottanta guardia forestale nella riserva che, per favorire forme di convivenza, ha raccolto dalla viva voce dei nativi le storie tramandate per secoli sui loro rapporti con il grande predatore, “il nonno” onorato per almeno 100.000 anni10. Tutte queste storie non sono retaggi di un mondo ormai tramontato, ma rispecchiano una visione che guida ancora l’azione, ispira progetti educativi, storie che hanno ancora molto da insegnarci. Storie per reimparare a vivere sulla Terra “Noi (Piedi Neri) abbiamo un detto: l’arma che spara a un lupo o a un coyote non sparerà mai più dritto” (cit. in Brandy R. Fogg et al., p. 272). Tornare a intendere noi stessi come parte di una comunità ecologica, rispettare gli spazi delle altre creature, provare gioia nell’osservare il loro amore per la vita – l’unica cosa che davvero ci unisce – rallegrarsi dell’ululato del lupo, percepire la fugacità della sua presenza e cogliere la fierezza del suo sguardo, richiederà la capacità di ascoltare e il coraggio di opporre alle scelte inaccettabili fondate sul “o noi o loro”, il principio del “noi e loro”, “noi con loro”, come ci hanno insegnato le visioni dei popoli indigeni e le loro storie. I nativi nordamericani – Navajo, Hopi, Cherokee, Seminole, Oneida, Nez-Perce, Piedi Neri, Apache – riconoscevano negli animali individui dal valore intrinseco e nei lupi una nazione sovrana delle Grandi pianure e se ne consideravano i discendenti, membri della comunità planetaria. “Abbiamo imparato dal lupo come sopravvivere e come essere più umani. Come onorare i nostri anziani, proteggere e provvedere per le nostre famiglie e abbiamo imparato dai lupi la lealtà necessaria per appartenere a una tribù”. Sono parole di un’artista nativa riportate da Brenda Peterson11. Le storie che per secoli hanno trasmesso questa sapienza di vita parlano del profondo legame spirituale tra umani e lupi, di ammirazione, collaborazione, rispetto, onore e riconoscenza. Il lupo, oltre a essere un maestro di caccia, insegna pazienza, tenacia e capacità di sopportazione; è un compagno dotato di poteri terapeutici, l’animale soccorrevole che nutre e protegge gli umani in difficoltà, adotta i piccoli abbandonati, si prende cura delle donne maltrattate, sperdute o scacciate; procura loro il cibo, offre il calore del suo corpo e infonde il coraggio della libertà. Il più delle volte la protagonista della storia è una lupa, come ha scritto Teresa Pijoan, custode delle storie dei nativi, nella sua raccolta White Wolf Woman (Little Rock, 1992). Vivendo con i lupi – narra una storia Sioux a proposito della donna fuggita da un marito violento – “ella divenne forte, sentì la forza dei lupi dentro di sé, imparò da loro” (ivi, p. 69). Questa storia si avvicina ad alcune di quelle raccolte in Donne che corrono coi lupi da Pinkola Estés (1993) che celebrano l’intima vitalità racchiusa nell’animo femminile. Il tema del rapporto tra lupi e umani è al centro di una storia tradizionale Oneida tradotta in inglese da Paula Underwood, Chi parla per il lupo, una storia per imparare12 che ascoltò dal padre quando aveva tre anni e che si impegnò a diffondere. Elaborata nel corso di molte generazioni, questa storia è stata oggetto di riflessione in vari progetti educativi per adulti e bambini; è stata utilizzata nelle scuole, nei corsi di ecologia, nei laboratori sulle modalità decisionali e sulla costruzione della pace incoraggiando le persone a “pensare, comprendere, ricordare”. Di seguito, la riassumiamo e ne riportiamo alcuni brani. *** Ai margini del cerchio di luce proiettato dal fuoco al centro del villaggio, Lupo fissava le fiamme. Lo guardava affascinato un ragazzo di otto anni e si chiedeva perché non avesse paura. Poi, dalla vicina collina una lupa iniziò a ululare; a lei si unirono via via altri lupi. “La canzone parlava di come la Terra fosse un buon luogo dove vivere” e di come tanta bellezza si possa facilmente vedere nella Luna e nel Fuoco”. Poi il canto cessò e il lupo si allontanò dal fuoco. “Continuo a non capire, chiese al nonno il bambino. Perché lupo fissa il fuoco? Perché si sente a casa così vicino al luogo dove viviamo? Perché Lupa inizia la sua canzone su una collina tanto vicina a noi che non siamo lupi?”. “Ci conosciamo da tanto, tanto tempo, disse il nonno. Abbiamo imparato a vivere uno vicino all’altro”. Era una vecchia storia, e il nonno iniziò a raccontare. TANTO, TANTO, TANTO TEMPO FA Il nostro Popolo crebbe di numero, così che il luogo dove eravamo non era più sufficiente Molti giovani furono mandati a cercare un nuovo posto […] Ora, IN QUEL TEMPO C’era uno tra il Popolo che era fratello del Lupo Si sentiva così tanto fratello del Lupo che cantava la loro canzone e loro gli rispondevano Si sentiva così tanto fratello del Lupo che i suoi piccoli a volte lo seguivano nella foresta e sembrava che volessero imparare da lui […] Come HO DETTO La gente cercò un nuovo posto nella foresta. Ascoltarono attentamente ciascuno dei giovani mentre parlavano di colline e alberi di radure e acqua corrente, di cervi, scoiattoli e bacche Ascoltarono per capire quale posto potesse essere più asciutto sotto la pioggia più protetto in inverno e dove le nostre Tre Sorelle, Mais, Fagioli e Zucca potessero trovare un posto di loro gradimento. […] Ascoltarono ognuno di loro finché non raggiunsero un accordo […] Qualcuno chiese: Dov’ è il fratello del lupo? CHI, ALLORA, PARLA PER il lupo? MA IL POPOLO ERA DECISO e le prime persone furono mandate a scegliere un sito per la prima Casa Lunga e per liberare uno spazio per le nostre Tre Sorelle […] E POI IL FRATELLO DI LUPO TORNÒ Chiese del Nuovo Luogo e disse subito che dovevamo sceglierne un altro: “Avete scelto il Luogo al centro di una grande comunità di Lupi”. […] “Badate, scoprirete che è un posto troppo piccolo per entrambi […] MA LE PERSONE SI TAPPARONO LE ORECCHIE e non ci ripensarono. […] Questo Nuovo Posto aveva estati fresche, protezione invernale, corsi d’acqua impetuosi e foreste tutt’intorno piene di cervi e scoiattoli c’era spazio persino per le nostre Tre Amate Sorelle E LA GENTE VEDEVA CHE QUESTO ERA BELLO e non vide un lupo che osservava nell’ ombra! Ma con il passare del tempo iniziarono a vedere. Videro che le prede che gli uomini cacciavano sparivano e che i lupi si facevano sempre più audaci, ed entravano nel villaggio spaventando le donne e i bambini. All’inizio pensarono di offrire del cibo ai lupi, poi cercarono di scacciarli. Si accorsero anche che avrebbero potuto sterminarli.Il nostro Popolo crebbe di numero, così che il luogo dove eravamo non era più sufficiente Molti giovani furono mandati a cercare un nuovo posto […] Ora, IN QUEL TEMPO C’era uno tra il Popolo che era fratello del Lupo Si sentiva così tanto fratello del Lupo che cantava la loro canzone e loro gli rispondevano Si sentiva così tanto fratello del Lupo che i suoi piccoli a volte lo seguivano nella foresta e sembrava che volessero imparare da lui […] Come HO DETTO La gente cercò un nuovo posto nella foresta. Ascoltarono attentamente ciascuno dei giovani mentre parlavano di colline e alberi di radure e acqua corrente, di cervi, scoiattoli e bacche Ascoltarono per capire quale posto potesse essere più asciutto sotto la pioggia più protetto in inverno e dove le nostre Tre Sorelle, Mais, Fagioli e Zucca potessero trovare un posto di loro gradimento. […] Ascoltarono ognuno di loro finché non raggiunsero un accordo […] Qualcuno chiese: Dov’ è il fratello del lupo? CHI, ALLORA, PARLA PER il lupo? MA IL POPOLO ERA DECISO e le prime persone furono mandate a scegliere un sito per la prima Casa Lunga e per liberare uno spazio per le nostre Tre Sorelle […] E POI IL FRATELLO DI LUPO TORNÒ Chiese del Nuovo Luogo e disse subito che dovevamo sceglierne un altro: “Avete scelto il Luogo al centro di una grande comunità di Lupi”. […] “Badate, scoprirete che è un posto troppo piccolo per entrambi […] MA LE PERSONE SI TAPPARONO LE ORECCHIE e non ci ripensarono. […] Questo Nuovo Posto aveva estati fresche, protezione invernale, corsi d’acqua impetuosi e foreste tutt’intorno piene di cervi e scoiattoli c’era spazio persino per le nostre Tre Amate Sorelle E LA GENTE VEDEVA CHE QUESTO ERA BELLO e non vide un lupo che osservava nell’ ombra! Ma con il passare del tempo iniziarono a vedere. Videro che le prede che gli uomini cacciavano sparivano e che i lupi si facevano sempre più audaci, ed entravano nel villaggio spaventando le donne e i bambini. All’inizio pensarono di offrire del cibo ai lupi, poi cercarono di scacciarli. Si accorsero anche che avrebbero potuto sterminarli.Il nostro Popolo crebbe di numero, così che il luogo dove eravamo non era più sufficiente Molti giovani furono mandati a cercare un nuovo posto […] Ora, IN QUEL TEMPO C’era uno tra il Popolo che era fratello del Lupo Si sentiva così tanto fratello del Lupo che cantava la loro canzone e loro gli rispondevano Si sentiva così tanto fratello del Lupo che i suoi piccoli a volte lo seguivano nella foresta e sembrava che volessero imparare da lui […] Come HO DETTO La gente cercò un nuovo posto nella foresta. Ascoltarono attentamente ciascuno dei giovani mentre parlavano di colline e alberi di radure e acqua corrente, di cervi, scoiattoli e bacche Ascoltarono per capire quale posto potesse essere più asciutto sotto la pioggia più protetto in inverno e dove le nostre Tre Sorelle, Mais, Fagioli e Zucca potessero trovare un posto di loro gradimento. […] Ascoltarono ognuno di loro finché non raggiunsero un accordo […] Qualcuno chiese: Dov’ è il fratello del lupo? CHI, ALLORA, PARLA PER il lupo? MA IL POPOLO ERA DECISO e le prime persone furono mandate a scegliere un sito per la prima Casa Lunga e per liberare uno spazio per le nostre Tre Sorelle […] E POI IL FRATELLO DI LUPO TORNÒ Chiese del Nuovo Luogo e disse subito che dovevamo sceglierne un altro: “Avete scelto il Luogo al centro di una grande comunità di Lupi”. […] “Badate, scoprirete che è un posto troppo piccolo per entrambi […] MA LE PERSONE SI TAPPARONO LE ORECCHIE e non ci ripensarono. […] Questo Nuovo Posto aveva estati fresche, protezione invernale, corsi d’acqua impetuosi e foreste tutt’intorno piene di cervi e scoiattoli c’era spazio persino per le nostre Tre Amate Sorelle E LA GENTE VEDEVA CHE QUESTO ERA BELLO e non vide un lupo che osservava nell’ ombra! Ma con il passare del tempo iniziarono a vedere. Videro che le prede che gli uomini cacciavano sparivano e che i lupi si facevano sempre più audaci, ed entravano nel villaggio spaventando le donne e i bambini. All’inizio pensarono di offrire del cibo ai lupi, poi cercarono di scacciarli. Si accorsero anche che avrebbero potuto sterminarli. MA VIDERO ANCHE che un simile compito avrebbe cambiato il Popolo: sarebbero diventati Uccisori di Lupi Un Popolo che toglieva la vita solo per sostenere la propria […] NON SEMBRAVA LORO DI VOLER DIVENTARE UN POPOLO DEL GENERE FINALMENTE Uno degli Anziani disse ciò che tutti avevano in mente: “Sembra che la visione del Fratello del Lupo fosse più acuta della nostra”[…]. DA QUESTO IL POPOLO HA IMPARATO UNA GRANDE LEZIONE È UNA LEZIONE CHE NON ABBIAMO MAI DIMENTICATO […] IMPARIAMO ORA A CONSIDERARE IL LUPO! E così fu che le Persone escogitarono un modo per porsi domande a vicenda ogni volta che si doveva prendere una decisione su un Nuovo Luogo o una Nuova Via. Cercammo di percepire il flusso di energia attraverso ogni nuova possibilità e quanto fosse abbastanza e quanto fosse troppo. FINCHÉ FINALMENTE qualcuno si alzò e pose la vecchia, vecchia domanda per ricordarci cose che non vediamo ancora abbastanza chiaramente per poterle ricordare. “Ditemi ora, FRATELLI MIEI, DITEMI ora, SORELLE MIE CHI PARLA PER IL LUPO?”. La storia, come spiegò il padre a Paula Underwood, fu rielaborata, narrata e ricordata per molto tempo, ma non poté essere trasmessa al “Nuovo popolo che arrivò sulle navi di legno”. “Non abbiamo potuto insegnare loro a porre domande al lupo. Non capivano che era il loro fratello. Noi invece sapevano quanto tempo ci è voluto per ascoltare la sua voce”. Non capivano che trascurare od omettere un solo aspetto della realtà può creare gravi difficoltà. “Avrebbero imparato? Chiese Paula”. “A volte la saggezza viene dopo una grande follia” rispose il padre. Questo momento dovrebbe essere arrivato per noi. Se non avremo la forza morale per acquisire una tale saggezza, dovremo riconoscere, come ha scritto Anna Maria Ortese, che quella umiliazione e desolazione cui abbiamo sottoposto tutto ciò che non è l’uomo […], giunta al muro di confine, dove non c’è più distruzione, perché non c’è nulla, sta ora tornando verso di noi, umanità. E ciò che abbiamo fatto, e tuttora freddamente facciamo, lo subiremo. E il conto ci sarà mandato a casa13. Ma allora, probabilmente, non avremo di che pagarlo. -------------------------------------------------------------------------------- 1 Questo scritto è una versione rivista e ampliata di un mio precedente articolo pubblicato in “Erbacce”, con il titolo Chi parla per il lupo?. 2 Per una analisi puntuale del testo in discussione si veda Linda Maggiori, Caccia selvaggia, in “Terranuova”, settembre 2025, pp. 10-22. 3 Bruna Bianchi, Ecopedagogia, Napoli 2021. 4 Citato in Fred Bodsworth, L’ultimo dei chiurli (1955), Milano 2025, p. 9. 5 Rachel Carson, Primavera silenziosa, Milano 1963, p. 241. 6 In “Illustrated London News”, 6 gennaio 1900, pp. 18-19. 7 Matt Cartmill, A View to a Death in the Morning. Hunting and Nature through History, Cambridge-London 1993. 8 José Ortega y Gasset, Méditations sur la chasse (1942), Québec 2017, pp. 65-66. 9 Dalla Makivik Corporation, rappresentante legale degli Inuit nel Quebec settentrionale; si veda anche Susan McHugh, Love in a Time of Slaughters. Human-Animal Stories against Genocide and Extinction, University Park 2019. 10 Giving Voice to Bears, Lanham 2003. 11 Wolf Nation, Philadelphia 2017, p. 25 12 Who Speaks for Wolf. A Native American Learning Story, San Anselmo 1991. 13 Risposta a Parise sulla caccia, in Ead., Le piccole persone, Milano 2016, p. 140. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ANNAMARIA MANZONI: > L’ambigua fascinazione della caccia -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo I lupi, la caccia, la guerra proviene da Comune-info.
Territori Resistenti: le connessioni tra caccia e militarismo a Bologna
Dal 26 al 28 settembre si è svolta a Monte San Pietro, in un luogo immerso nella natura dei colli intorno a Bologna, una 3 giorni organizzata da RIOTDOG con la collaborazione di altre realtà, denominata Territori Resistenti e dedicata alla lotta contro dominio, caccia e colonizzazione. In particolare, durante la seconda giornata dei lavori, i partecipanti sono stati invitati ad un dibattito teorico sulla caccia, volto a declinare il tema in relazione a cinque diverse prospettive: il militarismo, il colonialismo, il patriarcato, lo specismo e l’industria agroalimentare. Per il nostro Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università è intervenuto Giuseppe Curcio, al quale è stato chiesto di coordinare il gruppo che aveva il compito di analizzare le connessioni tra caccia e militarismo. Ciascun gruppo ha preso posto in un angolo diverso del suggestivo luogo in cui si è svolto il weekend di lotta e riflessione e dall’analisi sviluppata dal confronto sono emersi alcuni aspetti principali che sintetizziamo di seguito. Innanzitutto, si è pensato di distinguere un piano cognitivo ed un piano più fisico e materiale nelle quali operano le dinamiche e le strategie messe in atto negli ambiti del militarismo e della caccia, anche se talvolta questi piani si intrecciano: * analogamente a quanto avviene nel processo di militarizzazione, anche chi sostiene la caccia opera su un piano cognitivo e necessità di legittimazione del proprio ruolo e della propria presenza e la sua azione adducendo elementi che vadano a favore della collettività collaterali e complementari al semplice uso delle armi per uccidere. Ad esempio, se i militari evidenziano i compiti che hanno a che fare con la protezione civile e gli interventi in materia di tutela ambientale, anche i cacciatori cercano di autolegittimare la propria funzione affermando che la loro presenza sul territorio aiuti a mantenere puliti i boschi e protetti i luoghi naturali grazie alla loro opera; * il tema del dominio e del controllo del territorio sono caratteri peculiari che contrassegnano sia la caccia che quello della militarizzazione: entrambi questi mondi vedono i territori come target da conquistare e da predare per esercitare il loro dominio su altri esseri viventi, umani nel caso della guerra e non umani nel caso della caccia. Nell’ottica del dominio il controllo del territorio diventa un elemento chiave: una battuta di caccia o un’esercitazione comporta l’espulsione di ogni altro essere umano da quel pezzo di territorio per avere mano libera col pretesto della sicurezza; * anche la caccia tende a mettere in atto, come avviene con il militarismo, un processo di normalizzazione della sua presenza nella società per farla percepire come un’attività legittima e del tutto intrecciata con la presenza umana nei territori, come una forma normale di gestione e regolazione della sicurezza dei luoghi per mantenere alcuni equilibri, che non sono poi veramente tali (ad esempio, gli abbattimenti programmati di alcune specie di animali come i cinghiali, quando superano determinate dimensioni); * l’aspetto ludico-sportivo rappresenta poi un elemento chiave su entrambi i versanti, soprattutto per avvicinare i giovanissimi, nell’ottica di far percepire loro come la caccia o la vita militare possano essere una naturale prosecuzione di quel gioco “sparatutto” o di quello sport praticato in gioventù (tiro al piattello, tiro con l’arco o con la balestra, orienteering, sopravvivenza, etc.) e rappresenta anche un percorso per testare capacità ed abilità ai fini di un “reclutamento” successivo. Non a caso, l’attività di propaganda nelle diverse iniziative pubbliche di divulgazione del mondo della caccia e del mondo militare prevedono la presenza di aree adibite a mettersi alla prova in tali specialità o anche nei poligoni di tiro. Una propaganda volta sia a normalizzare che a reclutare; * la spettacolarizzazione dell’attività svolta ha poi la funzione di affascinare e coinvolgere rendendo più “leggero” l’impatto sulla percezione della cittadinanza e dell’opinione pubblica in generale. La morte viene spettacolarizzata per abbassare il livello delle pregiudiziali morali contro queste attività: si sono menzionate anche le gite via terra e via mare, i tour sui colli o i tour in barca degli israeliani di fronte a Gaza dove, come in un orrendo safari, una guida mostra come l’esercito israeliano bombarda i civili palestinesi nelle loro case, mentre i “turisti” osservano tutto con l’ausilio di un binocolo, come avviene appunto anche nelle battute di caccia; * si osserva inoltre una connessione legata alla prospettiva specista: nelle grandi guerre o ad esempio nel genocidio in corso a Gaza si tende a giustificare le stragi perpetrate con un processo di animalizzazione e quindi deumanizzazione delle vittime. Si considerano gli esseri umani uccisi quasi come bestie, come animali per togliere valore alle loro vite. E così succede nella piattaforma di giustificazione della caccia, dove si tratta realmente di animali, i quali vengono ingiustamente presentati come esseri viventi legittimamente sacrificabili, quasi come se fossero nati per essere puntati e uccisi senza riconoscere la dignità e la sacralità della loro vita; * ma anche nell’approccio più fisico e materiale, si tende in entrambe le categorie del militarismo e della caccia a far passare l’uso delle armi come qualcosa che rientri nella quotidianità e lo si fa talvolta anche avvicinando con pratiche, tecniche e strategie di marketing operativo portando ad esempio i consumatori ed i cittadini a frequentare i luoghi nei quali sono presenti le armi e tutto ciò che è connesso ai mondi della caccia e del militarismo (ad es. le armerie o semplicemente i reparti caccia e pesca di negozi di articoli sportivi ed i tanti luoghi “vestiti” con i colori del camouflage, anche nel settore dell’abbigliamento). Per comprare un fumogeno da portare in un corteo di protesta bisogna recarsi in armeria per via della specificità del prodotto legato a specifiche licenze, ma anche per un semplice coltellino per tagliare delle corde occorre recarsi in un negozio che abbia articoli di caccia e pesca e acquistare un “tagliabudella”; * il ruolo dell’innovazione tecnologica rappresenta un altro ambito di connessione fra caccia e militarismo. Dal progresso di alcune tecnologie nascono prodotti sempre più performanti e di conseguenza più impattanti nell’opera di distruzione e devastazione che pongono in essere: ad esempio             1) visori notturni utilizzati in guerra vengono adottati anche da chi caccia al buio;             2) l’intelligenza artificiale usata dai militari per mappare la morfologia dei territori viene utilizzata per individuare tane di animali o luoghi ideali per posizionarsi e cacciare;             3) le fototrappole possono essere utilizzate indistintamente in guerra contro soldati o civili, ma anche nella caccia per gli animali; * l’uso delle armi comporta poi un certo numero di “danni collaterali”, cioè anche esseri umani che ci rimettono la vita per un proiettile o un colpo partito per caso oppure anche per via dell’esposizione a sostanze dannose per la salute, come ad esempio l’uranio impoverito, il torio radioattivo, il cadmio, il piombo e l’antimonio: le munizioni all’uranio impoverito rilasciano nanoparticelle di metalli pesanti e radiazioni, che possono essere inalate e ingerite, causando danni alla salute come mesotelioma e tumori (in particolare linfoma di Hodgkin e leucemie), danni ai reni, al pancreas, allo stomaco e all’intestino; * l’accesso alle armi rappresenta un nodo fondamentale ed anche quello più visibile che accomuna il mondo della caccia alla sfera militare. Infatti, entrambi si presentano come opportunità per agevolare nell’accesso alla detenzione ed all’uso di un’arma, attraverso il patentino armi per uso di caccia oppure il servizio militare nelle Forze Armate o nei Corpi armati dello Stato può attestare l’idoneità al maneggio delle armi (DIMA), utile per l’accesso al porto d’armi; * L’impatto ambientale che la guerra e la caccia producono è significativo. La guerra è di sicuro l’attività umana più distruttiva in termini ambientali, nella fase di produzione delle armi, durante il suo utilizzo ed anche dopo la fine dei conflitti per la contaminazione che permane per decenni e secoli nell’ambiente. Anche la caccia, così come la pesca, rappresenta uno dei principali motivi che portano all’estinzione di alcune specie animali e si presenta come atto di predazione e colonizzazione della natura nei territori, oramai anche quelli più incontaminati e più lontani dai centri abitati. Gli inquinanti contenuti nelle munizioni contaminano l’ambiente per decenni; Le analisi e le risultanze dei confronti all’interno di ciascun gruppo sono state poi restituite in plenaria, evidenziando collegamenti fra le varie dimensioni analizzate, e contribuiranno a creare un opuscolo che riassumerà gli interessanti lavori della giornata e rappresenterà un prezioso strumento di divulgazione per una maggiore consapevolezza sul tema della caccia e sulle implicazioni che la sottendono. Infine, si è evidenziato come negli ultimi anni si sia verificata una convergenza della lotta contro la caccia con la lotta antimilitarista, ad esempio nella scena bresciana, dove gli animalisti hanno trovato un terreno comune per le loro rivendicazioni con chi combatte contro le armi, la NATO e la forte presenza militare sul territorio (è la zona in cui si trova la Beretta di Gardone Val Trompia, ma anche la base di Ghedi): un mondo senza armi, senza cacciatori, senza basi militari della NATO sembra davvero una prospettiva decisamente migliore di quella attuale. Anche se apparentemente quello della caccia può sembrare concettualmente distante da quello del processo di militarizzazione al di là di qualche elemento fisico comune, in realtà le connessioni hanno evidenziato dinamiche simili e terreno fertile per un approccio di lotta comune contro le armi e la predazione dei territori. Convergiamo e resistiamo insieme! Giuseppe Curcio, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, Bologna