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Occhiuto ha la responsabilità storica di negare ai calabresi il diritto alla cura
Mentre tutti i dati sulla sanità pubblica italiana ci consegnano la sua distruzione a vantaggio di quella privata, la Calabria rimane sempre più relegata agli ultimi posti per la qualità del servizio sanitario a conferma, purtroppo, del disastro perpetrato a danno dei cittadini dalle politiche dei tagli operati da tutti […] L'articolo Occhiuto ha la responsabilità storica di negare ai calabresi il diritto alla cura su Contropiano.
Lettera per salvaguardare la Sanità Territoriale
Quotidianamente si apprendono dai giornali, dai social, dagli stessi operatori, dai pazienti, informazioni riguardanti il nostro servizio sanitario a livello regionale e locale, motivo per cui un gruppo di cittadini: Sindaci, ex Sindaci, Amministratori di Enti pubblici e privati, ha ritenuto di evidenziare una serie di criticità che interessano (affliggono) il nostro territorio biellese, tramite una nota recapitata al Presidente della Provincia, Emanuele Ramella Pralungo, il giorno 3 del mese di luglio, proponendo di convocare al più presto un’assemblea dei sindaci. La richiesta è motivata proprio per il ruolo e i compiti che la legge affida ai Sindaci come rappresentanti sanitari, ovvero tutori della salute dei loro cittadini e che dovrebbe essere garantita da un rapporto stretto e sinergico con le istituzioni regionali e le ASL. Tra le problematiche rilevate: la carenza di Medici di medicina generale, la necessità di spostarsi verso grandi città per ricevere cure specifiche, con tempi di attesa più lunghi e difficoltà logistiche, specialmente per le persone anziane o con problemi di mobilità. I fondi PNRR (Missione 6) notoriamente sono destinati a sostenere l’assistenza territoriale, nonché la parte di digitalizzazione, pertanto la finalità è quella di potenziare il sistema sanitario locale e non riconvertire strutture già esistenti. Peraltro questi servizi sanitari, teoricamente più vicini ai cittadini (Case e Ospedali di Comunità) richiederanno ulteriori risorse umane di cui l’azienda sanitaria locale è carente. Il sistema sanitario nazionale sta attraversando una fase di cambiamento ed è quanto mai opportuno richiamare la massima attenzione di tutte le componenti politiche e istituzionali del territorio biellese, nella speranza che ci sia una coralità di voci verso Torino, a oggi sorda alle esigenze della Provincia di Biella. La mancanza cronica dei medici di medicina generale e nei reparti, le lista d’attesa, l’accesso difficoltoso se non impossibile per accedere alle prestazioni dipendono dalla nostra ASL. La salute è questione nazionale, regionale, ma che riguarda i cittadini delle nostre comunità, ecco perché si insiste nel sottolineare che è il Sindaco in primis ad avere una responsabilità in ambito sanitario. In questa lettera figurano tra i firmatari Sindaci con i propri consiglieri, Consiglieri senza il proprio sindaco, ex amministratori comunali, ex dirigenti che hanno prestato la propria attività presso la ASL di Biella e altri in altre aziende. Al Presidente Ramella rivolgiamo la richiesta di condividere e di sollevare la questione sanitaria biellese con tutti i Comuni della Provincia, allo scopo di mettere in luce le argomentazioni che abbiamo tentato qui di sintetizzare, avviando un confronto serrato tra istituzioni e cittadini, per pervenire a formulare un quadro di richieste precise alla Regione Piemonte. Al Presidente della Provincia di Biella Dott. Ramella Pralungo Emanuele   OGGETTO: Richiesta convoca Assemblea dei Sindaci dei comuni Biellesi – Problematiche Sanitarie Locali   In tema sanitario emergono criticità che destano preoccupazione nell’ambito del nostro territorio, in particolare nelle zone più periferiche, le problematiche più rilevanti risultano: * mancanza dei “Medici di famiglia” che ormai perdura da anni che ad oggi non ha trovato soluzioni strutturali: * tempi di attesa lunghi per le prestazioni sanitarie peggiorate nel periodo di covid, mai sanate e degenerate nel corso degli ultimi anni; * restrizione delle risorse nazionali e regionali e le relative conseguenze sull’erogazione dei servizi nel rispetto dei LEA; * carenza di personale medico, infermieristico e tecnico; * mancata realizzazione di Ospedali e case di comunità finanziati dal PNRR – Missione 6; * mancata pianificazione delle attività sanitarie in coordinamento con le risorse degli enti del terzo settore con la giusta e dovuta considerazione delle persone fragili. In considerazione del fatto che il Sindaco è la massima autorità sanitaria locale: art. 217 del R.D. 27 luglio 1934 n. 1265, così come richiamato dall’art. 13 della legge 833 del 1978 e il 4° comma dell’art. 50 del D.lgs 267 del 2000. La gestione della salute con il D. Lgs 502 del 1992 è stata affidata ai Direttori Generali delle Aziende Sanitaria Locali, tuttavia il Sindaco è il responsabile della condizione di salute della popolazione del suo territorio. Il consiglio comunale condivide questa responsabilità. Dovere del Sindaco è quello di svolgere il ruolo di garante dei cittadini nei confronti dell’azienda sanitaria sollecitando, ove necessario, il rispetto dei diritti alla salute della comunità. E’ importante ricordare che la L. R.18/1994 affida ai Sindaci e alla Conferenza locale sociale e sanitaria funzioni di indirizzo, controllo e valutazione. Le funzioni che la legge affida alla Conferenza locale sociale e sanitaria sono le seguenti: a) definizione, nell’ambito della programmazione regionale, delle linee di indirizzo per l’impostazione programmatica delle attività dell’azienda unità sanitaria locale; b) esame del bilancio pluriennale di previsione e del bilancio di esercizio dell’azienda unità sanitaria locale e trasmissione alla Giunta regionale delle relative osservazioni; c) verifica dell’andamento generale dell’attività dell’Azienda unità sanitaria locale. Le ASL, ricordiamo, sono responsabili dei bisogni dei cittadini, il loro compito è provvedere a soddisfare tali bisogni, erogando i LEA, con i fondi assegnati alle Regioni. Il Managment aziendale deve perseguire costantemente l’ECONOMICITA’, ovvero il bilanciamento tra risorse e finalità, cercando di mantenere l’efficienza e l’efficacia, mantenendo l’equilibrio economico e finanziario, incrementando il patrimonio tangibile e intangibile (capitale umano, competenze specializzate e di alta professionalità) così come deve conseguire la capacità di RISPONDERE adeguatamente ai BISOGNI DI SALUTE dei cittadini. Le Regioni sappiamo possono legiferare in materia nel rispetto dei principi generali posti dalla legislazione statale nonché dei livelli essenziali. Prestazioni e servizi inclusi nei LEA rappresentano il livello essenziale garantito a tutti i cittadini che le Regioni debbono assicurare, ciò non toglie che, utilizzando risorse proprie, le Regioni possano garantire servizi e prestazioni ulteriori rispetto a quelli previsti nei LEA. Occorre comprendere dinnanzi alla riduzione nazionale cos’ha previsto la Regione Piemonte e le ricadute locali. Fatte le dovute premesse e considerazioni, al fine di poter rassicurare la popolazione fornendo le giuste informazioni in merito alle. problematiche richiamate sopra chiediamo con urgenza di condividere le stesse all’Assemblea dei Sindaci. Utile allo scopo della comprensione per un eventuale approfondimento di quanto riportato nel documento il Piano di attività dell’ASL competente locale. Riepilogo firmatari Redazione Piemonte Orientale
Anatomia di un’attesa. Quando il disturbo psichico incrocia il codice penale
(disegno di sam3) Torno a trovare Marta. È al telefono, come quasi ogni giorno da mesi, alla ricerca di un medico, un funzionario, un referente che possa indicarle come muoversi. È la prima volta che il suo inguaribile ottimismo retrocede all’imperativo di trattenere le lacrime. Suo figlio, Silvio, ha ventisette anni. Da dicembre è trattenuto nell’articolazione psichiatrica del carcere di Salerno, in attesa di un trasferimento in comunità terapeutica: un trasferimento che, accertata la sua assoluta incompatibilità con il carcere, il giudice ha già autorizzato in via teorica, ma che nei fatti non riesce ancora a concretizzarsi. Nel frattempo si accumulano colloqui, tentativi, rinvii. Il tribunale non può validare senza un documento o un modulo firmato. Tutto è paralizzato da una catena di responsabilità frammentate: Asl, Uosm, Uepe, Serd, tribunali. Organi distinti con compiti precisi che però, proprio nella loro parcellizzazione, favoriscono una deresponsabilizzazione diffusa nella presa in carico delle persone. In questo quadro, ogni rinvio e indecisione producono conseguenze faticose e danni concreti. Silvio è affetto da schizofrenia paranoidea, diagnosi documentata a partire dal 2018 dall’Asl territoriale (Uosm 9 di Agropoli), dopo un primo Trattamento sanitario obbligatorio e anni di sintomi evidenti: dispercezioni uditive, comportamenti disorganizzati, oscillazioni tra rabbia e chiusura, e un abuso cronico di sostanze iniziato in adolescenza. Il suo quadro clinico dovrebbe rientrare in quella condizione nota come comorbilità psichiatrica, o “doppia diagnosi”. Questa vicenda si sviluppa lungo quasi un decennio di segnali discontinui, negazioni e tentativi frammentari di cura. Tutto comincia in adolescenza, quando i primi segni di sofferenza vengono interpretati, come spesso accade, secondo letture rassicuranti: una crisi passeggera o una fase delicata della crescita. Con il tempo, e non senza esitazioni, la famiglia inizia a confrontarsi con una fragilità più profonda, difficile da decifrare. Ma prendere consapevolezza del disagio psichico non è mai un processo lineare: richiede tempo, strumenti, e una trasformazione lenta anche dello sguardo di chi accompagna. Le resistenze non sono solo del soggetto, ma anche dell’ambiente intorno: affettive, culturali, spesso inconsce. In un contesto sociale in cui il disagio mentale è ancora circondato da stigma, paura o rimozione, le famiglie si ritrovano spesso senza un linguaggio adeguato, senza riferimenti condivisi, senza una rete in grado di accompagnarle. La diagnosi, arrivata nel 2018, non dà avvio a un percorso strutturato, ma rimane un’etichetta sospesa, priva di un progetto in grado di sostenerla. A complicare tutto sopraggiunge la negazione ostinata della malattia da parte di Silvio che ha reso ogni intervento clinico discontinuo e frammentato. La famiglia, spesso sola, comincia a muoversi tra servizi diversi, ricoveri e dimissioni, cercando di orientarsi in un sistema che non sempre riconosce la continuità come parte essenziale della cura. Negli ultimi mesi lo stato di Silvio si aggrava. Sviluppa un’ossessione crescente verso i vicini, convinto siano l’origine di insulti e persecuzioni. Ciò che altrove sarebbe riconosciuto come un episodio di dispercezione uditiva all’interno di un quadro psicotico qui diviene il preludio al crollo. A novembre, dopo alcuni episodi di aggressività, viene arrestato. Il giudice dispone i domiciliari, ma li stabilisce nella stessa casa accanto al contesto persecutorio da cui Silvio cercava di difendersi: un cortocircuito inevitabile. Silvio evade e viene trasferito in carcere. Da quel momento, la sua condizione psichiatrica viene progressivamente soppiantata da quella di reo. La malattia scompare dal lessico istituzionale, resta quasi come premessa accessoria, e il caso comincia a muoversi secondo tempi incompatibili con l’urgenza della sua condizione. Dopo circa un mese di detenzione, Silvio riesce almeno a essere trasferito nell’articolazione psichiatrica della casa circondariale di Salerno. Lì, la gestione sanitaria è affidata all’area penitenziaria dell’Asl. Ma da quel momento, nessun contatto viene permesso tra la famiglia e l’équipe medica. Pec, mail, richieste di incontro vengono tutte ignorate. I familiari cercano allora di supplire, da soli, con la raccolta di documentazione, contattando comunità terapeutiche, medici, garanti, cercando una soluzione che possa sbloccare una condizione arenatasi nel silenzio. La vicenda di Silvio mette in luce criticità strutturali che emergono ogni qualvolta la risposta istituzionale resta incerta e frammentata. Non solo in ambito sanitario, ma anche giuridico, sociale e psicologico. È da casi come questo che si misura l’efficacia, o l’assenza, della psichiatria pubblica. Quando la malattia mentale incrocia la giustizia penale, smette spesso di essere trattata come una questione sanitaria. Diviene marginale, mentre il peso delle decisioni ricade altrove: sul controllo del rischio e sulla gestione dell’ordine. Dopo mesi di rinvii e scarsa coordinazione, il giudice accoglie la richiesta di patteggiamento con misura alternativa: un anno e otto mesi da scontare in una struttura alternativa al carcere. Ma questa possibilità resta ancora soltanto teorica. Per procedere con un invio a una comunità, è infatti necessario che l’accesso avvenga attraverso una presa in carico da parte dell’Asl o del Serd, o da entrambi in presenza di una doppia diagnosi. Nel caso di Silvio, però, l’Asl si rifiuta tuttora di formalizzare qualunque passaggio, negando inoltre la componente di dipendenza, nonostante se ne attesti la presenza da relazioni cliniche precedenti. Di conseguenza, il Serd non può intervenire autonomamente, poiché Silvio non è iscritto al servizio e l’attivazione di una presa in carico interna al carcere si sta rivelando un processo farraginoso, quasi kafkiano. Silvio vive così in un limbo giuridico e istituzionale. Detenuto in attesa, trattato come colpevole, senza alcun margine di elaborazione su quel che è accaduto. L’impossibilità di comprendere il proprio presente, o di immaginare un “dopo”, non è solo un effetto collaterale, è il catalizzatore di una condizione psichica che peggiora progressivamente. Nel frattempo, il giorno precedente l’udienza che avrebbe dovuto finalmente concretizzare il patteggiamento, già rinviata numerose volte e datata poi al 16 maggio, emerge l’ennesimo cortocircuito del sistema. L’Asl penitenziaria di Salerno invia al giudice una relazione in cui si sostiene che “allo stato non sono presenti sintomi di acuzie clinica tali da non poter essere curati negli attuali luoghi”, cioè il carcere. Il documento dipinge un’immagine parziale e ambigua del paziente. La dipendenza da sostanze viene minimizzata, la negazione della malattia non è riconosciuta come tratto strutturale della stessa, mentre l’aderenza alla realtà viene valutata esclusivamente sulla base di dichiarazioni rese da un soggetto ristretto in un contesto tutt’altro che neutro, senza coinvolgere chi ha potuto restituirne la complessità della storia. Il consumo di cannabis è attribuito a un uso esclusivamente “ludico-ricreativo”, contraddicendo tra l’altro precedenti diagnosi che parlavano invece di una dipendenza reale e cronica. Questo giudizio arbitrario non solo sottovaluta la patologia, ma esclude di fatto Silvio dall’accesso alle comunità specializzate nella doppia diagnosi, quelle che sembrerebbero più adatte alla sua situazione. Nel rapporto si legge inoltre che la “non consapevolezza e volontarietà a partecipare a percorsi di cura” costituisce un “elemento prognosticamente inficiante un buon esito”. Qui si apre il primo grande paradosso: chi, per struttura della propria malattia, nega di averne bisogno, viene escluso dall’accesso alle cure proprio per tale ragione. La storia di Silvio non è solo la cronaca di un caso di negligenza istituzionale, ma racconta una condizione umana e clinica di grande complessità. Silvio è un giovane che da anni nega la propria malattia, come spesso accade in quei disturbi psichici che incidono sulla percezione del reale e sul senso di sé. Negare la malattia, in casi come questo, non è un rifiuto superficiale o volontario, ma si concretizza come una struttura profonda dell’esperienza personale, una modalità di difesa indispensabile per non crollare in uno stato di totale spaesamento. Qui sorge una domanda cruciale e mai risolta: come si accompagna una persona che soffre di psicosi verso una graduale consapevolezza della propria condizione? L’esperienza insegna che non si tratta di un processo automatico né di un protocollo applicabile meccanicamente. È un percorso che richiede prossimità e continuità, un’alleanza terapeutica che non può prescindere dal contesto relazionale in cui la persona vive. Un percorso che rimane oggi ancora carico di troppe domande e troppe poche risposte. È noto ormai che, dopo la chiusura dei manicomi, la funzione di contenimento non sia scomparsa ma abbia assunto nuove forme, disseminandosi in una costellazione di strutture: comunità terapeutiche, Rems, Spdc, strutture residenziali, articolazioni psichiatriche del carcere. Queste strutture agiscono in ordine sparso, secondo logiche eterogenee e obiettivi raramente condivisi. In questa frammentazione, la figura stessa del soggetto psichiatrico tende a dissolversi: non più un paziente da accompagnare nel tempo, ma un caso da collocare e un corpo da contenere. Le comunità terapeutiche, spesso pensate come luoghi di ripartenza, finiscono per escludere proprio quei soggetti che più avrebbero bisogno di uno spazio di legame: chi è troppo reticente e non ha ancora accettato la diagnosi, chi fatica a tradurre il proprio disagio nei linguaggi riconosciuti dalla clinica. Si rimanda allora a strutture intermedie, come le cliniche, che nei fatti reiterano una logica contenitiva, configurandosi non come luoghi di soggettivazione, ma di gestione, dove la cura coincide esclusivamente con la somministrazione farmacologica e l’attenuazione del sintomo. Nei casi più complessi, in cui il disturbo psichico intercetta il codice penale, la filiera della cura si interrompe del tutto. Si ricorre allora alle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) o, come nel caso di Silvio, direttamente al carcere, che diventa l’ultimo contenitore residuale. In entrambi i casi, la finalità terapeutica si intreccia a quella detentiva, e il tempo della cura si può svuotare in una durata indeterminata della custodia. In nome della sicurezza, il trattamento psichiatrico assume i tratti della reclusione. Queste strutture divengono un prosecuzione muta dell’apparato manicomiale, la sua ombra più opaca: ne conservano la logica di segregazione, ne aggiornano i linguaggi, ne oscurano la violenza dietro il lessico tecnico della tutela. Nel sistema carcerario la malattia mentale non è trattata, ma gestita come un problema di ordine. Da qui emerge lo snodo centrale: non la diagnosi in sé, ma la totale assenza di potere contrattuale del malato, che non ha voce, non ha strumenti, e spesso non ha altra possibilità di espressione se non attraverso comportamenti estremi, ab-normali, disfunzionali. Qualunque sia la sua condizione mentale, l’uomo finisce per identificarsi sempre con le leggi che lo internano. L’apatia, il disinteresse e l’insensibilità che spesso vengono letti come sintomi della malattia, sono in realtà una forma estrema di difesa: l’ultima risorsa che il soggetto oppone a un mondo che prima lo esclude e poi lo annienta. Accogliere l’eredità della lezione basagliana significa comprendere che non è tanto la diagnosi a produrre la malattia, quanto il rapporto di potere che si instaura tra il medico e il paziente, tra curante e curato. Finché quel rapporto è fondato su un’autorità unilaterale, terapeutica e istituzionale, il malato si adatterà al ruolo che gli viene cucito addosso, anzi in questa oggettivazione troverà quasi sollievo perdendo ogni volontà di agire, di responsabilizzarsi, di riconoscersi come soggetto. È in quel rapporto che la regressione si consolida, e si fa cronica. Se è vero dunque che il problema non è tanto la malattia, quanto il tipo di rapporto che si stabilisce con il malato, allora vien da chiedersi: che tipo di rapporto si sta stabilendo oggi tra paziente e istituzioni che dovrebbero occuparsi della sua cura? Nessuna cura è possibile se l’unica forma di azione risulta essere quella penale e l’unico margine d’azione del soggetto consiste, nel migliore dei casi, nel rifiuto e nella protesta. Se il malato non può aderire al progetto terapeutico, perché per struttura nega la malattia, allora è la comunità che dovrebbe farsi carico, con lucidità e fermezza, della sua tutela. Quando il manicomio non è più una struttura unica e visibile, ma una funzione diffusa e condivisa, allora la sua violenza si fa più sottile e insidiosa, perché si nasconde dietro le pieghe della burocrazia e del linguaggio tecnico, e rende sempre più difficile individuare responsabilità, nominare l’esclusione, rivendicare un’altra possibilità. In questo scenario, ciò che manca non è solo un luogo, ma una disposizione etica: un desiderio di prendersi cura che sappia farsi carico della fragilità, dell’ambivalenza e del tempo necessario. Finché la psichiatria continuerà ad agire come dispositivo selettivo, che cura solo chi si dimostra già adatto alla cura, chi ne parla nei termini giusti, chi ne accetta il linguaggio e le regole, resterà incapace di raggiungere proprio chi più ne ha bisogno. Quando la situazione di Silvio si è aggravata, l’Uosm di Agropoli ha cominciato a suggerire come unica via possibile per attivare un percorso terapeutico strutturato la denuncia penale: solo così, vista l’ assenza di un obbligo di cura e della volontà esplicita del paziente, i familiari avrebbero potuto costruire un aggancio istituzionale e una rete solida. Una prospettiva difficile da accettare per Marta e suo marito Giorgio, che hanno esitato a lungo prima di considerare praticabile una strada che li avrebbe condotti a un paradosso crudele: dover proteggere chi soffre attraverso un atto che può apparire come un abbandono, o peggio ancora, come un tradimento. Assumere un simile ruolo, per un genitore, significa entrare in contraddizione profonda con se stessi, cortocircuitando un sistema emotivo già provato. Chi da anni convive con la malattia di un figlio spesso si muove in un terreno fragile, segnato da sensi di colpa stratificati e da una difficoltà strutturale a porre confini netti, soprattutto quando non si è riusciti a farlo nei momenti cruciali della crescita. Agire in qualunque senso diviene allora ancora più complesso. Il rischio è quello di insistere proprio su quella spirale silenziosa di colpa, in cui ogni scelta appare sbagliata: restare fermi significa lasciare soffrire e soffrire, mentre intervenire rischia di essere percepito come un atto di violenza ulteriore. Allora che fare? Si attende mentre la tua vita retrocede progressivamente davanti al dolore di un figlio. Normalizzazione dell’impotenza. Poi la denuncia arriva dai vicini, il fatto che a pronunciarla sia una voce terza, a tratti quasi impersonale, sembra per un istante alleggerire il carico insostenibile della scelta. Come se da fuori giungesse quasi un verdetto oracolare: qualcosa deve cambiare. Allora ci si riorganizza, sperando sia più semplice, si tenta di leggerlo come un punto di rottura da cui costruire una presa in carico integrata. Ma quella rete, promessa allora come necessaria, fatica oggi ad attivarsi. In quella stessa relazione si legge ancora che il comportamento frequentemente disfunzionale di Silvio non sarebbe tanto legato alla sua condizione psichiatrica, quanto piuttosto espressione di uno stile di vita coerente con il suo retroterra educativo, affettivo e culturale; come se le difficoltà derivassero in misura prevalente dalla sua storia familiare e dal contesto di vita. Ma se davvero si ritiene che il disagio sia radicato anche nel contesto sociale, risulta ancora più inspiegabile l’esclusione sistematica della famiglia da qualunque processo di cura. Il punto non è idealizzare i legami familiari, ma riconoscerne la portata concreta. In una psichiatria che ambisce a essere comunitaria, non è pensabile costruire percorsi terapeutici efficaci ignorando il luogo da cui quella soggettività proviene e al quale inevitabilmente farà ritorno. Escludere la famiglia, senza ascoltarla e senza tentare di responsabilizzarla in modo condiviso, significa reiterare quella frammentazione sistemica che continua a rendere la cura un’astrazione inapplicabile. Nei successivi mesi, numerosi altri patteggiamenti sono stati rinviati, a causa di una cronica mancanza di coordinazione tra i diversi soggetti coinvolti. Marta e Giorgio, consapevoli dell’impasse e della lentezza burocratica, avevano deciso di agire in via privata, nonostante l’ingente onere economico che questo avrebbe comportato, rivolgendosi a una comunità in Umbria. Un gesto consapevole per interrompere una catena di negligenza istituzionale che sembrava inarrestabile. Questa scelta rappresentava un tentativo di restituire a Silvio un margine di azione e di speranza, un modo per dimostrargli che esisteva una possibilità di cura al di fuori del limbo in cui era stato confinato, e che sarebbe bastato portare pazienza ancora per poco. Per un ragazzo che da anni rifiuta ogni etichetta clinica e ogni offerta di aiuto, l’accettazione, seppur esitante, di prendere parte ai colloqui con comunità terapeutiche, è già un atto carico di senso. È un’esposizione fragile, spesso rischiosa e temporanea, che rende necessari accompagnamento e presenza. Non si può chiedere a chi ha appena cominciato a sporgersi oltre la soglia del rifiuto di reggere, da solo, il peso dell’incertezza istituzionale. Ogni rinvio, ogni data annunciata e poi smentita, ogni promessa disattesa, rischiano di frantumare quello spazio minimo di fiducia aperto a fatica. Un primo colloquio era stato fissato con la comunità terapeutica proposta dalla famiglia, in vista dell’udienza inizialmente prevista per il 9 luglio. Parallelamente, un medico della Uosm territoriale di Agropoli, animato da un improvviso risveglio di coscienza, aveva deciso di superare le resistenze dell’Asl di Salerno e procedere autonomamente con un invio verso un’altra comunità di Salerno, specializzata nel trattamento delle tossicodipendenze, con la promessa di un programma condiviso per la parte psichiatrica. Gli incontri, entrambi calendarizzati per il 27 giugno, sono stati compromessi da una gestione organizzativa fallimentare: solo il colloquio con la comunità proposta dall’Uosm ha potuto svolgersi, mentre l’altro appuntamento veniva riprogrammato per il 3 luglio. Questo ha determinato un ulteriore rinvio dell’udienza, fissata poi per il 16 luglio. Nonostante le richieste della famiglia di estendere le possibilità praticabili con invii a più comunità, il medico dell’Uosm ha mantenuto una posizione rigida, convinto della validità del percorso intrapreso, dichiarandosi ottimista sulla buona riuscita dell’inserimento. Invece proprio la comunità da lui segnalata ha poi comunicato l’impossibilità di avviare l’inserimento prima di settembre. Nel frattempo, la comunità privata contattata dalla famiglia ha comunicato la propria indisponibilità ad accogliere Silvio. Pur trattandosi di una struttura specializzata nella doppia diagnosi, il contesto richiede da parte del paziente un certo grado di consapevolezza, partecipazione emotiva e impegno relazionale. Secondo questa comunità un inserimento oggi sarebbe prematuro, e si dovrebbe prevedere prima un passaggio clinico residenziale più contenitivo, capace di accompagnare l’emersione di una maggiore consapevolezza e stabilità. Tale valutazione, seppur lucida su un piano teoricamente clinico, rende evidente la contraddizione strutturale già emersa: l’accesso alla cura viene subordinato a requisiti quali motivazione, lucidità, adesione al percorso, che sono spesso proprio ciò che la cura dovrebbe iniziare a rendere possibili. La selettività dell’accoglienza finisce per escludere proprio i soggetti che più avrebbero bisogno di essere accolti, relegandoli a strutture unicamente contenitive. Di fatto, entrambe le risposte rendono impossibile formalizzare in tempo utile l’esecuzione del patteggiamento, che resta a oggi l’unica alternativa concreta alla detenzione. L’udienza del 16 luglio è l’ultima possibile: in assenza di un progetto di accoglienza, si procederà a rito abbreviato, esponendo Silvio al rischio di un processo penale e a un ulteriore aggravamento del quadro psichico. L’ impressione è che l’Asl penitenziaria non voglia assumersi la responsabilità del passaggio in comunità per il timore che Silvio possa allontanarsi e compromettere l’incolumità di soggetti terzi. Un timore comprensibile, ma che solleva una questione più profonda: che tipo di atto terapeutico può fondarsi esclusivamente sulla prevenzione del rischio? Ogni percorso terapeutico serio presuppone un margine di fiducia, e quindi di rischio. Se la priorità resta solo quella di evitare la fuga, la responsabilità sanitaria si riduce a gestione del pericolo. Le argomentazioni legate alla sicurezza, all’emergenza, alla potenziale pericolosità del paziente psichiatrico, non fanno che riproporre, sotto nuove vesti, il vecchio pregiudizio della follia come minaccia. Quando questo pregiudizio orienta le scelte, l’isolamento e la contenzione appaiono dunque quasi naturali. La vicenda di Silvio non è solo il racconto di una fragilità individuale, è una forma strutturale di logoramento che riguarda chiunque si trovi costretto a muoversi negli interstizi di un sistema che promette cura ma esercita solo controllo. L’atto di fiducia compiuto da Silvio, accettare il confronto e tentare di intravedere una possibilità, rischia ora di infrangersi contro l’ambiguità di una risposta incapace di restituire continuità e reali responsabilità. Nel frattempo, all’alba dell’ennesima visita in carcere, Marta e Giorgio mi chiedono: come possiamo spiegare a Silvio che anche questa volta nulla è cambiato? Per uno sguardo già popolato da demoni persecutori, non è solo l’ennesimo rinvio burocratico, ma l’ulteriore conferma, che nessuno stia dicendo la verità. Io cerco qualche cenno di solidarietà nella totale impraticabilità delle parole e a mia volta mi chiedo: come si nomina il logoramento quotidiano che tante famiglie, come questa, si trovano a fronteggiare da sole? Settimane intere trascorse a inseguire risposte mai definitive, aggrappandosi a promesse informali e mail senza seguito. Come si raccontano queste vite sospese a un telefono nel terrore di mancare la chiamata decisiva? Non si attende solo una voce, di un figlio che chiama disperato dal carcere come di un funzionario che forse darà una risposta, si attende il riconoscimento di una condizione che, fuori dal linguaggio dell’urgenza penale, continua a non trovare forma. Ogni venerdì porta con sé l’eco di un “forse” che il lunedì smentisce. E nel frattempo la vita, lentamente, si ritrae: non scompare, ma si trasforma in gestione: del tempo, dell’angoscia, della speranza. Una gestione silenziosa in cui l’attesa diviene la sostanza stessa dell’esperienza. Il tempo assume l’incedere di un ingranaggio rotto. Non è la malattia ad arrestarlo ma l’apparato. Una macchina che non produce soggetti da curare, ma corpi da gestire, da valutare in base alla governabilità. E intorno a questa macchina, come intorno a un centro vuoto, ruotano organi distinti, parcellizzati, ciascuno convinto di non poter, o non dover, fare il primo passo. (vera nau)
Il testamento civile di Laura
-------------------------------------------------------------------------------- Tratta dalla pag. fb di Laura Santi -------------------------------------------------------------------------------- “Io sto per morire. Non potete capire che senso di libertà dalle sofferenze”. Le parole di Laura Santi smascherano l’ipocrisia di chi si oppone alla libertà di scegliere. “La vita è degna di essere vissuta, se uno lo vuole, anche fino a cent’anni e nelle condizioni più feroci, ma dobbiamo essere noi che viviamo questa sofferenza estrema a decidere e nessun altro”. Così scrive Laura, giornalista, cinquant’anni, con una forma gravissima di sclerosi multipla, morta per suicidio medicalmente assistito dopo una lunga battaglia. Quasi completamente paralizzata, con dolori sempre più insopportabili, ha dovuto lottare anche per morire. In Italia, per scegliere come finire la propria vita, servono coraggio, ostinazione, anni di attesa. E un sistema sanitario che spesso ti abbandona ben prima della fine. “Cercate di immaginare quale strazio di dolore mi ha portato a questo gesto, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto… Fate lo sforzo di capire che dietro una foto carina sui social, dietro il bel sorriso che potevate vedere giusto un’ora… c’era lo sfondo di una quotidianità dolorosa, spoglia, feroce e in peggioramento continuo”. Ha scelto con lucidità, dignità, verità. E il suo ultimo appello non è solo un saluto: è un atto politico, una denuncia accorata contro l’ipocrisia di chi – in parlamento o nei pulpiti – pretende di decidere per chi soffre. “Quando leggerete queste righe io non ci sarò più… Vi chiedo di comprendere il perché di questo silenzio”. Mentre si discute una legge che, secondo Laura stessa, “annullerebbe tutti i diritti conquistati”, la sanità pubblica viene smantellata giorno dopo giorno. Chi vuole vivere non trova cure adeguate. Chi vuole morire, non trova ascolto. E allora diciamolo chiaramente: non è compassione quella che nega la libertà. È arroganza. È violenza. È indifferenza. Le parole di Laura sono più vere di qualsiasi dibattito ideologico. Sono un testamento civile. E non possiamo far finta di non averle ascoltate. “Io mi porto di là sorrisi, credo che sia così. Mi porto di là un sacco di bellezza che mi avete regalato. E vi prego: ricordatemi.” E alla fine un appello che ci riguarda: “Esercitate il vostro spirito critico, fate pressione, organizzatevi e non restate a guardare, ma attivatevi, perché potrebbe un giorno riguardare anche voi o i vostri cari. Ricordatemi come una donna che ha amato la vita”. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il testamento civile di Laura proviene da Comune-info.
La contenzione come violazione dei diritti fondamentali. La sentenza della Corte Costituzionale sui Tso
(disegno di canemorto) Con la sentenza n.76 del 2025 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 35 della legge 833/1978, che norma il Trattamento sanitario obbligatorio, ex articolo 3 della legge 180/78, cosiddetta “legge Basaglia”. In particolare, la sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 35 in relazione alla mancata previsione di tre garanzie fondamentali: il diritto all’informazione e comunicazione del provvedimento alla persona interessata o al suo legale rappresentante (avvocato, amministratore di sostegno, tutore o curatore); il diritto della persona a essere sentita prima della convalida; la notifica del provvedimento di Tso alla persona interessata o al suo legale rappresentante. Il giudizio di legittimità costituzionale era stato sollevato dalla Corte di Cassazione nel settembre 2024, nell’ambito di una controversia promossa da una donna sottoposta a Tso a Caltanissetta. La donna, tramite il suo avvocato, aveva presentato opposizione lamentando di non aver ricevuto alcuna notifica, di non essere stata ascoltata dal giudice e di non avere avuto strumenti effettivi per difendersi. La Cassazione, valutando il ricorso, aveva posto in evidenza una serie di gravi lacune nel procedimento, affermando che “la mancata audizione della persona da parte del giudice tutelare prima della convalida rende il controllo giudiziale meramente formale”. I giudici della Corte Costituzionale, in seguito al ricorso presentato dalla donna in Cassazione, hanno rilevato come l’articolo 35 della legge 833 non garantisca in effetti adeguate tutele, evidenziando che “il sindaco e il giudice tutelare comunicherebbero tra loro, ma nessuno dei due comunicherebbe con il paziente”. La sentenza della Corte Costituzionale dovrebbe avere da ora effetto immediato su tutti i procedimenti in corso e su quelli futuri. I sindaci, in qualità di autorità sanitarie locali, dovranno garantire, ai sensi del pronunciamento, che il provvedimento sia notificato alla persona o al suo legale rappresentante. I giudici tutelari saranno obbligati quindi ad ascoltare l’interessato prima di convalidare il trattamento e la mancata osservanza di tali garanzie potrà determinare l’illegittimità del Tso. Di prassi, il legislatore dovrebbe inoltre intervenire per adeguare il testo normativo al nuovo orientamento costituzionale. LA SENTENZA Abbiamo ritenuto opportuno approfondire i meccanismi interni della sentenza. Secondo la Corte Costituzionale l’assenza della tempestiva informazione sulle modalità di opposizione costituisce “un ostacolo rilevante all’esercizio del diritto a un ricorso effettivo alla difesa e, in ultima istanza, a un giusto processo”, anche se la 833 preveda la possibilità di chiedere la revoca del provvedimento di Tso e di proporre successiva opposizione. La Corte ha sostenuto che la non comunicazione, la mancata audizione del giudice tutelare e la mancata convalida del provvedimento rappresentino “una violazione del diritto al contraddittorio e alla difesa, dunque un deficit costituzionalmente rilevante”. Ha fatto appello in particolare ad articoli fondamentali della Costituzione: il 13, sulla libertà personale, il 24, sul diritto di difesa in giudizio, e il 111, sul giusto processo. La Consulta ha stabilito che la persona sottoposta a Tso deve essere messa a conoscenza del provvedimento restrittivo della libertà personale e deve partecipare al procedimento di convalida, in quanto titolare del diritto costituzionale di agire e di difendersi in giudizio, anche nel caso in cui si trovi in stato di “incapacità naturale”. Nella sentenza è scritto inoltre che l’audizione della persona sottoposta a Tso da parte del giudice tutelare debba avvenire prima della convalida “presso il luogo in cui la persona si trova – normalmente un reparto del servizio psichiatrico di diagnosi e cura”, perché questo incontro tra paziente e giudice “è garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale (articolo 13, quarto comma, della Costituzione) e nei limiti imposti dal rispetto della persona umana (articolo 32, secondo comma, della Costituzione)”. L’audizione per la convalida – che deve avvenire entro quarantotto ore – rappresenta un primo contatto che consente al giudice tutelare di conoscere le condizioni della persona, compresa “l’esistenza di una rete di sostegno familiare e sociale”. La sentenza ha fatto anche riferimento al rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che nel 2023 aveva evidenziato come il Tso in Italia segua un “formato standardizzato e ripetitivo” in cui il giudice tutelare “non incontra mai i pazienti che rimangono disinformati sul loro status legale”. La Corte non si è limitata alla questione Tso, mettendo giustamente in discussione l’analogo dispositivo amministrativo restrittivo della libertà personale che riguarda i migranti senza documenti: “L’accompagnamento coattivo alla frontiera e il trattenimento dello straniero nei centri di permanenza per il rimpatrio devono essere assistiti dal diritto di essere ascoltati dal giudice in sede di convalida, sicché sarebbe irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza l’omessa previsione di analogo adempimento nel trattamento sanitario coattivo”.  QUARANTASETTE ANNI SENZA COSTITUZIONE Se il Tso è stato costituzionalmente illegittimo finora, chi ci garantisce che le cose cambieranno? Con che modalità queste persone saranno ascoltate? Verranno tutelate la libertà e il diritto di difesa della persona che la sentenza della Corte Costituzionale, in maniera precisa, definisce? Malgrado la sentenza abbia riportato a chiare lettere che l’audizione debba avvenire nello stesso luogo in cui la persona si trova, il tribunale di Milano ha già chiesto l’attivazione di un numero per fare le audizioni in videochiamata. Il rischio è dunque che questa nuova procedura venga risolta aggirando i dispositivi più tutelanti, in barba alla stessa sentenza. Quale tutela, quale salvaguardia di diritti potrebbe assicurare una videochiamata, magari in presenza di personale sanitario, con un paziente già sedato? In queste condizioni immaginiamo i giudici tutelari convalidare i Tso come un atto meramente burocratico: tutt’altro che come garanzia di controllo sul divieto di violenza fisica e morale indicato nella sentenza. Se la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e nel rispetto rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la subisce è ben diversa. Chi scrive sa bene – dopo vent’anni di esperienza accumulata attraverso lotta dura contro le pratiche manicomiali – che il protocollo della procedura di imposizione di Tso molto spesso non è applicato, e che il trattamento non è affatto un provvedimento di extrema ratio. Troppo spesso le procedure giuridiche e mediche durante il Tso vengono aggirate: nella maggior parte dei casi i ricoveri coatti sono eseguiti senza rispettare le norme che li regolano e seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti della persona. Uno degli inganni del sistema psichiatrico sta nel far credere che un Tso duri in fondo solo sette giorni, o quattordici nel caso peggiore. La verità è che il Tso implica una coatta presa in carico della persona da parte dei servizi di salute mentale del territorio che può durare per decenni. Una volta entrato in questo meccanismo infernale, una volta bollato con lo stigma della “malattia mentale”, il paziente vi rimane invischiato a vita, costretto a continue visite psichiatriche e, soprattutto, alla somministrazione obbligatoria di psicofarmaci, pena un nuovo ricovero coatto. Per i ricoverati in Tso si ricorre ancora spesso all’isolamento e alla contenzione fisica, mentre i cocktails di farmaci somministrati mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere. Il grado di spersonalizzazione e alienazione che si può raggiungere durante una settimana di Tso ha pochi eguali, anche per il bombardamento chimico a cui si è sottoposti. L’obbligo di cura non significa più necessariamente e solamente reclusione in una struttura, ma si trasforma nell’impossibilità di modificare o sospendere il trattamento psichiatrico, sotto costante minaccia di ricovero coatto, sfruttato come strumento di ricatto, punizione e repressione. IL TSO COME VIOLAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI Come Collettivo riteniamo però che ci sia una seconda, ulteriore, considerazione di cui tenere conto. La sentenza n.76, pur non menzionando esplicitamente la contenzione meccanica, offre, a nostro avviso, un forte potenziale interpretativo critico. Il nucleo della pronuncia è il rafforzamento del controllo giurisdizionale sul Tso, tramite l’audizione preventiva e in loco della persona da parte del giudice tutelare. La Corte esplicita, ed è questo l’elemento che vorremmo sottolineare, che tale audizione è “garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale” (articolo 13, comma 4 della Costituzione) e “nei limiti imposti dal rispetto della persona umana” (articolo 32, comma 2 della Costituzione). La sentenza parla inoltre di “audizione”, e quindi di ascolto. Deducendo da ciò: la contenzione meccanica, essendo una limitazione fisica diretta e potenzialmente lesiva della dignità, rientra a pieno titolo nelle “violazioni fisiche e morali” e nel mancato “rispetto della persona umana”. Difficilmente si può pensare che, ascoltando la persona in stato di malessere si possa poi procedere a legarne gli arti o a limitarne la mobilità in modo pesantemente coercitivo. La sentenza, esigendo un controllo giudiziale non più formale ma sostanziale sulla concreta esecuzione del trattamento, rende ogni ricorso alla contenzione immediatamente sindacabile e, riteniamo, censurabile sotto il profilo di questi inderogabili principi costituzionali. La sua applicazione, pertanto, è ora direttamente e immediatamente riconducibile a una possibile violazione dei diritti fondamentali della persona, richiedendo una strettissima aderenza ai criteri di necessità ed eccezionalità per sfuggire alla qualificazione di violenza costituzionalmente illegittima. (collettivo antipsichiatrico antonin artaud)
Sanità calabrese al collasso
La sanità calabrese si avvia inesorabilmente al collasso, in particolare quella territoriale. Mancano medici e infermieri nelle postazioni del 118 oramai chiuse e con le ambulanze ferme. Preludio di un’altra estate di passione per i pazienti, soprattutto per i più fragili come gli anziani, che oramai sono i soli rimasti […] L'articolo Sanità calabrese al collasso su Contropiano.
UNIVERSITÀ: IN VIGORE LA RIFORMA DELL’ACCESSO A MEDICINA, NIENTE PIÙ NUMERO CHIUSO?
Sono aperte le iscrizioni alla facoltà di Medicina e chirurgia. Fino al 25 luglio le studentesse e gli studenti aspiranti medici potranno iscriversi liberamente al cosiddetto “semestre filtro”, che prevede una serie di corsi di base uguali per Medicina, Odontoiatria e Veterinaria. Dall’anno accademico 2025/2026, infatti, entra in vigore la riforma dell’accesso ai corsi di laurea in Medicina, fortemente voluta dal governo Meloni e dalla ministra Bernini. La riforma prevede uno slittamento del test di selezione – che rimane – alla fine dei primi sei mesi, quando si svolgerà il test di sbarramento effettivo sulla base del quale verrà stilata la graduatoria nazionale di accesso che consentirà, a chi ne fa parte, di trasformare l’iscrizione iniziale in una vera e proprio immatricolazione. Il numero chiuso, dunque, resta. Ne parliamo con Elisa Frigeni, referente milanese di Udu-Unione degli Universitari. Ascolta o scarica.
“CURAMI – PRIMA DI TUTTO LA SALUTE”: L’ODISSEA DI CHI ATTENDE L’ACCERTAMENTO DI INVALIDITÀ
Nell’appuntamento con la rubrica “Curami – Prima di tutto la salute” di sabato 28 giugno 2025, come sempre su Radio Onda d’Urto, abbiamo parlato dell'”odissea” e delle molte difficoltà che devono affrontare le persone che attendono, troppo a lungo, l’accertamento dell’invalidità. In studio, come di consueto, Antonino Cimino e Donatella Albini. In questa puntata sono stati ospiti Gianantonio Girelli, deputato del Partito Democratico, e Bruno Platto, segretario dell’Ordine dei medici di Brescia. Ascolta o scarica.
Ballottaggio elezioni comunali a Saronno e festa della Repubblica: due utili riflessioni – Attac Saronno
di Roberto Guaglianone – Attac Saronno – articolo de “il Saronno” del 03 giugno 2025 Della res publica, cioè della ‘cosa pubblica’, ovvero di tutto ciò che è pubblico nel nostro Paese, a partire dai Comuni. ‘Cosa pubblica’, che Continua a leggere L'articolo Ballottaggio elezioni comunali a Saronno e festa della Repubblica: due utili riflessioni – Attac Saronno proviene da ATTAC Italia.
Proteste e ricorsi. La battaglia per l’assistenza scolastica ai disabili in provincia di Caserta
(archivio disegni napolimonitor) Ho conosciuto S. in un pomeriggio di novembre a un evento in un centro sportivo della provincia casertana in occasione della presentazione di un progetto per l’autonomia di persone disabili. S. è una bambina, con fattezze già di adolescente, con disturbi dello spettro autistico. In quel pomeriggio, circondata da tanti ragazzi e ragazze, era in compagnia della mamma, che scoprii successivamente di una determinazione ed energia ineguagliabili, e di un’altra mamma, con il proprio figliolo disabile, che si rivelò molto legata alla famiglia di S. per le comuni battaglie che le avevano viste impegnate per il futuro dei piccoli. A quell’evento era intervenuta anche il ministro della disabilità Alessandra Locatelli, spegnendo con un nulla di fatto le speranze riposte dalla mamma di S. per un impegno concreto nel risolvere la situazione di tanti ragazzi disabili privati dell’assistenza scolastica con personale specializzato. Salutai S. e la mamma, che la portava verso l’uscita della manifestazione dove le aspettava il padre e conservai a lungo la sensazione di una fatica quotidiana sperimentata dai genitori di un soggetto autistico che non ha pause e chiama a una responsabilità poderosa, senza sconti. L’organizzazione carente delle politiche sociali nella città di Caserta ha garantito un’assistenza scolastica a S. e agli studenti come lei ad anno scolastico inoltrato, nel mese di febbraio. Le motivazioni addotte sono state il ritardo dei bandi per il conferimento del servizio a cooperative di operatori qualificati. Come ha stabilito una recente sentenza del Tar, le esigenze di bilancio non possono però considerarsi prevalenti rispetto al diritto all’istruzione e all’integrazione scolastica degli studenti con disabilità: l’eventuale diminuzione delle ore di assistenza determina il risarcimento del danno. La figura dell’assistente alla comunicazione è importante per agevolare la frequenza e la permanenza dello studente, facilitarne la partecipazione alle attività didattiche in collaborazione con i servizi socio-sanitari territoriali. Nel 2024 i genitori di S., come quelli di tanti altri alunni disabili dell’Ambito Sociale C01 di cui Caserta è l’ente capofila (gli altri comuni sono San Nicola La Strada, Casagiove e Castel Morrone), non hanno potuto che aspettare il ripristino del servizio, senza ricevere riscontri dall’amministrazione. Nel 2025 si assiste a una replica. Gli operatori delle cooperative non vengono pagati. Di proroga in proroga il servizio, iniziato a dicembre 2024, subisce due interruzioni per più di quindici giorni, una a gennaio e una a fine febbraio. Dal 14 marzo riprende con una proroga di venti giorni. Vincenzo Mataluna, direttore dell’Azienda speciale consortile, la cui creazione fu a suo tempo annunciata con grande clamore mediatico, dichiara che si sta provvedendo alla transizione delle risorse economiche dal Comune alla nuova azienda, che gestisce i servizi alla persona nell’ambito delle politiche sociali. “In realtà, l’Azienda non è operativa sul piano finanziario – dice Mataluna – e fino al 30 giugno è il Comune a svolgere la gestione dei servizi”. Il bando per assegnare il servizio non viene espletato e lunedì 7 aprile si registra un’altra interruzione. L’11 aprile, al termine di un presidio, la segreteria provinciale della Confederazione sindacati autonomi federati italiani incontra i funzionari competenti sulla questione, in presenza di una delegazione dei genitori. I funzionari mostrano una nuova determina con una proroga di dieci giorni del servizio. Questa proroga, però, non sarà accolta dalla cooperativa a causa di un numero già esorbitante di contratti temporanei che andrebbero convertiti a tempo indeterminato. Allo stesso tempo l’incontro fortuito dei familiari dei disabili, fuori al Comune, con l’assessore alle politiche sociali e vicesindaco rivela l’inerzia e l’inefficienza della macchina amministrativa. I genitori di S. ricorrono così a Osservatorio 182, un’associazione nata su iniziativa di diverse associazioni di familiari attive a livello nazionale con l’obiettivo di fornire assistenza legale a costo zero sui temi dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità. Con l’assistenza degli avvocati di Osservatorio 182 i genitori di S. ottengono un’ultima ordinanza del Tribunale amministrativo regionale che ordina al comune di Caserta “di provvedere al ripristino del servizio di assistenza specialistica, in favore della minore nel più breve tempo possibile”. Il 18 aprile, alla fine, il colpo di scena: il consiglio dei ministri “in considerazione degli accertati condizionamenti da parte della criminalità organizzata che compromettono il buon andamento dell’azione amministrativa” delibera “lo scioglimento del consiglio comunale di Caserta e l’affidamento della gestione, per diciotto mesi, a una commissione straordinaria”. La decisione segue a un’indagine sui rapporti tra esponenti della giunta e dirigenti del Comune accusati di aver concorso ad affidare appalti comunali in cambio di favori, soldi e voti a imprenditori ritenuti vicini al clan Belforte di Marcianise. La commissione straordinaria che dovrà gestire il Comune nei prossimi mesi non sarà decisiva nel risolvere i problemi nell’ambito delle politiche sociali, che si sommano a tanti altri che hanno decretato la prematura fine del governo cittadino. Se è vero che il corrente anno scolastico volge alla fine, si è rivelato fondamentale allora chiedere il risarcimento del danno all’ente e così provare a scoraggiare il ripetersi di una insufficiente gestione del servizio anche nel prossimo anno. Di recente, infatti, il Tar della Campania ha condannato il comune di Caserta al risarcimento di un danno subito da D., un bambino con disabilità, per la mancata assistenza prevista dal Piano educativo individualizzato. Il ricorso era stato presentato dagli avvocati di Osservatorio 182 in collaborazione con l’associazione Vorrei prendere il treno, entrambe attive in tutta Italia per la tutela dei diritti degli studenti con disabilità. Il Comune è stato quindi condannato a risarcire l’alunno con mille euro per ogni mese in cui l’assistenza è stata assente e con quattrocento euro per ogni mese in cui è stata erogata solo parzialmente. Una sentenza che riafferma un principio essenziale: il diritto all’inclusione scolastica non può essere ignorato, ritardato o ridotto. Ora la mamma di S. aspetta con fiducia la sentenza del Tar anche per il suo analogo ricorso. (mena moretta)