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Naufragio di Cutro, le Ong del soccorso in mare parte civile al processo
EMERGENCY, Louise Michel, Mediterranea Saving Humans, Sea-Watch, SOS Humanity e SOS MEDITERRANEE, parte civile nel processo sul naufragio di Cutro, soddisfatte per il rinvio a giudizio. Le Ong chiedono che le autorità responsabili, a tutti i livelli, siano chiamate a rispondere della deliberata negligenza nelle operazioni di soccorso. Sollecitano infine il pieno rispetto del diritto internazionale nel Mediterraneo. Una tappa importante nel lungo percorso per ottenere verità e giustizia sui mancati soccorsi al caicco Summer Love, naufragato a Steccato di Cutro il 26 febbraio 2023 causando almeno 94 morti e un numero imprecisato di dispersi. Così EMERGENCY, Louise Michel, Mediterranea Saving Humans, Sea-Watch, SOS Humanity e SOS MEDITERRANEE, che si sono costituite parte civile nel processo sul naufragio di Cutro, salutano il rinvio a giudizio dei sei imputati deciso dal giudice ieri sera a conclusione dell’udienza preliminare. Considerata la grave serie di negligenze e sottovalutazioni con cui sono state attivate e portate avanti, ma di fatto mai realizzate, le operazioni di soccorso, ai quattro militari della Guardia di Finanza e ai due della Guardia Costiera che andranno a processo la Procura della Repubblica di Crotone contesta i reati di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo. Le Ong costituitesi parte civile chiedono che sia chiarita la sequenza di eventi e omissioni che hanno portato a uno dei più tragici naufragi della storia italiana. Proprio il processo potrebbe essere l’occasione giusta per fare luce su tutti i passaggi critici, sulle responsabilità dei sei imputati e, auspicabilmente, anche su quelle dei funzionari e delle autorità di livello più alto. “I tempi sono fondamentali per la buona riuscita delle operazioni di soccorso; per questo i ritardi nell’attivare interventi di salvataggio non sono un incidente, ma una negligenza, che non può restare impunita” commentano le Ong. In questo caso specifico le autorità italiane hanno ignorato il loro dovere di soccorso e l’omissione ha avuto conseguenze drammatiche. “Non è accettabile e non si deve più consentire che i responsabili di questo come di altri naufragi restino impuniti mentre le persone continuano ad annegare” dicono ancora le Ong. “Il diritto internazionale, la tutela della vita e il dovere di soccorrere chi è in difficoltà in mare devono essere rispettati sempre, anche nel Mediterraneo”. EMERGENCY, Louise Michel, Mediterranea Saving Humans, Sea-Watch, SOS Humanity e SOS MEDITERRANEE chiedono inoltre di porre immediatamente fine alla criminalizzazione delle persone in movimento e di ripristinare efficaci operazioni di ricerca e soccorso in mare, auspicabilmente anche con una missione europea dedicata.       Redazione Italia
Allarghiamo le braccia
Lo sanno tutti che la Cassazione non entra nel merito, ma esamina la correttezza delle procedure. In pratica, la Cassazione verifica che le leggi siano state applicate correttamente nei gradi inferiori di giudizio, correggendo eventuali errori di diritto o procedurali.  Lo sanno tutti, meno la presidente del Consiglio e uno […] L'articolo Allarghiamo le braccia su Contropiano.
OPEN-ARMS: LA PROCURA DI PALERMO PRESENTA RICORSO IN CASSAZIONE CONTRO L’ASSOLUZIONE DI SALVINI
La Procura di Palermo ha deciso di presentare ricorso direttamente in Cassazione, e non in appello, contro l’assoluzione di Matteo Salvini nel “processo Open Arms“. Il leader della Lega, all’epoca dei fatti ministro dell’Interno (oggi ministro delle Infrastrutture e vice-premier), era accusato di sequestro di persona plurimo per aver impedito – nell’agosto 2019 – lo sbarco di 147 migranti che si trovavano a bordo della nave dell’ong Open Arms dopo essere stati soccorsi nel mar Mediterraneo centrale. Il 20 dicembre 2024, il Tribunale di Palermo aveva deciso per l’assoluzione di Salvini. Secondo la Procura palerminatana, però, la sentenza ha riconosciuto i fatti contestati – l’avere trattenuto a bordo i migranti illecitamente – sbagliando però l’interpretazione delle leggi e delle convenzioni internazionali: secondo l’accusa, insomma, i giudici sbagliano nell’interpretazione della normativa. A suffragio della tesi della Procura, a febbraio 2025 il Ministero dell’Interno è stato condannato per un caso analogo, quello della nave Diciotti a cui le autorità italiane avevano negato lo sbarco. Sulle frequenze di Radio Onda d’Urto è intervenuto Arturo Salerni, avvocato della Open Arms, parte civile nel processo che vede imputato Salvini. Ascolta o scarica.
Saviano: fenomenologia di un eroe di carta
Devo darvi una notizia che vi farà tremare i polsi. A me che Saviano abbia vinto la causa contro Francesco Bidognetti – soprannominato Cicciotto ‘e Mezzanotte, braccio destro di Francesco Schiavone detto Sandokan e uno dei capi sanguinari del Clan dei Casalesi – non frega un’emerita mazza. E non frega […] L'articolo Saviano: fenomenologia di un eroe di carta su Contropiano.
Grecia: il tribunale assolve 11 richiedenti asilo accusati di traffico di esseri umani
Una sentenza destinata a segnare la giurisprudenza europea: il tribunale dell’isola di Samos ha assolto 11 richiedenti asilo dalle accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, sollevate contro di loro esclusivamente per aver assunto il controllo dell’imbarcazione che li ha condotti sulle coste greche. Si tratta di una decisione senza precedenti nel contesto delle politiche migratorie europee, da anni caratterizzate da una crescente criminalizzazione dei movimenti migratori autonomi. Una sentenza storica La Corte ha riconosciuto che il semplice atto di guidare una barca – in assenza di scopo di lucro o collegamenti con reti di traffico – non costituisce reato. È una pronuncia che conferma quanto denunciato da tempo da avvocati, attivisti e organizzazioni internazionali: cercare asilo non è un crimine, e guidare un’imbarcazione per salvare se stessi e altri dalla guerra o dalla persecuzione non può essere equiparato al traffico di esseri umani. L’organizzazione Human Rights Legal Project (HRLP), che ha rappresentato 9 degli 11 imputati, ha definito la sentenza “una pietra miliare” e “un passo necessario verso un futuro più giusto”. Gruppi come Aegean Migrant Solidarity e Community Peacemaker Teams che hanno seguito il processo da vicino, fornendo supporto legale, mediatico e umano ai richiedenti asilo coinvolti, hanno sottolineato come questa sentenza “è solo il minimo sindacale”: secondo il diritto internazionale, le persone non devono mai essere punite per essere state trafficate, che si tratti di richiedenti asilo o meno. La criminalizzazione in questi casi non è solo illegittima, ma profondamente immorale. Il principio di protezione: la Convenzione di Ginevra Fondamentale nella difesa è stato il richiamo all’articolo 31 della Convenzione di Ginevra del 1951, che stabilisce che una persona che entra irregolarmente in un paese per chiedere asilo non può essere penalizzata, a condizione che si presenti tempestivamente alle autorità e giustifichi la sua condotta. Nel contesto greco – e più in generale in Europa – questo principio è stato spesso ignorato, con la conseguenza che centinaia di richiedenti asilo sono stati accusati e incarcerati con pene durissime per il solo fatto di aver tenuto il timone durante la traversata del Mar Egeo. La pratica dei “boat drivers”: una strategia di sopravvivenza criminalizzata Negli ultimi anni, migliaia di persone sono state arrestate in Grecia con l’accusa di “traffico di migranti”, nonostante siano esse stesse persone in cerca di protezione. I “boat drivers” sono spesso coloro che, per disperazione o necessità, si offrono di guidare l’imbarcazione in cambio della gratuità del passaggio, oppure lo fanno in condizioni di emergenza, quando il timoniere designato non è in grado di continuare la traversata. Secondo i dati raccolti da Borderline Europe, Watch the Med – Alarm Phone e Refugee Support Aegean (RSA), la Grecia ha il più alto numero di detenuti per reati legati al traffico di migranti in tutta l’UE, con condanne che possono arrivare anche a 100 anni di carcere. La portata della sentenza di Samos è doppia: giuridica e simbolica. Giuridica, perché si tratta di 11 assoluzioni consecutive, un chiaro segnale di discontinuità rispetto alla prassi corrente. Simbolica, perché rappresenta un primo passo verso il riconoscimento ufficiale della non colpevolezza delle persone in movimento, sfidando una narrazione securitaria che vede nella migrazione irregolare un problema di ordine pubblico anziché una questione umanitaria. Ma la giustizia non è (ancora) uguale per tutti Dei dodici imputati iniziali, uno è stato condannato: si tratta dell’unico che non è riuscito a dimostrare la volontà o l’avvio di una procedura di richiesta d’asilo. Questo conferma quanto fragile e soggettivo sia, in molti contesti, il confine tra “migrante da proteggere” e “persona da punire”. Inoltre, tutti gli assolti avevano già trascorso tra i sei e i dieci mesi in detenzione preventiva, spesso in condizioni carcerarie difficili e con accesso limitato a interpreti e difesa legale qualificata. La detenzione preventiva viene spesso usata come forma di deterrenza e punizione anticipata, in violazione del principio di presunzione di innocenza. Verso un cambiamento sistemico? La sentenza di Samos apre la porta a nuove strategie di difesa legale e potrebbe essere usata come precedente giuridico in futuri casi simili. Tuttavia, serve un cambiamento più profondo: un’armonizzazione europea che impedisca l’uso punitivo del diritto penale nei confronti delle persone migranti. Il caso solleva domande cruciali per l’Unione Europea, in particolare sul rispetto dei diritti fondamentali, del principio di non discriminazione, e della proporzionalità della pena nei confronti di chi attraversa le frontiere per salvare la propria vita. Il verdetto di Samos non chiude un capitolo, ma ne apre molti altri. È una vittoria del diritto e della dignità, frutto della tenacia di avvocati, attivisti, osservatori, e delle stesse persone accusate ingiustamente. Ma è anche un promemoria amaro: la giustizia, spesso, va conquistata centimetro dopo centimetro. Guidare una barca per sopravvivere non è un crimine. La lotta per la libertà di movimento continua.  Fonti: @hrlpsamos @aegean_migrant_solidarity @cpt.ams Melting Pot Europa
Cisgiordania d’Abruzzo: il caso Anan
Il procedimento penale che si sta celebrando a L’Aquila, su fatti asseritamente commessi in Palestina, è un vero e proprio processo alla resistenza palestinese in Cisgiordania. L’accusa di terrorismo contro Yaeesh Anan Kamal Afif è la traslazione, a migliaia di chilometri di distanza, di una ingiustizia inaccettabile che chiama a gran voce a una mobilitazione necessaria e di vasta portata Come noto, in Cisgiornadania non è la resistenza a essere illegale ma, pacificamente dal 1967, tale è la condotta di quello Stato di Israele che, pur condannato dal consesso giuridico mondiale a lasciare i territori occupati illegalmente, insiste nel procrastinare indisturbato la sua politica di espansione. Quello che si va compiendo, anche in questi giorni, non è solo la filosofia dello Stato israeliano che, per dirla alla maniera di Alberto Sordi si traduce in “io occupo perché «io so io, e voi nun siete un ….»”, ma una sistematica sopraffazione agita con incendi, assassini, torture e distruzioni. Il tutto all’ombra dello sterminio in Gaza, senza la possibilità qui di invocare Hamas, ma anzi fomentando la costruzione di quell’odio quotidiano che è all’origine della tragedia del 7 ottobre. > Il protagonista imputato Anan è un politico/militare assai noto in > Cisgiordania ed eroe per quella rete resistente tanto da essere assunto a > figura principale anche all’interno di canzoni popolari.  Procedendo come in una sequenza filmica: primo frame, febbraio 2002, Anan ha 14 anni è nel suo paese Tulkarem cammina di poco dietro alla fidanzata vicino al confine militare, vanno a scuola. Secondo frame: Click! Non è questo il rumore che precede lo scatto fotografico di una sequenza che cattura la realtà, ma quello del fucile militare israeliano, reale, che le spara in testa. Terzo frame: per 10 giorni Anan resta attaccato alla tomba della ragazza e decide come tanti giovani palestinesi di aderire alla lotta politico-militare nelle file di Fatah contro il governo nemico. Ottiene visibilità tanto da entrare nella guardia personale del presidente Arafat e venire da lui premiato, giovanissimo, con un titolo onorifico. Entra nei servizi segreti palestinesi occupandosi di sicurezza interna e diventa tra i principali nemici in loco dello stato occupante. Per evitarne l‘uccisone viene consegnato al carcere di Gerico sotto la supervisione di Stati Uniti, Inghilterra, Egitto e Giordania che ne controllano la detenzione.  Quarto frame: nel 2006 elicotteri dell’esercito israeliano si alzano in volo su Gerico e la bombardano; Anan riesce a salvarsi e fuggire. Torna nella propria città dove cade nella trappola di un conoscente, spia dei servizi israeliani, che aprono il fuoco in un bar ferendo lui e uccidendo un amico.  Anan si salva, sventa un altro tentativo di uccisone in ospedale. Quinto frame: tre anni di carcere in 18 prigioni subendo torture. Scarcerato nel 2010 continua la sua attività politica e studia scienze politiche ma nel 2013, vessato dalle continue pressioni anche sulla sua famiglia, decide di trasferirsi in Europa. Vive in Norvegia e Svezia per poi spostarsi in Italia dove gestisce un ristorante a Mestre. Da ultimo si trasferisce a L’Aquila.  La cosa interessante è che quanto fin ora detto sulla vita e sull’attivismo di Anan non è frutto di indagini della Digos abruzzese ma è tratto dalle di lui pacifiche dichiarazioni, rese in sede di richiesta di protezione internazionale alla commissione norvegese prima e italiana successivamente. Ecco che questo primo dato sgombra già da un potenziale equivoco: Anan non era affatto protagonista di un rischio terrorismo, palesandosi come a dir poco insolito che chi entra in un Paese con mire destabilizzanti descriva il suo profilo antagonista alla forza pubblica, verbalizzandolo. Il primo elemento è, quindi, politico. Anan ha militato anche nell’estensione militare del partito Fatah, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Questa organizzazione rientra, sotto un profilo amministrativo, nella c.d. Black list che impedisce l’ottenimento dello status rifugiato in Europa (non ostativo ad altre forme di protezione infatti ottenute). La situazione è simile a quella in cui ci si imbatté all’arrivo a Roma Abdullah Öcalan, capo del partito curdo P.K.K. [oramai disciolto, ndr] di cui la Turchia chiese l’arresto. Öcalan fu collocato in una casa protetta e di seguito, ne fu organizzata (dal governo italiano) la fuga con direzione Sud Africa, ai fini dell’ottenimento della protezione internazionale (poi il viaggio non andò benissimo…). L’attuale governo Meloni, invece, non appena ricevuta la richiesta di arresto per Anan da parte di Israele, con conseguente estradizione, si è subito messo prono dando il via all’operazione – con la stessa solerte efficacia dimostrata (all’inverso) nel caso del torturatore libico Almsry… > Fortunatamente la Corte d’Appello ha respinto la richiesta per l’ovvio rischio > (rectius certezza) che una volta estradato avrebbe subito trattamenti inumani > e degradanti. Nelle more della scarcerazione e con tempismo a dir poco sospetto, il Pubblico ministero abruzzese richiede l’arresto chiedendo di giudicare qui fatti accaduti in Cisgiordania, utilizzando impropriamente il terzo comma dell’art 270 bis del codice penale. È passato un anno e mezzo e Anan è ancora in galera col processo ora a dibattimento. È accusato di aver promosso in Palestina un’associazione con finalità di terrorismo denominata “Gruppo di riposta rapida brigate Tulkarem“. Si badi bene che già qui esiste una prima distonia rispetto all’impianto accusatorio che fonda le proprie origini nell’appartenenza di Anan ad un’altra associazione, cioè la sopra richiamata Brigata dei Martiri di Al-Aqsa che è, come detto, nella Black list di alcuni Paesi per terrorismo. Chi saprà diversificare e spiegare se esistono differenze di approccio tra le due fazioni? La Digos abruzzese? Questo è il punto paradosso di questo processo. Si farà sostanzialmente su fonti aperte indagando un fenomeno complesso e non certo nostrano e nelle conoscenze dei nostri inquirenti. Sgomberato il campo dalla impossibile sovrapposizione con gli attentatori di matrice islamica (pronti alla morte in nome di Allah), va chiarito che Anan non è accusato di aver ucciso civili e mai ha rinnegato la sua affiliazione politico/militare, anzi, l’ha palesata sul suo profilo pubblico.  Il punto di caduta processuale è costituito dalla differenza tra terrorismo e resistenza legittima.  Se un esule ucraino avesse cercato di aiutare i suoi connazionali dall’Italia l’avremmo processato? Per venire al caso specifico già il nome della supposta associazione che si indaga “risposta rapida” si pone in chiara connessione con la necessità di tutela dei propri connazionali quotidianamente aggrediti in un contesto che è quello di una guerra/aggressione in corso.  Si chiama diritto umanitario, e nel nostro caso non vi è dubbio che il popolo palestinese dei territori illegittimamente occupati è portatore (Convenzione di Ginevra e allegati) del diritto alla difesa. Tanto più con lo sterminio / genocidio in corso.  > La scriminante si ferma laddove si sia in presenza di un’associazione che > prepara attentati che non hanno una collocazione di destinazione contro il > nemico militare bensì solo contro i civili.  Anan era in Italia all’epoca del 7 ottobre e all’inizio della reazione con triplicata ferocia di Netanyahu. Nessuna e nessuno di noi è rimasto indifferente e mai avrebbe potuto esserlo il nostro imputato portatore del diritto – anzi dovere – di attivarsi per i suoi fratelli e sorelle che anche in Cisgiordania hanno subito la recrudescenza della violenza dei coloni ben tutelati dalla milizia ebraica.  A prescindere dalla fumosità complessiva del processo e di ciò che potrà o non potrà dimostrare, chiaramente, c’è la possibilità che si parli di armi, e di azioni offensive / difensive contro le prevaricazioni e le uccisioni. Del resto una foto con il fucile è davvero in questo contesto la prova di qualcosa? Se emergeranno intercettazioni in cui si discute di armi è cosa ovvia in un contesto in cui non si usano cerbottane, ma si opera nell’ambito della difesa da uno degli eserciti militari più potenti del mondo.  Le eventuali azioni sono contro i presidi dell’esercito dei coloni ed è Israele, semmai, ad aver senza dubbio in plurime occasioni superato la giurisprudenza che individua l’atto terroristico, laddove l’azione è intrapresa pur sapendo di esporre a rischio certo persone non combattenti (anziane, anzini, bambine e bambini, per lo più). Insomma il dato è che, se dobbiamo ricorrere alla c.d. prova aperta (servizi on line ecc…), allora sarebbe efficace pensare al film No Other Land, capolavoro vincitore di Oscar dove, in un misto di tragedia e poesia, ben si comprende la necessità di schierarsi senza tentennamenti. Perché in Cisgiordania si consuma la lotta infinita tra il ricco e potente e il povero e debole; l’esproprio delle e dei pastori, la sottrazione della terra a chi la abita e la coltiva, il furto del sorriso delle bambine e dei bambini, lo spargimento di sangue degli impotenti, tutto si mescola e fa ribollire il sangue a noi spettatrici e spettatori, figurarsi nell’animo di chi ha vissuto nella propria carne la tragedia, come accaduto ad Anan. Ho volutamente tenuto fuori dall’analisi la situazione degli altri due imputati, implicati solo per dare sostanza a un quadro associativo inesistente. I coimputati sono, infatti, a piede libero per mancanza di indizi in accoglimento delle richieste dell’avvocato Flavio Rossi Albertini e dell’avvocata Ludovica Formoso, persone preparate e tenaci che difendono Anan a cui una rete di penalisti da tutta Italia fa sapere che non saranno sole laggiù in Cisgiordania… d’Abruzzo. Immagine di copertina di Openverse SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Cisgiordania d’Abruzzo: il caso Anan proviene da DINAMOpress.
Ultima Generazione: Firenze, ricorso alla Corte Costituzionale
Nel corso del processo per l’imbrattamento della sede regionale del Ministero Economia e Finanza, il giudice ha sollevato la questione della legittimità costituzionale per l’articolo 18 TULPS. Sì è tenuta questo lunedì l’udienza per del processo per l’imbrattamento della sede regionale del MEF a Firenze nel gennaio 2023: Le persone imputate erano accusate di imbrattamento, articolo 639 c.p., concorso in reato (110 c.p.) e manifestazione non preavvisata, articolo 18 TULPS. Nell’udienza in questione il giudice avrebbe dovuto emettere la sentenza, invece è accaduto qualcosa di inaspettato: il giudice ha deciso di sollevare la questione della legittimità dell’articolo 18 TULPS ricorrendo alla Corte Costituzionale.  Il TULPS – Testo unico di leggi per la pubblica sicurezza – è stato emanato nel 1931, in pieno periodo fascista; l’articolo 18 sostanzialmente impone che le manifestazioni in luogo pubblico debbano essere preavvisate alla Questura. Il ricorso non riguarda l’articolo nella sua interezza, ma la sanzione penale prevista, in caso di mancato preavviso (fino ad un anno di carcere o una multa) L’accettazione del ricorso porterebbe ad abrogare la sanzione penale per il mancato preavviso (rimarrebbe l’obbligo di preavviso sancito dall’articolo 17 della Costituzione). Si ritiene che la sanzione penale per la mancata comunicazione alla questura di una manifestazione in luogo pubblico sia sproporzionata e quindi incostituzionale. Il risultato porterebbe a una sanzione amministrativa, molto meno grave di una sanzione penale che criminalizza coloro che esercitano un diritto fondamentale protetto dalla Costituzione. Ovviamente il ricorso può essere respinto e in questo caso il giudice dovrebbe emettere sentenza di condanna. Da notare che lo stesso giudice ha chiesto il ricorso alla Corte Costituzionale in un’udienza svoltasi poco prima della nostra, sempre in merito all’applicazione del 18 tulps (in questo caso si trattava di una manifestazioni di anarchici contro il 41 bis). Questa decisione può rappresentare una svolta per il diritto di manifestare in Italia, eliminando – o ridimensionando – un reato che, fin dalla sua istituzione, tradisce la sua origine repressiva. Una svolta tanto più importante perché arriva a poche settimane dall’approvazione del Dl Sicurezza e dimostra che le azioni dirette nonviolente, dalla strada al Parlamento, passando per le aule dei tribunali, portano alla trasformazione della società. I nostri canali: Aggiornamenti in tempo reale saranno disponibili sui nostri social e nel sito web: * Sito web:https://ultima-generazione.com * Facebook@ultimagenerazione.A22 * Instagram@ultima.generazione * Twitter@UltimaGenerazi1 * Telegram@ultimagenerazione Ultima Generazione è una coalizione di cittadini ed è membro del network A22.   . Ultima Generazione
Marjan Jamali finalmente assolta
Marjan Jamali ci racconta la sua storia; appena sbarcata col figlio a Roccella Ionica (RC) nel 2023, dopo un viaggio partito dall'Iran verso l'Europa, fu subito arrestata e detenuta in carcere con l'accusa di "favoreggiamento all'immigrazione irregolare". Dal maggio 2024 ottenne gli arresti domiciliari, nel marzo 2025 venne liberata e lunedì 16 giugno finalmente è stata assolta con formula piena. In collegamento telefonico è direttamente la sua voce a raccontare i dettagli di un viaggio in cui ha subito anche molestie sessuali e del processo che ha dovuto ingiustamente subire.  Una vicenda che fa emergerge, attraverso la criminalizzazione delle\dei migranti e della libertà di movimento, il profilo razzista delle istituzioni italiane.     
Il processo ungherese di Maja
Nei giorni 4 e il 6 giugno si sono tenute due importanti udienze per Maja, antifascista detenuta in carcere in Ungheria da oltre un anno in stato di isolamento. PERCHÉ NECESSARIO Maja ha richiesto i domiciliari e il 5 giugno ha iniziato uno sciopero della fame a oltranza denunciando le sue condizioni insostenibili. 23 ore al giorno in cella in isolamento, ora d’aria con manette ai polsi e alle caviglie, impossibilità di studiare, di incontrare e avere contatti con i propri cari, un livello igienico generale basso, cimici, cibo avariato, una condizione di “tortura bianca” che ci fa pensare alle condizioni del 41 bis. Maja è stata estradata illegalmente, altre persone stanno affrontando lo stesso processo in Germania. Il processo di Maja è lo stesso in cui sono coinvolti molti antifascisti in tutta Europa, molti in carcere oggi in Germania, Gino per cui solo provvisoriamente possiamo tirare un sospiro di sollievo e Ilaria Salis su cui pende una richiesta di revoca di immunità. BREVE AGGIORNAMENTO SUL PROCESSO In questi giorni abbiamo assistito a due udienze molto lunghe e con la stessa identica liturgia già vista nelle udienze dello scorso anno per Ilaria Salis. Conduce, suona, canta, fa il il pm, l’accusa, manda i video, un’unica persona: il giudice (sempre lui). Che a fine processo dà anche una botta di scopa e rassetta l’aula. In queste udienze ci sono stati molti testimoni, NESSUNO ha riconosciuto Maja. Sono stati proiettati molti video, in NESSUNO di questi si vede MAI Maja. Allo stato dei fatti non esistono prove, l’unico motivo per cui Maja è in prigione oggi si basa su supposizioni e la richiesta, a oggi, è di 24 anni di carcere. Un processo del genere in qualunque Paese europeo non avrebbe motivo di andare avanti, un tipo di accusa, ricordo, che anche qualora gli imputati risultassero colpevoli non prevede carcere, a meno che tu non sia in Ungheria e a meno che tu non sia Antifascista. DA SEGNALARE tre testimoni polacchi, vittime di un pestaggio. Moglie, marito e amico, i tre si dichiarano “passanti”, che erano a Budapest in vacanza, quindi non partecipanti al giorno dell’Onore. Si dà il caso che basta googlare i loro nomi per trovarli facilmente in più di una foto in cui tengono insieme la bandiera blu di Ruch Narodowy, movimento di estrema destra polacco. Anche loro, comunque, non riconoscono Maja. Eppure Maja resta in carcere. LA DITTATURA DELLE MINORANZE No, non è Vannacci. Il clima in cui si svolge il processo ormai viene dato per scontato, ma anche stavolta abbiamo avuto una conferma. Da una parte i nazisti con uno striscione, posizionati proprio davanti l’entrata del tribunale in circa sei persone, dotati di telecamere e pronti ad aggredire e a riprendere chiunque facesse il tragitto per entrare. Gli oltre 100 antifascisti invece confinati su due marciapiedi a distanza. Così tutte quelle e tutti quelli che dovevano entrare facevano una passerella in cui venivano fotografate/i, riprese/i, insultate/i, aggredite/i verbalmente, cercando una qualsiasi reazione. Talvolta alcuni di quelli dotati di telecamera si staccavano e cercavano di riprendere le facce di chi era nel presidio antifa, cercando di infilare la telecamera e lanciando insulti o provocazioni: «c’è qualche antifa coraggioso che vuole essere intervistato?». Ovviamente è vietato reagire, perché la polizia è a tutela loro e non osa mettersi in mezzo, a meno che qualcuno non gli risponde e sappiamo già che il rischio è quello che sta vivendo Maja. Una dimostrazione plastica di come in sei si può avere tanto potere da non essere necessario altro, di come alla fine anche lì non è che ci siano le masse popolari a sostenere ‘sta roba e di come si sta in un Paese del genere, che si prende cura di te come una minoranza da tutelare, se sei nazista. MA CHI È MAJA? Mi sono reso conto in questo anno, da quando abbiamo cominciato a seguire insieme a Michele Zerocalcare e ad altre/i antifasciste/i la vicenda degli antifa a Budapest, che questa storia non gode di grande simpatia. Più che simpatia potremmo dire empatia, forse perché è complicato immedesimarsi in questi ragazzi e ragazze o forse perché ha vinto la narrazione che li disumanizza. Anche tra le nostre fila si spreca chi pensa che andare a Budapest a picchiare i nazisti sia una cosa “scema” (la semplifico al massimo) e non si capisce bene perché dei pischelli si debbano organizzare per una tale impresa. Manca dalla narrazione un dato fondamentale, che ogni anno, così come c’è il giorno dell’onore, c’è anche chi organizza una contro-manifestazione. Chi lo fa viene perseguitato letteralmente, sia dal governo, che dai fascisti e dalla polizia. In questo contesto avvengono questi fatti ed è sempre molto facile giudicarli e analizzarli dal comodo del proprio divano (o della propria assemblea) e forse è anche giusto farlo ma solo dopo che tutte/i sono state/i riportate/i a casa. Fatta questa premessa, chi è Maja? In questi giorni a Budapest c’è stata una grande presenza solidale, oltre 100 antifa hanno riempito l’aula di tribunale e fatto un presidio durante tutta la durata delle udienze (dalle 7 alle 13) e abbiamo avuto modo di conoscerle/i. UNA STORIA DI COMUNITÀ Parlando con i compagni e le compagne e chiedendo come mai fossero lì e cosa pensavano di questo processo abbiamo scoperto che molte/i erano amiche/ci di Maja, che ci andavano a scuola insieme. Avevano fatto le elementari e le medie oppure il liceo con Maja, c’erano i loro genitori e la loro comunità della cittadina da cui tutte/i provenivano, Jena, una città di circa 100mila abitanti, nota (a me no) per un’importante storia di università di filosofia. Non c’era quindi una strana composizione di antagoniste/i insurrezionaliste/i come dicono in Ungheria, di terroristi che chissà come si erano organizzati. C’era una comunità di una cittadina, di amiche, di amici, di genitori, che avevano visto crescere Maja a scuola, al liceo, in città, come una delle tante ragazze e dei tanti ragazzi che giravano, facevano cose e, nel suo caso, si interessava e faceva plitica. Il suo “caso” (che è brutto chiamare così, perché Maja è una persona, non un caso) aveva certamente scosso quella comunità e aperto un dibattito, molti dei genitori provenivano dai movimenti pacifisti e questa narrazione sulla “violenza” di sicuro li metteva anche in difficoltà. Ma, come si dice a Roma, «i figli so’ figli de tutti» e la comunità aveva risposto. Così, questa storia è già tutta un’altra storia. Poi a Budapest c’erano realtà politiche, collettivi e anche parlamentari come Carola Rakete, il padre e il fratello di Maja. In aula non è possibile fare cori o contestazioni di alcun genere, tantomeno parlare, così le e i solidali hanno trovato il modo di portare una forma di contestazione silenziosa, cambiandosi le magliette e riproducendo i colori arcobaleno sugli spalti dell’aula di tribunale, in un Paese che sta vietando il Pride. Un modo creativo ma anche radicale di fare politica laddove tutto ciò non è affatto scontato. Ma anche un modo di allargare il caso di Maja a un tema che sta coinvolgendo l’Europa in un Paese che non ha i minimi requisiti per stare nella comunità europea. DUE COSE VELOCI SULL’UNGHERIA DI ORBÁN In questi giorni abbiamo avuto modo di parlare e confrontarci anche con alcuni giornaliste/i ungheresi di sinistra riguardo alla situazione più generale del Paese, che spesso subisce una narrazione “occidentale” e stereotipata. L’incontro è avvenuto in un posto che sembrava a tutti gli effetti un centro sociale in un distretto storicamente di sinistra di Budapest. Già questo per me era una grande novità, non pensavo esistesse un centro sociale (anche se non è occupato e non si chiama così) e non sapevo ci fosse ancora qualcosa di sinistra in quella città e in quel Paese. C’è, ma è in grande difficoltà e ha pochissimi margini di movimento. Di fatto la destra ha convinto l’opinione pubblica che le persone di sinistra e i politici di sinistra sono dei pedofili (sì, pensavo fosse un errore di traduzione invece è proprio così) con una campagna mediatica e social potentissima che ha ripetuto cose surreali ma che sono entrate nell’immaginario. La parola antifascista è sinonimo di terrorista. Sappiamo che lo strascico dello stalinismo in questi Paesi e la reazione a esso è servita ad alimentare una visione distorta rispetto a tutto ciò che richiama al comunismo e sappiamo che quindi parlare nei termini in cui siamo abituate/i a pensare in Italia non ha senso. Ma oggi Orbán ha creato una condizione da cui sarà veramente complicato tornare indietro e se le destre di tutta Europa guardano a l’Ungheria come modello forse sarebbe bene approfondire la questione. > Oggi Orbán potrebbe non tornare al potere alle prossime elezioni ma chi si > candida a sostituirlo proviene comunque dalla destra e non ha certo una > visione diversa di società. Ma lascio valutazioni più approfondite a chi ne sa di più, ciò che mi interessava segnalare e che per la prima volta abbiamo avuto sentore dell’esistenza di qualcosa di sinistra, delle sue sfaccettature e divisioni, delle sue difficoltà e di come questo processo viene visto, di come noi veniamo viste/i quando andiamo lì e credo che di tutto ciò bisogna tener conto se non si vuole avere un atteggiamento che è il contrario dell’internazionalismo. IL DISCORSO DI MAJA Immaginate di stare in isolamento da oltre un anno. Immaginate di poter vedere le vostre amiche e i vostri amici solo alle udienze, da dietro delle guardie in passamontagna senza poterle/i abbracciare o poterci scambiare una parola. Immaginate di assistere a un processo farsa che ha già deciso come andrà a finire. Immaginate cioè che la vostra vita scivoli dentro un baratro e che ogni cosa punta a piegarvi, a farvi chiedere pietà. In quell’aula scura, in quel palazzo semivuoto dove l’unico rumore che si sente nei corridoi è quello di catene che si trascinano, di fronte a un giudice che sembra non avere un’anima, un minimo cenno di umanità, in un processo che viene svolto in una lingua che non capisci, legato come “Hannibal the cannibal”. In questo contesto Maja entra con un sorriso, poi si alza e va di fronte questo giudice con i capelli sciolti, senza paura, e gli dice in faccia quello che pensa di lui, quello che pensa di questo processo, quello che pensa della vita e conclude con «Sono antifascista perché necessario. Questa è la cosa più importante da dire». Finito si gira e guarda le sue amiche e i suoi amici che si alzano e urlano «FREE MAJA, FREE FREE MAJA». Il giudice resta basito e sconcertato, con lo stesso tono asettico dice che non si possono fare queste cose in aula e poi prosegue, come se niente fosse. Ma di questo giudice la storia non avrà mai bisogno, di persone come Maja ne abbiamo bisogno sempre di più. Io ne ho bisogno anche solo per alzarmi la mattina e mettere un piede dietro l’altro. di Mattia Tombolini COSA SI PUÒ FARE Cosa si può fare per Maja e per le altre persone coinvolte in questo processo? La verità è che si può (e si deve) fare tutto. Non possiamo aspettarci niente dal tribunale di Budapest, non possiamo aspettarcelo dalla politica che sembra in imbarazzo a dire che i nazisti sono un problema per la democrazia (e quindi gli dispiace se qualcuno li picchia). Quello che si può fare è essere solidali, aumentare questa solidarietà in maniera esponenziale e immaginare tutte le forme possibili di lotta e di conflitto, perché se c’è una cosa che la storia ci ha insegnato è che la libertà non cade mai dal cielo. Maja è in sciopero della fame perché non può fare altro in quella condizione, a noi sta inventarci il modo di darle supporto, perché potrà sembrare retorico ma questa storia ci riguarda in prima persona. Oggi che l’Italia ha appena approvato il DL Sicurezza potremmo vedere un moltiplicarsi di provvedimenti verso persone che manifestano e dovremmo inventare modi di resistere e tirarle fuori. Immaginare un metodo, una forma di organizzazione, di supporto legale e far sì che lo slogan «si parte e si torna insieme» non sia solo retorica. L’immagine di copertine è di Mattia Tombolini SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. 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