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Per una politica della possibilità qui e ora
PROTEGGERE IL SENSO DI ATTIVITÀ MARGINALIZZATE DALL’ECONOMIA CAPITALISTA (IL LAVORO DI CURA, L’AUTOPRODUZIONE, L’AGRICOLTURA DI SUSSISTENZA, IL VOLONTARIATO, LE PRATICHE COMUNITARIE), RICONOSCERE L’IMPORTANZA DI UNA “POLITICA DELLA POSSIBILITÀ” QUI E ORA, VIVERE LA RICERCA COME ESPERIMENTO E NON SOLO MOMENTO VALUTATIVO, PENSARE IL CAMBIAMENTO SEMPRE A PARTIRE DAL CAMBIAMENTO DI SÉ. SONO PASSATI OLTRE TRE DECENNI DA QUANDO IL PENSIERO DI J.K. GIBSON-GRAHAM HA COMINCIATO A SCUOTERE LE FONDAMENTA DELLA RICERCA E DELLA PRATICA MARXISTA DA UNA PROSPETTIVA FEMMINISTA POST-STRUTTURALISTA. J.K. GIBSON-GRAHAM È LO PSEUDONIMO ACCADEMICO SCELTO DALLE GEOGRAFE ECONOMICHE KATHERINE GIBSON E JULIE GRAHAM. OLTRE IL CAPITALOCENTRISMO. PER UNA POLITICA DELLA POSSIBILITÀ QUI E ORA (MIMESIS ED.) È IL LIBRO CHE RACCOGLIE ALCUNI SUOI SCRITTI PIÙ SIGNIFICATIVI E INTRODUCE PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA IL PENSIERO DI J.K. GIBSON-GRAHAM. L’INTRODUZIONE DI OLTRE IL CAPITALOCENTRISMO Laboratorio di intreccio di materiali naturali presso Cascina Rapello (in una frazione di Airuno a 15 km da Lecco), un angolo di mondo di cui si prende cura la cooperativa Liberi sogni -------------------------------------------------------------------------------- Sono passati ormai oltre tre decenni da quando il lavoro di J.K. Gibson-Graham ha iniziato a scuotere le fondamenta della ricerca e della pratica marxista da una prospettiva femminista post-strutturalista. J.K. Gibson-Graham è lo pseudonimo accademico scelto dalle geografe economiche Katherine Gibson e Julie Graham. Le due si sono conosciute negli anni Settanta durante il dottorato alla Clark University, in Massachusetts e sono presto diventate amiche. Da questa amicizia è nata un’intesa intellettuale profonda che avrebbe dato origine a una delle collaborazioni più longeve e influenti nell’ambito del pensiero geografico contemporaneo. Le tesi dottorali di entrambe si basavano sull’economia politica marxista per analizzare i processi di ristrutturazione economica che stavano portando al declino di alcune regioni industriali “tradizionali” in Australia (Gibson) e negli Stati Uniti (Graham). Dopo il conseguimento del dottorato, Gibson è tornata a lavorare in Australia (prima all’Università Nazionale Australiana, poi all’Università di Sydney, alla Monash e infine alla Western Sydney) mentre Graham ha continuato il suo percorso negli Stati Uniti, all’Università del Massachusetts ad Amherst, dove è rimasta fino alla sua morta nel 2010, dopo essere anche stata a capo del Dipartimento di Geoscienze. Nonostante la notevole distanza fisica in tempi precedenti a Internet, l’impegno condiviso nei confronti dell’economia politica e della sperimentazione intellettuale è proseguito senza interruzioni per oltre trent’anni. Come affermato da loro stesse, “abbiamo percorso un cammino personale che si arricchisce continuamente, man mano che emergono nuove sfide nel relazionarsi e nel pensare/scrivere insieme”. Il risultato di questi sforzi è stata una geografia economica femminista post-strutturalista teoricamente sofisticata che ha messo al centro il ruolo del soggetto e la capacità trasformativa dei processi di ricerca, trasformando profondamente il dibattito su economia e sviluppo all’interno della geografia e delle scienze sociali più in generale. Il primo articolo co-firmato da Gibson e Graham (ma non ancora con lo pseudonimo Gibson-Graham) del 1986 era un intervento teorico marxista che sviluppava la loro teoria sulla ristrutturazione economica includendo nuove forme di migrazione internazionale di lavoro a contratto. In quegli anni, l’influenza dell’analisi strutturale marxista stava cominciando a essere messa in discussione all’interno della geografia economica; per Gibson e Graham, l’incontro col femminismo post-strutturalista e l’economia marxista anti-essenzialista di Stephen Resnick e Richard Wolff, colleghi di Graham ad Amherst, sembra aver rappresentato un punto di svolta fondamentale verso il tentativo di riteorizzare capitalismo e classe. La firma unica di “Gibson-Graham” è nata in una stanza di dormitorio durante una conferenza femminista alla Rutgers University nel 1992. Da qui ha preso vita il loro primo articolo a firma Gibson-Graham, dal titolo memorabile Waiting for the revolution, or how to smash capitalism while working at home in your spare time (“Aspettando la rivoluzione, o come distruggere il capitalismo lavorando da casa nel tempo libero”), pubblicato sulla prestigiosa rivista Rethinking Marxism nel 1993. È proprio con la traduzione di questo testo che si apre la presente antologia, il cui obiettivo principale è introdurre il pubblico in lingua italiana ad alcuni dei principali concetti e contributi analitici proposti da Gibson-Graham nel corso della sua prolifica produzione teorica. Sebbene il lavoro di Gibson-Graham abbia avuto un’influenza notevole su numerosi dibattiti contemporanei in diversi ambiti disciplinari non solo in lingua inglese, ma anche in italiano (tra i più recenti, si veda ad esempio quello sul pluriverso), esso non è tuttavia disponibile in traduzione italiana. La presente antologia rappresenta quindi il tentativo di rimediare a questa mancanza, raccogliendo una serie di contributi pubblicati tra il 1993 e il 2010, inclusi alcuni dei capitoli contenuti all’interno delle due monografie che hanno reso Gibson-Graham maggiormente nota a livello internazionale: The End of Capitalism (As We Knew It) del 1996 e A Postcapitalist Politics del 2006. Come la stessa Gibson-Graham osserva nell’introduzione alla seconda edizione, la prima edizione di The End of Capitalism è stata pubblicata nel pieno dell’ossessione accademica per la globalizzazione capitalista, e rappresentava una sfida profonda alle forme accettate di marxismo e neo-marxismo che allora dominavano la geografia economica. Del resto, come si evince dalla sua biografia, Gibson-Graham stessa era profondamente immersa in queste tradizioni intellettuali e disciplinari, e questo si rifletteva nel suo interesse per la teorizzazione della classe sociale, emerso già nei primi lavori firmati con lo pseudonimo collettivo. Il libro si proponeva di sfidare i discorsi teorici basati su forze economiche disincarnate, sull’egemonia capitalista e sull’omogeneizzazione legata alla globalizzazione. Ispirata in particolare dagli approcci anti-essenzialisti al marxismo, Gibson-Graham voleva mettere in discussione l’essenzialismo e il riduzionismo dei discorsi economici sia tradizionali che marxisti, decostruendo l’economia per dimostrare che non si tratta di uno spazio chiuso con un’identità capitalista fissa, ma può essere aperta ad altre interpretazioni. Per realizzare tale obiettivo, influenzata dalla teoria femminista di Elizabeth Grosz sul fallocentrismo, Gibson-Graham ha introdotto il concetto di capitalocentrismo, il quale descrive il binarismo dominante del discorso economico che tende ad assegnare caratteristiche positive di unità e totalità al capitalismo, mentre le pratiche economiche non-capitaliste vengono subordinate al capitalismo, in quanto mancanti o insufficienti e comunque sempre ricondotte nell’orbita del capitalismo. Secondo Gibson-Graham, il discorso capitalocentrico finisce per ridurre e cancellare la differenza economica, per cui ogni pratica viene ricondotta all’unità capitalista. Il capitalocentrismo si presenta quindi come una modalità, una struttura o una tendenza a organizzare la differenza economica in un modo tale per cui le categorie, le pratiche, i soggetti e gli spazi capitalisti (ad esempio, il lavoro salariato, la proprietà privata, l’impresa capitalista) vengono considerati più reali, centrali, coerenti e determinanti rispetto ad altri (come il lavoro domestico, l’agricoltura di sussistenza familiare, il lavoro schiavistico, le cooperative di produzione, la cura, il mercato nero, i beni comuni, il lavoro forzato). Avvicinarsi a queste differenze realmente esistenti senza presumere che esse debbano necessariamente allinearsi secondo logiche predeterminate o identità che le surdeterminano è al centro dell’ormai celebre strategia di Gibson-Graham di “leggere per differenza piuttosto che per dominanza” (si vedano i capitoli 4 e 6). Sfidare il capitalocentrismo significa, quindi, per Gibson-Graham, rendere visibile la molteplicità di processi di classe capitalisti e non-capitalisti presenti all’interno di qualsiasi formazione economica. Contestando la coerenza e la permanenza del capitalismo attraverso la teorizzazione dell’economia come molteplicità di forme coesistenti — tra le altre, feudalesimi, schiavitù, produzione indipendente di merci, produzione domestica e varie forme di capitalismo — il suo lavoro mira ad aprire spazi concettuali non solo per molteplici letture dell’economia, ma anche per una vasta gamma di lotte politiche. Un esercizio intellettuale di tale portata richiede uno sforzo concettuale importante, che ha portato, forse più di qualunque altro contributo, all’introduzione di approcci nuovi, combinati in maniera creativa, nell’ambito della geografia economica. Ciò ha significato andare ben al di là della tendenza diffusa a confrontarsi con visioni eterodosse dell’economia, promuovendo un intervento teorico primario radicale. Ecco, quindi, che in The End of Capitalism, trovano spazio, accanto ad Althusser, Engels e Marx, anche Derrida, Foucault, Grosz, Irigaray, Haraway e Sedgwick. Se questi nomi potevano essere familiari a chi si occupava di geografia culturale, essi erano profondamente lontani dai programmi di studio sull’economia e lo sviluppo. Sulla scia di tali influenze, la decostruzione era lo strumento metodologico principale adottato nel libro al fine di rompere le narrazioni consolidate che plasmavano l’analisi e la politica della sinistra. Questa fase iniziale segnava l’inizio di un progetto intellettuale più ampio, culminato nell’ambizione di produrre un linguaggio e una politica della differenza economica. Ciò ha comportato, innanzitutto, la rottura con le concezioni egemoniche del capitalismo come descrittore economico e sociale predeterminato, aprendo la strada alla ridefinizione di concetti chiave del marxismo come quelli di classe e surplus. Tale progetto si è basato fortemente sulla “teoria debole” (weak theory) così come concettualizzata da Sedgwick in opposizione alla “teoria forte” (strong theory). Secondo Gibson-Graham, la teoria forte rappresenta un approccio distaccato e critico, caratterizzato da una posizione paranoica in cui la diversità viene appiattita nell’uguaglianza, spinta dalla necessità di rendere generalizzabile e universale la conoscenza generata dai processi di ricerca. La “forza” di tale teoria non proviene dalla sua efficacia ma dall’ampiezza e dal tipo di dominio che essa organizza. Laddove la teoria debole è vista come “poco più che una descrizione” che si occupa solo di fenomeni vicini o situati, la teoria forte ordina fenomeni vicini e lontani in un unico sistema, riconducendoli a un’unica causa comune. Estendendo la propria portata, la teoria forte assume una posizione sempre più anticipatoria, finendo per rivelare poco più che i risultati già presunti. Ne consegue che “tutto finisce per significare la stessa cosa, solitamente qualcosa di grande e minaccioso”. Nel caso della ricerca sulle pratiche economiche, questo si traduce nel liquidare come insignificanti le pratiche definite “alternative” solo perché non rientrano nei modelli dominanti. Tuttavia, il progetto di Gibson-Graham non si è limitato a decostruire il capitalocentrismo del linguaggio, portando alla luce la diversità di pratiche e soggettività economiche che già esistono qui e ora. Esso ha fornito gli strumenti (pratici) per realizzare quella che Gibson-Graham ha definito “politica della possibilità”. Tale progetto inizia a essere realizzato appieno in A Postcapitalist Politics, dove Gibson-Graham propone di abbandonare le narrazioni cupe di sfruttamento capitalista e impotenza per promuovere pratiche di pensiero critico che ripensino le economie come multiple e differenziate, creando nuovi spazi per l’azione collettiva e nuove possibilità di soggettivazione che conducano alla realizzazione della politica della possibilità. A Postcapitalist Politics rappresenta quindi l’invito alla comunità accademica a riconoscere il potere costitutivo dei propri approcci analitici e a comprendere che, attraverso il proprio lavoro, essa contribuisce a creare e a mettere in scena i mondi che si abitano. Il progetto ontologico sull’economia diversa che viene a delinearsi si fonda su un orientamento sperimentale alla ricerca (nella forma della ricerca-azione). Nelle parole di Gibson-Graham, quest’orientamento sperimentale si caratterizza per un interesse verso l’apprendimento piuttosto che verso il giudizio. Trattare qualcosa come un esperimento sociale significa aprirsi a ciò che esso ha da insegnarci, un’attitudine molto diversa dal compito critico di valutare se qualcosa sia buono o cattivo, forte o debole, mainstream o alternativo. L’approccio sperimentale riconosce che ciò che stiamo osservando è in cammino verso qualcos’altro, e si interroga su come poter partecipare a questo processo di divenire. Questo non significa che le nostre raffinate capacità critiche non abbiano un ruolo nella ricerca, ma che la loro espressione passa in secondo piano rispetto all’orientamento sperimentale. In linea con l’influenza del femminismo post-strutturalista e della teoria queer, tale orientamento sperimentale (alla ricerca e alla pratica politica) non può che passare per il soggetto, ovvero non esiste cambiamento possibile che non parta dal cambiamento di sé. Infatti, recita uno dei passaggi del capitolo Coltivare soggetti per un’economia di comunità: “Se cambiare noi stesse significa cambiare i nostri mondi, e la relazione è reciproca, allora il progetto di fare la storia non è mai qualcosa di lontano, ma è sempre qui, ai margini dei nostri corpi che sentono, pensano, provano emozioni e si muovono”. Per produrre cambiamento, questo processo di soggettivazione deve essere, per Gibson-Graham, collettivo e basato sul riconoscimento imprescindibile del nostro essere in relazione con altri esseri umani e non umani per la difesa e la riproduzione dei beni comuni. In questo modo, il lavoro di Gibson-Graham offre strumenti fondamentali per teorizzare e praticare l’alternativa qui e ora partendo da sé, abbracciando gioia, sperimentazione, ottimismo e possibilità. -------------------------------------------------------------------------------- [Cesare Di Feliciantonio 
e Antonella Clare Vitiello] -------------------------------------------------------------------------------- Riferimenti bibliografici Gibson-Graham J.K., The End of Capitalism (As We Knew It), University of Minnesota Press, Minneapolis 1996. Gibson-Graham J.K., A Postcapitalist Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006. Gibson-Graham J.K., Diverse economies: performative practices for ‘other worlds’, in “Progress in Human Geography”, XXXII, n. 5, 2008, pp. 613-632. Gibson K., Graham J., Situating migrants in theory: the case of Filipino migrant contract construction workers, in “Capital and Class”, XXIX, n. 1, 1986, pp. 130-149. Kothari A., Salleh A., Escobar A., Demaria F., Acosta A. (a cura di), Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo, ed. it. a cura di M. Benegiamo, A. Dal Gobbo, E. Leonardi, S. Torre, Orthotes, Napoli 2021 Sedgwick E.K., Touching feeling: Affect, pedagogy, performativity, Duke University Press, Durham 2003. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Per una politica della possibilità qui e ora proviene da Comune-info.
Crisi della città e crisi dell’arte
L’OMNIMERCIFICAZIONE DEL MONDO, COMPLEMENTO LOGICO DELLA SOCIETÀ DI CRESCITA, HA CONSEGUENZE DISTRUTTIVE SULLA QUALITÀ DELLA VITA IN TUTTE LE CITTÀ. MA AL FALLIMENTO DELLA «POLITICA URBANA» HA CONTRIBUITO ANCHE QUELLA CHE È STATA CHIAMATA LA «CRISI DELLA CULTURA», UNA DISTRUZIONE DEL GUSTO, DELLA SENSIBILITÀ, DELLO STILE DI VITA. L’INTRODUZIONE DEL LIBRO IL DISASTRO URBANO E LA CRISI DELL’ARTE CONTEMPORANEA (ELÈUTHERA) DI SERGE LATOUCHE: UNA RIFLESSIONE SULL’ESTETICA ACCOMPAGNATI DA BAUDRILLARD E CASTORIADIS Milano. Foto unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- All’origine di questo libro c’è anzitutto la pubblicazione, in Italia, di un saggio scritto su impulso e in collaborazione con Marcello Faletra, docente di Estetica all’Accademia di Belle Arti di Palermo, intitolato Hyperpolis. Architettura e capitale[1]. Il termine «Hyperpolis» che ho suggerito per il titolo allude all’opera Les Géants del grande romanziere francese J.M.G. Le Clézio, che rappresenta una delle critiche più feroci alla società dei consumi. Hyperpolis designa una sorta di città-supermercato gigante, simbolo del mondo della merce nel villaggio globale. «Quando si è dentro Hyperpolis è come se si fosse dentro l’universo. Tutt’a un tratto le mura sono così lontane che non si riesce a vederle, sono sparite ai confini dello spazio. Il soffitto è tanto alto, il pavimento tanto basso, che è come se non ci fossero limiti. Lo spazio si è espanso molto velocemente, ha respinto le superfici dure e piatte, largo, tanto largo, ha spostato i suoi muri e le sue finestre, e ora non se ne vedono più le frontiere. Si è in lui, si fluttua». Questo luogo inumano invoca la sua distruzione. Si presenta allora come un ritornello ossessivo il mantra «Bisogna bruciare Hyperpolis», cosa che il protagonista, Machines, compirà alla fine del romanzo[2]. L’omnimercificazione del mondo, complemento logico della società di crescita, ha conseguenze talmente distruttive sulla qualità della vita che in effetti si può perfino arrivare ad augurarsi la scomparsa di questo mondo. La deterritorializzazione, ovvero la dinamica extra suolo dell’attività umana, devasta sia la campagna sia la città e saccheggia il paesaggio, a dispetto della buona volontà e del talento di architetti, urbanisti e paesaggisti che, spesso consapevoli del disastro, tentano invano di porvi rimedio. Se la megapolis nella quale viviamo non è altrettanto inumana di Hyperpolis è perché eredita una storia e una cultura che hanno preceduto il regno della merce e perché la colonizzazione del nostro immaginario da parte dell’economia fatica a distruggere fino in fondo la nostra capacità di resistenza. L’analisi del disastro urbano non pertiene solo alla dimensione territoriale della logica di distruzione materiale compiuta dall’economia di crescita. Questa costituisce di certo un elemento importante nei disordini che hanno avuto luogo di recente nelle banlieues francesi e che hanno portato il presidente Macron a parlare di «decivilizzazione». Ma al fallimento della «politica urbana» ha contribuito anche quella che è stata chiamata la «crisi della cultura», ovvero una radicale perdita di valori, un’altrettanto radicale distruzione del gusto, della sensibilità, dello stile di vita. Tale distruzione, che si può qualificare come di natura estetica, deriva in ultima istanza dallo stesso processo di colonizzazione dell’immaginario da parte del fattore economico presente anche nella deterritorializzazione. La capacità di resistenza mentale al processo distruttivo si nutre e si rinforza grazie alle distruzioni materiali. Siamo coinvolti in una lotta titanica – dove è in gioco nientemeno che la sopravvivenza della specie – che a vari livelli e con modalità diverse investe tutti. Il caso ha voluto che questa riflessione sul disastro urbano sia avvenuta in concomitanza con una riflessione più generale sull’estetica, nata da un invito a partecipare al festival di Trani (cittadina pugliese, non lontana da Bari, ricca di storia), il cui tema era «la Bellezza». Dal momento che l’estetica non sfugge al collasso dei valori generato dal trionfo del valore economico, gli organizzatori del festival hanno pensato, non senza ragione, che la decrescita avesse qualcosa da dire al riguardo. Tanto la crisi dell’arte contemporanea, spesso denunciata, quanto il disastro urbano, risultano incontestabilmente da quel collasso. E il grande caos estetico tocca tutte le belle arti: l’architettura (e il suo prolungamento, l’urbanistica) così come la pittura o la musica, anche se la prima è toccata sia dall’impatto materiale della mercificazione sia dalle sue ricadute sull’estetica. Ecco verosimilmente la ragione per cui, nel progetto della decrescita, architetti e urbanisti sono stati interpellati molto più di pittori, musicisti o danzatori, anche se, in fin dei conti, tutti ne sono stati colpiti. L’ambizione di architetti e urbanisti è di risolvere la crisi sociale con l’utopia delle cités radieuses, mentre quella dei poeti, dei pittori, dei musicisti e degli altri artisti è di farci sognare, dimenticare la miseria del presente e reincantare il mondo. L’estetica si trova pertanto al crocevia delle riflessioni sulla decrescita. La si incontra sia quando ci si interroga sul ruolo del sacro o sull’arte di vivere, sia quando ci si preoccupa di pedagogia o di colonizzazione dell’immaginario3. Nonostante ciò, è ancora possibile ritrovare il senso e il gusto del bello? Ci si può inventare un’estetica adatta al progetto di costruire società di abbondanza frugale? Ne esistono già segni premonitori e anticipazioni? La decrescita non sfugge al malinteso dei progetti utopici, incastrati fra la pregnanza del presente e il futuro sognato: città di decrescita, abitazioni di decrescita ecc. Ci sono state anche rivendicazioni di decrescita nella pittura, nella musica, e perfino nella pedagogia. Si tratta di pretese largamente, se non totalmente, ingiustificate. Si può essere urbanisti, architetti, pittori o musicisti e aderire al movimento della decrescita, e certamente questa adesione può e deve avere un impatto sul modo di praticare la propria arte. Tuttavia, non bisogna mettere il carro davanti ai buoi. L’arte non può essere arruolata per un progetto sociale e politico, proprio come non può essere sottomessa agli imperativi del mercato. «Il tentativo di strumentalizzare l’arte» scrive Castoriadis «porta alla sua pura e semplice distruzione»[4]. Anche se è possibile tratteggiare quelle che potrebbero essere città sostenibili e conviviali alternative alla società di crescita, è un azzardo troppo grande pretendere di anticipare un’estetica del futuro, nonostante essa costituisca una dimensione centrale del progetto della decrescita. Questa riflessione sull’estetica nei suoi intrecci con il progetto della decrescita non ha la presunzione di presentare un’analisi esaustiva della crisi dell’arte contemporanea, tema che ha suscitato contributi molto approfonditi da parte degli specialisti, del cui novero non pretendiamo di fare parte[5]. Motivata dalla connessione con la decrescita, essa sfrutta largamente la critica poderosa di Jean Baudrillard enucleata nel suo pamphlet sul «complotto dell’arte», ma poggia al contempo sulle analisi della distruzione della cultura nella società capitalista condotte da Cornelius Castoriadis, disseminate nella sua opera e poi raccolte nel libro postumo Fenêtre sur le chaos[6]. Ovviamente l’analisi di Castoriadis, a differenza di quella di Baudrillard, non porta direttamente alla «nullità dell’arte contemporanea»: i giudizi che esprime sull’argomento, molto cauti[7], derivano dalla sua diagnosi della crisi della cultura occidentale, ovvero sostanzialmente dei suoi «valori». Tali valori – «consumo, potere, status, prestigio, espansione illimitata del governo della ‘razionalità’» – hanno esaurito il loro potere creativo e stanno ormai portando la civiltà occidentale al collasso. Seppur in forma diversa, la sua analisi si collega alla nostra sull’autodistruzione della società di crescita e sulla necessità di una «rivalorizzazione», ovvero di un’autentica rivoluzione culturale. Solo che la dialettica della cultura e della base materiale, che alcuni tentano perfino di negare, è tutto fuorché semplice. Nel momento in cui si tocca l’estetica, i giudizi inevitabilmente coinvolgono la soggettività del loro autore. E, per ben argomentati che siano, resteranno pur sempre molto discutibili. Al termine di un’analisi magistrale, in alcune pagine magnifiche nelle quali il suo acuto sguardo filosofico si combina con la finezza di chi ha a lungo frequentato la psicoanalisi, Castoriadis ammette la propria impotenza a penetrare tutti i misteri che l’estetica pone[8]. Noi non pretendiamo di fare di meglio… La rilettura di Castoriadis in occasione della pubblicazione francese dei suoi saggi mi ha portato tuttavia a prendere coscienza delle significative differenze tra le nostre analisi, cosa che mi ha spinto ad aggiungere in conclusione un breve «post scriptum». La decrescita, abbiamo scritto per parte nostra, è un’arte di vivere. L’arte di vivere bene, in sintonia con il mondo. L’arte di vivere con arte. L’obiettore di crescita è al contempo un artista. Qualcuno per il quale il godimento estetico è una parte importante della gioia di vivere. L’etica della decrescita implica dunque necessariamente un’estetica della decrescita, anche se l’etica della decrescita non si riduce a un’estetica. Fare della propria vita un’opera d’arte non è di per sé l’obiettivo primario della decrescita, ma piuttosto una delle sue conseguenze. È quindi naturale che, avendo presentato Castoriadis e Baudrillard come precursori della decrescita, questi saggi si iscrivano nel loro solco, come, in misura minore, in quello di altri precursori quali William Morris, Jacques Ellul o Pier Paolo Pasolini, nel tentativo di portare un po’ di luce «decrescente» sui misteri dell’estetica[9]. -------------------------------------------------------------------------------- Note all’Introduzione 1. Serge Latouche e Marcello Faletra, Hyperpolis. Architettura e capitale, Meltemi, Milano, 2019. 2. Ivi, p. 116. «All’ingresso di Hyperpolis non c’è nessuno. L’uomo che si chiama Machines avanza verso il centro e rovescia il primo bidone al suolo, vicino a una colonna. Accende un fiammifero e la fiamma gialla divampa alta. Un po’ più in là l’uomo Machines rovescia il secondo bidone. Già risuonano le sirene. L’uomo accende un secondo fiammifero e la fiamma divampa alta verso il soffitto. Poi l’uomo chiamato Machines arretra un po’, si siede, la schiena contro un pilastro. Guarda le fiamme che formano grandi onde verticali verso il soffitto, sente le sirene e i fischietti. Ma per lui fa lo stesso, attende» (Les Géants, Gallimard, Paris, 1973, p. 333). 3. Si vedano i nostri saggi: Penser un nouveau monde. Pédagogie et décroissance. Entretiens avec Simone Lanza, Payot & Rivages, Paris, 2023 [trad. it. Il tao della decrescita. Educare a equilibrio e libertà per riprenderci il futuro, Il margine, Trento, 2021]; L’Abondance frugale comme art de vivre. Bonheur, gastronomie et décroissance, Payot & Rivages, Paris, 2020 [trad. it. L’abbondanza frugale come arte di vivere. Felicità, gastronomia e decrescita, Bollati Boringhieri, Torino, 2022]; Comment réenchanter le monde. La décroissance et le sacré, Payot & Rivages, Paris, 2019 [trad. it. Come reincantare il mondo. La decrescita e il sacro, Bollati Boringhieri, Torino, 2020]. 4. Cornelius Castoriadis, Fenêtre sur le chaos, Seuil, Paris,15 2007, p. 45 [trad. it. Finestra sul caos, scritti su arte e società, elèuthera, Milano, 2007]. 5. I curatori dei testi di Castoriadis [Fenêtre sur le chaos, cit.] includono una bibliografia sulla questione, di cui si segnala in particolare l’opera di Yves Michaud La Crise de l’art contemporain, puf, Paris, 1997. Bisogna inoltre menzionare il libro più recente di Marc Jimenez, La Querelle de l’art contemporain, Gallimard, Paris, 2005. 6. Castoriadis, Fenêtre sur le chaos, cit. 7. «La riflessione è dunque piena di trappole e di rischi»; ivi, p. 12. 8. «Sono quarant’anni che questo interrogativo mi assilla: perché lo stesso pezzo, diciamo la Sonata n. 33 di Beethoven, composta da qualcuno oggi sarebbe considerata una sorta di scherzo, ma scoperta per caso in un solaio di Vienna sarebbe considerata un capolavoro immortale? […] Non ho visto nessuno riflettere seriamente sulla questione»; ivi, p. 33. 9. Si vedano questi autori nella collana Les précurseurs de la décroissance da me curata per le Éditions Le Passager clandestin. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Crisi della città e crisi dell’arte proviene da Comune-info.
Il sogno della terra nel blackout del capitalismo
UN ROMANZO SAGGISTICO DI CRITICA SULLA CATASTROFE CLIMATICA PROVOCATA DAL CAPITALISMO. UN ROMANZO CAPACE DI COMPORRE L’ARCHIVIO DELLE ALTERNATIVE STORICHE ALL’ECOCIDIO. UN ROMANZO CHE SI FA LEGGERE NON PER IL PIGLIO STATAL-RIFORMISTA DELLE PROPOSTE, MA PERCHÉ DISPIEGA LA MAPPA DELLE QUESTIONI ESISTENZIALI NEL LUNGO RACCONTO TECNO-POLITICO DEI POTERI CHE SOFFOCANO IL MONDO. PAOLO VERNAGLIONE BERARDI LEGGE IL MINISTERO DEL FUTURO DELLO SCRITTORE DI FANTASCIENZA KIM STANLEY ROBINSON, PARTENDO DALL’ARTICOLO IL BLACKOUT COME RIVELATORE DI AMADOR FERNÁNDEZ-SAVATER Roma, luglio 2022: il rogo del Parco di Centocelle. Foto di Antonio Citti -------------------------------------------------------------------------------- Cosa ha generato il blackout di fine aprile innescato da un guasto su una linea di trasmissione ad alta tensione tra la Catalogna francese e quella spagnola? Il guasto tecnico, o meglio tecnologico si è raddoppiato nel guasto proficuo delle identità, nel riflusso dei generi, nella produzione di un tempo fluido che per ore ha bloccato l’estrazione di risorse psicofisiche da appropriare, normare, scambiare al nocivo mercato delle solitudini e del disagio quotidiano. In quelle ore di buio sono saltate le ordinarie gerarchie sociali ed affettive rubricate nell’ordine simbolico maschile e, come ha scritto il filosofo Fernández Savater, si è ritrovata la fonte solidale delle parole e degli incontri sconosciuti, dei passi e delle cautele, delle risa e delle sagome impreviste. Il passo che vede, il tatto che ascolta, la vista che riposa e non sovrasta il gusto delle voci. Un’ecografia delle possibilità di conoscenza si è aperta, una breve e intensa lettura della terra respira e invoca grazia, creando un’altra storia possibile, là e adesso. Se l’analogia è lecita, quanto è successo in Spagna e in Portogallo evoca un romanzo pubblicato nel 2022 da Fanucci, Il Ministero per il futuro dell’affermato scrittore di fantascienza Kim Stanley Robinson. Siamo poco prima della metà del XXI secolo, tutto è già residui e rovine del capitalismo nelle sue estremità più deflagranti, cioè le periferie del mondo in cui si consuma la catastrofe climatica. Un’ondata di caldo micidiale uccide in India la popolazione di un intero stato e Frank May, un volontario che opera nell’Uttar Pradesh prova a guidare i sopravvissuti fino al lago già infuocato e inquinato. Il disastro provoca la reazione delle cosiddette istituzioni internazionali e viene creato il Ministero per il futuro, un ente intergovernativo mondiale che dovrebbe provvedere alla difesa dei viventi. Mary Murphy presiede il Ministero mentre la setta ecoterrorista dei Figli di Kali compie attentati che abbattono aerei e affondano navi per protestare contro l’aumento delle emissioni di CO2 . Il romanzo è dedicato a Frederic Jameson, critico fenomenale del capitalismo imperiale e dell’estetica realista neoliberale, da poco scomparso, e in qualche modo ne continua la linea di pensiero, aggiornandola al movimento del capitalismo di guerra e di sterminio di terre e di vite. La forma è quella di un romanzo saggistico imbastito da una scrittura piana che racconta tutto e che si converte di continuo in un saggio romanzato di 550 pagine di scrittura piana in cui è distribuito il tempo del mondo e che racconta tutto della distruzione. I due registri si alternano aprendo la trama a una moltitudine anonima di voci: a parlare è la materia della terra ed è la mente storica di piante, animali, oceani e geografia a stendere uno spazio infinito di lettura dei micidiali fenomeni di devastazione. È un romanzo critico questo, in due sensi entrambi positivi. In primo luogo perché è una critica incessante del mondo rovinato che ricostruisce la storia del presente. In secondo luogo perché è una critica di quell’estetica che separa narrativa e sociologia, saggio e racconto. Il racconto è un intarsio di molte storie, un mille e una notte anti-fantastico perché accorcia la portata del futuro prossimo all’oggi revocandone l’immaginazione. I grandi bacini glaciali artici e antartici contengono ghiaccio che scivola sempre più velocemente verso il mare, e non è cosa della metà di questo secolo ma di ora. Il numero di specie a rischio di estinzione è ai livelli del permiano. Il 99 per cento della fauna è composto da umani e loro animali domestici che soffrono. Il coefficiente di Gini che misura le disparità di reddito nell’era neoliberale è aumentato allineandosi ad altri indici di ineguaglianza. Siccità, uragani, consumo di suolo e aumento esponenziale di CO2 hanno reso inabitabile gran parte dell’ambiente. Nel 1998 in Svizzera la Società a 2000 watt ha calcolato che 2000 watt di energia a testa per tutta la popolazione della terra bastano per una buona vita, per questo «non dovrebbero esistere i miliardari». Dunque, l’idea del Ministero è creare il carboncoin, una criptovaluta che opera in blockchain, cioè un registro pubblico che tiene traccia di tutta la moneta creata e di tutte le transazioni, sostenuta dalle dieci banche centrali più potenti. É una valuta che ricompensa le azioni a sostegno della biosfera. La si combina con l’imposta sulle emissioni: si è tassati se si emette CO2 e si è pagati se la si sequestra. Le banche centrali pubblicano il tasso di rendimento che prevedono di pagare in futuro, incentivando una “posizione lunga” degli investitori a vantaggio delle future generazioni, e impostano la rendita a un valore basso in modo da far percepire la moneta come bene rifugio. Nel romanzo la manovra della moneta post-capitalista riesce e riesce anche l’operazione Antartide: nei trenta ghiacciai più grandi del pianeta, in Antartide e in Groenlandia, pompe a turbina sparano l’acqua di disgelo in superfice affinché ricongeli per aumentare la massa di ghiaccio. In questo modo si sarebbe rallentato lo scivolamento in mare dei ghiacciai. Queste procedure combinate con altre undici misure globali nel corso degli anni avrebbero consentito alla terra di ritessere terre e forme di vita. In elenco: un prezzo per il carbonio. Standard di efficienza per le industrie. Politiche di utilizzo del suolo: regolamentazioni delle emissioni di processi industriali. Politiche nei settori delle energie complementari. Standard per le energie rinnovabili. Regole su standard edilizi ed elettrodomestici. Standard per il risparmio di carburante. Trasporti urbani efficienti. Veicoli elettrici. Sconti sulle imposte per il sequestro di emissioni carboniche. Si tratta di leggi, scrive Robinson, non di procedure rivoluzionarie. Ma il romanzo si fa leggere non per il piglio statal-riformista della proposta, ma perché dispiega la mappa delle questioni esistenziali nel lungo racconto tecno-politico dei poteri. Poteri di dominio della finanza sugli stati; poteri di cattura di risorse rare e rarefazione di risorse abbondanti; poteri di sterminio da parte di interessi sovrani di estrazione e di controllo dell’energia (la vera essenza della guerra); poteri di distruzione da parte della proprietà, dell’impunità, dell’espansione criminale dei territori fino ai confini della galassia. Il romanzo compone l’archivio delle alternative storiche all’ecocidio: A Mondragon nei paesi baschi l’Università politecnica formò ingegneri che riaprirono alcune aziende manifatturiere la cui proprietà era passata agli operai, finanziata da banche e cooperative di credito. Le comunità di permacultura nel Sikkim e nel Kerala, di cui Vandana Shiva è stata una delle artefici, è diventata un modello agroeconomico fiorente. I corridoi ecologici consentono il passaggio libero degli animali tra territori protetti dalla caccia (il primo è stato lo Y2Y, dallo Yukon a Yellowstone). «Con un allevamento di bufali o curando santuari naturalistici si poteva guadagnare più di quanto offriva l’agricoltura». Una piattaforma internet con account non gestiti da mostri privati big-tech; valute locali, microtransazioni, modello danese, reddito di esistenza – tutte queste misure hanno provenienza keynesiana. In due sintetici excursus il romanzo li racconta. Alla conferenza di Bretton Woods (1944), Keynes propose di creare una Unione di Compensazione Internazionale (ICU) per una nuova valuta, il bancor. Lo scopo sarebbe stato permettere ai paesi con deficit commerciali di uscire dai debiti utilizzando un conto scoperto con interessi del 10%. Anche i paesi ricchi che avevano surplus avrebbero pagato il 10% di interesse. In questo modo si sarebbe impedito che i paesi diventassero troppo poveri o troppo ricchi. Dexter Withe, negoziatore statunitense del Dipartimento del Tesoro si oppose e propose un fondo di stabilità che sarebbe diventato la Banca Mondiale. Gli Stati Uniti erano il maggior creditore e proprietario di oro dopo la guerra e il dollaro divenne la valuta globale da supportare con riserve auree. Il secondo episodio keynesiano è la Teoria della Moneta Moderna il cui assioma era che l’economia lavora per gli esseri umani e non il contrario. La finalità della moneta doveva essere il pieno impiego. Per Keynes i governi non sperimentano il debito allo stesso modo degli individui. Introdotta nella catastrofe ambientale contemporanea la TMM raccomanda robusti investimenti sotto forma di quantitative easing del carbonio. Invece la vicenda narrata nel romanzo di come la Grecia nel 2008 è stata asfaltata dalla “troika” fa parte della storia di questo presente in cui si è dato corso al disfacimento della proprietà pubblica delle cose essenziali. Alla fine tuttavia gli sconfitti non sono coloro che non hanno mai smesso di esserlo. «La cosa più importante… fu che la quantità di CO2 nell’atmosfera era davvero calata nei quattro anni precedenti… E nei dieci anni prima si era mantenuta stabile… La maggior parte dell’assorbimento era dovuta alla riforestazione, al carbone biologico, all’agrosilvicoltura, alla crescita di foreste kelp e altre alghe, all’agricoltura rigenerativa, alla riduzione…dell’allevamento e alla cattura diretta di CO2 dall’aria». Proviamo a immaginare la terra vista da un’aeronave: «si stavano creando nuovi laghi salati e paludi pompando acqua dell’Atlantico e del Mediterraneo. Nel Sahel, le tempeste di polvere… erano molto diminuite… il deserto sotto di loro era punteggiato di laghi. Verdi, marroni, azzurro cielo, cobalto. Piccoli villaggi sorgevano sulle loro rive… Campi irrigati formavano cerchi sul terreno, cerchi verdi e gialli, come una trapunta patchwork… Un’alba rossa: sulla sinistra l’altopiano etiope, sulla destra i monti Kenia e Kilimangiaro… Poi arrivarono sul Madagascar…La riforestazione di quella grande isola era continuata per ben più di una generazione e la vita lì era così feconda che i pendii frastagliati delle sue colline sembravano già densamente alberati, scuri e selvatici. In quello sforzo erano aiutati da Indonesia, Brasile e Africa occidentale. Stavano ripristinando la natura laggiù, disse Art…». -------------------------------------------------------------------------------- Paolo Vernaglione Berardi ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- IMMAGINARE E CREARE UN MONDO OLTRE LE CRISI. APPUNTAMENTO: > Transizioni fest -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il sogno della terra nel blackout del capitalismo proviene da Comune-info.