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Venerdi sciopero generale. Soldi alla sanità pubblica non alle armi!
Dopo la partecipazione straordinaria alle mobilitazioni di settembre e ottobre contro il genocidio in Palestina e contro la guerra, è di nuovo il momento di scioperare e di scendere in piazza contro una legge di bilancio che taglia i servizi e condanna gli stipendi dei dipendenti pubblici ad anni di […] L'articolo Venerdi sciopero generale. Soldi alla sanità pubblica non alle armi! su Contropiano.
A difesa del diritto alla salute e della Sanità pubblica siciliana. È tempo di dire basta!
Era il 2008 quando Cuffaro veniva condannato in primo grado per favoreggiamento aggravato con Cosa Nostra. Recluso nel carcere romano di Rebibbia dal 22 gennaio 2011 è stato scarcerato il 13 dicembre 2015. Oggi, a distanza di quasi 10 anni dalla scarcerazione, ritorna sulla sanità siciliana l’ombra della gestione clientelare […] L'articolo A difesa del diritto alla salute e della Sanità pubblica siciliana. È tempo di dire basta! su Contropiano.
Le linee di indirizzo sulla contenzione, tra retorica dei buoni propositi e vuota burocrazia
(disegno di cykalov) Quando, nell’aprile del 2021, durante una trasmissione giornalistica della Rai, viene dedicato un approfondimento al tema “I disturbi dei giovani dopo un anno di pandemia” le telecamere entrano nel reparto di neuropsichiatria dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, diretto da uno dei luminari del settore, Stefano Vicari. La scena è molto diversa da quella che, in altre trasmissioni, racconta il quotidiano lavoro di altri reparti di questo ospedale: alla neuropsichiatria infantile, infatti, si accede attraverso una pesante porta d’acciaio, chiusa e allarmata, che la giornalista definisce «di massima sicurezza, dove dietro a porte antifuga ci sono telecamere in ogni stanza, e letti, armadi, comodini ancorati a terra». Poi Vicari aggiunge: «Non ci sono maniglie o appigli perché questi potrebbero essere uno strumento per potersi appendere. I sanitari sono in acciaio e non di ceramica in modo che non possano essere rotti e quindi utilizzati ancora una volta per farsi del male». Sia chiaro: nessun segno di incuria o sciatteria, anzi, tutto è assolutamente lindo e pulito, clinicizzato; medici, infermieri e inservienti sono tutti perfettamente in camice bianco. Eppure, nonostante alcuni disegni alle pareti e le riprese che indugiano su un bambino intento a giocare con una macchinina, le immagini restituiscono a chi scrive un profondo senso di claustrofobia e tensione, un ambiente che lascia riecheggiare dispositivi asilari. Non mi ha sorpreso dunque apprendere, successivamente, da alcune inchieste giornalistiche, che in quell’ospedale si utilizzi la contenzione fisica sui minori. D’altro canto, seppure spesso resti una prassi sottaciuta, anche in Lombardia ci sono reparti di neuropsichiatria (a volte pure quelli per adulti) in cui sono legati bambini e adolescenti, e così, seppur in assenza di dati certi, possiamo ipotizzare avvenga anche in altre regioni italiane. Bambini, ragazzi, giovani, sono dunque legati ai letti, braccia, gambe, a volte anche con il corpetto per il busto (e non solo nei reparti ospedalieri) come accade agli adulti e agli anziani, perché la contenzione, tra i più evidenti e dolorosi lasciti dell’armamentario manicomiale, continua ad essere parte sostanziale dell’intervento psichiatrico (e non solo di questo). Le tanto attese Linee di indirizzo per il superamento della contenzione meccanica nei luoghi di cura della salute mentale, approvate il 23 ottobre scorso dalla Conferenza Stato-Regioni, pur dichiarandosi “una cornice di carattere generale accompagnata da indicazioni specifiche per favorire il percorso di progressivo superamento della contenzione nei luoghi di cura della salute mentale”, e pur richiamando, con la Cassazione, che la contenzione non possa mai considerarsi un atto sanitario,  scivolano, nelle ventuno pagine di cui sono composte, nella sostanziale e acritica accettazione dello status quo, che nel breve e inconsistente paragrafo dedicato alle “specificità dei servizi di neuropsichiatria per l’infanzia e adolescenza” trova la sua più eclatante e sconcertante dichiarazione: “in riferimento alla prevenzione della contenzione dei minori – si afferma – valgono gli stessi principi generali descritti per gli adulti”. Nessuna specifica valutazione, nessuna adozione di un principio precauzionale almeno più stringente, nessuna considerazione sulla portata che quell’evento potrà avere sul futuro sviluppo del ragazzo, solo una serie di minime raccomandazioni che chiedono di informare e coinvolgere i genitori, di prestare particolare attenzione alla gestione ambientale e relazionale (soprattutto in caso di abuso di sostanze), di coinvolgere i minori nella formalizzazione di un non meglio specificato “piano crisi”, di utilizzare strategie mirate di analisi e modificazione delle catene comportamentali per la gestione della crisi nelle persone con disabilità intellettiva e/o autismo (sia adulte che minori). In ultima analisi si potrebbe affermare che queste Linee di indirizzo siano tra i primi documenti ufficiali in cui si legittima il ricorso della contenzione anche sui minori (certo come extrema ratio legata allo “stato di necessità”, la cui definizione e qualificazione, però, restano sostanzialmente vacue e discrezionali). Più complessivamente, tanto per gli adulti quanto per i minori, la solita elencazione di “buone pratiche” e le cinque striminzite “indicazioni per il progressivo superamento della contenzione” finiscono col rappresentare, come nelle tante linee guida di diverse aziende sanitarie che si sono succedute negli anni, da un lato, un vuoto esercizio di retorica dei buoni propositi, dall’altro una congerie di atti dal carattere meramente burocratico, volti a definire la correttezza delle procedure, a volte rischiando di produrre un paradossale effetto di ampliamento della liceità del ricorso alla contenzione. Si tratta, in definitiva, di un documento non solo inutile ed evanescente, privo di analisi di dettaglio e di contesto, di contenuti di merito rispetto alle necessarie risorse umane ed economiche, di un qualsivoglia valore prescrittivo, ma che rischia di essere, nella sua inerzia, anche pericoloso. Anche perché è al vaglio del parlamento un disegno di legge, il ddl Zaffini – presentato dal senatore di Fratelli d’Italia e adottato come testo base per la riforma del settore dalla Commissione Affari Sociali del Senato –, in cui, nella sostanziale indeterminatezza di alcune allocuzioni, si legittima normativamente il ricorso alla contenzione, lasciandone indefiniti i confini applicativi. La specifica previsione del disegno di legge sulla contenzione, come formulata, pare in linea con il più complessivo impianto della proposta normativa, innervata su una visione securitaria e fortemente medicalizzata della sofferenza psichica, ricondotta in un alveo di interventi psichiatrici i cui argini sembrano segnati, da un lato, da un paradigma prettamente biologistico del disturbo e del disagio mentale, dall’altro, dalla riproposizione, stemperata nella formulazione dell’incolumità (propria e di terzi, soprattutto degli operatori), dell’equazione tra malattia mentale e pericolosità sociale e personale. L’eventuale saldatura tra questo ddl e le linee di indirizzo adottate dalla Conferenza, rappresenterebbe un rischio mortale per i principi sanciti con la legge 180. Le Linee di indirizzo, inoltre, si concentrano sull’utilizzo della contenzione nel solo spazio dei reparti psichiatrici ospedalieri (per adulti e minori) e delle Rems, non prendendo in considerazione tutti gli altri luoghi in cui la contenzione rappresenta un mezzo di intervento routinario, innanzitutto le residenze per anziani. Ancora, al di là della mera individuazione concettuale, nel documento si sceglie di non affrontare il tema della contenzione ambientale e farmacologica, come se, nella realtà fattuale, le diverse tipologie di contenzione non agissero intrecciandosi e sovrapponendosi. Il tema, in sostanza, appare affrontato in modo assolutamente parziale, soprattutto slegato dalla permanenza di quei dispositivi di internamento che, nei diversi luoghi, sottraggono libertà in nome della sicurezza, mortificano diritti e dignità delle persone riproponendo la stanca retorica del “è per il suo bene”, consentono margini di profitto altissimi agli imprenditori delle strutture private che sopperiscono alle carenze determinate dai mancati investimenti nel pubblico, legittimano una formazione di medici, infermieri e operatori in cui il sofferente smette di essere persona per diventare un mero corpo malato. Ecco, soprattutto, in queste Linee di indirizzo non ci sono le persone sofferenti, le storie di chi è morto di contenzione, i vissuti di chi, pure sopravvissuto, continua a portare una ferita profonda di fascette che non solo hanno bloccato i suoi arti, ma, soprattutto, hanno profanato il suo sé. Questo documento, allora, mantiene l’abissale distanza d’offesa tra chi lega e chi è legato, tra chi si ritiene normale e chi è considerato anormale e pericoloso, tra chi ha e chi non ha.
MILANO: DOMANI SCIOPERA IL PERSONALE DEL SAN RAFFAELE, “SEMPRE MENO GARANTITO IL DIRITTO ALLA SALUTE”
Sono tanti i problemi sollevati dal personale dell’ospedale San Raffaele di Milano e che rendono sempre più difficile l’accesso alle cure: indetto uno sciopero per la giornata di venerdì 31 ottobre. L’appuntamento è alle ore 9.30 in via Olgettina 60, sul piazzale dell’ospedale. Da qui il personale del San Raffaele raggiungerà, attraverso il percorso pedonale, la metropolitana a Cascina Gobba. Seconda tappa della mobilitazione sarà in piazza Duca d’Aosta dove, intorno alle ore 10.30, partirà un corteo fino al Palazzo della Regione. Infermieri, tecnici, professionisti sanitari, impiegati, personale di supporto chiedono conto ai rappresentanti delle istituzioni regionali delle scelte passate e future che pregiudicano il diritto a curarsi in Lombardia. Con i troppi tagli budgetari avvenuti in passato, ci si ritrova oggi a lavorare in un “ospedale sporco, con personale insufficiente e con stipendi inadeguati”. Problemi che si ripercuotono inevitabilmente anche sui pazienti: anche per questo la cittadinanza è invitata a partecipare alla mobilitazione. Le ragioni dello sciopero e le proposte che potrebbero “correggere il tiro” nell’intervista con Margherita Napoletano, coordinatrice RSU dell’Ospedale San Raffaele di Milano. Ascolta o scarica
IL CONSIGLIO REGIONALE LOMBARDO BOCCIA LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE PER LA SANITA’ PUBBLICA
Bocciata in Regione Lombardia la legge di iniziativa popolare che intendeva eliminare l’equivalenza tra sanità pubblica e privata, introdotta con la controriforma di Formigoni. Il consiglio regionale, con la maggioranza di destra, ha respinto la proposta del Pd sostenuta da 100mila firme approvando la delibera che sostiene che la proposta di legge di iniziativa popolare non introduce elementi di reale innovazione nella normativa sanitaria lombarda. Il Pd chiedeva anche che fosse la Regione a fare da regia rispetto all’offerta di servizi sanitari, “prendendosi in capo la gestione del rapporto tra il pubblico e il privato che oggi manca molto – osserva la consigliera democratica Miriam Cominelli – infatti sono regole di ingaggio differenti per il pubblico ed il privato che producono delle disparità notevoli tra le due realtà.” Le conseguenze di questo stato di cose produce poi le lunghissime liste di attesa per visite e prestazioni specialistiche e la necessità di ricorrere al privato per chi ha i soldi per pagare e di rinunciare alle cure per chi non se le può permettere. Intervista sulla bocciatura delle legge a Miriam Cominelli consigliera regionale lombarda del Pd  Ascolta o scarica Intervista al dott Antonino Cimino di Medicina Democratica e coideatore della nostra trasmissione “Curami – Prima di tutto la salute” in onda ogni sabato alle ore 12. Ascolta o scarica
Sulla sanità Meloni vende fumo. Tagli per 13 miliardi, da spendere per le armi
Il recente Rapporto GIMBE, presentato in Parlamento, non è un allarme: è una vera e propria sentenza che svela la drammatica condizione della Sanità pubblica italiana. Nonostante le rassicurazioni e la propaganda del governo Meloni, che rivendica inesistenti “record” di risorse, i fatti nudi e crudi raccontano un’altra storia. Negli […] L'articolo Sulla sanità Meloni vende fumo. Tagli per 13 miliardi, da spendere per le armi su Contropiano.
“Oggi si scrive una pagina di Storia”
UNA FOLLA OCEANICA A NAPOLI PER LA PALESTINA “Oggi si sta scrivendo la Storia a Napoli e nelle altre 80 città italiane che hanno invaso le strade per gridare: basta al genocidio, basta a ogni forma di complicità, basta a ogni relazione istituzionale ed economica con Israele, basta con le armi.” Una fortissima mobilitazione: quarantamila persone, dicono i numeri forniti dagli organizzatori. Uno tsunami umano che, stamattina a partire dalle 9, ha invaso piazza Garibaldi per partecipare allo sciopero generale in solidarietà con la popolazione palestinese. Sciopero indetto dai sindacati di base USB, CUB, SGB e altre sigle, e sostenuto dalla “flottiglia di terra” Movimento Globale a Gaza Campania, da associazioni, dall’UDAP (Unione Democratica Arabo-Palestinese), dalla Rete delle Comunità palestinesi, dal Centro Culturale Handala Ali e dai collettivi studenteschi. La imponente, che ha visto marciare tutti insieme lavoratori e lavoratrici, studenti, uomini, donne manifestazione, padri e madri – molti con bambini sulle spalle – scandendo un unico, ininterrotto coro che ha inondato la città, è stata civile e pacifica. “È una giornata epica, oggi siamo tantissimi. Dobbiamo fermare noi cittadini, studenti, lavoratori questa follia che sta attraversando il mondo e che ha oscurato la coscienza. Ma non è finita, perché questo Paese, questa città hanno ancora una coscienza da spendere. Palestina libera!”, lo grida dai megafoni un organizzatore. E tutti lo ripetono in un urlo collettivo che, come un’onda sismica, si allarga sulla folla a perdita d’occhio. Si avverte da subito che questa non è una manifestazione come le altre: c’è un’atmosfera che si carica sempre di più di un’emozione partecipata e fortemente sentita, ma si avverte anche tanta rabbia e fermezza nella condanna unanime, senza più contrattazioni. Dalla folla si alzano grida contro ogni forma di complicità, di silenzio o di parole timide e balbettanti. Ora è solo il tempo di azioni reali e concrete. Si chiede una presa di posizione chiara dell’Italia, ora, subito, senza più alcuna ipocrisia. La notevole adesione testimonia la forza del sentimento popolare, ma “siamo consapevoli che serve una strategia politica internazionale”. “Una manifestazione immensa, come non vedevo a Napoli dagli anni ’70. Ci sono tutti: lavoratori, studenti, attivisti e migliaia e migliaia di cittadini. Grazie, Napoli”, ha detto con voce commossa al megafono un anziano attivista del Centro Culturale Handala. Bandiere, striscioni, cori: un tripudio di colori e di voci di solidarietà. L’atmosfera è veramente carica di un’emozione intensa che stringe tutti in un unico senso di appartenenza. È appartenenza a una stessa umanità che qui oggi si vuole recuperare. Un cartellone scandiva: “E criature so’ tutt’ egual” – i bambini sono tutti uguali. Quella di oggi aveva una valenza enorme perché la mobilitazione per la Palestina e il sostegno alla missione umanitaria si sono incrociati con le rivendicazioni sociali, con lo sciopero per la difesa del lavoro e della sicurezza sul lavoro. Il grido dei portuali di Genova, “Bloccheremo tutto”, è diventato il grido di tutti: un fiume in piena che ha attraversato le strade della città. Un’ondata di indignazione che non può più essere contenuta: “Oggi, e la Storia ce lo ricorda, assistiamo alla consapevolezza della gente comune che prende le redini della lotta e chiede a voce alta azioni concrete da parte del governo.” Non è più il tempo delle dichiarazioni e dell’incertezza: è ora di agire. Quando i popoli scendono nelle piazze, cambiano la Storia. È questo uno dei tanti comunicati letti. Lo sciopero ha riguardato trasporti, scuole, università, fabbriche, logistica, settori del pubblico impiego, commercio, energia. C’erano gli studenti, tanti, tantissimi universitari e delle scuole superiori, e c’erano i loro professori. Hanno sfilato a testa alta dietro ai loro striscioni: “Rivogliamo la cultura, la conoscenza contro ogni tentativo da parte del ministro dell’Istruzione di impedire di parlare di Palestina nelle classi. Noi siamo la Palestina. Nessuno può rubarci il futuro.” Il portavoce del collettivo studentesco parla e, a tratti, la voce si incrina per l’emozione: “Non ruberete i nostri sogni, i sogni dei giovani palestinesi. Non ucciderete la conoscenza per comprare armi e finanziare lager in Albania.” Gli studenti lo sanno che questo è stare dalla parte giusta della Storia. “Oggi, contro le politiche del Governo, ci riprendiamo il diritto allo sciopero.” E qualcuno aggiunge un dato che è anche una speranza: qualche centinaio di studenti palestinesi ha conseguito la maturità nella sola scuola rimasta a Gaza. È un fiume umano che da Piazza Garibaldi comincia a scivolare verso la Stazione Centrale. Gli organizzatori hanno spiegato quale sarebbe stato l’itinerario. “Questa non è una passeggiata”, hanno avvertito, “ma un presidio itinerante, una risposta simbolica ma potente al ‘Bloccheremo tutto’, in coerenza con la griglia lanciata dai portuali di Genova e divenuto slogan di riferimento in tutte le manifestazioni successive.” Il corteo si è diretto verso la Stazione Centrale, invadendo ogni spazio e “occupando” i binari, generando il blocco temporaneo della circolazione ferroviaria. Ma la Stazione non è riuscita a contenere la marea umana, che continuava a costituire un lunghissimo corteo e occupava tutta la piazza. Qui, sui binari, sono stati letti comunicati da parte di rappresentanti dei sindacati. Il messaggio era chiaro e forte: “Se non si ferma il genocidio, noi bloccheremo ogni luogo, ogni fabbrica, ogni istituzione”. E ancora: messaggi con una portata sociale che hanno accomunato tutte le categorie di lavoratori presenti. “I soldi frutto del nostro lavoro devono essere spesi per i lavoratori, per le famiglie, le aziende, la salute, l’istruzione e la ricerca, la sicurezza sul lavoro. E a questo proposito vogliamo denunciare che ancora oggi è morto un lavoratore, senza che nessuno risponde di questi omicidi, perché in Italia non è previsto il reato di omicidio sul lavoro.” E concludevano: “La nostra Costituzione è il faro che ci guida. No alle armi, no alla guerra: non saremo mai complici del futuro di morte che ci state preparando”. Una dottoressa, a nome del foltissimo gruppo di sanitari ospedalieri presenti, ha preso la parola per esprimere quanto sia aberrante non poter salvare vite umane, vedere morire bambini di fame e di stenti oltre che per le bombe. Ha ricordato tutti i colleghi sanitari che sono morti, che hanno speso la loro vita per salvare vite umane: 1167 sanitari palestinesi uccisi. “Abbiamo chiesto al Presidente della Regione De Luca che blocchi le forniture sanitarie con marchio israeliano e di escludere Israele dal prossimo PharmExpo della Salute e del Benessere, che si svolgerà dal 24 al 26 ottobre alla Mostra d’Oltremare di Napoli.” Seconda tappa: l’Università, dove già c’era un presidio di studenti che si sono uniti al corteo, che ha continuato a sfilare lungo tutto il Rettifilo fino a Piazza Municipio, per portarsi poi verso il secondo luogo di “occupazione simbolica”: il Porto di Napoli, per manifestare contro le grandi società – comprese le navi da crociera – che con Israele mantengono rapporti e traggono grandi profitti. Ma anche qui solo una parte dei manifestanti è riuscita ad entrare nell’area interna del Porto. Migliaia di persone sono rimaste rimaste in presidio fuori, nella grande area con vista sui resti archeologici. Gli slogan non si sono fermati mai. Lo slogan più gridato: “Genocidio, miseria e lutto: bloccheremo tutto”. Il corteo ha poi ripreso a sfilare per portarsi davanti alla Prefettura, simbolo del Governo, in Piazza del Plebiscito, occupando ogni punto dell’immensa piazza. Qui i manifestanti hanno espresso tutta la portata sociale della mobilitazione con slogan che chiedevano al Governo interventi a tutela della gente comune, del lavoro e del welfare, e interventi concreti e immediati per salvare ciò che resta di Gaza. “A cosa serve l’eventuale riconoscimento dello Stato della Palestina, come stanno facendo ormai molti Stati, se non resterà più niente della Palestina e dei palestinesi?”, ha gridato con una nota di disperazione nella voce Jamal della comunità palestinese di Napoli. Napoli oggi ha mostrato il suo volto più autentico: città di pace, di accoglienza, di Resistenza e di grandi mobilitazioni. L’ultimo grido che ha scosso la bellissima Cattedrale neoclassica: “Gaza resiste, la Palestina esiste”. E resiste Napoli, che continuerà nel pomeriggio la mobilitazione alla ex Nato di Bagnoli, dove è atteso il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per l’apertura dell’anno scolastico. Redazione Napoli
PNRR in dirittura d’arrivo, ma per la Sanità speso solo il 34% dei fondi
A nove mesi dalla scadenza del PNRR la Missione Salute rischia di rimanere inattuata poiché è stato speso solo il 34,4% dei fondi disponibili, 6,6 miliardi di euro, e solo un terzo dei progetti è stato completato. Una situazione che potrebbe portare al non raggiungimento degli obiettivi e ad una perdita delle risorse del PNRR, traducendosi in una mancata risposta per le persone e in un ennesimo incentivo per il mercato privato della salute. È quanto emerge dai risultati del monitoraggio sull’attuazione degli investimenti della Missione 6 del PNRR effettuato dall’Area Stato sociale e Diritti della CGIL elaborando i dati del sistema ReGiS del Mef, aggiornati al 30 giugno 2025. Per le Case della Comunità sono stati finanziati progetti per 1.415 strutture per un valore complessivo di 2,8 miliardi di euro. A giugno 2025 risultano effettuati pagamenti per 486,1 milioni di euro, dunque, a pochi mesi dalla scadenza, è stato speso solo il 17,1% dei fondi disponibili. “Osservando l’andamento delle spese effettuate, si legge nel Report, si evidenzia come i lavori procedano troppo a rilento. A dicembre 2024 i pagamenti erano pari al 9,2% dei finanziamenti, poi passati al 12,4% a marzo 2025: con questo andamento, ci vorranno almeno 5 anni per terminare le opere. Dei progetti finanziati, ne risultano completati 50, pari al 3,5% del totale. Sono ancora numerosi i progetti che presentano ritardi nell’esecuzione dei lavori o fermi alla fase di progettazione, poche le opere completate e collaudate ed è basso il livello delle spese effettuate in rapporto ai finanziamenti. Uno scenario allarmante che conferma il rischio di non conseguire gli obiettivi strategici entro le scadenze previste. A distanza di 3 mesi dalla precedente rilevazione, effettuata a marzo, non c’è stato lo scatto necessario a recuperare i ritardi accumulati finora”. Stando ai dati ReGis, le situazioni più allarmanti si fotografano in Molise (dove i pagamenti In nessuna regione i pagamenti effettuati hanno superato la metà dei finanziamenti. effettuati sono fermi all’1,6% dei finanziamenti complessivi), in Sardegna (7,2%), Campania (7,8%) e Calabria (9,4). Per quanto riguarda gli Ospedali di Comunità, sono stati finanziati progetti per 428 strutture, per un valore complessivo di 1,3 miliardi di euro, dei quali solo 4 risultano completati e collaudati. Così come per le Case della Comunità, preoccupano i ritardi accumulati: a giugno 2025 risultavano pagamenti effettuati per soli 190,1 milioni di euro, pari al 15,1% dei fondi. A dicembre 2024 i pagamenti erano pari al 7,9% dei finanziamenti, poi passati al 11,0% a marzo 2025. Dei progetti finanziati, ne risultano completati solo 14, pari al 3,3% del totale. “Con questo ritmo, sottolinea la CGIL, ci vorranno almeno 6 anni per terminare tutto.” Le regioni con i maggiori ritardi sono: il Molise (dove i pagamenti effettuati sono fermi all’1,7% dei finanziamenti complessivi), la Provincia Autonoma di Bolzano (3,9%), la Sardegna (6,2%), la Basilicata (6,4%). A parte la Valle d’Aosta (dove i pagamenti effettuati rappresentano l’80,9% dei finanziamenti) in nessuna regione le spese superano il 30% dei fondi disponibili. Resta poi il nodo del personale. Il DM 77/2022 ha stabilito specifici standard di personale per queste strutture, prevedendo la presenza di medici, infermieri, operatori sociosanitari, assistenti sociali e altre figure professionali indispensabili per rendere operative tutte le Case della Comunità e gli Ospedali di Comunità. Per rispettare tali standard sarebbe necessario assumere almeno 35 mila unità di personale, senza contare i medici. Con 1.450 Case della Comunità e 428 Ospedali di Comunità finanziati, si stima la necessità di un numero compreso tra 12.901 e 19.417 infermieri, 1.414 assistenti sociali e un numero di operatori sociosanitari variabile tra 8.787 e 13.888. A oggi non risulta nessuna interlocuzione tra Ministro della salute e Ministro dell’economia a garanzia delle coperture economiche necessarie. “Continua ad essere preoccupante e incerta la situazione della realizzazione delle Case della Comunità e degli Ospedali di Comunità, strutture, sottolinea la segretaria confederale della Cgil, Daniela Barbaresi, strategiche per l’attuazione della riforma dell’assistenza territoriale. Nella propaganda del Governo e di alcune Regioni l’attuazione del PNRR andrebbe a gonfie vele, ma i numeri lo smentiscono clamorosamente. È forte il rischio che gli investimenti previsti nella Missione 6 vengano restituiti al mittente o riorientati verso altri obiettivi, magari a favore dell’industria bellica. Dalla riforma dell’assistenza territoriale con l’apertura di una rete di strutture pubbliche, passa la capacità del sistema di dare risposte alle persone, implementare la prevenzione, aggredire anche l’odioso problema delle liste d’attesa, evitare i ricoveri inappropriati e le lunghe attese nei pronto soccorso, garantire la presa in carico. Chi rassicura ma nella pratica boicotta la riforma dimostra la volontà di privatizzare la risposta ai bisogni di salute, impoverendo stipendi e pensioni“. Qui il Focus della CGIL sullo stato di attuazione dei progetti di edilizia sanitaria aggiornamento al 30.6.2025 Giovanni Caprio
La testa è una soglia
(disegno di malov) Dal numero 5 (novembre 2020) de Lo stato delle città [le mani avanti] Se è vero – Camus c’insegna – che l’unico problema filosofico serio è quello del suicidio, confesso, non senza difficoltà, che la vita mi ha costretto a pensarci molto presto: due volte mia madre ci ha provato, e tutte e due le volte ero presente. La prima urlando mentre una gamba era già fuori dal balcone, al quarto piano di una palazzina tirata su in fretta e furia dopo terremoti e bradisismi degli anni ottanta. L’ho dovuta strattonare dentro con tutte le forze che mi potevano concedere i miei esili dodici anni. La seconda, pochi anni dopo – rientravo fradicio da una sequenza ininterrotta di partite di calcio stradali – l’ho trovata svenuta e con la schiuma alla bocca nella vasca da bagno. Aveva preso dei medicinali per scapparsene da una situazione che ai suoi occhi non aveva altra via d’uscita. Ero un po’ più grande stavolta, l’ho presa a schiaffi per farla riprendere quel tanto che ci avrebbe consentito di trasportarla velocemente in ospedale. Tutto questo, dopo poco, sarebbe servito a dare un taglio netto a una guerra domestica, neanche tanto silente, in corso da ormai più di un decennio. [prendere le misure] La prima volta che entro nel Centro arrivo con un quarto d’ora di anticipo. Faccio un giro nelle sale, cammino lentamente osservando le fotografie attaccate con nastro biadesivo su rettangoli di sughero consumato ai margini. Sono quasi sempre foto di gruppo scattate durante le uscite organizzate nel corso degli anni: grigliate, musei, agriturismi, litorali. Una donna mi colpisce in particolare, fotografata guarda sempre in camera, quasi volesse penetrare col suo sguardo l’obiettivo e impressionare la pellicola con tutte le sue forze, cuoce salsicce. C’è un solo uomo presente in sala mentre cerco di capire in che luogo dovrò lavorare da lì all’estate prossima. Si chiama Ciro, mi ignora, è intento ad abbracciare la ghisa di un termosifone. Scoprirò presto che ha passato più di metà della sua vita a disossare bestie nelle celle frigorifere dei reparti carni nei supermercati della zona. Fino a quando non ce l’ha fatta più e ha smesso, rifiutando il lavoro e la vita in un colpo solo, richiudendosi in un silenzio interrotto di rado da una voce arresa prima che flebile. La sensazione che viva in un tempo fuori di sesto lo accomuna alle altre vite che attraversano il Centro. Penso a Vittoria, che non ha saputo reggere a un matrimonio-deportazione (si è dovuta trasferire ai margini di una grande città a lei ignota) e alla nascita di due figli. La somma di questi eventi (e chi sa quali altri) l’ha coricata in una depressione che a lungo andare ha portato alla rottura del suo matrimonio. È ritornata in casa con sua madre e sua sorella e va girando sempre con due valige pronte perché, dice – mio marito potrebbe rivolermi a casa da un momento all’altro, e i miei figli m’aspettano. [vicinanze] Avevo sfiorato uno di questi centri pochi anni prima, dopo che per una intera estate, a ogni tornante a piombo sul mare smeraldo della Costiera andavo pensando: mi butto. La tentazione era forte quanto la disperazione, ricostruivo nel nastro di moebius dei miei pensieri la stessa prigionia che anni addietro aveva dovuto togliere il fiato a mia madre. Passo dal medico di base, gli piango le mie motivazioni e lui mi scrive una richiesta per otto incontri con la psicoterapeuta dell’unità operativa di salute mentale di zona. Lì ha sede anche uno di questi centri diurni. Durante i tempi morti della sala d’attesa mi soffermavo a osservare dal balcone le persone che ne frequentavano il cortile. Ero fragile, e quelle figure mi spaventavano, perché sentivo che sarei potuto arrivare a quello stesso camminare a vuoto nel giro di poco tempo. Più avanti avrei letto queste parole: Sono i corpi a scrivere i testi più interessanti sulla follia, sulla cultura in cui viviamo, e su di noi. Il corpo folle rifugge dal controllo, inventa stranezza, si inarca, secerne, preme, ha fame, avvolge, assale. [il lavoro] Dalla direttrice ricevo poche ma precise istruzioni, discorsi che ho già sentito altrove: non strafare, chiedere prima di intraprendere, la giusta distanza e simili. Mi viene consegnata una tessera magnetica. Accolgo stupito il verbo “beggiare” nel mio vocabolario, in entrata e in uscita. È la prima volta che ho un lavoro vero, con turni, colleghi, foglio firme e macchinetta del caffè in cialde. Le mie ore dovranno essere impiegate per lavorare con le immagini. Partiamo dal disegno libero e poi via via fissiamo degli obiettivi minimi: fare una piccola esposizione, dipingere il muro di una sala, inventarsi un fumetto. Per stringere un legame e cominciare a conoscerci propongo di realizzare degli ex-voto dipinti, gli racconto che nelle chiese delle città di mare le tavolette votive legate ai salvataggi delle imbarcazioni travolte dalla tempesta sono tra le più numerose, porto dei libri che ne raccolgono le immagini, progettiamo anche un’uscita al Santuario della Madonna dell’Arco che ne è zeppo, ma non riusciremo a farla. In questo modo ognuno deve tirare fuori un episodio turbolento della propria vita dal quale sente di essere uscito indenne. Realizziamo le prime versioni su dei fogli di carta artigianale realizzata in un precedente laboratorio: è fatta tritando, spugnando e poi pestando le scatolette degli psicofarmaci che lì dentro abbondano. A un occhio attento non sfuggono piccoli caratteri riemersi dalle misteriose indicazioni dei bugiardini. Patrizia divide sempre l’immagine in due, la scritta in alto chiarisce il perché: “la mia difficoltà / la mia risposta”. A sinistra mette lei o qualcuno dei suoi cari allettato, stesi da qualche malattia, a destra, in uno spazio più ampio, il suo invocare il cielo ma anche una forza che sente nascosta dentro sé stessa. Mani al cielo e i piedi ben piantati a terra. Vittoria, la donna-valigia, evoca ancora e ancora la sua storia matrimoniale, gravidanze difficili, un esotico viaggio di nozze, definisce “un malore” quello che a ventitré anni sembra aver preso il controllo della sua vita. E poi c’è Pino, trentacinque anni, scrive male ma fa rap, è dislessico ma inventa libri, ha una immaginazione fertile, disegna con accuratezza ma sempre con una certa dose di distacco. Mi viene descritto in una maniera che non trova nessuna corrispondenza con quanto vedo con i miei occhi. Ho l’impressione costante che gran parte degli operatori del Centro fuggano da qualsiasi tipo di contatto. Quando non di aperta derisione l’atteggiamento generale è quello di rifugiarsi in una trincea di inespugnabile formalità, un fossato nel quale confondere distanza e professionalità. La repulsione per i corpi è appena celata. Quando Gianni parla spesso sputa, è vero. Molti, agli estremi delle labbra, hanno un impasto di tabacco, cibo e saliva, anche questo è vero. Eppure, sbirciando appena dietro le singole storie, emergono chiare miseria e violenza, brodo di coltura di una inevitabile follia che altro non è che scarto di produzione di un territorio marginalizzato. [il cerchio] Una mattina di fine inverno arriva una giovane dottoressa. Propone, per favorire ascolto e dialogo, di metterci in cerchio. Poi, partendo da eventi minimi accaduti nel Centro – ma anche da una semplice canzone – lascia parlare i presenti, cercando di fare attenzione a che nessuno interrompa l’altro, osservando le posture, le modalità relazionali, le intolleranze, lasciando fluire il tutto senza giudicare, anzi, prestando bene ascolto e analizzando con la dovuta calma i racconti (ma anche i silenzi e le insofferenze) di ciascuno dei presenti. Gli altri operatori la guardano come se fosse anche lei da curare, boicottano in gruppo. Eppure, se una cura è possibile, non può che scaturire dal confronto aperto tra esperienze, dalla scoperta che ogni vissuto è sì così diverso da un altro, ma pure molto simile. Fatto sta che le prime volte sono l’unico seduto insieme agli altri, ma ho dalla mia che sono nuovo e posso muovermi come se la mia fosse ingenuità. Più avanti altri operatori, anche se svogliatamente, mi seguiranno, ma resterò purtroppo il solo, insieme alla dottoressa, a portare il proprio specifico vissuto nel gruppo. [questo siamo] Titta è variopinta, usa truccarsi con estro, palpebre spruzzate di colori diversi, rossetti acidi. E deve pescare dall’armadio le cose che indossa così come gli capitano, generando chi sa quanto involontariamente una radiosità che stride con le sue risate, tanto acute da contenere il pianto. Racconta in continuazione di suo marito e di un suo fantomatico amante che vorrebbe raggiungerla ma invece è bloccato da un brutto incidente che gli ha spaccato le gambe. Gianni è enorme, cammina barcollando, entra ed esce dal Cerchio comandato dalle sue smanie. È lì dentro da trent’anni e dice che non ne può più dei pinnoli. Racconta che prima nel Centro cucinavano loro, era un bel momento di condivisione. Poi anche questo servizio è stato esternalizzato e adesso arrivano pasti pronti in inutili quintali di imballaggi. Spesso, più che in un luogo di cura ci si sente stretti tra il martello della carità e l’incudine degli affari. Rosalba quando entra nel Cerchio lo fa sempre in ritardo, raramente si siede, dice che preferisce stare in piedi. Vive nelle palazzine più cupe del rione, e ne parla la lingua, solo lievemente rallentata da anni di terapie farmacologiche. Certe vocali si allungano sul finale restando sospese a mezz’aria con i suoi interlocutori. Ride e si abbatte in continuazione, come tutti. Patrizia era apprendista parrucchiera, poi un diverbio col capo e una rottura col fidanzato l’hanno trascinata in un abisso durato tre anni. Adesso che faticosamente ne sta uscendo ha un sorriso benevolo che contagia. Ha ancora paura di riprendere il lavoro. Le suggerisco di ripartire dal luogo nel quale si trova: potrebbe riprendere la mano tagliando i capelli agli altri frequentatori del centro. Un ragazzo giovanissimo – scopro che ha venticinque anni – siede sempre con noi, si chiama Marco, non parla mai, fissa un imprecisato punto dello spazio, di tanto in tanto scuote la testa. Con il passare delle settimane una sopraggiunta familiarità sembra però smuovere qualcosa. Comincia a raccontare di quando lavorava in un supermercato come scaffalista, per sessanta euro a settimana, tredici ore al giorno; della sua convivenza con lo zio: dividono lo spazio esiguo di una casa che gli prosciuga più della metà di una pensione ridicola, senza neanche il privilegio dell’acqua calda. Pino, il rapper, a sua volta racconta che da adolescente ha lavorato due anni in un’officina, prendeva ventimila lire a settimana. Ha scoperto solo anni dopo che i soldi al meccanico li dava sua madre. Sasà è un ex rapinatore. Ha l’occhio dilatato dalle terapie, vigile in apparenza. Altalena il corpo sulla sedia. Di norma è silenzioso, poi ha vomitato il suo racconto in una volta sola: «Mia madre aveva dodici figli, sei con un marito e sei con mio padre. Lui è morto quando ero piccolissimo, mi avrebbe messo in riga, invece nell’ottanta, quando avevo dieci anni, andavo a vedere i contrabbandieri come scaricavano gli scafi pieni di sigarette, mi affascinavano. Dopo poco con gli amici del quartiere ho cominciato con gli stereo, poi gli scippi, i furti e le rapine. Era una sfida con me stesso, se non ci riuscivo mi dicevo: ma che cazzo, neanche una rapina sai fare? Non sei buono a niente! Eravamo cani da caccia, annusavamo le situazioni migliori soppesando in un attimo rischi e guadagni. Per me era un vero e proprio lavoro. Però non rapinavamo mai i pensionati, solo supermercati, pompe di benzina, tabaccai. Non facevamo male a nessuno, prendevamo i soldi dove c’erano i soldi. Sapessi come mi dispiaceva se in un supermercato c’era una donna incinta! Spesso assaltavamo i caselli dell’autostrada, uno per uno prendevamo i soldi da tutti, e poi scappavamo con le auto truccate, la polizia provava a inseguirci, ma andavamo troppo veloce». «Poi mi hanno arrestato, in totale mi sono fatto venti anni di carcere. La maggior parte di quelli della mia banda sono morti. Una volta un amico mi chiese di accompagnarlo a rapinare un benzinaio sul Viale. Lo uccisero, menomale che non andai, altrimenti non sarei qui adesso. Ah, se ci fosse stato mio padre!». Oscilla ancora mentre conclude dicendo che adesso, però, è una brava persona. Marco aggiunge che quando uno non è servito dai genitori è normale che va a finire su una brutta strada. «Perché tuo padre non ti viene a trovare?», chiede Rosalba. Marco dice che non lo vede da otto anni, cioè da quando frequenta il Centro, è agli arresti domiciliari a cento metri da casa sua. Rosalba lo interrompe rivolgendosi al resto del Cerchio: «Teneva quella bella mamma questo ragazzo! Se si stavano più attenti in quella stanza non si sarebbe buttata giù. Eccola (indica una foto), arrostiva le salsicce, ma che bella femmina, e che stile, guarda là quant’è bella (lo ripete più volte)». Solo ora dai fili intravedo una trama. E mi viene da pensare che forse già sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Per questo cercava di impressionarsi nella pellicola guardando fisso in camera. Come a lasciar traccia di sé, anche fuori dal corpo tatuato di suo figlio Marco, che fa finta di niente e salta una voragine di silenzio continuando: «Ho rischiato la galera, avevo iniziato a fare casini, ma mia mamma stava al San Gennaro in Tso, mio padre carcerato, e il giudice me la fece buona. La polizia mi picchiava un giorno sì e uno no per farmi capire che dovevo smettere, così mi sono calmato. Ma guarda che è brutto eh, un padre che non ti segue, non ci sta lavoro, non sai più quello che devi fare, e per non sbagliare – mi avrebbero messo a vendere la droga o a fare rapine – mi sono messo in mano ai medici». Più o meno, penso, come farsi scemi per non andare in guerra. [epilogo] Parlo con la direttrice dell’idea di far riprendere il lavoro a Patrizia, penso che sarebbe una buona occasione per lei e un momento utile e divertente per tutti gli altri. Eppure, non senza astio, mi viene chiesto di non illudere gli utenti con promesse che non possiamo mantenere, che ci sono norme igieniche da rispettare, che avrei dovuto chiedere prima a lei, che, insomma, la cosa non s’ha da fare. (-rc)
Occhiuto ha la responsabilità storica di negare ai calabresi il diritto alla cura
Mentre tutti i dati sulla sanità pubblica italiana ci consegnano la sua distruzione a vantaggio di quella privata, la Calabria rimane sempre più relegata agli ultimi posti per la qualità del servizio sanitario a conferma, purtroppo, del disastro perpetrato a danno dei cittadini dalle politiche dei tagli operati da tutti […] L'articolo Occhiuto ha la responsabilità storica di negare ai calabresi il diritto alla cura su Contropiano.