Rompere i confinamenti, immaginare narrazioni multiformi
> Non appena smetti di provare di funzionare all’interno di qualcosa che ti
> rinchiude, non appena ti apri, si innesca un effetto domino.
bell hooks
> Vivere in opposizione a uno schema radicato è molto difficile, crea
> infelicità, anche fra coloro che ci rimettono mano.
Stuart Hall
Capita talvolta di imbattersi in libri davvero inattuali anche solo per ragioni
meramente anagrafiche: questo libro, per esempio, registra una serie di
conversazioni (avvenute nell’estate del 1996) tra due intellettuali oggi morti
da tempo. Una è bell hooks (nata Gloria Jean Watkins, 1952-2021), femminista e
pedagogista nera nordamericana, teorica radicale e autrice di libri fondamentali
del pensiero critico contemporaneo come Elogio del margine (Yearning: Race,
Gender, and Cultural Politics, 1990) e di molti altri che (ri)vedono oggi la
luce grazie al lavoro editoriale di Tamu edizioni e il Saggiatore. L’altro è
Stuart Hall (1932-2014), intellettuale nero caraibico-britannico da molti
definito sociologo o teorico culturale, certamente uno dei più importanti
animatori di quel Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham che nel
giro di qualche decennio mise al centro delle proprie ricerche multidisciplinari
la classe sociale, la razza e tutte quelle pratiche sub/culturali (musica, moda,
stili, droghe e devianza) per tanto tempo tenute ai margini della Filosofia,
dell’Antropologia e persino della Storia.
Una conversazione che avviene dentro la comune cornice – che è ciò che avvicina
le due biografie, oltre al fatto di essere stati entrambi insegnanti – della
diaspora nera e dei perduranti effetti del colonialismo europeo.
LA FATICA DELLE LOTTE
Ma quali sono, si chiedono i due all’inizio di questo dialogo, le condizioni di
possibilità per le quali questa conversazione sia vero scambio e condivisione e
non solo pedagogia, per due intellettuali che hanno svolto per una vita intera
il lavoro dell’insegnamento? Da qui emergono aperture e limiti: per l’una la
frustrazione di non riuscire ad avere dialoghi per estendere significati e
confini del “femminismo”, per l’altro la presa d’atto di essere parte di una
generazione che ha smarrito qualsiasi spinta propulsiva, ritrovandosi così ad
avere solo interlocutori delle generazioni successive.
E non lascia certamente indifferenti leggere che due pensatori così radicali e
così vicini ai movimenti emancipazionisti e di liberazione manifestassero già
allora il loro disagio per il dilagare del cosiddetto “politicamente corretto”,
a partire dall’episodio in cui hooks ricorda di aver detto che “Oprah Winfrey
era troppo impegnata a succhiare i cazzi della cultura bianca per poter tirare
fuori qualcosa di interessante”. L’espressione molto forte lascia tuttavia
trasparire quanto, per entrambi, essere marxisti, essere neri ed essere
femministe siano tre condizioni – o assi di identità – che non sempre
s’incrociano perché ciascuna delle tre traiettorie comporta esperienze personali
e politiche di posizionamento nella società. È stata necessaria una certa
ostilità spesso non ri/mediabile perché ciascuna delle tre identità si lasciasse
influenzare dalle altre.
In un mondo in cui si attacca la cosiddetta cultura “woke” e si scredita la
cosiddetta “cancel culture”, ovvero in un mondo in cui il potere bianco maschile
e patriarcale prova a mantenere la propria supremazia contro i conflitti portati
dalle lotte emancipazioniste, i dialoghi tra hooks e Hall ci aiutano a
storicizzare le lotte stesse e fare i conti con la fatica di portare, già in
anni ribelli come i Settanta, le istanze del femminismo nero in America o quelle
del femminismo tout court nel Centro di Birmingham. Erodere le nicchie di potere
accademico e l’accumulazione di “capitale culturale” a scapito di soggettività
oppresse, discriminate e razzializzate era e resta una delle questioni cruciali
del nostro tempo e questo dialogo è qui a ricordarcelo con tutto il portato
biografico e teorico dei due protagonisti.
ANDAR VIA DI “CASA”, ROMPERE IL CONFINAMENTO
I due intellettuali insistono su quanto costi fatica e quanto fondamentale sia
per il lavoro (e il lavorio) critico la capacità di lasciarsi la “casa” alle
spalle: la casa reale (il luogo d’origine) per l’intellettuale diasporico e
diasporica variamente dislocati, ma anche metaforicamente quella casa come luogo
delle certezze e delle idee cristallizzate, custodite da un padrone di solito
maschio, bianco, di mezza età. Il ritorno a quest’ultima casa è però impossibile
se non il frutto di idealizzazioni che guardano nostalgicamente e romanticamente
al passato. Una nostalgia presa di mira decisamente proprio dal femminismo e
dalla critica della “razza”.
E dunque, occorre decostruire concetti cristallizzati come la mascolinità, la
famiglia, la “mente etero” (come la chiamava Monique Wittig), l’essere donna o
lesbica bianca o nera, l’essere neri in un mondo pervicacemente a misura dei
bianchi e del loro persistente privilegio. Questa conversazione rimette al
centro – proprio qui e ora – un’emergenza che avremmo voluto fosse superata e lo
fa senza temere mai di attraversare insolubili contraddizioni. Sostiene bell
hooks:
> non sono così convinta che l’idea di famiglia costituisca necessariamente un
> sito conservatore e reazionario. Il problema sta nella nostra incapacità di
> estendere il concetto. In sé per sé la famiglia rimane un luogo di
> autodeterminazione. Il motivo per cui Harriet Tubman decide di aprire una
> scuola dentro casa, in soggiorno, per cui gran parte dell’attivismo per i
> diritti civili prende avvio da un soggiorno o da una cucina, è che alla fine
> si tratta di spazi in cui le persone hanno un certo tipo di controllo. Se
> voglio comprendere cosa siano lo spazio domestico e la famiglia, la domanda
> che mi pongo è perché mai una visione della famiglia così conservatrice abbia
> finito per prevalere.
A ben vedere, per entrambi si trattava di criticare anche un certo
“essenzialismo nero” che, a un certo punto della traiettoria politica degli
intellettuali neri, ha portato ad inquadrare tutto solo all’interno di una
cornice “afrocentrica”. “Il senso di essere intellettuali sta nell’essere
ambasciatrici del mondo” sostiene hooks, l’idea insomma secondo la quale coloro
che pensano si fanno mondo e che oggi segna insieme una frattura e un orizzonte
dinanzi al dilagare di nazionalismi, neofascismi muri, segregazioni e territori
perimetrati scambiati per identità. “Rompere il confinamento” di una politica
essenzialista, ribatte Hall.
Attenzione però a scambiare il radicalismo dei due intellettuali come un
approccio serioso e severo alle questioni affrontate: per entrambi l’apertura al
gioco, all’umorismo e all’ironia è una prospettiva necessaria la cui assenza
rende il mondo accademico un luogo cupo oltre che territorio di replicazione
dell’idea di autorità patriarcale. “Il punto è esattamente questo” dice Hall,
“la mancanza di una qualche visione ironica di sé […] conserva la politica
patriarcale”.
La centralità delle figure paterne, o il paradigma patriarcale in generale –
dominio maschile incontrastabile anche a livello simbolico – e il nazionalismo
hanno proprio questo in comune: l’assenza di gioco e autoironia. E che cos’è
stato, del resto, lo scontro tutto maschile e tossico tra Trump, Zelensky e J.D.
Vance nello studio ovale della Casa bianca se non uno scontro tra maschi del
tutto privi di (auto)ironia se non esclusivamente virata verso l’umiliazione
dell’interlocutore?
IL DESIDERIO, TRA IMBRIGLIAMENTI E LIBERAZIONI
Certo, non basta la sola critica del dominio. È necessaria una politica attiva
dell’identità che, inevitabilmente, passa attraverso il corpo: desiderio,
potere, sapere, rivendicazione e apertura sono gli assi che ci attraversano in
un continuo gioco di posizionamento tra imbrigliamenti e liberazioni. Guai a
giudicare con il metro di una presunta consequenzialità logica le avventure
dell’identità; hooks, infatti, riporta un episodio piuttosto significativo:
> Pochissimo tempo fa una ragazza bianca britannica è venuta a parlare con me,
> dicendomi che aveva fatto coming out al corteo del gay pride, al che ha
> aggiunto: “Dopo averlo fatto ho scopato con diversi uomini neri, e sto
> cercando di capire cosa significa il mio lesbismo, cosa significa che dopo il
> coming out io stia facendo tutte queste nuove esperienze.
>
> […] In qualche modo rivendicare il proprio lesbismo è un atto di
> rivendicazione della propria agentività sessuale a tal punto che dopo averla
> rivendicata con più consapevolezza questa ragazza ha potuto ripartire da
> quelle premesse per andare oltre.”
Dunque, dopo aver rivendicato la propria “agentività sessuale” si può “andare
oltre”. E similmente produrre vigilanza critica, elaborazione e consapevolezza
genera inquietudine e irrequietezza: le soggettività radicali devono, dice
hooks, “immaginare narrazioni multiformi, modelli multiformi” senza potersi mai
accontentare di un’“unica concezione”. Contestare tradizioni e idee
cristallizzate e/o date per scontate è un progetto esistenziale oltre che
politico, nel segno di desideri necessariamente molteplici e in ogni ambito
della vita, rischiando di continuo il fallimento.
Fallimento e sconfitta sono, del resto, due dei grandi temi che aleggiano –
talvolta con sfumature di frustrazione e malinconia – su questo dialogo: le
malattie prodotte dal colonialismo, dalla diaspora e dal razzismo non trovano
quasi mai soluzione né consolazione nella terapia psicanalitica, comunque spesso
appannaggio delle sole classi privilegiate e bianche. Rovesciare sistemi di
oppressione e segregazione secolari e perseguire il soddisfacimento di desideri
molteplici non è indolore.
Malinconicamente, in chiusura, la conversazione prende atto che, dopo la caduta
del Muro nel 1989, “il liberalismo è diventato l’unico linguaggio politico che
abbia una qualche validazione”, dice Hall. Si tratta di un orizzonte monologico,
quello che alcuni anni dopo Mark Fisher avrebbe chiamato Realismo
capitalista (Capitalist Realism: Is There No Alternative?, 2009) e che sembra
non lasciare più spazio a idee di futuro che prevedano il sovvertimento del
capitalismo che, appunto, si manifesterebbe nella cristallizzazione acritica di
privilegio di classe sociale, razza e genere sessuale. Davanti a questo, hooks
solleva la necessità di “un certo tipo di solidarietà diasporica […] per la
nostra sopravvivenza” provando a portare in ambito maggioritario (“mainstream”)
le proprie istanze che rischiano, viceversa, di restare confinate in uno sterile
radicalismo minoritario.
A conferma dell’ottimo lavoro culturale di Tamu edizioni – che con la vicenda
frammentaria eppure notevole degli Studi culturali in Italia ha un legame
indissolubile, come quello che esiste tra i semi e la pianta –, questo è un
libro bellissimo sin dalla copertina (design e grafica) e dalla attentissima
traduzione fino alla dolente introduzione di Paul Gilroy anche se, proprio a
dispetto delle idee di quest’ultimo secondo il quale sarebbe “sempre più
complicato” dare “voce a modi alternativi e dissidenti di vivere e pensare”,
questo libro merita di finire tra le mani di veri agitatori e agitatrici
contemporanee non inclini alle passioni tristi ma aperti alla (auto)critica e
alla radicalità, oggi.
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bell hooks, Stuart Hall, Improvvisazioni funk. Un dialogo contemplativo, tr. di
Emanuele Giammarco, Tamu edizioni, pp. 192, euro 15,00 stampa, euro 7,99 ebook
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Pulp Magazine.