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Perché la Silicon Valley sostiene Trump
-------------------------------------------------------------------------------- Apple park, Silicon Valley (California). Foto unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Nei racconti della Silicon Valley scritti da sé medesima, tutti disponibili in rete o in libreria, si legge di un capitalismo eccezionale, guidato da uomini fuori dal comune. E di un ambiente di lavoro magnifico, dove l’alienazione è pregata di accomodarsi fuori della porta. Ma i volti sempre sorridenti, gli spazi condivisi e gli edifici a emissione zero nascondono due zone d’ombra. La prima è l’estrattivismo nei confronti di persone e territori. Nel 2023 in Kenya, per fare solo uno dei tanti esempi possibili, OpenAI fa ripulire i suoi modelli d’intelligenza artificiale a migliaia di “schiavi del clic”, impiegati in turni massacranti a meno di due dollari l’ora. L’estrazione forzosa di risorse opera anche sull’ambiente. Mentre enormi quantità d’acqua ed energia vengono consumate nei centri di calcolo necessari all’intelligenza artificiale, le cryptomonete, oggetto dell’amore maniacale dei tecno-capitalisti, bruciano nel solo 2023 tanta energia quanto l’intera Australia nello stesso periodo di tempo. La seconda zona oscura è la composizione demografica della dirigenza. Le donne rappresentano il 50,9% della popolazione totale degli Stati Uniti, gli ispanici il 19,5% e gli afroamericani il 13%. Nella Silicon Valley i tre gruppi occupano, rispettivamente, l’8,8%, l’1,6% e meno dell’1% di tutte le posizioni direttive. La Silicon Valley non è solo un posto dove persone, tecnologia e ricchezza sono straordinarie. È anche il luogo dove questa eccezionalità viene trasformata in buona novella. Peter Thiel, fondatore di PayPal e Palantir, è il tecno-capitalista più impegnato nel diffondere il Vangelo che sale dalla valle. Lo fa con esemplare chiarezza in un saggio del 2009, The Education of a Libertarian, in cui rivendica per sé, in quanto capitalista, una libertà assoluta. Essere liberi è la precondizione per raggiungere obiettivi più alti: sfuggire agli apparati fiscali, sconfiggere il collettivismo, battere l’ideologia dell’inevitabilità della morte. Ma Thiel aggiunge: “Non credo più che la libertà e la democrazia siano compatibili”. Non sopporta, in altri termini, che in democrazia esistano regole valide per tutti, poveri cristi o ricchi a palate che siano. L’ideologia della libertà assoluta del capitalista si accorda alla perfezione con il secondo punto dell’ideologia di Thiel, il capitalismo come sistema che non conosce limiti. Il nemico numero uno del capitale senza confini è l’ambientalismo, più pericoloso perfino della Sharia e del comunismo. Il simbolo di un possibile futuro autoritario diventa così Greta Thunberg, secondo Thiel l’Anticristo del nostro tempo. È l’idea stessa di bene comune, su cui si basa l’ambientalismo, a farne il primo nemico del capitalismo. Quest’ultimo non può tollerare l’esistenza di ricchezze che non appartengono agli individui ma alle comunità che vivono sui territori. Nel caso dell’aria che respiriamo e dell’acqua dei mari e dei fiumi, è la collettività di tutte e tutti noi abitanti della Terra ad esserne proprietaria. Nel suo odio per l’ambientalismo, Thiel si muove nel solco di Ayn Rand (1905-1982), teorica del capitalismo assoluto: il legame sociale è schiavitù perché l’unico rapporto possibile fra l’individuo e il mondo è la proprietà. Ma se possono esistere solo proprietari isolati, il principio dell’ambiente come casa comune, che nessun privato ha il diritto di possedere, non può che innervosire gli ideologi della libertà totale del capitalismo. Nel contesto appena delineato, la Silicon Valley fa propria l’auto-rappresentazione dei capitalisti come la migliore classe dirigente possibile, perché frutto di una selezione naturale. È un’idea con una tradizione lunga oltre un secolo. Andrew Carnegie, il più importante industriale dell’acciaio negli Stati Uniti di fine Ottocento, la spiega così: “Anche se la legge [della competizione] può a volte risultare dura per l’individuo, rappresenta la cosa migliore per la razza perché assicura la sopravvivenza dei migliori in ogni settore”. I dirigenti prodotti dal capitalismo sono i più capaci perché escono vincenti dalla corsa al possesso di beni e denaro: il migliore non è Van Gogh, ma il mercante che riesce a venderne i quadri. In quanto superiori a tutti nell’accumulare ricchezza, i capitalisti non ne sbagliano una. A sentire Alex Karp, amministratore delegato di Palantir, “Se qualcuno fa un sacco di soldi con qualcosa, allora deve aver ragione”. Posizioni come quelle appena descritte spiegano il sostegno a Donald Trump da parte di Silicon Valley in occasione delle elezioni presidenziali dello scorso novembre. Il passaggio al trumpismo dei tecno-capitalisti consente la pratica del capitalismo alla Thiel, libero da qualsiasi limite. Se la crescita del capitale oggi si scontra col riscaldamento del pianeta, Silicon Valley non può che riconoscersi con entusiasmo nel negazionismo climatico della presente amministrazione repubblicana. In secondo luogo, schierandosi con Trump, Silicon Valley salda il suo elitismo, fondato sul dominio della tecnologia, con quello basato sul genere e/o il colore della pelle, con il sessismo e il razzismo, in perfetta coerenza con la composizione demografica della sua dirigenza. Il tecno-capitalismo si arruola così nel conflitto del secolo, la guerra del Nord contro il Sud, combattuta nelle banlieux parigine come nei campi di concentramento per immigrati, nei quartieri ispanici delle metropoli statunitensi come nelle strade di Gaza. Un’oligarchia di ultraricchi cafoni, quella che noleggia Venezia per un matrimonio, pretende di dominare il mondo. Ma non può agire da classe dirigente perché è incapace di affrontare i problemi della collettività. Salta allora sul carro del fascismo. Starà alla nostra Resistenza impedire che il presente stato delle cose si cristallizzi in un mondo neofeudale, con un’aristocrazia di tecno-miliardari esenti dal fisco al comando, un clero di informatici a gestire il sapere e una massa di servi a tenere in piedi la baracca. -------------------------------------------------------------------------------- Originariamente pubblicato su Officina Primo Maggio -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Perché la Silicon Valley sostiene Trump proviene da Comune-info.
Storia di un albero scomparso e di un parco divenuto sfondo-cartolina
LUCIANA BERTINATO, INSEGNANTE NOTA AI LETTORI DI QUESTE PAGINE, È TORNATA AL PARCO ZANELLA DI SOAVE A SALUTARE IL “PINO DI ALEPPO”, CHE I BAMBINI AVEVANO TRAPIANTATO CON LA CAROVANA DEI PACIFICI, NEL SETTEMBRE 2020, PER RICORDARE I PICCOLI SIRIANI E TUTTI I LORO COETANEI CHE NEL MONDO VIVONO IN ZONE DI GUERRA. LE PAROLE CON LE QUALI EMANUELA BUSSOLATI, SCRITTRICE, SPIEGÒ A BAMBINI E BAMBINE LA STORIA E L’IMPORTANZA BOTANICA, NONCHÉ SIMBOLICA, DI QUELLA PIANTA SPECIALE SONO UN MANIFESTO POTENTISSIMO. EPPURE OGGI DI QUEL PINO NON C’È ALCUNA TRACCIA… Qualche settimana fa sono tornata al parco Zanella di Soave (borgo a venti chilometri da Verona) a salutare il “Pino di Aleppo”, la pianta che i bambini avevano messo a dimora con la Carovana dei Pacifici, nel settembre 2020, per ricordare i piccoli siriani e tutti i loro coetanei che nel mondo vivono in zone di guerra. Ne rammentavo la crescita rigogliosa (due metri!) avvenuta in un ambiente di armonia, biodiversità e bellezza. Ho cercato… inutilmente. Nessuna traccia dell’albero! Il volto del parco mi è parso cambiato: tutt’intorno un silenzio muto, gli spazi verdi curati alla perfezione, scomparso ogni segno di gioiosa selvatichezza, assenti le voci e i giochi dei bambini. Soprattutto in estate, il cuore verde del borgo era animato da molteplici iniziative: presentazioni di libri e spettacoli teatrali, serate di cinema e laboratori di didattica ambientale, festival della Scienza, incontri di musica, arte, poesia e visite guidate al giardino botanico curato dall’associazione Veronautoctona. I prati, oggi falciati in modo impeccabile, ospitavano gli anni scorsi alcune bellissime specie di Tulipani (di Clusius e Tulipa Raddii), divenuti spontanei, e Orchidee (Ophrys sphegodes e Anacamptis pyramidalis) che, minacciate sulle colline veronesi, qui avevano trovato un sito di conservazione adatto, grazie all’applicazione di un attento regime di sfalcio che permetteva di esaltare la biodiversità. Qualcuno, evidentemente, ha inteso tutto ciò come disordine, in realtà vi era una progettazione volta a favorire la diversità di specie floristiche, insetti e microfauna. “Ora il parco è uno spazio bello, ma reso sfondo-cartolina, vuoto di esperienze collettive – mi dicono i volontari – È aperto ai turisti, ma è privo d’incontri, gesti e attività condivise che da sempre hanno favorito, tra i cittadini e in molte associazioni, un senso di appartenenza alla comunità. Serate infinite di chiacchiere, cene e aperitivi insieme, occasioni per trovarsi tra amici, cucinare e condividere tutti i progetti, i pensieri, arrabbiarsi ma poi ridere…”. Dopo oltre trent’anni d’impegno, cura quotidiana e coinvolgimento della cittadinanza, dunque, il circolo Legambiente Fuori Nota APS è stato allontanato dal luogo. “Non per volontà nostra – scrivono con amarezza i soci – ma per decisione dell’Amministrazione comunale di non rinnovare la convenzione che ci permetteva di prenderci cura del parco come spazio naturale e collettivo. Perché un parco pubblico non è un prato da affittare, ma un bene comune da coltivare insieme, nella tutela della biodiversità importante per la nostra sopravvivenza”. È accaduto così che, durante i lavori di ripristino degli spazi, siano state rimosse alcune piante, tra le quali il Pino d’Aleppo di cui i volontari si erano presi cura accompagnandone la crescita. “Dove sarà finito?”, chiedono i bambini e i giovani che, bambini quando fu piantato, ora hanno maggiore consapevolezza sul significato di quell’albero. La loro domanda, rivolta al sindaco, Matteo Pressi (candidato dalla civica “Cambiamo Soave”, iscritto alla Lega), con una lettera sottoscritta da un gruppo di cittadini, ha ricevuto una risposta, tanto rapida quanto vaga: “Agli atti non risulta nulla, motivo per il quale solo ora vengo a conoscenza della vostra attività, peraltro meritoria. Credo che l’albero sia stato rimosso e non ne conosco – al momento – la sorte”. Peccato che l’iniziativa della piantumazione sia stata documentata nel giornale comunale (“Pacifici al parco Zanella” – Soave informa, dicembre 2020) e realizzata con il patrocinio del Comune. Quel giorno tantissimi bambini giocarono a costruire le loro sagome pacifiche e ad assegnare un nome agli alberi: a quelli che stavano crescendo, per vivere insieme alle prossime generazioni, e a quelli che hanno fatto compagnia ai loro nonni e bisnonni. Proprio una nonna, Emanuela Bussolati, spiegò ai piccoli la storia e l’importanza botanica, nonché simbolica, di quella pianta speciale: “Quando ci si presenta a qualcuno, e si dice il proprio nome, ci si conosce a poco a poco ed è più facile essere pacifici gli uni con gli altri. Allora perché il nome “Pino di Aleppo” è cosi importante? Perché identifica un pino che cresce soprattutto vicino ad Aleppo, una città siriana, molto grande. Pensate… quando un tempo c’erano le vecchie carovane che portavano in Europa la seta, i vestiti o i tappeti, Aleppo era una città magica, da mille e una notte! Purtroppo, qualche anno fa in quella città è arrivata la guerra che, quando arriva, distrugge e non guarda in faccia nessuno, non conosce il nome di nessuno. È ancora peggio di una bufera perché è fatta da persone che uccidono altre persone. Non è facile essere pacifici perché la guerra, prima di tutto, è un atteggiamento che c’è dentro di noi… Ma possiamo coltivare la pace! È più vantaggioso! Invece Aleppo è stata completamente distrutta. Le foreste dei suoi pini, che un tempo erano ambiti perché sono alberi profumati, hanno un bel legno, e addirittura sono entrati nella mitologia, sono andate quasi del tutto perdute. Oramai i pini di Aleppo sono più diffusi in Europa, trapiantati nei giardini, che non in Siria dove sono stati tagliati in tutte le epoche per costruire navi da guerra e, oggi, sono stati bombardati. Questo piccolo pino dovrà affrontare le bufere, la pioggia, il caldo troppo forte, perciò va curato. Quando verrete nel parco guardatelo: osservate se è in buona salute, e poi toccatelo e lui sentirà che gli volete bene, che qui può crescere bene. Le piante sentono quello che noi sentiamo perché sono Natura come noi, che come loro siamo fatti di liquidi e di cellule solide. L’impasto di tutto il mondo è lo stesso. Quindi prendetevi cura del vostro amico albero. Questa è la cosa che sta alla base della volontà di essere Pacifici e anche delle leggi della Natura. È la Natura che ci permette di vivere bene tutti quanti su questa Terra, l’unica che abbiamo”.  Parole in sintonia con quelle pronunciate da Federico, alunno della Scuola Primaria: “Noi non possiamo parlare con le piante perché non conosciamo la loro lingua, il ‘piantese’, però possiamo entrare in contatto con tutte usando l’energia, il silenzio e l’ascolto”. Quelle di Giulia in visita al parco: “Qui gli alberi hanno più di cento anni e ci danno la pace. L’aria è fresca, le cicale cantano forte, la terra è morbida e i rami si muovono leggeri”. E di Luca che aveva colto l’utilizzo dello spazio come laboratorio creativo: “Abbiamo giocato con la natura senza aver bisogno di giochi”. Si dirà: “Era soltanto un piccolo pino!”. Eppure, ci sono gesti che custodiscono un grande valore simbolico e pedagogico, perché parlano di attenzione, cura e speranza, valori oggi fondamentali in qualsiasi ambito. Gesti piccolissimi, collettivi, quelli che noi volontari continueremo a fare in Natura con le bambine e i bambini: piantare semi che germoglieranno anche dove ora c’è il buio. -------------------------------------------------------------------------------- Luciana Bertinato, insegnante e socia di Legambiente -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Storia di un albero scomparso e di un parco divenuto sfondo-cartolina proviene da Comune-info.
C’era una volta l’acqua
16 agosto 2025 «Le acque Contrex e Hépar contaminate da microplastiche a causa delle discariche abusive della Nestlé. (…) Presentano un tasso record di microplastiche, 515 particelle di microplastiche per litro per Contrex e 2.096 particelle per litro per Hépar. Questi valori superano di 2.952 volte la media mondiale delle falde acquifere»., (++) Nestlé recidiva per l’ennesima volta. I media sono regolarmente pieni di scandali di cui si rendono colpevoli le grandi multinazionali nel campo della salute umana e dei danni ambientali, spesso con la complicità degli Stati. Uno scandalo che assume una luce sinistra, alla luce dell’intollerabile fallimento, il 14 agosto, della conferenza di Ginevra che avrebbe dovuto approvare, quinta e ultima tappa di un lavoro mondiale considerevole, un trattato internazionale sull’eliminazione del grave inquinamento delle acque del nostro pianeta causato dalle microplastiche. L’acqua non è più considerata acqua per la vita, fonte di vita. Tre grandi macchine l’hanno attaccata, devastata e hanno trasformato il suo ruolo e il suo valore. La prima è la grande macchina della predazione della vita che caratterizza l’economia dominante da almeno un secolo. Come ha fatto con tutti i beni naturali essenziali per la vita, ha ridotto l’acqua a una merce oggetto di accaparramento privato e di sfruttamento senza limiti in nome della libertà e del potere economico. Pensiamo a cosa sono diventate aziende per le quali l’acqua è fondamentale come Veolia/Suez, Nestlé, Xylem, Syngenta, Coca-Cola ,Unilever, Danone, Total Energies, Dow Chemicals, Bayer, Basf , Diageo. L’idea di bene comune pubblico mondiale (1) è stata massicciamente sostituita, prima ancora di essere attuata, dal concetto di bene economico privato, mercantile e industriale. Formalmente la sostituzione è avvenuta a livello della comunità internazionale nel 1992, in occasione del Primo Vertice Mondiale della Terra delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro . In tale occasione , la Banca Mondiale ha imposto e fatto approvare una nuova « Bibbia mondiale dell’acqua » (la Integrated Water Ressources Management . La “Bibbia” si basa su due principi fondamentali: l’acqua è un bene economico privato e l’accesso all’acqua potabile è subordinato al pagamento di un prezzo in funzione della quantità consumata, secondo il principio “chi usa paga”. Quest’ultimo è diventato il principio ufficiale dell’ONU nell’ambito della prima agenda dell’ONU 2000-2015 “Gli obiettivi di sviluppo del Millennio”. È stato confermato all’unanimità nell’ambito della seconda agenda dell’ONU 2015-2030 “Gli obiettivi di sviluppo sostenibile” (Obiettivo n. 6). (2) Anche se – paradossalmente – l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva nel frattempo approvato nel 2010 (28 luglio) una risoluzione che riconosceva, per la prima volta a livello delle Nazioni Unite, il diritto universale all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari. Di fatto, i 41 Stati contrari a tale riconoscimento, tra cui i paesi più potenti della Terra, Stati Uniti e Regno Unito in testa insieme a Russia, Giappone e Cina, sono stati messi in minoranza da una congiuntura favorevole alla grande maggioranza degli Stati del «Sud». Ciò non ha impedito loro di ignorare sistematicamente la risoluzione e di respingere qualsiasi nuovo documento delle Nazioni Unite che vi facesse riferimento formale. (3) Al di là, quindi, della risoluzione dell’ONU che è parte integrante del diritto internazionale , il principio dell’“accesso all’acqua per tutti su basi eque e a prezzi accessibili” è diventato il principio accettato dall’ONU e dal mondo degli affari e della finanza . Un principio diverso, se non addirittura opposto, al principio “tradizionale” del diritto universale all’acqua per la vita, finanziato dalla collettività attraverso il bilancio pubblico alimentato da una fiscalità progressiva e redistributiva. Già nel 1992 è stata posta fine all’economia pubblica dei beni comuni essenziali e ai principi della gratuità del diritto umano universale e dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani di fronte alla legge (ovvero 50 litri di acqua potabile al giorno per persona e, come eccezione provvisoria, 25 l/giorno a persona nei paesi “a basso reddito”). (4) In questo modo si sono aperte ampie porte ai  processi di liberalizzazione , deregolamentazione e privatizzazione dell’acqua e dei servizi idrici . Questi ultimi, sono passati, nel primo decennio del XXI secolo, dallo status di “servizi pubblici” a quello di “servizi di interesse generale” (SIG) per finire con lo status di “servizi di interesse economico generale” (SIEG), situazione attuale. (5) La seconda è la grande macchina della distruzione dell’acqua attraverso la contaminazione tossica L’industria chimica e altre attività industriali correlate hanno inondato e avvelenato tutte le acque del pianeta (superficiali, sotterranee, oceani…), con migliaia di prodotti inquinanti (pesticidi, fertilizzanti, microplastiche, rifiuti di ogni tipo…), compresi gli “inquinanti eterni” tra cui i terribili PFAS e TFA . Si tratta di una potente macchina di distruzione della salute degli organismi viventi della Terra, a cominciare dagli esseri umani. (6) All’inizio dell’esplosione della chimica agricola e industriale, più di 100 anni fa, i suoi promotori non erano consapevoli, almeno la grande maggioranza, degli effetti devastanti dei loro prodotti. Il problema è diventato uno dei più critici per la salute dei sistemi di vita della Terra, dal momento che gli industriali (anche agricoli) e i finanzieri , nonostante l’evidenza dei disastri scientificamente convalidati , si sono opposti alla riduzione e all’eliminazione radicale dell’uso di prodotti inquinanti. La loro opposizione rimane netta ancora oggi, in piena crisi idrica mondiale e nel contesto del devastante cambiamento climatico in atto .(7) Ricordiamo però che l’inquinamento tossico dell’acqua (e dell’ambiente) è dovuto principalmente alle attività umane e comporta: la perdita di biodiversità (morte di pesci, piante acquatiche…), rischi per la salute (malattie: colera, tifo, dissenteria, cardiovascolarie), danni agli ecosistemi (qualità dell’acqua, composizione delle specie, catena alimentare), danni economici (pesca, agricoltura, turismo, insicurezza industriale…) e l’indebolimento della democrazia partecipativa dei cittadini ridotti a vittime-spettatori passivi. Di conseguenza, l’opposizione degli industriali e dei finanzieri, spesso con la complicità dei poteri politici eletti (8), deve essere considerata illegale, se non addirittura criminale, in quanto «grave attentato alla salute umana, che rappresenta una violazione massiccia del diritto all’acqua delle popolazioni interessate e di altri diritti umani». (9) Infine, la terza è la grande macchina della finanziarizzazione dell’acqua e di ogni elemento della natura. La finanziarizzazione della vita è l’espressione più insidiosa del potere dell’economia capitalista di mercato e/o statale. Trasformando l’acqua in una categoria di capitale – il «capitale naturale», ovvero un bene finanziario – ne ha modificato la funzione vitale. (10) Ad esempio, la finanziarizzazione dei contratti a lungo termine per il commercio di acqua sfusa, così come quella delle «acque minerali in bottiglie di plastica » (11) significa che il valore dell’acqua è deciso dai mercati azionari altamente speculativi, dai mercati dei prodotti derivati, i più dissociati dall’economia reale. La loro gestione obbedisce imperativamente a criteri di redditività attraverso tecnologie che trattano le negoziazioni finanziarie al millesimo di secondo e , quindi, a prezzi molto variabili nel brevissimo termine. Conclusione provvisoria È illusorio pensare che nell’attuale contesto mondiale sia possibile trovare soluzioni ai problemi della predazione della vita, del disastro climatico e della contaminazione chimica tossica delle acque del pianeta, nonché della finanziarizzazione del mondo senza sradicare le cause strutturali della crisi globale in cui il sistema dominante ha fatto precipitare la vita del mondo. La soluzione incentrata sulla strategia della resilienza (mitigazione e adattamento) è solo una promessa di via d’uscita incerta e insufficiente e, per di più, riservata ai gruppi sociali più potenti.(12) Le tesi della Global Commission on the Economics of Water meritano attenzione, ma presentano anche importanti limiti.(13) Si basano su una «nuova» «strategia economica» mondiale di investimento, diversificata territorialmente attorno ad alcune grandi missioni pubbliche. Queste missioni dovrebbero consentire al mercato di soffiare il vento nelle direzioni desiderate. Nella seconda parte di questo articolo vedremo perché osiamo pensare e agire affinché l’acqua possa diventare un bene comune pubblico mondiale, per tutti, nella giustizia planetaria. Note (++) https://www.mediapart.fr/journal/france/090825/les-eaux-contrex-et-hepar-contaminees-aux-microplastiques-par-les-decharges-sauvages-de-nestle?utm….Nestlé ha colpito ancora. Nel 2024 ha ammesso di aver trattato per 12 anni le sue acque minerali etichettate come naturali in Francia (cosa rigorosamente vietata in tutto il mondo) per un fatturato superiore a 3 miliardi di euro. Lo Stato francese ne era stato informato e non ha fatto nulla. Ha proposto alle autorità giudiziarie competenti una procedura consensuale. È stata condannata a una multa di soli 2 milioni di euro! (1) L’Eau, res publica ou marchandise? Collettivo e Riccardo Petrella, La Dispute, Parigi, 2003 (2) https://agriculture.gouv.fr/odd6-garantir-lacces-de-tous-leau-et-lassainissement-et-assurer-une-gestion-durable-des-ressources (3) Su questa evoluzione, Riccardo Petrella, https://www.pressenza.com/it/2022/11/il-diritto-allacqua-in-via-di-demolizione/ (4) Secondo l’adozione nel 2002 dell’Osservazione Generale n. 15 da parte del Consiglio dei Diritti Economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite, che riconosce per la prima volta il diritto all’acqua come uno dei diritti umani fondamentali, gli Stati devono garantire a tutta la popolazione «l’accesso a un approvvigionamento sufficiente, fisicamente accessibile e a un costo abbordabile, di acqua salubre e di qualità accettabile per gli usi personali e domestici». (5) I servizi pubblici, compresi i servizi idrici, non sono più, nell’ambito dell’UE, ciò che erano in passato. Vedi https://www.vie-publique.fr/fiches/20223-la-notion-de-service-public. Il cambiamento è avvenuto con la direttiva europea sui servizi (2006) https://suap.regione.fvg.it/portale/export/sites/SUAP/allegati/archivio_file/Normativa/Normative_comunitarie/Direttiva_CE_123x_12_dicembre_2006.pdf (6) Una breve ma accurata analisi dell’inquinamento chimico dell’acqua da pesticidi, il caso dell’agricoltura vallona, https://www.canopea.be/qualite-de-leau-et-pesticides-lechec-global/ (7) ) https://www.pressenza.com/it/2025/06/la-nuova-strategia-europea-per-la-resilienza-nel-campo-dellacqua/ (8) https://www.pressenza.com/it/2024/02/lattacco-dellindustria-chimica-europea-al-piano-verde-dellue/ ((9) Cfr., già nel 2016, Sylvie Paquerot. « Crimini ambientali: se l’inquinamento dell’acqua uccide… purtroppo rende ». Criminologia, 2016, 49(2), pagg. 215-240. (10) https://www.pressenza.com/it/2024/05/finanza-e-acqua-mettere-fine-al-dominio-dei-predatori-della-vita-sui-diritti-universali-e-i-beni-comuni-mondiali/ (11) Nel 2004 ho definito questi due fenomeni rispettivamente «petrolizzazione» e «cocacolizzazione» dell’acqua. Intervista a David Cadasse, «No alla petrolizzazione e alla cocacolizzazione dell’acqua», https://www.afrik.com, 28 settembre 2004 (12) op.cit. nota 7 (13) In particolare, The Economics of Water. Valuing the Hydrological Cycle as a Global Common Good, 2024   Riccardo Petrella
Per una strategia mondiale dell’acqua al servizio  dell’umanità e della comunità  globale della vita della Terra
 Il 28 luglio si celebra il  15° anniversario della storica Dichiarazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 28 luglio 2010 che riconosce il diritto umano universale all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari. In questa occasione, ed anche in vista della nuova conferenza internazionale sull’acqua delle Nazioni Unite nel dicembre 2026, l’Agorà degli Abitanti della Terra ha trasmesso all’attenzione di Antonio Guterres, Segretario Generale dell’ONU, una lettera-memorandum (24 pagine) sul  tema Resilienza mondiale e l’acqua per la vita.   L’obiettivo è di presentare un  pacchetto di  cinque iniziative da prendere con forza e immediatamente allo  scopo di intervenire  sulle cause strutturali ,alle radici, della crisi mondiale della vita. Il cambiamento disastroso del clima e, conseguentemente, la crisi dell’acqua, in concomitanza con l’esplosione del sistema internazionale stravolto dalle proprie logiche di guerra,  di dominio e di esclusione (più di 4 miliardi di persone  prive di ogni protezione sanitaria),più Gaza, Sud Sudan, Congo, Trump… testimoniano   della gravità della crisi  n cui versa oggi la vita dell’Umanità e del Pianeta. Il  bloccaggio: i gruppi sociali forti che hanno il potere ed il controllo delle priorità, soprattutto quelli  USA (ed europei in sudditanza) non  vogliono e sono incapaci di realizzare i necessari cambiamenti strutturali del loro sistema. La convinzione alla base delle proposte contenute nella lettera-memorandum è che non solo è doveroso ma, soprattutto, è possibile arrestare il disastro climatico, come anche le guerre e le ineguaglianze, malgrado il  bloccaggio dei  dominanti. La convinzione è nutrita da tre evidenze su cui purtroppo  bisogna insistere per l’ennesima volta.  Primo. la stretta relazione esistente tra l’ aumento della temperatura media dell’atmosfera terrestre di più di 1,3°C  (dati del 2023) rispetto all’inizio dell’era industriale e  lo scombussolamento completo del clima.  Secondo, la principale causa (ma non la sola) del riscaldamento della Terra è costituito dall’immensa quantità di emissioni di gas a effetto serra superiore alla capacità di assorbimento da parte della Terra.  Terzo, il fattore principale di dette emissioni  specie negli ultimi  cento anni, è stato e resta la produzione e l’uso  di  energie fossili su cui  si è fondato lo “sviluppo” del sistema tecnologico ed economico  dominante occidentale, all’insegna della crescita  economica predatrice di tutte le risorse del pianeta. Un  insieme di  fattori e di interrelazioni di natura antropica. La natura non  c’entra un granché. Solo le società  umane potranno risolvere il problema  del cambio del sistema. Esse sono bloccate al livello degli obiettivi della  mitigazione degli effetti e dell’adattamento alle situazioni di crisi destinate  ad accentuarsi. Non sono  capaci, non vogliono, andare oltre, verso il cambio strutturale. Ciò  spiega il fallimento delle iniziative prese negli ultimi quarant’anni dette “contro” il cambiamento climatico: le due Agende dell’ONU  2000-2015  e 2015-2030 e le 30 COP-Clima,  le 16 COP-Biodiversità e le 15 COP-Deforestazione.   Tocca ai cittadini (di tutti i paesi)  ed ai popoli  della maggioranza degli Stati membri dell’ONU, che sono le vittime  della crisi globale del sistema, di battersi e creare  le condizioni per l’adozione di misure che mettono in movimento i processi d’inversione delle tendenze attuali e di liberazione della comunità globale di vita della Terra dalla predazione da parte dei gruppi  sociali dominanti.    Le cinque  iniziative proposte  Prima iniziativa. Anzitutto la sicurezza globale della vita: l’arresto immediato delle emissioni di gas serra senza alcuna eccezione, e dichiarare fuorilegge qualsiasi attività che vada nella direzione opposta. La maggioranza degli Stati dell’ONU deve proclamare che, di fronte all’imperativo della sicurezza collettiva planetaria, non esiste la sovranità della libertà delle imprese, dei mercati azionari, delle tecnologie, degli Stati. Seconda Iniziativa  Porre fine al diritto di appropriazione privata e commerciale della vita. È necessario abolire i brevetti sugli organismi viventi a titolo privato e a scopo di lucro.  La brevettabilità è stata una delle decisioni unilaterali della Corte Suprema degli Stati Uniti, diventata poi collettiva, più malsane degli ultimi 100 anni delle società occidentali. La brevettabilità del vivente ha contribuito ad accelerare la mercificazione e la privatizzazione generalizzata di ogni forma di vita. I brevetti sono alla base delle logiche di guerra e di dominio tecnologico ed economico-militare. È illusorio pensare di poter risolvere nell’interesse generale delle popolazioni i  problemi come il disastro climatico mondiale e la scarsità di acqua per la vita, senza liberare la vita del pianeta dal potere di appropriazione,  decisione e uso privato delle risorse materiali e immateriali . Terza iniziativa. “Liberare l’acqua del Pianeta dall’avvelenamento chimico. Ridare vita all’acqua”. I fiumi, i laghi, le zone umide, le falde acquifere – le “arterie della Terra” – si stanno prosciugando, morendo o la loro acqua non è più utilizzabile per uso umano perché avvelenata. La contaminazione chimica tossica  non risparmia nessun corpo idrico. E   I PFAS i TFA sono dappertutto. Nuociono gravemente  alla salute degli umani  e della natura. Generano paura e sfiducia. La contaminazione chimica costituisce un vero e proprio ecocidio del pianeta. L’eliminazione totale degli inquinanti eterni non può essere procrastinata per difendere gli interessi del mondo industriale, e  sacrificata sull’altare della competitività all’era della ri-industrializzazione dell’economia mondiale. La maggioranza degli Stati dell’ONU deve intervenire proclamando lo stato di emergenza delle acque del Pianeta e convocare un’Assemblea mondiale straordinaria degli abitanti della Terra per l’attuazione di un piano mondiale di disintossicazione del pianeta.  Quarta iniziativa. Rigenerare le acque della Terra. Smettere di soffocarle, La caratteristica vitale delle acque è  di scorrere.  Attualmente esistono più di 50.000 grandi dighe in tutto il mondo, di cui 19.000 di vecchia costruzione. I grandi fiumi sono tutti “tagliati” da decine di dighe. Uno degli effetti principali delle dighe e delle altre barriere di inquadramento dei fiumi è rappresentato dal loro “soffocamento”. Le dighe riducono la normale circolazione dell’acqua nel corpo della Terra. La crescente artificializzazione delle interruzioni dei flussi provoca numerose crisi di circolazione, embolie delle “arterie” della Terra. Nel corso degli anni, la portata si riduce, i fiumi si prosciugano, non portano più le loro acque al mare, la salinità dei loro delta aumenta pericolosamente, i pesci scompaiono. Inoltre, l’acqua “prelevata” è sempre più  fonte di forti tensioni tra popolazioni urbane e rurali, tra usi a fini lucrativi privati e usi di utilità collettiva e sociale per le popolazioni più deboli,  tra Stati a monte e  quelli a valle attraversati dallo stesso fiume. E’ in gioco l’esistenza, l’economia, la sicurezza delle popolazioni  aventi  tutte l’eguale diritto all’acqua per la vita.  I muri d’Israele costruiti nei territori occupati secondo  i bacini delle  falde sono un  esempio sconvolgente dell’uso micidiale del “soffocamento politico” delle acque. È necessario ampliare e rafforzare i processi di demolizione, ridimensionamento e riqualificazione delle grandi dighe con l’obiettivo di eliminare le 19.000 dighe obsolete e pericolose. E impedire la costruzione  di nuove   dighe sempre più gigantesche. Infine, quinta iniziativa.  Rifiutare  la trasformazione dell’acqua per la vita in una categoria dell’economia di mercato, ovvero in un «capitale naturale/avere finanziario». Occorre   una nuova risoluzione dell’ONU /al fine di aggiungere al  diritto universale all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari,  il riconoscimento dei diritti dell’acqua e della natura ad un buono stato ecologico. La Conferenza delle Nazioni Unite del 2026 dovrebbe essere l’occasione per la proposta della nuova risoluzione. Dovrebbe anche essere l’occasione propizia per una seconda importante aggiunta. Cioè,  conferire la personalità giuridica ai corpi idrici, ai fiumi, ai laghi e alle zone umide, in conformità con i nuovi sviluppi del diritto internazionale in materia di diritti della natura da proteggere sul piano della sua integrità ecosistemica. Alcuni paesi hanno già riconosciuto la personalità giuridica ai corpi idrici: la Nuova Zelanda  (Whanganui) il Québec (Magpie) la Spagna ((Mar intérior), l’India (Gange, Yamuna), gli Stati Uniti (fiume),  il Perù (Maranon). L’Ecuador, dal canto suo, ha persino inserito i diritti della natura nella sua Costituzione, primo paese a farlo.  PS Per consultare il testo integrale della lettera  memorandum, vedi agora-humanite.org Riccardo Petrella
Creare comunità nella catastrofe
IL FARE COMUNE COME AZIONE COLLETTIVA APERTA ALL’INCONTRO, COME MODO DI PARTECIPARE CAPACE DI INSINUARSI NEGLI INTERSTIZI TRA PUBBLICO E PRIVATO, MA SOPRATTUTTO COME PROCESSO CHE IMPLICA RELAZIONI DI FIDUCIA. A CASA BETTOLA, REGGIO EMILIA, PENSANO CHE IN BASSO SIA POSSIBILE PERFINO CREARE DIRITTO, COME AZIONE CHE APRE NUOVE POSSIBILITÀ A CHI È MENO PRIVILEGIATO. PRENDENDO SPUNTO DALL’ESPERIENZA MATURATA INTORNO A DIVERSI SPAZI SOCIALI DI NAPOLI, DOVE HANNO TRASCINATO ANCHE L’AMMINISTRAZIONE COMUNALE, QUELLI DI CASA BETTOLA VOGLIONO MOSTRARE CHE È POSSIBILE CREARE E GESTIRE I BENI COMUNI IN MODO COLLETTIVO. “PER QUESTO CHIEDIAMO CHE ANCHE IL COMUNE DI REGGIO EMILIA RICONOSCA CASA BETTOLA COME BENE COMUNE, DOTANDOSI DI UN REGOLAMENTO CHE RENDA POSSIBILE LA GESTIONE COMUNE DI SPAZI RIGENERATI DAL BASSO, PARTENDO DALL’ESEMPIO DEGLI USI CIVICI COLLETTIVI URBANI…”. IL LORO TESTO CREARE COMUNITÀ NELLA CATASTROFE. DALLA DIFESA DEL PUBBLICO ALLA COSTRUZIONE DEL COMUNE È GIÀ UN’AZIONE COLLETTIVA CHE VA OLTRE REGGIO EMILIA, È GIÀ UN MODO PER COMINCIARE DA “NOI”, È GIÀ UNA STRADA CON CUI RIFIUTARE LA PAURA CHE ACCOMPAGNA QUESTI TEMPI. PER SPINGERCI FUORI DALLA CATASTROFE Dopo dieci anni di occupazione, nel 2019 Casa Bettola ha formalizzato la propria relazione con il proprietario dell’immobile, la Provincia di Reggio Emilia, attraverso una convenzione che ne ha riconosciuto l’uso della casa cantoniera. Questa convenzione, della durata di cinque anni, ormai è scaduta da oltre un anno e oggi siamo di fronte alla sfida di ripensare la nostra relazione con le istituzioni del territorio con un approccio istituente, alla ricerca di una forma più vicina a quello che siamo e, soprattutto, quello che vorremmo diventare. Un percorso che guarda a un orizzonte condiviso: quello di riconoscere e consolidare esperienze come la nostra, che attraverso la pratica desiderano diventare fonte di diritto, contribuendo a creare norme capaci di tutelare le realtà esistenti e aprire la strada a quelle che ancora devono nascere sul territorio, nel Paese e oltre. Come diceva Eduardo Galeano, l’utopia è come l’orizzonte: si sposta man mano che andiamo avanti, e a cosa serve dunque se non continuare a camminare. È proprio questo continuo avanzare verso l’orizzonte che ci spinge a immaginare e costruire mondi nuovi, passo dopo passo. A questo proposito, il 7 giugno ci siamo ritrovatɜ a Casa Bettola in un’assemblea pubblica per intrecciare nuovamente teoria e pratica intorno al concetto di beni comuni e al fare comune. Un momento di confronto in cui, attraverso il racconto di esperienze concrete e riflessioni collettive, abbiamo provato a costruire insieme un pensiero che nasce dall’agire, e un agire che si lascia orientare dal pensiero, perché crediamo che teoria e pratica si generano reciprocamente, nella trasformazione continua dei contesti che viviamo. Al dibattito hanno contribuito Massimo de Angelis, docente universitario e autore di Omnia Sunt Communia, Maria Francesca de Tullio, costituzionalista e attivista de L’Asilo (Napoli), Ana Sofía Acosta Alvarado, ricercatrice e attivista dei Beni Comuni (Parigi), Nicola Capone, filosofo, docente, attivista e autore di Lo spazio e la norma.  In questo testo vogliamo mettere in evidenza le idee e le proposte più significative emerse dall’incontro con il desiderio di trasformarle di nuovo in pratica. Dal sostantivo al verbo: dai beni comuni al fare comune Possiamo parlare di fare comune, in inglese commoning, piuttosto che di bene comune, spostando il baricentro dal sostantivo al verbo. Il fare comune cambia la socialità, trasforma i modi di pensare e sentire, è aperto all’incontro, non già come atto individuale ma come processo collettivo. Oggi si dice che la partecipazione è in crisi: eppure basta guardare le folle ai concerti, nei centri commerciali, nei centri storici diventati mangiatoie per turisti; partecipiamo tutte e tutti, allacciati ai processi economici. La questione dunque non è la partecipazione, ma come si partecipa. Partecipare significa mettersi in relazione, nel pubblico partecipiamo votando, approvando le leggi o contestandole, mentre nel privato partecipiamo consumando e spesso in competizione con gli altri a loro discapito. Nel bene comune, la partecipazione si manifesta in altro modo: come forma di reciprocità tra collettività e singolarità in cerca di risonanza. Si trasforma il contesto di vita, sé stessi e si riflette su queste trasformazioni. È un processo di riflessione continua, in cui tutto è sempre aggiustabile, se si riscontrano dei limiti o delle criticità. Le esperienze come Casa Bettola introducono un altro modo di partecipare, che è generativo, crea sempre cose nuove. Le grandi crisi contemporanee, le disparità di ricchezza e redditi, il regime di guerra, non nascono dall’apatia, ma dal fatto che alcune forme di cooperazione sono egemoni, dominanti. Il nostro agire sociale nella quotidianità e nell’economia è racchiuso nella dicotomia pubblico/privato, che agisce come principio generale in quella che è la cooperazione sociale. Questa dicotomia separa ciò che è intrecciato, come vediamo nell’economia, che è un intreccio di relazioni tra esseri umani e altri umani, e umani e ambiente; in conseguenza a questa separazione forzata, le nostre vite sono continuamente esposte a crisi economiche, sociali e ambientali. Qui entra in gioco il commoning come altro modo di partecipare, negli interstizi tra pubblico e privato: non abolisce nessuna delle due sfere, ma si propone come forma alternativa, che inquina entrambe, e riarticola l’intreccio della cooperazione sociale oltre le soglie imposte da pubblico e privato. È un processo in continuo divenire, non è un modello fisso: implica coltivare fiducia, reciprocità e appartenenza, costruisce mondi e non si limita a (ri)-distribuire ricchezza.  Come ogni operazione, il commoning ha bisogno di risorse, che sono principalmente due: spazi e condizioni favorevoli perché esso si sviluppi. Consideriamo solo che in italia ci sono circa 7.000 edifici scolastici abbandonati, 5 milioni di case sfitte e una rete sempre più ampia di negozi vuoti, oltre a 2 milioni di ettari di aree agricole abbandonate, che potrebbero essere lasciate alla cooperazione sociale, per restituirle all’uso. Qui entrano in gioco le public-commons partnerships, che rappresentano un dispositivo istituzionale emergente per creare relazioni strutturate tra pubblico e comunità attive, in un regime di commoning. I beni comuni, per esistere, devono essere infatti gestiti da comunità, sempre. Le public-commons partnerships non vanno pensate come forma di delega, ma come campo negoziale trasformativo, che rompe l’automatismo binario tra pubblico e privato, generando circuiti relazionali che ridanno forma all’intreccio del sociale. Sono diametralmente opposte alle private-public partnerships: introdotte da Blair negli anni Novanta come modello di modernizzazione neoliberale per attrarre capitale privato per la gestione dei servizi pubblici, hanno però finito col comprimere i diritti. Nelle public-commons partnerships si tutela l’autonomia del commoning, senza subordinarlo a logiche di efficienza, mettendo in comune risorse pubbliche inutilizzate e riducendo l’asimmetria tra potere istituzionale e sociale.  Il mantra non è “non importa chi fornisce il servizio, purché funzioni”; la domanda è “chi partecipa alla creazione di valore sociale? Chi garantisce che rimanga comune?”. In Europa ci sono diversi esempi di public-commons partnerships in diversi ambiti: a Liegi c’è una notevole rete agroalimentare che, anche grazie al Comune, ha trasformato le modalità di produzione di cibo; a Londra e a Bologna abbiamo altri esempi virtuosi. Per farle funzionare ci sono due questioni cui prestare attenzione. La prima sono i parametri di valutazione: il settore pubblico è sempre chiamato a giustificare le proprie azioni, ma nei confronti del commoning non può utilizzare criteri aziendali, perché in esso i valori sono relazionali, qualitativi e non quantitativi; non possiamo usare metriche monetarie sul valore creato socialmente.  L’altra problematica è il riconoscimento della comunità che agisce nel bene comune. Essa non è organizzata come un’associazione, in cui c’è una gerarchia: nel commoning, la responsabilità e il potere decisionale sono del comitato, dell’assemblea partecipata orizzontalmente.  Viviamo in un tempo segnato da crisi multiple e con un enorme senso di impotenza nel creare possibili soluzioni. Citando Paolo Virno: l’impotente è colui che rimane paralizzato davanti alla coesistenza degli opposti, e ne è ipnotizzato. Essere ipnotizzati dallo spettacolo degli opposti vuol dire non sapere come agire, e riprodurre il sistema binario.  Come detto precedentemente, il problema non è la mancanza di partecipazione, ma la sua cattura all’interno del dispositivo neoliberale, che ci rende impotenti. Bisogna quindi infilarsi nelle fratture, e da lì pensare a nuove possibilità. Usi civici urbani collettivi: fare comune nelle città  Cosa sono dunque i beni comuni? Secondo Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia, costituiscono uno spazio con accesso a risorse naturali con regole condivise, che servono per la sostenibilità della risorsa. Oggi il tema della sostenibilità è importante soprattutto per la questione della crisi climatica. Questi gli elementi portanti: la risorsa, la comunità, le regole che ci diamo per viverla insieme. Ma questo non basta e abbiamo bisogno anche di altro, per differenziare il bene comune da una qualunque cooperativa. I paletti ulteriori devono quindi essere: la giustizia sociale e l’ecologia.  Infatti il capitale egemone si appropria continuamente delle parole “comune” e “comunità”. Sta a noi riprenderci questi termini, curarli e proteggerli. Vorremmo qui riportare l’esperienza napoletana come esempio riuscito di questa regolamentazione. Dopo otto anni di lotta di difesa del territorio, una lotta ecologica contro il traffico dei rifiuti tossici. Ci sono state esperienze di assemblea in discarica, nei blocchi stradali, durante le quali è nata la pratica di messa in comune che ha poi dato i suoi frutti in città nel 2011, quando c’è stato il referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici essenziali. Quel movimento lottò con forza per preservare le risorse sociali ed ecologiche. Mentre si stava scrutinando per il referendum, una parte di lavoratrici e lavoratori della cultura occupò il teatro Valle, a Roma. Anche da lì partì una stagione sui beni comuni, che è poi esplosa in tutto il paese. La difesa dei beni comuni riguardava i beni naturali, perché questa esigenza di occupare uno spazio culturale dunque? Il movimento precarizzato pensò che anche qui mancasse una tutela, quella di un luogo di produzione culturale. Quando pensiamo alla cultura pensiamo di solito solamente agli esiti: pubblicazioni, spettacoli, ecc. Senza spazi fisici però la cultura non si può fare, e a quel movimento servivano proprio gli spazi per potersi riunire e creare. Di teorico c’era il fatto di darsi delle definizioni, e di pratico il luogo in cui discutere. Nel 2011, appunto, il primo atto della nuova giunta De Magistris, rotto l’accordo tra centro destra e sinistra, viene inserito nello statuto comunale, all’art 3, la definizione di beni comuni, che veniva a sua volta dalla commissione Rodotà del 2007-8, dopo un intenso ciclo di lotte. In quella commissione viene data una definizione: i beni comuni sono quelle cose materiali e immateriali i cui usi sono utili per l’esercizio dei diritti fondamentali. Perché un Comune si dovrebbe dare questo strumento? Principalmente, per uscire dalla dicotomia pubblico/privato. Nel nostro paese, lo schema proprietario privato tiene in pugno sia il pubblico che il privato. I comuni si sentono i proprietari dei beni che appartengono a tutte e tutti, e da garante della collettività, come dovrebbe essere, finisce per sentirsi proprietario ed escludere la comunità dall’uso di quel bene. Col bene comune cambia tutto: non si è più passivi nell’interazione coi beni; nell’uso dei beni si esercita un diritto in modo attivo. Così facendo, possiamo funzionalizzare i beni ai diritti fondamentali non partendo dalla proprietà, ma interrogandoci sullo scopo di quel bene, al bisogno che soddisfa. Il bene comune interviene a garantire quella fruizione, restituendo il bene alla collettività. La legge non tiene dentro tutto, non sempre essa coincide col diritto, il quale nasce anche dalle pratiche, dagli usi, dalle consuetudini. Non si è né passivi né competitivi quando si è civici, al contrario si è collettivi e cooperativi. Per mettere in pratica tutto questo occorre però modificare lo statuto comunale, che permetta di riconoscere il bene e i soggetti che lo hanno reso fruibile. Il bene e il suo valore esistono già, dobbiamo solo renderli forma.  Il soggetto pubblico deve essere il primo a liberare spazi oltre il consumo per esercitare i diritti. A Napoli, quando le norme sui tagli della spesa pubblica dicevano di vendere beni pubblici, il comune ha deciso anzi di acquisire beni immobili per metterli a disposizione della comunità.  Una cosa simile è successa a Reggio Emilia: quando Casa Bettola ha stipulato la convenzione con la Provincia, essa non era una convenzione classica poiché non prevedeva un uso esclusivo, ma una dichiarazione di responsabilità, ritenendo importante, come a Napoli, creare diritto. Il diritto non serve a chi è già forte, ma a innovare il sistema per chi è meno privilegiato: Napoli ha creato proprio questo, una forma nuova di diritto da adottare in altri contesti. Sempre nel capoluogo campano, è stata riconosciuta la possibilità di autonormazione della comunità tramite assemblee aperte, in cui si redige un documento basato su alcuni principi imprescindibili: antifascismo, antisessismo e antirazzismo. Nessuno può appropriarsi degli spazi: lo spazio dell’ex Asilo Filangieri di Napoli ad esempio non ha avuto alcun bando, nessuna competizione per “ottenerlo”. Le regole di autogoverno sono state scritte dalla sola comunità con il metodo del consenso e recepite dall’amministrazione comunale in quanto espressione di partecipazione democratica. Fondamentale è includere la redditività civica del bene: la comunità ha rigenerato il bene, ha creato una comunità attiva e vivace laddove c’era un bene sottoutilizzato. Nel contesto partenopeo, in virtù di questa redditività civica, il Comune ha deciso di prendersi in carico gli oneri straordinari e le utenze, per eliminare barriere economiche di accesso.  Conclusioni. Per un nuovo inizio La storia di Casa Bettola inizia con un gesto che formalmente ha varcato la linea della legge per dare sostanza a un diritto. In questo momento non ci vogliamo porre al di fuori della legge ma rivendichiamo di essere parte attiva nella sua trasformazione, come comunità che genera diritto attraverso pratiche vive, usi e consuetudini radicati nel mutualismo, nella solidarietà, nella costruzione di legami sociali come fonte legittima di giurisprudenza, in quanto risponde a bisogni collettivi. Vogliamo poter creare e gestire i beni comuni in modo collettivo – non solo intesi come spazi e risorse -, ma relazioni, servizi e pratiche che ci permettono di soddisfare insieme i nostri bisogni, per costruire comunità, per vivere meglio insieme. Per questo chiediamo che anche il Comune di Reggio Emilia riconosca Casa Bettola come bene comune, dotandosi di un Regolamento che renda possibile la gestione comune di spazi rigenerati dal basso, partendo dall’esempio degli usi civici collettivi urbani. Una proposta concreta che rivendica il diritto delle comunità ad autogovernarsi per soddisfare i propri bisogni fondamentali. Non come sostituzione del pubblico, ma per liberare le potenzialità del comune come forza costruttiva, come energia viva capace di innovare il diritto e restituire centralità alle persone e alle relazioni che tengono insieme la comunità. Per fare questo abbiamo avviato un percorso con il Comune, con la consapevolezza che ci possiamo avvicinare agli obiettivi avanzando per gradi e che sarà possibile raggiungerli solo se siamo in tante e tanti che si organizzano insieme, approfondendo la democrazia ed estendendo il diritto. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MASSIMO DE ANGELIS: > Fare in comune -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Creare comunità nella catastrofe proviene da Comune-info.
Occupare l’utopia
Lunedì 16 giugno alle 16.15 all’Istituto Gramsci Siciliano di Palermo sarà presentato il volume “Occupare l’utopia. Per la liberazione e la costituente del Comune” a cura di Toni Casano e Antonio Minaldi, Multimage, Firenze 2025 Il primo ciclo di seminari del Caffè Filosofico Beppe Bonetti del 2021/22, che diede origine al libro Sfruttamento e dominio nel capitalismo del XXI secolo, edito da Multimage nel febbraio 2023 e curato – come quest’ultimo – da Casano e Minaldi, costituiva un’analisi dello “stato delle cose presente”. Affrontava infatti le contraddizioni del cosiddetto antropocene o capitalocene, il capitalismo della sorveglianza, la produzione immateriale, la finanziarizzazione dell’economia, i disequilibri geopolitici e le guerre legate alla precaria riconfigurazione del nuovo ordine mondiale. Il secondo ciclo di seminari del 2023/24, invece, ha prodotto questo secondo libro, uscito sempre per Multimage nel gennaio ’25, Occupare l’utopia. Per la liberazione e la costituente del Comune, che vuole essere la prosecuzione di quei ragionamenti, ma con una curvatura propositiva, il “che fare” insomma. Ecco perché tutte le sue sezioni hanno a che vedere con la liberazione: liberazione della Terra (natura, ambiente, giustizia climatica) liberazione delle donne (femminismi e transfemminismo, movimenti di donne in Chiapas, Kurdistan, Iran, movimenti per la pace) liberazione dei popoli (palestinesi, curdi, messicani zapatisti, migranti tutti) liberazione dal debito (internazionale, pubblico e privato, in quanto funzione essenziale del capitalismo) liberazione del o dal lavoro (operaismo, postoperaismo e pensiero libertario) liberazione del Comune (il bene comune autogestito come alternativa alla dicotomia pubblico/privato) Leggiamo nell’introduzione: Le pratiche di liberazione ci permettono di capire che i luoghi di utopia, i luoghi del mondo che non c’è, in realtà sono qui tra noi. Appartenendo già alle nostre vite, le attraversano in silenzio e in trasparenza, cercando voce per urlare tutta la loro dirompenza rivoluzionaria. La prospettiva di una necessaria unità dei movimenti e delle istanze di liberazione, per quanto lontana e difficile oggi possa apparire, non può e non deve essere concepita nei termini della semplice alleanza politica tra interessi diversi. È necessario pensare in grande e andare oltre. È necessario pensare da subito la convergenza e l’intersezionalità come la messa in comune di parti di un mondo futuribile, in cui il comune valoriale è già tra noi e ci fa da guida. Da quando abbiamo cominciato come Caffè Filosofico questo percorso (che contiamo di riprendere nel prossimo autunno con nuovi seminari di lettura e studio), l’instabilità economica e geopolitica del pianeta si è indicibilmente aggravata: il “mondo grande e terribile”, come lo definiva Gramsci, è insanguinato da più di 50 guerre ed è in corso un genocidio che forse supera per efferatezza quello nazista, da quando la vittima si è fatta carnefice, ossia dalla Nakba. Il “crepuscolo del vecchio ordine imperiale”, come lo abbiamo chiamato nell’ultimo annale di Pressenza, e la crisi del modello economico capitalistico – che conosce da sempre solo l’ipertrofia dell’industria delle armi, finanziata dagli Stati-Nazione, come rimedio ultimo a concorrenza e sovrapproduzione – dovrebbero indurci allo sconforto e alla rassegnazione. Pure ci ostiniamo nella speranza e nella proposta: è questione di sopravvivenza, ma è anche questione di dare un senso alla nostra vita e un futuro ai nostri giovani. Ecco perché l’intento dell’incontro di lunedì sera non è tanto quello di parlare del libro, quanto di utilizzarlo come spunto – e pretesto quasi – per continuare e approfondire il dibattito sul “che fare”. Converseranno insieme, oltre a divers* redattor* di Pressenza Palermo, Rosario Lentini, studioso di storia dell’economia siciliana moderna e contemporanea, e Luca Casarini, animatore del Social Forum di Genova nel 2001 e fondatore di Mediterranea che, con la nave Mar Jonio, tanti soccorsi di migranti in mare ha effettuato, incurante delle denunce per favoreggiamento di immigrazione clandestina, dei processi e del recente spionaggio informatico. Daniela Musumeci
Nel vercellese cittadini scalzi sconfiggono la mafia
L’associazione di chiama Sogni Scalzi e si occupa di bambini. Siamo a Cigliano, in provincia di Vercelli. Zona agricola di mais, riso, allevamenti bovini e, immancabili, zanzare. Eppure anche qui si è radicata la malavita organizzata. Sogni Scalzi ha partecipato a un bando di assegnazione di un terreno sequestrato alla mafia, proprio a Cigliano, in piena pianura padana. E, con i bambini e molti altri cittadini e enti incontrati nel lungo percorso di assegnazione e poi finalmente di lavoro, hanno trasformato questo terreno nell’Orto di tutti. Ecco come me lo ha raccontato Dario Lauria, instancabile organizzatore delle attività dell’associazione ciglianese. Ettore: L’ Orto di tutti a Cigliano è un’esperienza di restituzione alla comunità di un terreno sequestrato alla mafia. Siamo nel quartier Brancaccio, nella piana di Gioia Tauro o nelle campagne del foggiano? Dario: E’ vero, si tratta di Mafia anche se tutti sono abituati a pensare che sia solo nel Sud Italia con coppole e lupare, mentre invece ormai da anni tutti quanti sappiamo che è molto ben radicata anche al Nord Italia con colletti bianchi e, soprattutto nelle grandi città o dove vi sono capitali che circolano. Sinceramente non so dirti di quale “quartiere” stiamo parlando, nessuno tra gli enti pubblici ce ne ha mai parlato e presumo sia per un discorso di privacy…o tutela. Ettore: All’assamblea del Centro Territoriale di Volontariato a Santhià hai raccontato che non è stato facile ottenere in concessione il terreno. Come mai? R: L’iter di ottenimento è durato diversi anni poiché i cavilli burocratici e amministrativi sono molti. Inizialmente non si riuscivano a trovare soluzioni concrete e oggettivamente è stato perso moltissimo tempo. Avremmo anche potuto aver motivo di perdere la speranza e la gioia di realizzare questo progetto ma fortunatamente il Direttivo di Sogni Scalzi è composto da persone ricche di passione e tenacia e, con la collaborazione della nuova amministrazione, dell’Associazione Libera e dell’ANBSC (Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata) siamo riusciti a finalizzare l’iter di assegnazione del terreno! D: A chi sarà dedicato l’Orto di tutti di Cigliano? R: Il 24 giugno Sogni Scalzi vorrà dedicare “L’orto di Tutti” a Marcella Da Levrano, vittima di mafia di cui ci stiamo continuamente appassionando e documentando, grazie anche a sua madre che abbiamo avuto l’onore di conoscere e che ci sta raccontando molto di Lei e della sua incredibile storia. La nostra intenzione sarà quella di celebrare questa importante iniziativa proprio nel giorno in cui, secondo le indicazioni della madre, Marcella decide di liberarsi emotivamente dall’oppressione che l’ha tormentata decidendo di dare una svolta decisiva alla propria vita. Simbolo di Marcella e delle sue origini pugliesi sarà un ulivo che abbiamo scelto di piantare al “centro” dell’Orto di tutti e all’interno di una “gilda”, un’aiuola che rappresenterà un piccolo ecosistema che si manterrà in equilibrio grazie alla sinergia di tutte le piante, proprio come una comunità dovrebbe essere in equilibrio grazie alla sinergia tra tutti gli individui. Inoltre, meteo permettendo, presenteremo un murales che raffigurerà Marcella e la sua storia intrecciata con la Natura e con il contesto in cui si troverà, ricco di colori e vita. Chiaramente per l’occasione verranno invitati diversi ospiti come la madre di Marcella, l’Associazione Libera, tutti i collaboratori del progetto e i rappresentanti delle istituzioni pubbliche locali compreso il CTV. D: Adesso che è un “bene comune” che è stato restituito alla comunità da chi è frequentato l’Orto di tutti? R: Sin dal suo concepimento l’Orto di Tutti è stato sviluppato soprattutto per creare una piccola comunità di persone che collaborano, condividono passioni, interessi e si mantengono attive. Non a caso abbiamo partecipato e ci siamo aggiudicati il contributo Regionale per il bando relativo all’Invecchiamento attivo. Detto questo abbiamo creato un piccolo gruppetto di volontari tra i 30 e 65 anni che in base alle proprie disponibilità, alle proprie attitudini e alle proprie passioni dedicano il proprio tempo libero al mantenimento dell’orto in tutte le sue sfaccettature. D: Chi è coinvolto nell’iniziativa? Chi partecipa? R: Settimanalmente ospitiamo due gruppi di persone con fragilità sociali, fisiche e mentali del CISAS, il primo gruppo tendenzialmente composto da persone adulte e il secondo gruppo composto da adolescenti. Per l’occasione abbiamo studiato particolari soluzioni con strutture rialzate totalmente dedicate a loro e che potessero agevolare la realizzazione delle attività anche da parte di soggetti con difficoltà fisiche. Le prime insalate le hanno già raccolte e la gioia di poter cogliere qualcosa di cui ti sei interessato direttamente è stata davvero dilagante, quasi commuovente… D: Perché pensate sia importante per i bambini? R:I motivi sono molti, ma proviamo a sintetizzarli tutti in un concetto elementare. I bambini nei primi anni di vita ricevono una quantità infinita di stimoli dal mondo esterno che possono andare ad arricchire il loro bagaglio emozionale. Proviamo a pensare ad un bambino che mette per la prima volta le mani nella terra e ne comincia a percepire la consistenza, la temperatura, l’umidità, il profumo, il colore, il fatto che può modellarla a suo piacimento, secondo la propria creatività e che soprattutto da lì può nascere la vita… Ora immaginiamo di potergli spiegare che all’interno di questo straordinario elemento sono presenti una quantità impressionante di microorganismi, insetti e piccoli animaletti che vivono, si nutrono, si riproducono e contribuiscono a mantenere un piccolo ecosistema; Proviamo anche ad immaginare di mostrar loro come da un piccolo seme possa svilupparsi la vita, una pianta, un fiore o un ortaggio di cui potrà cibarsi.. Ecco con piccoli ed elementari passaggi come quelli che ti ho citato abbiamo fatto un enorme lavoro educativo; abbiamo attivato i cinque sensi, abbiamo creato empatia per qualsiasi forma vivente e abbiamo creato il rispetto per quello che li circonda. E che cos’è l’orto se non un piccolo ecosistema di vita, di profumi, di colori di cui prendersene cura per se stesso e per la natura stessa? D: E per le persone che hanno delle fragilità? R: Niente di differente rispetto ai bambini, tutto quello di cui ti ho parlato prima avviene in tutti noi, persino a me quando sono all’Orto di Tutti, perso nelle potature e nella cura delle piantine. Personalmente non ho una formazione che mi permette di poter fare considerazioni scientifiche e dettagliate, ma quello che posso sicuramente affermare è che prendersi cura di qualcosa, di qualcuno, usare le mani, la mente e la propria creatività è terapeutico, allevia lo stress e crea una sorta di distacco dalla realtà che spesso ci opprime. D: Il Comune, le istituzioni ci sono? R: In questo ambito non posso dire che le Istituzioni siano presenti in forma “fisica”. Fondamentalmente il ruolo del Comune in questo progetto era quello di metterci a disposizione il terreno e come ti ho accennato precedentemente, siamo riusciti ad ottenerlo. Altre istituzioni in genere non ne abbiamo ma abbiamo molte collaborazioni con diverse associazioni del territorio, come appunto il CISAS con gli appuntamenti settimanali, la So.M.S di Cigliano che ci supporta in tutte le nostre iniziative, l’Associazione ITACA con cui realizzeremo un “campo giulivo” e la più recente, l’Associazione SAN VINCENZO che si occupa sostanzialmente di supportare le famiglie del territorio in difficoltà a cui stiamo iniziando a destinare le eccedenze dell’orto per fare dei pacchi alimentari. D: Perché una forma di chiocciola come simbolo della vostra associazione? R:Bisogna ribellarsi a tutta questa frenesia che la società ci impone e riscoprire il piacere della lentezza, delle cose fatte con cura, delle cose fatte con piacere. La lumaca porta sulle sue spalle una piccola casetta a forma di spirale che rappresenta la ciclicità, l’evoluzione, il movimento e la connessione tra la Natura e qualcosa di superiore. In molte culture antiche e moderne, la spirale simboleggia la crescita, l’amore, la vita, il movimento dell’energia e il percorso spirituale dell’uomo. Per questo abbiamo scelto la lumaca, oltre che ad essere il simbolo del nostro logo! Ettore Macchieraldo
Mondeggi non è uno spezzatino
GESTIRE IN MODO COMUNITARIO E FARE AGROECOLOGIA: LE SFIDE DI MONDEGGI BENE COMUNE POSSONO APRIRE SCENARI INEDITI ANCHE ALLE AMMINISTRAZIONI LOCALI. SAPRANNO ASCOLTARE? -------------------------------------------------------------------------------- La comunità allargata che ha ridato vita e gestisce Mondeggi da undici anni è ancora in attesa che Città Metropolitana di Firenze pubblichi l’avviso di coprogettazione finalizzato a costruire il futuro della fattoria nel segno della condivisione e della partecipazione, come previsto dal codice degli appalti pubblici e dal codice del terzo settore. Intanto però filtrano indiscrezioni a mezzo stampa su quello che sarà o non sarà la Mondeggi futura. Dopo mesi di lavoro collettivo e di difficile e faticosa interlocuzione, emergono scenari che farebbero cadere uno dei principi fondanti dell’esperienza di Mondeggi: il bene comune. Siamo a conoscenza e condividiamo le funzioni sociali individuate da Città Metropolitana per il futuro di Mondeggi. Il progetto costruito dal basso da Mondeggi Bene Comune e la rete di associazioni e cooperative sociali del territorio le ha previste tutte, integrandole tra loro e con la gestione agroecologica dei terreni. Rigettiamo tuttavia con forza la logica di una “Mondeggi spezzatino” che vede ogni casolare vincolato a una specifica funzione sociale e quindi a uno specifico soggetto gestore: questa modalità da “condominio di associazioni”, non solo porterebbe alla perdita dell’essenza del bene comune e della sua gestione comunitaria ma metterebbe a rischio la sostenibilità anche economica dell’intero progetto. Lo abbiamo affermato e condiviso fin dal primo incontro della rete Mondeggi 2026 e lo abbiamo comunicato nei numerosi incontri che abbiamo avuto con dirigenti e politici della Città Metropolitana. La comunità di Mondeggi continua a credere che sia possibile fare un salto di qualità uscendo da modalità vecchie che non rispecchiano la realtà della fattoria come bene comune, che è fatta di incontri, connessioni, corresponsabilità, sperimentazione, agroecologia. È per noi assolutamente necessario che siano le realtà che parteciperanno alla coprogettazione a decidere collettivamente quali spazi usare e come. Non siamo disposti a cedere su questo punto. Vediamo se Città Metropolitana e Comune di Bagno a Ripoli sapranno ascoltare; per il bene del territorio e della grande esperienza collettiva di Mondeggi. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Mondeggi non è uno spezzatino proviene da Comune-info.
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Come sempre ore 17:00 piano terra! ✏️ 𝐎𝐑𝐃𝐈𝐍𝐄 𝐃𝐄𝐋 𝐆𝐈𝐎𝐑𝐍𝐎:L’odg si redige in mailing list ed è in continuo aggiornamento. Per iscriversi occorre partecipare ad almeno un’assemblea. Sul nostro 𝐬𝐢𝐭𝐨 (questo da cui stai leggendo) o nell’evento su FB trovi tutte le info necessarie!👉𝐄̀ 𝐋𝐀 𝐏𝐑𝐈𝐌𝐀 𝐕𝐎𝐋𝐓𝐀 𝐂𝐇𝐄 𝐕𝐈𝐄𝐍𝐈?È riservato uno spazio all’interno di ogni […]