I lupi, la caccia, la guerraSI MOLTIPLICANO IN MOLTE PARTI DEL MONDO LE PRESSIONI PER LA LIBERALIZZAZIONE
COMPLETA DELLA CACCIA. IN ITALIA, IL DDL SULLA CACCIA ORA IN DISCUSSIONE AL
SENATO, UN’AGGRESSIONE SENZA PRECEDENTI ALLA FAUNA SELVATICA, SI INSERISCE IN
QUESTO CONTESTO GENERALE DI ASSALTO ALLA NATURA. FORSE NESSUN ALTRO ANIMALE È
STATO TANTO ESECRATO E DEMONIZZATO DALL’UNIVERSO DEI CACCIATORI COME IL LUPO.
SCRIVE BRUNA BIANCHI: “NELLA VISIONE PATRIARCALE DELLA VITA FONDATA SULLA
VIOLENZA, LE RISPOSTE AI PROBLEMI CAUSATI DALL’INTERVENTO UMANO SULLA NATURA –
ESTRATTIVISMO, DEFORESTAZIONE, DEFAUNIZZAZIONE – SI PRESENTANO SEMPRE NELLA
FORMA DELLA DISTRUZIONE E INNALZANO IL GRADO DELLA VIOLENZA… L’ANALOGIA TRA
CACCIA È GUERRA NON È UNA SEMPLICE CORRELAZIONE TRA ATTIVITÀ SIMILI, ESSE SONO
LEGATE DALLA STESSA VISIONE DELLA VITA E DELLA NATURA COME TEATRO DI LOTTA,
CONQUISTA E AFFERMAZIONE DI POTERE… LA LIBERALIZZAZIONE DELLA CACCIA È UN
ASPETTO DEL PROCESSO DELLA MILITARIZZAZIONE VOLTO A PROMUOVERE E RAFFORZARE UN
MODELLO DI MASCOLINITÀ EGEMONICA…”.
unsplash.com
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[I lupi, la caccia, la guerra1]
Mentre la perdita di habitat, il cambiamento climatico, l’inquinamento, e non da
ultimo le guerre decimano la fauna selvatica, si moltiplicano in molte parti del
mondo le pressioni per la liberalizzazione pressoché completa della caccia
infrangendo le barriere erette grazie all’impegno di tanti attivisti e attiviste
e al sostegno di gran parte dell’opinione pubblica. Ciò sta avvenendo in Europa,
in Svezia, negli Stati Uniti, in Australia. In alcuni stati africani sono stati
eliminati i divieti alla caccia all’elefante per il commercio dell’avorio e dei
trofei e in Tanzania la popolazione Masai viene espulsa dalle sue terre con lo
scopo di trasformarle in riserve di caccia. Contemporaneamente in molti paesi i
progetti di reinserimento di lupi e orsi, che a partire dagli anni Novanta
avevano favorito il ripristino del naturale equilibrio tra prede e predatori,
sono stati interrotti, i loro scopi ripudiati, i loro risultati compromessi o
annientati.
In Italia il Ddl ora in discussione al Senato, contro il quale si sono schierate
55 associazioni, mai ascoltate nelle fasi di elaborazione del provvedimento, si
inserisce in questo contesto generale di aggressione alla natura. Esso prevede
la possibilità di cacciare ai valichi montani per abbattere gli uccelli
migratori diretti verso i luoghi di nidificazione, nelle zone protette, in aree
demaniali e lungo i fiumi; si potranno prendere di mira uccellini di pochi
grammi, utilizzare richiami vivi e della loro cattura fare commercio. Se
approvata, una tale liberalizzazione avrà gravissime ripercussioni sulla
biodiversità, accelererà processi di estinzione, aumenterà l’inquinamento da
piombo, richiamerà sul territorio italiano i cacciatori di altri paesi,
rafforzerà il potere dei produttori di armi e la loro influenza politica2. Le
conseguenze più gravi saranno quelle sul piano morale poiché il Ddl favorisce un
modo di intendere il posto dell’umanità nel mondo improntato alla violenza, alla
sopraffazione, all’avidità; induce a sopprimere sentimenti di empatia e
legittima la crudeltà come fonte di piacere.
Per quanto riguarda i grandi predatori, anche in Italia i progetti di
reinserimento, che negli ultimi decenni avevano consentito loro di riabitare una
piccola parte delle terre che avevano percorso per secoli, sono sotto attacco.
Il numero attuale dei lupi, valutato in 20.000 in tutta Europa, è stato
considerato insostenibile. La recente direttiva approvata dal Parlamento
europeo, e riconosciuta dal governo italiano come conforme all’interesse
nazionale, ha già declassato il lupo da specie “strettamente protetta” a specie
protetta, primo passo verso la caccia indiscriminata.
Viziata da una visione antropocentrica e dalla logica del dominio, la direttiva
lamenta l’aumento delle aggressioni a greggi e armenti e ignora alcune delle sue
cause più rilevanti, ovvero la riduzione delle prede naturali dei lupi in
conseguenza di caccia indiscriminata e bracconaggio.
Nel “nostro” mondo non c’è posto per il lupo né per gli orsi che, reintrodotti
nel Trentino, ora si vorrebbero ancora una volta sradicare.
Se i grandi predatori minacciano gli allevamenti, ostacolano l’agricoltura,
l’espansione edilizia e della viabilità, se si avvicinano alle abitazioni,
sottraggono le prede ai cacciatori, occupano spazi destinati al turismo, la
guerra aperta è dichiarata, una guerra che in un contesto di gravissima crisi
ecologica non può che tendere all’estinzione.
Caccia ed estinzioni
Quando la Caccia inizia
non c’è
futuro
per nessuno di noi
perché
il mondo [dell’animale] che si restringe
è anche
il nostro.
(Visionary Night)
Così ha scritto in una lunga poesia dedicata all’orso Sara Wright,
ecofemminista, etologa e psicoanalista junghiana.
La caccia – per divertimento o commercio – spinge sull’orlo del collasso interi
ecosistemi e aggrava costantemente processi di estinzione. L’estinzione di una
specie animale, risultato di millenni di evoluzione, è al contempo estinzione
dell’esperienza umana nella natura, una alienazione che affligge in particolare
i bambini e i ragazzi3. Con l’estinzione di una delle creature che abitano la
Terra, il suo modo di vivere e sentire, la sua presenza, la sua voce, una parte
del mondo scompare. “Ogni sensazione di ogni essere vivente, ha scritto Vinciane
Despret, è un modo attraverso il quale il mondo vive e percepisce sé stesso e
attraverso il quale esiste”. Questo senso di dolorosa perdita è stato così
espresso dall’ornitologo statunitense William Beebe in un passo posto ad esergo
a L’ultimo dei chiurli, un’opera dedicata all’uccellino europeo migratore:
La bellezza e il genio di un’opera d’arte possono essere ricreati, anche se la
sua prima espressione materiale è andata distrutta; un’armonia svanita può
ancora ispirare il compositore, ma quando l’ultimo esemplare di una specie di
esseri viventi cessa di respirare, un altro cielo e un’altra terra devono
passare prima che uno così possa esistere di nuovo4.
Dal chiurlo dal becco sottile, al piccione migratore, dal giaguaro alla tigre
della Tasmania, dalla foca dei Caraibi, al lupo delle Falkland, al canguro
notturno, all’aquila di mare, l’elenco degli esseri che non rivedremo mai più si
allunga di giorno in giorno e la caccia ne è in molti casi la principale
responsabile.
La guerra al “nemico animale” e il suo sterminio – insetti, lupi, bisonti, volpi
volanti, orsi, linci, e molte altre specie – condotta come ogni guerra in nome
del diritto all’“autodifesa”, ha trascinato sull’orlo del collasso interi
ecosistemi che sostengono la vita umana e non umana. Già Rachel Carson nel 1962
in Primavera silenziosa aveva ammonito sulle “disastrose conseguenze cui si va
incontro quando si tenta di sconvolgere gli ordinamenti della natura”. La
biologa statunitense non si riferiva solo agli insetti insensatamente sterminati
con i pesticidi, un “elisir di morte” che stava compromettendo la rete della
vita, ma anche ai cervi kaibab dell’Arizona che in seguito alla eliminazione di
lupi, coyote e puma, si erano moltiplicati a tal punto da non trovare più
vegetazione con cui sostentarsi; e mentre i suoli si andavano degradando, i
cervi “cominciarono a morire in numero maggiore di quello che nel passato finiva
nelle fauci dei predatori”5.
A causa dell’incapacità di comprendere la complessità delle interrelazioni tra i
viventi, dei processi ecologici ed evolutivi, di sentirsi parte della comunità
planetaria, la forza generativa del pianeta si sta esaurendo. L’accelerazione di
questi processi non a caso ha coinciso con l’aumento della conflittualità a
livello internazionale e con la corsa al riarmo.
“La caccia, perfetta immagine della guerra senza colpevolezza”6
Nella visione patriarcale della vita fondata sulla violenza, le risposte ai
problemi causati dall’intervento umano sulla natura – estrattivismo,
deforestazione, defaunizzazione – si presentano sempre nella forma della
distruzione e innalzano il grado della violenza. Come la competizione per
l’accaparramento delle ultime risorse sfocia guerre sanguinose e genocidi, così
la lotta per l’ultimo animale, per scovarlo e ucciderlo in ogni luogo e
stagione, tende a varcare ogni limite. L’analogia tra caccia è guerra non è una
semplice correlazione tra attività simili, esse sono legate dalla stessa visione
della vita e della natura come teatro di lotta, conquista e affermazione di
potere. Cacciare gli animali per divertimento insegna agli uomini a godere del
senso della vittoria, a versare il sangue senza sentirsene colpevoli, tanto che
si può affermare che la liberalizzazione della caccia è un aspetto del processo
della militarizzazione volto a promuovere e rafforzare un modello di mascolinità
egemonica e militarizzata, personalità inclini a oggettivare gli esseri viventi
considerandoli prede, siano esse animali, donne o ogni possibile “nemico”. Ha
scritto Andrée Collard nel suo classico saggio sulla caccia dal punto di vista
ecofemminista,Shots in the Dark:
Alla base [della] caccia c’è un meccanismo che identifica la preda, la insegue,
compete per essa e si impegna a colpirla per primo. Questo avviene in modo
palese quando la preda si chiama donna, animale o terra, ma si estende a
qualsiasi fobia che si impadronisca e ossessioni una nazione, che si tratti di
un’altra nazione o di una razza diversa da quella dei gruppi al potere.
La caccia, com’è noto, è stata considerata un eccellente addestramento alla
guerra e l’immagine della guerra come impresa sportiva ha una lunga storia. Per
indurre i giovani a lanciarsi nell’avventura della morte, occultare le
sofferenze, i traumi, le mutilazioni, le ferite, le vite stroncate, la guerra è
stata spesso descritta con immagini derivate dalle scene di caccia, una attività
piacevole, virile, avventurosa e, soprattutto, eterna, ancestrale e come tale
indiscutibile. Questa interpretazione della caccia nelle sue connessioni con la
guerra come importante stadio evolutivo, sostenuta da una lunga serie di false
teorie sviluppatesi negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra
mondiale, ma già da lungo tempo è stata screditata7, negli ultimi anni sta
riemergendo.
Valga per tutti l’esempio biologo statunitense Jim Heffelfinger, già impegnato
nelle agenzie federali per la “conservazione” della fauna selvatica, che nel suo
articolo dal titolo La caccia è una questione di sicurezza nazionale, ha
scritto:
La coevoluzione tra caccia e mentalità guerriera può essere tracciata come un
filo ininterrotto lungo tutto lo sviluppo della nostra razza umana. Alcuni hanno
ipotizzato che lo sviluppo di un linguaggio complesso e di un pensiero astratto
negli esseri umani sia dovuto alla necessità di pianificare strategie di caccia
coordinate. Si tratta delle stesse abilità possedute dai migliori guerrieri.
Ma anche un semplice contadino abituato a cacciare poteva diventare un buon
soldato. A conferma di ciò portava l’esempio di un giovane del Tennessee:
Ho eliminato prima il sesto uomo; poi il quinto; poi il quarto; poi il terzo; e
così via. È così che spariamo ai tacchini selvatici a casa. Vede, non vogliamo
che quelli in prima linea sappiano che stiamo prendendo quelli dietro, così loro
continuano ad arrivare finché non li prendiamo tutti.
La testimonianza si riferiva ai campi di battaglia della Prima guerra mondiale.
Oggi, concludeva il biologo, “con la crescente popolarità delle armi da fuoco,
comprese le varianti AR-15 (fucili semiautomatici leggeri), il futuro del nostro
esercito e la forza della nostra sicurezza nazionale appaiono ancora più
ottimistici”. Se i cacciatori, dunque, rappresentano una informale riserva
militare, è importante coltivare le loro abilità, specialmente nell’uso delle
armi, e assecondare le loro passioni. In cosa consistono queste passioni? Molto
è stato scritto su questo tema e non è possibile affrontarlo qui, neppure per
accenni, ma vale la pena richiamare l’attenzione su alcune tesi avanzate dal
filosofo e sociologo José Ortega y Gasset in Discorso sulla caccia, l’opera più
letta e influente sulla natura di questa attività, che possono in parte spiegare
la ferocia con cui sono stati perseguitati i grandi predatori, in primo luogo i
lupi che oggi sono tornati nel mirino dei cacciatori.
Lupicidio e genocidio
Siamo le ombre dei boschi
sussurri argentati che si dissolvono
[…] prima del mattino.
Voci solitarie si uniscono
in un canto, nel gemito del vento.
La nostra eredità,
solo una manciata di echi morenti.
(Wolves of Sorrow di Kathleen Malley).
La caccia, nella sua essenza, scriveva Ortega nel 1942, è un’affermazione di
potere su un essere inferiore, l’animale, il quale non ha una vera vita, ma si
“lascia semplicemente vivere”. Stroncare quelle vite non ha quindi alcuna
rilevanza sul piano morale. Più oltre nella sua trattazione definiva la caccia
una presa di possesso” e “la morte [della preda] è il modo più naturale di
possederla”8. Se potere e possesso sono alla base della forza seduttiva ed
eccitante della caccia – e per descriverla in molti hanno usato analogie con la
sessualità, altro tema che meriterà un’analisi attenta –, quale potere più
grande di quello di sentirsi arbitri della vita e della morte di un grande
predatore nell’illusione di impadronirsi della sua forza, del suo coraggio,
della sua intelligenza, della sua bellezza riducendolo a un mucchio di pelliccia
insanguinata?
Forse nessun altro animale è stato tanto esecrato e demonizzato come il lupo.
Dagli Stati Uniti, alla Russia, all’Europa, all’Asia, la guerra al lupo,
perseguita per secoli, a partire dall’Ottocento, con lo sviluppo
dell’allevamento e dell’agricoltura, ha assunto i caratteri dello sterminio. Da
allora i lupi sono stati uccisi con il fucile, nei boschi, dagli elicotteri e
dagli aerei, con i veleni, le tagliole; sono stati feriti e lasciati morire,
finiti con il bastone, soffocati per le pelli e i trofei, torturati per odio.
I cacciatori cosiddetti “sportivi” sono stati determinanti nello sterminio del
lupo. Lo confermano le parole di Aldo Leopold, ecologo, cacciatore, fautore di
progetti volti a favorire l’incremento di quelle specie animali che i cacciatori
amano uccidere e che convinse i cacciatori “sportivi” a collaborare con i
progetti statali di sterminio del lupo e del leone della prateria. Ricordando
l’incontro e l’uccisione di una lupa, scrisse: “pensavo che un minor numero di
lupi significasse abbondanza di cervi e che zero lupi fosse il paradiso dei
cacciatori”. In quel paradiso un predatore sarebbe stato sostituito da un altro,
ben più nefasto perché non uccide per la propria sussistenza, ma per il piacere
di farlo, e pertanto tendenzialmente senza alcun limite.
La caccia non ha solo spinto alcuni tipi di lupi nella “nera notte
dell’estinzione” – come quelli originari di alcune isole giapponesi – e ridotto
altri a poche decine di individui, come quelli del lupo arabo e del Messico, non
ha solo messo in moto un processo di degradazione ecologica e di estinzione a
catena di altre specie animali e vegetali, ma è stata anche strumento del
genocidio.
È quanto accadde a partire dal 1870 con lo sterminio dei bisonti che
percorrevano le Grandi pianure americane, le antiche prede dei lupi e fonte di
sostentamento per i popoli nativi. Lupi, bisonti e “indiani” furono sterminati
con la stessa determinazione e spietatezza, obbedendo alla stessa logica del “o
noi o loro” che non lascia spazio per la coesistenza e la reciprocità.
Nelle terre che i bisonti attraversavano fertilizzandole, una volta che furono
“liberate” per l’agricoltura e l’allevamento, il dissodamento eccessivo causò
l’erosione dei suoli all’origine delle terribili tempeste di sabbia (Dust Bowls)
che negli anni Trenta devastarono le regioni centrali degli Stati Uniti, prima
manifestazione della crisi ecologica globale che ci affligge oggi.
Un esempio più recente è quello dello sterminio dei “cani da slitta” (qimmiiq) –
cani discendenti dal lupo bianco artico per il quale il 23 novembre 2024 il
governo canadese ha porto le sue scuse alla popolazione Inuit. Al fine di
annientare la cultura dei nativi, costringerli ad abbandonare le loro terre,
strapparli alla condizione nomade e impiegarli come mano d’opera a basso costo
nelle industrie e nelle installazioni militari, tra gli anni Cinquanta e la metà
degli anni Sessanta nelle regioni artiche del Canada furono uccisi –
prevalentemente dalla polizia, ma anche da tanti volonterosi cacciatori,
insegnanti, missionari, impiegati governativi – migliaia cani che, trainando le
slitte, consentivano agli Inuit di spostarsi per la caccia di sussistenza
distruggendo anche un profondo legame affettivo e spirituale con gli animali. Ne
offrono una testimonianza toccante le memorie raccolte dalla Commissione di
inchiesta promossa dalla comunità Inuit e riprese nel documentario Echo of the
last Howl9. Le parole degli anziani rievocano il dolore per la perdita dei loro
compagni animali, membri di una famiglia allargata, collaboratori che con la
loro impareggiabile conoscenza del territorio erano in grado di valutare lo
spessore del ghiaccio, ritrovare la strada di casa in condizioni atmosferiche
estreme quando la vista umana era completamente offuscata. Una cultura
millenaria, un modo di vita olistico, in cui “gli umani, la neve e i cani” erano
“un insieme unico”, sono stati spezzati per sempre dal potere coloniale.
Nella visione coloniale e patriarcale della vita biocidio e genocidio sono
strettamente connessi, rispondono alla stessa logica: sradicare l’altro da un
luogo definito come “proprio”, rimuoverlo dalla realtà al fine di creare un
mondo migliore, “a misura d’uomo”. L’uccisione di massa viene quindi immaginata
come una “distruzione creativa”, per eliminare gli inutili, i superflui, gli
inferiori, i dannosi. Sottesa a questa distruttività è la svalutazione della
vita dell’altro, una concezione della natura come cattiva, imperfetta, ostile di
cui il lupo è l’emblema temuto e odiato.
Da dove deriva il piacere di uccidere? Quali sono le motivazioni che hanno
spinto tanti uomini a farsi esecutori dello sterminio? Quali le giustificazioni
che hanno addotto? Su questo tema, a cui sarà dedicato un prossimo articolo, si
sono soffermati numerosi studi di orientamento ecofemminista che hanno indagato
il rapporto tra maschilità e caccia, analizzato scritti e raccolto le
testimonianze dei cacciatori sulla loro esperienza e il loro sentire (Andrée
Collard, Marti Kheel, Lisa Kemmerer, Brian Luke). Qui mi limito a citare le
parole di Jody Emel in un suo saggio sullo sradicamento dei lupi negli Stati
Uniti:
Si può uccidere per essere un animale, selvaggio, indomito. Esiste anche l’idea
che uccidere, con padronanza e maestria, può rendere un uomo più uomo secondo la
tradizione del codice venatorio […]. Si può uccidere per calpestare qualcosa che
si odia o si invidia: la libertà, la differenza, un posto nel mondo, “essere
allo stato selvaggio”. Si uccide anche per depravazione. […]. Uccidere è un modo
per mantenere il controllo […] o per obbedire ad un modello di eliminazione
metodico, razionale e tecnologico in cui chi se la cava bene è abile, lodevole
o, chissà, un cavalleresco avventuriero. È la congiuntura di questi fattori, di
queste sovrastrutture a rendere possibile [lo sterminio].
Chi parla per il lupo?
Quando, nel 1995, apparve per la prima volta il saggio di Jody Emel, avevano
appena preso avvio i programmi di reintroduzione dei lupi. In Idaho, a
Yellowstone, i progetti di più vasta portata e di maggior successo, e in
generale negli stati dell’Ovest, così come in Canada, coloro che si sono assunti
la responsabilità del reinserimento del lupo, sono stati in gran parte i nativi.
In Idaho, come scrive Marcie Carter, biologa appartenente ai Nez Perce, essi
hanno accompagnato i lupi nelle nuove terre, hanno seguito i processi di
adattamento e riproduzione, pubblicato rapporti, dato vita a progetti educativi,
una missione intesa come una rinascita spirituale, una occasione per riaffermare
e diffondere i propri valori culturali e il loro ruolo nella difesa della
biodiversità. “Si camminava con lo zaino in spalla e si ascoltava. È stato
fantastico”. Il primo lupo introdotto in Idaho è stato battezzato da una bambina
Nez Perce con il nome di “Chat Chaaht”, “fratello maggiore”. Ha scritto Suzanne
Stone, impegnata in vari progetti di reintroduzione del lupo in Oregon
ispirandosi alla visione dei nativi:
Ho seguito le tracce dei lupi, ho ululato con loro, ho pianto la loro scomparsa
e ho festeggiato la loro espansione in Oregon, Washington e California. Continuo
a pensare che non ci sia niente di più magico in natura del sentire il canto di
una famiglia di lupi echeggiare nelle foreste. È una voce che risuona nel
profondo del mio essere. Nel corso degli anni ho lavorato a fianco di
allevatori, ricercatori, capi tribù, biologi e altri ambientalisti per aiutare
tutti noi a imparare a convivere con i lupi e altri animali selvatici. Se siamo
riusciti a riportare i lupi, possiamo e dobbiamo ripristinare altre specie
autoctone che arricchiscono la biodiversità del mondo. Meritano i nostri
migliori sforzi per proteggere il loro futuro come nostri anziani selvatici e
hanno ancora tanto da insegnarci sul nostro legame con la terra.
Gli stessi sforzi sono stati messi in atto nella protezione degli orsi. Sempre
negli anni Novanta, ad esempio, sono stati i capi spirituali di una riserva
indiana nel Montana a proibire per primi la caccia e ad acquistare terreni dove
gli orsi potessero vivere e riprodursi. Lo racconta David Rockwell, negli anni
Ottanta guardia forestale nella riserva che, per favorire forme di convivenza,
ha raccolto dalla viva voce dei nativi le storie tramandate per secoli sui loro
rapporti con il grande predatore, “il nonno” onorato per almeno 100.000 anni10.
Tutte queste storie non sono retaggi di un mondo ormai tramontato, ma
rispecchiano una visione che guida ancora l’azione, ispira progetti educativi,
storie che hanno ancora molto da insegnarci.
Storie per reimparare a vivere sulla Terra
“Noi (Piedi Neri) abbiamo un detto: l’arma che spara a un lupo o a un coyote non
sparerà mai più dritto” (cit. in Brandy R. Fogg et al., p. 272).
Tornare a intendere noi stessi come parte di una comunità ecologica, rispettare
gli spazi delle altre creature, provare gioia nell’osservare il loro amore per
la vita – l’unica cosa che davvero ci unisce – rallegrarsi dell’ululato del
lupo, percepire la fugacità della sua presenza e cogliere la fierezza del suo
sguardo, richiederà la capacità di ascoltare e il coraggio di opporre alle
scelte inaccettabili fondate sul “o noi o loro”, il principio del “noi e loro”,
“noi con loro”, come ci hanno insegnato le visioni dei popoli indigeni e le loro
storie.
I nativi nordamericani – Navajo, Hopi, Cherokee, Seminole, Oneida, Nez-Perce,
Piedi Neri, Apache – riconoscevano negli animali individui dal valore intrinseco
e nei lupi una nazione sovrana delle Grandi pianure e se ne consideravano i
discendenti, membri della comunità planetaria. “Abbiamo imparato dal lupo come
sopravvivere e come essere più umani. Come onorare i nostri anziani, proteggere
e provvedere per le nostre famiglie e abbiamo imparato dai lupi la lealtà
necessaria per appartenere a una tribù”. Sono parole di un’artista nativa
riportate da Brenda Peterson11.
Le storie che per secoli hanno trasmesso questa sapienza di vita parlano del
profondo legame spirituale tra umani e lupi, di ammirazione, collaborazione,
rispetto, onore e riconoscenza. Il lupo, oltre a essere un maestro di caccia,
insegna pazienza, tenacia e capacità di sopportazione; è un compagno dotato di
poteri terapeutici, l’animale soccorrevole che nutre e protegge gli umani in
difficoltà, adotta i piccoli abbandonati, si prende cura delle donne
maltrattate, sperdute o scacciate; procura loro il cibo, offre il calore del suo
corpo e infonde il coraggio della libertà. Il più delle volte la protagonista
della storia è una lupa, come ha scritto Teresa Pijoan, custode delle storie dei
nativi, nella sua raccolta White Wolf Woman (Little Rock, 1992). Vivendo con i
lupi – narra una storia Sioux a proposito della donna fuggita da un marito
violento – “ella divenne forte, sentì la forza dei lupi dentro di sé, imparò da
loro” (ivi, p. 69). Questa storia si avvicina ad alcune di quelle raccolte in
Donne che corrono coi lupi da Pinkola Estés (1993) che celebrano l’intima
vitalità racchiusa nell’animo femminile.
Il tema del rapporto tra lupi e umani è al centro di una storia tradizionale
Oneida tradotta in inglese da Paula Underwood, Chi parla per il lupo, una storia
per imparare12 che ascoltò dal padre quando aveva tre anni e che si impegnò a
diffondere. Elaborata nel corso di molte generazioni, questa storia è stata
oggetto di riflessione in vari progetti educativi per adulti e bambini; è stata
utilizzata nelle scuole, nei corsi di ecologia, nei laboratori sulle modalità
decisionali e sulla costruzione della pace incoraggiando le persone a “pensare,
comprendere, ricordare”. Di seguito, la riassumiamo e ne riportiamo alcuni
brani.
***
Ai margini del cerchio di luce proiettato dal fuoco al centro del villaggio,
Lupo fissava le fiamme. Lo guardava affascinato un ragazzo di otto anni e si
chiedeva perché non avesse paura. Poi, dalla vicina collina una lupa iniziò a
ululare; a lei si unirono via via altri lupi. “La canzone parlava di come la
Terra fosse un buon luogo dove vivere” e di come tanta bellezza si possa
facilmente vedere nella Luna e nel Fuoco”. Poi il canto cessò e il lupo si
allontanò dal fuoco.
“Continuo a non capire, chiese al nonno il bambino. Perché lupo fissa il fuoco?
Perché si sente a casa così vicino al luogo dove viviamo? Perché Lupa inizia la
sua canzone su una collina tanto vicina a noi che non siamo lupi?”. “Ci
conosciamo da tanto, tanto tempo, disse il nonno. Abbiamo imparato a vivere uno
vicino all’altro”. Era una vecchia storia, e il nonno iniziò a raccontare.
TANTO, TANTO, TANTO TEMPO FA
Il nostro Popolo crebbe di numero, così che il luogo dove eravamo non era più
sufficiente
Molti giovani
furono mandati a cercare un nuovo posto
[…]
Ora, IN QUEL TEMPO
C’era uno tra il Popolo che era fratello del Lupo
Si sentiva così tanto fratello del Lupo
che cantava la loro canzone e loro gli rispondevano
Si sentiva così tanto fratello del Lupo che i suoi piccoli
a volte lo seguivano nella foresta e sembrava che volessero imparare da lui
[…]
Come HO DETTO
La gente cercò un nuovo posto nella foresta. Ascoltarono attentamente ciascuno
dei giovani
mentre parlavano di colline e alberi
di radure e acqua corrente, di cervi, scoiattoli e bacche
Ascoltarono per capire quale posto potesse essere più asciutto sotto la pioggia
più protetto in inverno e dove le nostre Tre Sorelle,
Mais, Fagioli e Zucca
potessero trovare un posto di loro gradimento.
[…] Ascoltarono ognuno di loro
finché non raggiunsero un accordo […]
Qualcuno chiese: Dov’ è il fratello del lupo?
CHI, ALLORA, PARLA PER il lupo?
MA IL POPOLO ERA DECISO
e le prime persone furono mandate
a scegliere un sito per la prima Casa Lunga e per liberare uno spazio per le
nostre Tre Sorelle
[…]
E POI IL FRATELLO DI LUPO TORNÒ
Chiese del Nuovo Luogo
e disse subito che dovevamo sceglierne un altro: “Avete scelto il Luogo al
centro
di una grande comunità di Lupi”.
[…]
“Badate, scoprirete
che è un posto troppo piccolo per entrambi
[…]
MA LE PERSONE SI TAPPARONO LE ORECCHIE
e non ci ripensarono. […]
Questo Nuovo Posto
aveva estati fresche, protezione invernale, corsi d’acqua impetuosi
e foreste tutt’intorno
piene di cervi e scoiattoli
c’era spazio persino per le nostre Tre Amate Sorelle
E LA GENTE VEDEVA CHE QUESTO ERA BELLO
e non vide
un lupo che osservava nell’ ombra!
Ma con il passare del tempo
iniziarono a vedere.
Videro che le prede che gli uomini cacciavano sparivano e che i lupi si facevano
sempre più audaci, ed entravano nel villaggio spaventando le donne e i bambini.
All’inizio pensarono di offrire del cibo ai lupi, poi cercarono di scacciarli.
Si accorsero anche che avrebbero potuto sterminarli.Il nostro Popolo crebbe di
numero, così che il luogo dove eravamo non era più sufficiente
Molti giovani
furono mandati a cercare un nuovo posto
[…]
Ora, IN QUEL TEMPO
C’era uno tra il Popolo che era fratello del Lupo
Si sentiva così tanto fratello del Lupo
che cantava la loro canzone e loro gli rispondevano
Si sentiva così tanto fratello del Lupo che i suoi piccoli
a volte lo seguivano nella foresta e sembrava che volessero imparare da lui
[…]
Come HO DETTO
La gente cercò un nuovo posto nella foresta. Ascoltarono attentamente ciascuno
dei giovani
mentre parlavano di colline e alberi
di radure e acqua corrente, di cervi, scoiattoli e bacche
Ascoltarono per capire quale posto potesse essere più asciutto sotto la pioggia
più protetto in inverno e dove le nostre Tre Sorelle,
Mais, Fagioli e Zucca
potessero trovare un posto di loro gradimento.
[…] Ascoltarono ognuno di loro
finché non raggiunsero un accordo […]
Qualcuno chiese: Dov’ è il fratello del lupo?
CHI, ALLORA, PARLA PER il lupo?
MA IL POPOLO ERA DECISO
e le prime persone furono mandate
a scegliere un sito per la prima Casa Lunga e per liberare uno spazio per le
nostre Tre Sorelle
[…]
E POI IL FRATELLO DI LUPO TORNÒ
Chiese del Nuovo Luogo
e disse subito che dovevamo sceglierne un altro: “Avete scelto il Luogo al
centro
di una grande comunità di Lupi”.
[…]
“Badate, scoprirete
che è un posto troppo piccolo per entrambi
[…]
MA LE PERSONE SI TAPPARONO LE ORECCHIE
e non ci ripensarono. […]
Questo Nuovo Posto
aveva estati fresche, protezione invernale, corsi d’acqua impetuosi
e foreste tutt’intorno
piene di cervi e scoiattoli
c’era spazio persino per le nostre Tre Amate Sorelle
E LA GENTE VEDEVA CHE QUESTO ERA BELLO
e non vide
un lupo che osservava nell’ ombra!
Ma con il passare del tempo
iniziarono a vedere.
Videro che le prede che gli uomini cacciavano sparivano e che i lupi si facevano
sempre più audaci, ed entravano nel villaggio spaventando le donne e i bambini.
All’inizio pensarono di offrire del cibo ai lupi, poi cercarono di scacciarli.
Si accorsero anche che avrebbero potuto sterminarli.Il nostro Popolo crebbe di
numero, così che il luogo dove eravamo non era più sufficiente
Molti giovani
furono mandati a cercare un nuovo posto
[…]
Ora, IN QUEL TEMPO
C’era uno tra il Popolo che era fratello del Lupo
Si sentiva così tanto fratello del Lupo
che cantava la loro canzone e loro gli rispondevano
Si sentiva così tanto fratello del Lupo che i suoi piccoli
a volte lo seguivano nella foresta e sembrava che volessero imparare da lui
[…]
Come HO DETTO
La gente cercò un nuovo posto nella foresta. Ascoltarono attentamente ciascuno
dei giovani
mentre parlavano di colline e alberi
di radure e acqua corrente, di cervi, scoiattoli e bacche
Ascoltarono per capire quale posto potesse essere più asciutto sotto la pioggia
più protetto in inverno e dove le nostre Tre Sorelle,
Mais, Fagioli e Zucca
potessero trovare un posto di loro gradimento.
[…] Ascoltarono ognuno di loro
finché non raggiunsero un accordo […]
Qualcuno chiese: Dov’ è il fratello del lupo?
CHI, ALLORA, PARLA PER il lupo?
MA IL POPOLO ERA DECISO
e le prime persone furono mandate
a scegliere un sito per la prima Casa Lunga e per liberare uno spazio per le
nostre Tre Sorelle
[…]
E POI IL FRATELLO DI LUPO TORNÒ
Chiese del Nuovo Luogo
e disse subito che dovevamo sceglierne un altro: “Avete scelto il Luogo al
centro
di una grande comunità di Lupi”.
[…]
“Badate, scoprirete
che è un posto troppo piccolo per entrambi
[…]
MA LE PERSONE SI TAPPARONO LE ORECCHIE
e non ci ripensarono. […]
Questo Nuovo Posto
aveva estati fresche, protezione invernale, corsi d’acqua impetuosi
e foreste tutt’intorno
piene di cervi e scoiattoli
c’era spazio persino per le nostre Tre Amate Sorelle
E LA GENTE VEDEVA CHE QUESTO ERA BELLO
e non vide
un lupo che osservava nell’ ombra!
Ma con il passare del tempo
iniziarono a vedere.
Videro che le prede che gli uomini cacciavano sparivano e che i lupi si facevano
sempre più audaci, ed entravano nel villaggio spaventando le donne e i bambini.
All’inizio pensarono di offrire del cibo ai lupi, poi cercarono di scacciarli.
Si accorsero anche che avrebbero potuto sterminarli.
MA VIDERO ANCHE
che un simile compito avrebbe cambiato il Popolo: sarebbero diventati Uccisori
di Lupi
Un Popolo che toglieva la vita solo per sostenere la propria […]
NON SEMBRAVA LORO
DI VOLER DIVENTARE UN POPOLO DEL GENERE
FINALMENTE
Uno degli Anziani disse ciò che tutti avevano in mente: “Sembra
che la visione del Fratello del Lupo
fosse più acuta della nostra”[…].
DA QUESTO
IL POPOLO HA IMPARATO UNA GRANDE LEZIONE
È UNA LEZIONE
CHE NON ABBIAMO MAI DIMENTICATO
[…] IMPARIAMO ORA A CONSIDERARE IL LUPO!
E così fu che le Persone escogitarono
un modo per porsi domande a vicenda ogni volta che si doveva prendere una
decisione
su un Nuovo Luogo o una Nuova Via. Cercammo di percepire il flusso di energia
attraverso ogni nuova possibilità
e quanto fosse abbastanza e quanto fosse troppo.
FINCHÉ FINALMENTE
qualcuno si alzò
e pose la vecchia, vecchia domanda per ricordarci cose
che non vediamo ancora abbastanza chiaramente per poterle ricordare.
“Ditemi ora, FRATELLI MIEI, DITEMI ora, SORELLE MIE
CHI PARLA PER IL LUPO?”.
La storia, come spiegò il padre a Paula Underwood, fu rielaborata, narrata e
ricordata per molto tempo, ma non poté essere trasmessa al “Nuovo popolo che
arrivò sulle navi di legno”. “Non abbiamo potuto insegnare loro a porre domande
al lupo. Non capivano che era il loro fratello. Noi invece sapevano quanto tempo
ci è voluto per ascoltare la sua voce”. Non capivano che trascurare od omettere
un solo aspetto della realtà può creare gravi difficoltà. “Avrebbero imparato?
Chiese Paula”. “A volte la saggezza viene dopo una grande follia” rispose il
padre.
Questo momento dovrebbe essere arrivato per noi. Se non avremo la forza morale
per acquisire una tale saggezza, dovremo riconoscere, come ha scritto Anna Maria
Ortese, che quella umiliazione e desolazione cui abbiamo sottoposto tutto ciò
che non è l’uomo […], giunta al muro di confine, dove non c’è più distruzione,
perché non c’è nulla, sta ora tornando verso di noi, umanità. E ciò che abbiamo
fatto, e tuttora freddamente facciamo, lo subiremo. E il conto ci sarà mandato a
casa13.
Ma allora, probabilmente, non avremo di che pagarlo.
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1 Questo scritto è una versione rivista e ampliata di un mio precedente articolo
pubblicato in “Erbacce”, con il titolo Chi parla per il lupo?.
2 Per una analisi puntuale del testo in discussione si veda Linda Maggiori,
Caccia selvaggia, in “Terranuova”, settembre 2025, pp. 10-22.
3 Bruna Bianchi, Ecopedagogia, Napoli 2021.
4 Citato in Fred Bodsworth, L’ultimo dei chiurli (1955), Milano 2025, p. 9.
5 Rachel Carson, Primavera silenziosa, Milano 1963, p. 241.
6 In “Illustrated London News”, 6 gennaio 1900, pp. 18-19.
7 Matt Cartmill, A View to a Death in the Morning. Hunting and Nature through
History, Cambridge-London 1993.
8 José Ortega y Gasset, Méditations sur la chasse (1942), Québec 2017, pp.
65-66.
9 Dalla Makivik Corporation, rappresentante legale degli Inuit nel Quebec
settentrionale; si veda anche Susan McHugh, Love in a Time of Slaughters.
Human-Animal Stories against Genocide and Extinction, University Park 2019.
10 Giving Voice to Bears, Lanham 2003.
11 Wolf Nation, Philadelphia 2017, p. 25
12 Who Speaks for Wolf. A Native American Learning Story, San Anselmo 1991.
13 Risposta a Parise sulla caccia, in Ead., Le piccole persone, Milano 2016, p.
140.
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LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ANNAMARIA MANZONI:
> L’ambigua fascinazione della caccia
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