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20 libri per l’estate
Yael Artom Alla fine della guerra del Vietnam, l’attendente di un generale sudvietnamita, spia doppiogiochista per i comunisti del nord, viene evacuato con le ultime partenze organizzate dagli americani. Militare, spia, profugo, carnefice e vittima, getta uno sguardo intimo e allo stesso tempo estraneo sulle ipocrisie dell’Occidente. Un romanzo ironico e intelligente che può essere scritto solo da chi conosce intimamente una cultura che lo tiene a debita distanza. Vincitore del Premio Pulitzer 2016. Viet Thanh Nguyen, Il simpatizzante, tr. Luca Briasco, Neri Pozza, pp. 383, euro 12,20  stampa, euro 8,99 epub.   -------------------------------------------------------------------------------- Walter Catalano Ethel Mannin (1900-1984) scrittrice “scomoda” se mai ve ne fu una e per questo rimossa dalla memoria letteraria europea. Anarchica, socialista radicale (ma antisovietica), pacifista, femminista, bisessuale dichiarata, amorosa compagna, a tratti, di W.B. Yeats e di Bertrand Russell. Agenzia Alcatraz, dopo aver tradotto il capolavoro di Weird femminista Lucifero e la bambina, le dedica un’intera collana Etheliana che inaugura con il suo libro più compromettente e rimosso: uscito nel 1963 come reazione al propagandistico e sopravvalutato best seller filoisraeliano Exodus di Leon Uris, è forse l’unico e senz’altro il primo testo occidentale a denunciare la pulizia etnica sionista in Palestina nel 1948. La memoria della Nakba. Oggi da leggere più che mai per togliersi la soddisfazione di farsi dare degli “antisemiti” da Netanyahu… Ethel Mannin, La strada per Be’er Sheva, tr. Stefania Renzetti,  pp. 3982, Agenzia Alcatraz, € 19,00 -------------------------------------------------------------------------------- Mariangela Cofone Vito di Battista intreccia la potenza della narrazione orale con la grazia della letteratura. Ci dimentichiamo delle pagine per immergerci in un affresco vivido e vibrante, dove la memoria si fa racconto e il tempo si dilata. Una saga familiare che attraversa la Seconda guerra mondiale fino agli anni ’60, in un piccolo paese del Centro-Sud. Per chi ama perdersi nelle storie profonde e ritrovarsi nella bellezza delle parole. Vito di Battista, Dove cadono le comete, Feltrinelli, pp. 368, euro 18,05 stampa, 9,00 epub. -------------------------------------------------------------------------------- Roberta Cospito Amerai quello che hai ucciso è un libro folgorante e inquietante così come il suo titolo. Kevin Lambert, poco più che trentenne scrittore canadese, ambienta nella sua città natale Chicoutimi, una storia nera e violentissima. Una storia di vendetta. Dietro una rispettabile patina borghese, Chicoutimi nasconde ogni tipo di degenerazioni e aspetti inquietanti: genitori che approfittano delle figlie, il primo cittadino che ama indossare gli abiti della moglie ormai defunta, ma, soprattutto, ci sono tanti bambini morti che, nonostante vengano regolarmente sepolti, ritroviamo nelle loro case e nelle aule scolastiche insieme ai vivi, come nulla fosse accaduto. Politicamente scorretto, ma incredibilmente poetico; un faro acceso sulla difficile condizione dei nostri adolescenti. Kevin Lambert, Amerai quello che hai ucciso, tr. Maruzza Loria, Playground, pp. 174, euro 16,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Cristina Daglio Nelle più di mille pagine del suo nuovo lavoro Griffi conferma quello che già con Ferrovie del Messico risultava lampante: una narrazione forte anche se non temporalmente consecutiva tiene incollati al volume fino a che tutto si chiude. Digressioni è fedele al proprio titolo, se alla prima lettura potrebbe sembrare di entrare in un guazzabuglio di storie senza un filo conduttore, così non è, anzi ogni singola digressione, ogni singolo paesaggio che sia apre per connessione logica da un punto a un altro del libro trova compimento della propria parabola e chiusura del proprio filone narrativo. Ritroviamo nomi, citazioni più o meno velate, personaggi e storia, parole desuete o curiosità lessicali, ma soprattutto appare limpido come nel 2025, in una stagione editoriale “di commercio” quando escono opere mondo, scritte e intellettualmente stimolanti, il lettore vada a cercarle, stanarle e se ne innamori perdutamente della loro complessità. Gian Marco Griffi, Digressioni, Einaudi, pp. 1024, euro 22,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Anna da Re Ne ho così tanto sentito parlare, che a un certo punto ho deciso di comprarlo. Poi però, data la mole, dovevo trovare il tempo per leggerlo. Così è arrivata quest’estate, ed è una lettura magnifica. C’è tutto il gusto dell’invenzione, dell’avventura, del racconto e della scrittura. Uno di quei libri che quando ti chiedono un consiglio ti viene subito in mente. Perché è la quintessenza della lettura: il piacere, il divertimento, la costruzione di un mondo dove ci sei solo tu e quello che ti stai immaginando. Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico, Laurana Editore, pp. 824, euro 22,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Roberto Derobertis In un’altra estate torrida e viscosa nell’emisfero nord, A quattro zampe di Miranda July (1964, scrittrice, regista e sceneggiatrice statunitense) mi chiama, mi intrattiene, non abbandona i miei pensieri, è una lettura che si fa persistente. A 45 anni e nel pieno di un desiderio sessuale irrefrenabile per un uomo più giovane e sposato – nonché della voglia incontenibile di abbandonare marito e figlia –, la protagonista senza nome e di mestiere artista di questo romanzo ci accompagna, con candore e impudicizia, attraverso un cambiamento emotivo e fisiologico potente e irreversibile. Ironico, erotico, a tratti rutilante romanzo on the road e a tratti amaro romanzo introspettivo, A quattro zampe (All Fours, 2024) può essere definito il romanzo della premenopausa o della menopausa. E il modo in cui July racconta l’ingresso in questa fase della vita intenerisce ma non fa sconti: sfata tabù e restituisce carne ed emozioni a quanto spesso taciuto da un discorso ancora piuttosto patriarcale e maschilista sui corpi delle donne. “Era fantastico fare qualcosa che non fosse sollevare pesi o vivere la vita” dice la protagonista – stanca anche del suo lavoro, per quanto creativo – perché A quattro zampe ci getta dentro il vortice del rinnovamento e ci spinge verso forme per certi aspetti sovversive di liberazione, mettendo a fuoco il desiderio di poter essere (ancora e di nuovo) tutto. È una lettura bollente e divertente che segnerà un’estate tutt’altro che banale, per lettori e lettrici che si troveranno davanti alla narrativizzazione di ciò che le donne non dicono. Miranda July, A quattro zampe, tr. Silvia Rota Sperti, Feltrinelli, pp. 328, euro 20 stampa, euro 4,99 ebook -------------------------------------------------------------------------------- Alessandro Fambrini Dopo più di sessant’anni dal suo arrivo in Italia, finalmente Lovecraft pubblicato da Adelphi: è un evento e come tale lo celebriamo. Che poi ciò avvenga attraverso una lunga lettera a tratti verbosa, a tratti ripetitiva, a tratti irritante per il suo anacronistico razzismo e la sua intolleranza, possiamo anche perdonarlo. Lovecraft è anche questo, e gli squarci di intelligenza pura che si aprono qua e là anche in un testo come Potrebbe anche non esserci più un mondo ripagano il disagio che si prova dinanzi alle professioni di fede antidemocratica e i salamelecchi a Spengler e al pensiero più reazionario e oscuro del suo tempo. A patto che sull’altro piatto della bilancia si ponga ciò cui portò questa visione ristretta e anche un po’ patetica del mondo: la paura continua dell’annientamento di fronte a forze implacabili, il tremore dell’uomo sperduto in un universo popolato di mostri, e la magnifica letteratura che dà corpo e voce a tutto questo. H.P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, pp. 162, € 14,00 --------------------------------------------------------------------------------   Alberto Fraccacreta I textos recobrados di Borges sono sempre un evento da salutare con una certa emozione: radunati dopo la scomparsa dell’autore argentino, nell’edizione originale constano di quasi duemila pagine. E Adelphi – dopo una prima antologia apparsa nel 2009, Il prisma e lo specchio. Testi ritrovati (1919-1929) – ne propone felicemente un’altra ampia scelta. Si spazia dal Don Chisciotte all’ebraicità, da Kafka a Nietzsche, da Apollinaire a Dante. Proprio per il sommo poeta Borges ha parole di miele: “C’è una prima lettura della Commedia; non ce n’è un’ultima, perché il poema, una volta scoperto, continua ad accompagnarci fino alla fine. Come la lingua di Shakespeare, come l’algebra o come il nostro passato, la Divina Commedia è una città che non esploreremo mai tutta”. E conclude, con maggiore gravità: “La più conosciuta e ripetuta delle terzine può, un pomeriggio, rivelarmi chi sono o che cos’è l’universo”. Jorge Luis Borges, La mappa segreta. Testi ritrovati (1933-1983), a cura di Tommaso Scarano, traduzione di Rodja Bernardoni, Adelphi, pp. 285, euro 22,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Elio Grasso È un Montale vacanziere quello delle lettere, persino spiritoso, catturato dal mare bollente dei magici pomeriggi estivi a Monterosso, o assediato dalla malinconia delle sedute idroterapiche alle Terme di Voltaggio. Ma le poesie donate a Bianca, in numero di trentotto, di cui dodici inviate anche a Francesco, costituiranno la parte fondamentale del libro (Ossi di seppia) che Gobetti stamperà nel 1925. Fra di esse troviamo Meriggiare pallido e assorto (ancora con il titolo di Rottami), I limoni, Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, Caffé a Rapallo, Sarcofaghi, Esterina, i vent’anni ti minacciano (pubblicata poi come Falsetto), Cigola la carrucola nel pozzo, Spesso il male di vivere ho incontrato. Pagine fondamentali, come si vede, a cui bisogna aggiungere tre importanti poesie inedite, Domande, La stasi, Turbamenti, non accolte nell’edizione critica Contini-Bettarini del 1980. Eugenio Montale, Lettere e poesie a Bianca e Francesco Messina, Scheiwiller, pp. 248, euro 40,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Caterina Incerti   Goodbye Hotel è un romanzo capace di racchiudere un mistero da svelare, un passato da scoprire e un futuro da saggiare. Bible ha una narrazione particolare, lo scrittore è abile a confondere il lettore donando indizi che si disperdono piano come in un sogno diretto da David Linch, confluendo poi in una trama piena di verità incontrovertibili, profonde e concrete. Michael Bible, Goodbye Hotel, tr. Martina Testa, Adelphi, pp. 419, euro 18,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Fabio Malagnini La curiosità e il piacere di ritrovare uno dei principali storici italiani di fantascienza alla prova di una duplice impresa autorale (i volumi sono due, dedicati alla produzione degli anni ’90 e degli anni Zero). Raccogliendo la sfida dell’afa e della noia, si pone davanti a noi una narrativa fantastica ribelle e resistente a quel racconto distopico che è già diventato il nostro presente. Domenico Gallo, La patria del ribelle e altri racconti dell’anno duemila, pp. 206, Edizioni Delos, euro 4,99 epub -------------------------------------------------------------------------------- Valentina Marcoli È arrivato giusto in tempo per questa estate torrida il nuovo romanzo (che in realtà è una ristampa) della coppia francese di scrittori ispiratori di Hitchcock in molte occasioni. I loro thriller psicologici ad alta tensione sono strepitosi, tutti, sempre, e anche se sono poche pagine e lo divorerò in poche ore, è in cima alla lista delle mie letture estive. Pierre Boileau, Thomas Narcejac, I vedovi, tr. Giuseppe Girimonti Greco, Ezio Sinigaglia, pp. 172, Adelphi, euro 18,00 stampa   -------------------------------------------------------------------------------- Lorenzo Mari   Come reagireste, se vi dicessero che uno dei maître à penser più influenti della contemporaneità è un cristiano rinato, o meglio che è rinato come cristiano? Parte da questo interrogativo destabilizzante il percorso di questo nuovo libro di Timothy Morton, per poi offrire un corpo a corpo con l’opera del poeta William Blake che è anche un memoir, dalla scrittura libera, assai densa eppure sempre agile e coinvolgente. Per aprire le porte della percezione, e anche del pensiero. Timothy Morton, Inferno. William Blake e la ricerca di un’ecologia cristiana, tr. Valerio Cianci, Timeo, euro 25,00 stampa. -------------------------------------------------------------------------------- Elisabetta Michielin C’è stato un tempo, molti anni fa in cui tutti avevamo letto Il maestro e Margherita di Bulgakov e quando si chiedeva qual è il romanzo più bello tutti avevamo la risposta pronta. Adesso anche grazie al bel film appena uscito è tornato il tempo per leggerlo o rileggerlo (nel mio caso anche accorgersi che essere sicura di averlo letto fosse un falso ricordo) e scoprire quanto Margherita amasse essere una strega.  Dei diavoli Woland, Azazello – un criminale di prima categoria –  e compagnia non aggiungo niente, che tutti sanno e forse non è un caso che il libro sia nei primi posti dei bestseller fantasy di Amazon.  Raccomando la lettura ad alta voce! Michail Bulgakov, Il Maestro e Margherita, tr. Vera Dridso, pp. 408, Einaudi, euro 12,00 stampa, euro 2,99 epub -------------------------------------------------------------------------------- Paolo Prezzavento All’origine di questo Libro – a nostro avviso uno dei più importanti di Jacques Derrida – ci sono due conferenze, tenute all’Università della California Riverside, il 22 e il 23 aprile del 1993, nell’ambito del Convegno “Whither Marxism?” (“Dove va il Marxismo?”) organizzato da Bernd Magnus e Steven Cullenberg. In questa nuova edizione la curatrice, Marta Vlachou, ha aggiunto un dibattito inedito tra Derrida ed Ètienne Balibar, tenutosi il 1 febbraio del 1994 al Collège international de Philosophie. In queste conferenze Derrida, con una delle sue intuizioni geniali, ci propone di interrogare, a 4 anni di distanza dalla caduta del Muro di Berlino, e dunque dalla fine ufficiale del comunismo, proprio lo spettro di quel filosofo che era ormai da tutti creduto morto, Karl Marx, e lo fa a partire dal celebre incipit dell’Hamlet di Shakespeare, in cui Amleto interroga lo Spettro di suo padre. Come Amleto, Derrida ha il coraggio di salire sui bastioni di Elsinore e rivolgersi allo Spettro di Marx, anzi agli spettri di Marx (perché ce n’è più di uno), dimostrando che le sue ingiunzioni (Swear) pressanti a noi che siamo ancora in vita sono più attuali che mai. Viviamo in un “tempo fuori di sesto”, pieno di spettri (basti pensare agli innumerevoli “spettri di Gaza). Ecco perché dobbiamo continuare ad interrogare lo Spettro – gli spettri – di Marx. Jacques Derrida, Spettri di Marx. Nuova edizione, tr.  Gaetano Chiurazzi e Annalisa Romani,  Raffaello Cortina Editore, pp. 266, euro 25,00 stampa --------------------------------------------------------------------------------   Umberto Rossi Uno dei più americani tra gli scrittori italiani che non vanno allo Strega ci racconta una storia hollywoodiana, un quasi thriller con infiniti echi della cinematografia americana più mitologica, scritto come al solito con elegante parsimonia e precisione cristallina. Roberto Saporito, Polimeri, Cose note Edizioni, pp. 152, euro 15,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Nicole Spallina L’estate è il mio momento preferito per recuperare classici antichi, classici moderni e libri di grandi dimensioni; quest’anno ho scelto un titolo che rientra a perfezione in tutte e tre le categorie: Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso, uscito per la prima volta nel 1988.La scrittura sontuosa di Calasso interroga le storie senza tempo del mito in una vera e propria epopea letteraria, per tornare alle origini del nostro mondo e allo stesso tempo dialogare con il presente. Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, pp. 487, Adelphi, euro 14,25 stampa, euro 7,99 epub -------------------------------------------------------------------------------- Roberto Sturm In una Australia poco lontana nel futuro, una band in tour si scontra con l’autocrazia al potere che punisce severamente quella che chiama l’indecenza morale. Sono i soli ad avere accesso a F. una nuova droga che ti permette di andare avanti nel tempo, di vedere cosa succederà nei prossimi istanti. Una lucida accusa alla società di oggi, il tipo di fantascienza dispotica che preferisco. Il compito di critica del presente che questa letteratura di genere, se ben congegnata, ha sempre fatto nel migliore dei modi. Jordan Prosser, Big Time, tr. Sebastiano Pozzani, pp. 408, Mattioli 1885, euro 21.00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Tania Tonin Per circostanze lungi dall’essere influenzate dal mio volere, mi ritrovo nuovamente con un libro della scrittrice Donna Tartt in mano nel bel mezzo dell’estate. Le sue storie sono adatte ad alterare il ricordo di giorni caldi e uguali grazie alle loro trame tortuose e ai loro personaggi memorabili. Inizio a pensare non sia un caso, quindi, che dopo Il cardellino letto nei mesi caldi di qualche anno addietro, mi accingo solo ora, con l’avanzare dell’estate, a iniziare Dio di illusioni, acquistato in lingua inglese durante l’inverno. Nessun momento mi è sembrato adatto, fino a queste temperature roventi che reclamano una ventata di buone parole. Donna Tartt, Dio di illusioni, tr. Idolina Landolfi, Rizzoli, pp. 624, euro 15,00 stampa, euro 9,99 epub                 >   L'articolo 20 libri per l’estate proviene da Pulp Magazine.
Orwell prima di Orwell. La nuova edizione di Una boccata d’aria
In una conversazione con il curatore di questa nuova edizione (con una traduzione finalmente all’altezza della situazione) di Coming Up For Air (Una boccata d’aria, a cura di Andrea Binelli, Feltrinelli, pp. 354, € 13,00), l’ultimo romanzo di Orwell prima dell’accoppiata che gli diede fama imperitura (Animal Farm e Nineteen Eighty-Four), Andrea Binelli mi diceva che l’autore britannico considerava quest’opera, scritta e ambientata nel 1938 e uscita nel 1939, come la sua più riuscita, quella che più gli corrispondeva nel dosaggio di elementi d’invenzione, di osservazione della realtà e di diagnosi su un presente impoverito moralmente nelle sue convenzioni sociali e nelle ricadute di queste sul comportamento degli individui, sulla loro etica ristretta a un orizzonte senza gloria. Non solo, diceva Binelli: in Una boccata d’aria echeggiano già le campane fantastico-fantascientifiche di quei due romanzi successivi: quelle della satira e del grottesco della Fattoria degli animali e quelle distopiche di 1984. Ora, confesso di dissentire da entrambe queste affermazioni. Una boccata d’aria è una bellissima, quasi irresistibile esperienza di lettura, il memorabile ritratto psicologico della miseria umana, di un esemplare in cui la miseria umana – quella dei tempi, della civiltà dei consumi, della mancanza di senso e di scopo in una società parcellizzata in unità individuali incapaci di riconoscersi in un disegno più complesso, negli altri – si incarna e si mette alla prova di un’ennesima Odissea moderna, raggrinzita al tempo di una settimana rispetto al modello classico e irriducibile alla dimensione neo-epica della dissacrazione joyciana: l’odissea di un modesto impiegato, un quarantenne piccolo-borghese già decrepito nel fisico (memorabile l’incipit del romanzo in cui il protagonista descrive le proprie abluzioni mattutine, il cui momento culminante è il posizionamento della dentiera in bocca) e soprattutto negli orizzonti ideali, che tenta la fuga dalle pastoie di una vita familiare e lavorativa infelice (perché non può esserci felicità in quelle istituzioni) attraverso il ritorno alla vagheggiata condizione edenica della propria infanzia, identificata con il paesello di campagna natio e simboleggiata da un laghetto scoperto dal protagonista nei suoi giovani anni e a lui solo noto, traboccante di carpe enormi e grasse, in attesa solo di essere pescate. Non le pescherà mai, quelle carpe, George Bowling (questo il nome del protagonista che narra la storia in prima persona), e anzi scoprirà che quello specchio d’acqua segreto non esiste più, è stato prosciugato e le sue cavità sono state adibite a deposito per i rifiuti del quartiere residenziale che ha preso il posto della campagna intorno al suo paese natale, ormai sfigurato da edifici popolari e da fabbriche fumanti, il cui principale compito è quello di produrre bombe per l’industria bellica di un conflitto che sembra ormai imminente. George si chiede se quell’epoca da lui vagheggiata sia perduta per sempre e si risponde in tono di disincanto: “Non ne sono sicuro, ma posso dirvi che era un bel mondo in cui vivere. E io gli appartengo. Anche voi”. Romanzo felice, divertente, agro e anche attuale, per quanto il mondo che raffigura sia ormai tramontato (e lo sia da quando i cacciabombardieri che qui sono una minaccia spaventosa, ma ancora sospesa nelle ipotesi del divenire, hanno di lì a poco cominciato davvero a scaricare i loro carichi di morte sull’Europa e sul mondo): ma non ha forza trascinante, l’afflato epico e visionario, la spinta verso l’alterità che possedeva la prima prova narrativa di Orwell dopo il semiautobiografismo di Down and Out in Paris and London (1933), ovvero quell’autentico capolavoro che è Burmese Days (1934), e non ha nemmeno la visionarietà scioccante di 1984. Poco importa, comunque. Più interessante è soffermarsi sulla seconda affermazione di Binelli: e qui la questione si fa più sottile. Io, leggendo Una boccata d’aria, ho tentato di individuarne gli elementi che lo proiettassero quantomeno in una direzione fantascientifica o comunque utopico-preveggenziale, e alla fine mi sento di dire di averli trovati, anche se non ci sono. Non ci sono, in quanto il romanzo è immerso in una quotidianità disarmante, perfino avvilente, con il diario minuzioso di giornate sospese tra l’inerzia dell’impotenza di questo piccolo uomo che racconta la sua vita e il desiderio, la pulsione a sfuggire alla trappola, alle acque avvelenate in cui si trova a dibattersi: senza successo, perché le acque pulite che cerca, in realtà, non sono mai esistite e quelle che a lui apparivano tali, nella sua ingenuità di ragazzo, erano già pronte a trasformarsi nel veleno che ammorberà la sua vita adulta. Eppure, ciò che aleggia su George Bowling e sul mondo che lo circonda è l’ombra di un futuro ineluttabile, di una guerra che sta per scoppiare e cui Orwell dà la voce di un’ansia opprimente, di una catastrofe già scritta che sta per abbattersi sul mondo e non offre nemmeno l’illusione di una palingenesi, è fatta solo di distruzione. Il futuro entra così nel romanzo: un futuro nero, simile a quello di altre opere coeve, come quelle – di opposto segno – di L. Ron Hubbard, Final Blackout (1940), o di Katharine Burdekin, Swastika Night (1937), e non a caso uno dei pochi elementi letterari cui si appella George, uomo di formazione scolastica e approssimativa, è H. G. Wells: > Vi siete fatti un’idea sbagliata se pensaste che tutt’a un tratto scoprii > Marcel Proust, Henry James o qualche nome del genere. Non li avrei letti > nemmeno per dovere. Le letture di cui sto parlando non erano affatto > ricercate. A volte accade di imbatterti in un libro che è in perfetta sintonia > con lo stato mentale che hai maturato in quel frangente, a tal punto da > sembrare scritto appositamente per te. Uno di questi fu Storia di Mr Polly di > H. G. Wells in un’edizione da uno scellino così scalcagnata da cadere a pezzi. Ma la molteplice gamma di futuri dischiusi dall’opera di Wells, che riecheggia anche in alcune considerazioni sul tempo e sulla sua natura inafferrabile, oggettiva e soggettiva insieme, qui si contraggono in uno solo, e nero. Un mondo in cui il nazismo è sorto ed è andato al potere non lascia scampo: questo sembra dirci Orwell con i suoi reiterati riferimenti a Hitler e alla guerra che la Germania inevitabilmente scatenerà e alla quale George guarda con una sorta di cupio dissolvi: > Se fossi Hitler, sguinzaglierei i caccia nel bel mezzo di una conferenza sul > disarmo. Un mattino tranquillo, mentre i fiumi di impiegati attraversano il > London Bridge, il canarino cinguetta e una vecchia attacca le culotte al filo > del bucato… FIUUUU… BOOOOM! SKRRASH! Le case che saltano per aria, le culotte > fradice di sangue, il canarino che cinguetta sui cadaveri. Con simili premesse, la diagnosi del presente e l’ipotesi sul futuro passano inevitabilmente per una fenomenologia della guerra, maturata attraverso l’esperienza del primo conflitto mondiale, in cui si palesa la natura profonda di un esistente innervato nel profondo della logica di relazioni che nella guerra viene più vistosamente alla luce: > In cosa consiste questa realtà? Be’, in primo luogo consiste in un’eterna, > frenetica battaglia per vendere cose. Per la maggioranza delle persone si > traduce nella vendita di se stessi […]. Nella gente maturò uno stato d’animo > nuovo, agghiacciante. Un po’ come trovarsi in diciannove su una nave che va a > fondo e dispone di quattordici salvagente. Vi chiederete se tutto questo sia > davvero caratteristico della modernità e se abbia a che fare con la guerra. > Be’, sì, l’impressione era che fosse legato alla guerra. La sensazione di > dover continuamente sgomitare e fare a botte, l’idea che non otterrai mai > niente se non lo strappi di mano a un’altra persona, che c’è sempre qualcuno > intento a soffiarti il posto, che il mese prossimo o quello dopo faranno tagli > al personale e sarai tu a tirare su la pagliuzza corta; tutto ciò, ve lo > giuro, non esisteva nella vecchia vita prima della guerra. La guerra è origine e al tempo stesso conseguenza della miseria morale che l’ha portata a inverarsi, rendendola imprescindibile. E alla fine la guerra, che innerva ogni fibra di questa realtà disumanizzata, sembra scoppiare davvero, e il romanzo sembra prendere la direzione di un’ucronia: > Dopo colazione passeggiai fino alla piazza del mercato. Era una mattina > deliziosa, piuttosto fresca e senza un filo di vento. […] Ma a un tratto si > intromise un rombo sordo dietro le case e quindi saettò in cielo una > squadriglia di enormi cacciabombardieri neri. Li guardai ed ebbi l’impressione > di averli proprio sopra la testa. > > Un attimo dopo sentii qualcosa e, se foste stati presenti, avreste > testimoniato quasi in contemporanea un episodio interessante di ciò che credo > chiamino riflesso condizionato. Perché quello che avevo udito, e non c’era > possibilità di sbagliarsi, consisteva nel fischio di una bomba. […] Scattai > così rapidamente che nel microsecondo durante il quale la bomba planò > fischiando, ebbi persino il tempo di temere di essermi sbagliato facendo la > figura del pollo per niente. > > E invece, neanche un istante dopo… Ah! > > BUUUMMM – BRRRR! > > Dapprima un frastuono da giudizio universale e poi il clamore di una > tonnellata di carbone che precipita su un foglio di lamiera. Era una pioggia > di mattoni. Mi sembrò di sciogliermi sul marciapiede. “È iniziata”, pensai. > “Lo sapevo. Il vecchio Hitler non ha aspettato e ci ha mandato i suoi > bombardieri senza avvisare”. In realtà, lo sappiamo, la storia è andata diversamente. Ben presto apprendiamo che la bomba è stata sganciata per errore da un aereo britannico durante un volo di prova, e tutto ritorna nell’alveo della normalità. Ma è una normalità ingannevole. Quell’esplosione ha prodotto vibrazioni nel reale attraverso le quali occhieggia e si palesa il mondo da incubo che seguirà, e al quale Orwell dà voce con passi che anticipano 1984: > La guerra! Mi scoprii di nuovo a pensarci. Sta per scoppiare, questo è sicuro. > Ma chi è che ha paura della guerra? Voglio dire, chi ha paura delle bombe e > delle mitragliatrici? “Tu hai paura”, direte. Sì, io sì, e come me chiunque ne > abbia fatto esperienza. Ma a spaventarci non è tanto la guerra quanto il > dopoguerra, il mondo in cui precipiteremo, un mondo di odio e di slogan: le > camicie nere o grigie, il filo spinato, i manganelli di gomma, le celle > segrete dove la luce resta accesa giorno e notte, con la polizia che ci > controlla mentre dormiamo. E ancora, i cortei, i poster con sopra un faccione > enorme, folle assordanti di un milione di persone che acclamano un leader fino > a convincersi di adorarlo quando sotto sotto lo odiano al punto di voler > vomitare. Sta per accadere tutto questo. O forse no? Alcuni giorni so che è > impossibile, in altri so che è inevitabile. Ecco allora che Binelli aveva anche ragione. Non è un romanzo di fantascienza, questo, ma il sogno, anzi l’incubo della fantascienza orwelliana già lo sta attraversando. L'articolo Orwell prima di Orwell. La nuova edizione di Una boccata d’aria proviene da Pulp Magazine.
Helgoland 1925-2025. 100 anni di Fisica Quantistica – 100 anni di Bomba Atomica
Sono passati 100 anni, e siamo ancora lì, a parlare della Bomba Atomica. La scienza e la tecnologia hanno fatto passi da gigante, i nostri scienziati riescono a ottenere risultati incredibili, eppure le guerre si fanno ancora (fino a poco tempo fa non si facevano) per la Bomba ma soprattutto contro la Bomba, come è accaduto nella disastrosa Guerra dei 12 giorni  Israele – Usa Vs. Iran. Sono passati 100 anni, eppure stiamo ancora qui a parlare della geniale intuizione di un ragazzo tedesco di 23 anni, un giovane e brillante studente di Fisica che, per evitare dei fastidiosi pollini che gli procuravano allergia, si rifugiò nella primavera del 1925 sull’Isola di Helgoland, nel Mare del Nord, un agglomerato di rocce quasi del tutto privo di vegetazione. Questo ragazzo tedesco era una delle menti più brillanti della sua generazione, si chiamava Werner Heisenberg, aveva studiato Fisica a Gottinga con Max Born e Pascual Jordan, e si interrogava ormai da anni su alcuni dei più sconcertanti paradossi della fisica, il “salto” degli elettroni, il loro comportamento ondulatorio, i pacchetti di fotoni, etc. Ad Helgoland, una notte, questo ragazzo ebbe una straordinaria intuizione: > “Erano più o meno le tre del mattino quando il risultato finale dei miei conti > fu davanti a me. Mi sentivo profondamente scosso. Ero così agitato che non > potevo pensare di dormire. Lasciai la casa e mi misi a camminare lentamente > nell’oscurità. Mi arrampicai su una roccia a picco sul mare, sulla punta > dell’isola, e attesi il sorgere del sole.…” Quella che vide il giovane Heisenberg era l’Alba della nuova Era Atomica. Sull’isola di Helgoland, Heisenberg ebbe l’idea geniale che, ai livelli più elementari della materia, la teoria possa descrivere solo delle osservazioni, e non quello che succede tra una osservazione e l’altra. In pratica, non possiamo sapere che cosa accade tra un’osservazione e l’altra, ad esempio sapere esattamente dove si trova un elettrone, perché, a livello quantistico, l’osservazione modifica l’oggetto che noi osserviamo. È il famoso “Principio di Indeterminazione di Heisenberg”, un’idea che ha plasmato la Fisica del Novecento, che ha posto le basi della Teoria della Meccanica Quantistica, un’idea che ha spianato la strada alla comprensione profonda della materia, delle particelle elementari della materia, che ha spianato la strada alla Bomba Atomica. Questa è l’idea rivoluzionaria alla base della Teoria dei Quanti, della Fisica Quantistica, la più grande scoperta scientifica dopo le scoperte di Galileo e Copernico sul moto dei corpi e della Terra intorno al Sole, e dopo la scoperta di Isaac Newton della forza di gravità. Tutta la tecnologia moderna si basa sulla Fisica quantistica: senza la Fisica quantistica non avremmo i moderni computer, gli orologi atomici, le misurazioni precise al nanomillimetro, le armi più moderne. E poi c’è Lei: la Bomba. Un’invenzione che ha cambiato il Mondo e ha inaugurato una nuova era, l’Era Atomica, che ha garantito con la sua deterrenza e con la cosiddetta MAD (Mutual Assured Destruction) tra le due superpotenze, 70 anni di pace in Europa, ma adesso che la guerra è tornata ci rendiamo conto che da questa Era non siamo ancora usciti e forse non ne usciremo mai. O forse ne usciremo con una grande esplosione. Non con un gemito ma con un grande botto, che scuoterà il Mondo. Tutto questo è stato reso possibile – nel bene e nel male – dalla geniale formula di Albert Einstein E = mc e dall’intuizione geniale di Werner Heisenberg. Come scrive il fisico Carlo Rovelli nel suo Libro dedicato all’intuizione di Heisenberg, Helgoland (2020), la Fisica Quantistica è una sorta di pensiero esoterico, una sorta di Teologia Negativa. Capire la Fisica Quantistica significa allontanarsi da qualsiasi preconcetto noi possiamo avere su come sia strutturata la realtà. Significa operare un vero e proprio cambio di paradigma. Dobbiamo sforzarci di uscire dai noi stessi, di uscire dalla nostra mente (ex-stasis), dal nostro modo consueto di pensare la realtà. La Meccanica quantistica, la Legge fondamentale che regola il comportamento delle particelle elementari della materia, è quanto di più controintuitivo si possa immaginare. Come diceva uno dei grandi filosi e apologeti del Cristianesimo, Quinto Settimio Tertulliano: “credo quia absurdum”, “proprio perché è assurdo, io ci credo”. Scrive Rovelli: > “Prendere sul serio la meccanica quantistica, riflettere sulle sue > implicazioni, è un’esperienza quasi psichedelica. Ci chiede di accettare che > la realtà sia profondamente diversa da quanto immaginavamo. Di tuffare uno > sguardo nell’abisso.”  (Helgoland) Ancora più esplicito il grande Fisico Richard Feynman: “se qualcuno pensa di aver capito la Meccanica Quantistica, significa che non l’ha capita.” Mistero dei misteri: una Teoria che non abbiamo mai ben compreso ci consente di utilizzare i nostri GPS, i nuovi computer, i nostri smartphone, e la Bomba. Biografia? Giallo a sfondo scientifico? Thriller scientifico? Spy story? Romanzo storico? Romanzo psicologico? Tutte queste definizioni si potrebbero applicare a uno degli aspetti di questa monumentale biografia di Werner Heisenberg, scritta da Thomas Powers negli anni ‘90 e pubblicata qualche mese fa in traduzione italiana. (Thomas Powers, La guerra di Heisenberg. La Storia Segreta dell’atomica nazista, tr. di Paola Frezza, Fuoriscena, pp. 760, euro 22,00 stampa, euro 13,99 epub). Powers tenta di penetrare nell’Enigma Heisenberg, di squarciare il velo che ci impedisce di vedere da 80 anni che cosa pensasse veramente Heisenberg della Bomba, della possibilità di realizzare l’Atomica Nazista, di intuire gli scrupoli morali che lo spinsero a boicottare o quantomeno a ritardare il programma nucleare tedesco. Senza sostenere mai esplicitamente di aver boicottato la realizzazione della Bomba tedesca, Heisenberg nel dopoguerra fece spesso riferimento alla “situazione psicologica” in cui si erano ritrovati gli scienziati tedeschi che non vennero cacciati in quanto ebrei, gli scienziati tedeschi che avevano deciso di rimanere  “per senso di responsabilità” (attaccamento alla patria in guerra), pur non essendo, nella maggioranza dei casi, esplicitamente nazisti. “Non sono nazista, sono tedesco”, disse lo stesso Heisenberg. Questo libro ha l’ambizione di chiarire una volta per tutte se Heisenberg abbia volutamente rallentato il programma atomico nazista perché ne temeva le conseguenze devastanti derivanti dalla realizzazione della Bomba Atomica, oppure se ne abbia sopravvalutato le difficoltà, oppure ancora se abbia sottovalutato lo stato di avanzamento degli altri, degli Alleati, la loro capacità di produrre effettivamente la Bomba Atomica. Come è noto, alla fine della seconda Guerra mondiale Heisenberg venne catturato dagli Alleati e portato in Inghilterra, in località Farm Hall, e ospitato in una struttura dove era spiato h24 con delle microspie. Da queste registrazioni emerge, all’indomani della terribile duplice esplosione nucleare di Hiroshima e Nagasaki, il 6 e il 9 Agosto del 1945, la sorpresa di Heisenberg e degli altri scienziati nazisti reclusi a Farm Hall, la loro inconsapevolezza di quanto in là si fossero spinti gli scienziati rivali, che all’inizio degli anni ‘40 stavano sviluppando in America un programma atomico analogo al loro. Resta il fatto che, come dice Leonardo Sciascia ne La scomparsa di Majorana (1975), paragonando le drammatiche scelte di Heisenberg, di Ettore Majorana, e i dilemmi morali postumi di Robert Oppenheimer ed altri, le differenze tra gli scienziati al servizio dei due campi contrapposti appaiono evidenti. Gli scienziati tedeschi erano schiavi, vivevano sotto un regime totalitario, ma fecero una scelta da uomini liberi. Gli scienziati europei espatriati in America, invece, erano uomini liberi, ma non esitarono a realizzare la Bomba e a consegnarla ai loro governanti, una Bomba che avrebbe potuto uccidere in un solo colpo decine di migliaia di persone e radere al suolo intere città. Scrive Sciascia: > “Comunque, in un mondo piú umano, piú attento e piú giusto nella scelta dei > suoi valori, dei suoi miti, la figura di Heisenberg piú dovrebbe e nobilmente > aver spicco di altre che nel campo della fisica nucleare operarono negli > stessi suoi anni – piú di coloro che la bomba la fecero, la consegnarono, con > esultanza accolsero la notizia degli effetti e soltanto dopo (ma non tutti) ne > ebbero smarrimento e rimorso.” Parole che ancora risuonano nelle nostre menti. Parole dure come pietre, che ci ricordano sempre quanta ipocrisia c’è nella presunta “superiorità morale” dell’Occidente, degli Alleati, dei “buoni” insomma. Parole da rileggere prima di sganciare nuove bombe, soprattutto atomiche. Corsi e ricorsi storici: il 21 Agosto 1943, gli scienziati Hans Bethe ed Edward Teller presentano ad Oppenheimer un documento in cui si sottolinea che i tedeschi potranno arrivare a produrre una Bomba atomica tra il Novembre del 1943 e il gennaio del 1944. Non so a voi, ma questo piccolo episodio citato da Powers ci ha fatto pensare alle prove sciorinate durante una conferenza stampa dal Premier israeliano Netanyahu in merito alla possibilità che l’Iran potesse produrre entro breve tempo la Bomba Atomica. La Bomba, la possibilità della Bomba, non è più un deterrente, non è più uno dei pilastri sui quali si basava il cosiddetto “equilibrio del terrore” della Guerra Fredda, ma è diventato uno dei più validi motivi scatenanti di nuove guerre. Tra l’altro, chi leggerà attentamente queste pagine capirà perché il metodo di arricchimento dell’uranio tramite centrifughe – su cui si basa l’intero programma nucleare iraniano – fu adottato e successivamente accantonato dagli scienziati americani… Corsi e ricorsi storici: nel 1944 gli americani dell’OSS mandarono il giocatore di baseball Morris “Moe” Berg, ebreo di Newark, in missione in Italia per contattare alcuni dei principali fisici nucleari, tra cui Edoardo Amaldi, tentando tramite loro di contattare Heisenberg, allo scopo di rapirlo o forse ucciderlo durante un convegno scientifico cui doveva partecipare, a Zurigo. Poi, per fortuna, non se ne fece nulla, Moe Berg, uomo di grande cultura, non utilizzò la pistola che portava mentre seguiva le conferenze di Heisenberg, scrisse nei suoi rapporti che Heisenberg somigliava a Oliver St John Gogarty, scrittore irlandese, amico di Joyce e ispiratore del personaggio di Buck Mulligan nello Ulysses, e la vita di Heisenberg fu risparmiata. Da questa spy story quasi incredibile ed estremamente affascinante, ma confermata dai documenti dell’epoca consultati da Powers, è stato tratto un film, The Catcher Was a Spy, per la regia di Ben Lewin, nel 2018. Ottanta anni dopo, lo Stato di Israele sotto il comando di Bibi Netanyahu non si fa scrupoli di organizzare omicidi mirati di decine di scienziati e di tecnici nucleari iraniani, quindi di soggetti che non sono coinvolti direttamente in alcuna azione di guerra contro Israele, al fine di interrompere il programma nucleare degli Ayatollah. La storia si ripete, ma gli scrupoli morali sono quasi del tutto scomparsi. Heisenberg, Einstein, Bohr e pochi altri avevano intuito già negli anni Venti che era possibile, grazie alle nuove teorie quantistiche, costruire una Bomba che avrebbe rilasciato in un attimo l’immensa energia racchiusa negli atomi. In un istante, tutta la materia presente all’interno della Bomba si sarebbe trasformata in energia, secondo la celebre formula di Einstein. Di fronte a questa terribile possibilità, Heisenberg si era tirato indietro, inorridito: E gli altri? La Bomba Atomica non passa mai di moda. Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, la guerra di Gaza, e adesso la guerra dei 12 giorni Israele – Usa – Iran, l’argomento è tornato prepotentemente alla ribalta. Più e più volte, in questi ultimi tre anni, in questi ultimi mesi, in questi ultimi giorni, siamo stati a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, dall’Olocausto nucleare. Per questo continuiamo a chiederci: Heisenberg non riuscì oppure non volle realizzare la Bomba Atomica nazista? Gli studiosi continuano ad indagare sui dilemmi morali di uno dei più grandi scienziati del Novecento. C’è da scommettere che la storia della Teoria dei Quanti, la storia della nascita e dello sviluppo della Bomba, di cui discutiamo ancora oggi, forniranno ancora argomenti sui quali gli storici contemporanei continueranno a discutere nei prossimi decenni. L'articolo Helgoland 1925-2025. 100 anni di Fisica Quantistica – 100 anni di Bomba Atomica proviene da Pulp Magazine.
Cinque storie da votare, cinque voci da ascoltare. Note sui romanzi candidati al Premio Strega 2025
La scrittura letteraria non ha nulla a che fare con la competizione, la scrittura letteraria produce trasformazioni. Se è vero questo assunto, è vero anche che noi di “PULP Magazine”, divoratori e divoratrici di oltre quattrocento libri l’anno e maniacalmente interessati a tutto ciò che orbita intorno all’oggetto libro, abbiamo provato a cimentarci con una rapida disamina dei cinque libri finalisti del Premio Strega 2025, tra i quali questa stasera (in diretta tv) sarà proclamato il vincitore. Un’edizione condita, come sempre, dalle polemiche per quei libri rimasti fuori dalla prima dozzina di selezionati, come Giorni di vetro di Nicoletta Verna (Einaudi) o dalla famigerata cinquina, come La signora Meraviglia di Saba Anglana (Sellerio). Giunto alla sua 79esima edizione, lo Strega fu istituito nel 1947 sotto la direzione di Maria Bellonci e tra i suoi libri premiati annovera alcuni testi a loro modo importanti nella vicenda della letteratura in italiano dal Secondo dopoguerra a oggi. Basti pensare a Tempo di uccidere di Ennio Flaiano (1947) a Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani (1956), a L’Isola di Arturo di Elsa Morante (1957), a Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1959), a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (1963), fino a La chiave a stella di Primo Levi (1979) e a Il nome della rosa di Umberto Eco (1981) o a i più recenti Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti (2007), Resistere non serve a niente di Walter Siti (2013) o La scuola cattolica di Edoardo Albinati (2016). Si tratta, insomma, di andare a sbirciare cosa produce oggi una certa narrativa – va detto che da alcuni anni il Premio si assegna anche alla poesia e alla saggistica – mainstream in Italia, largamente rappresentata da quattro romanzi: L’anniversario di Andrea Bajani (Feltrinelli), Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori (Mondadori), Perduto è questo mare di Elisabetta Rasy (Rizzoli) e Quello che so di te di Nadia Terranova (Guanda), più uno pubblicato da una casa editrice indipendente: Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol (TerraRossa Edizioni). Non per cercare forme di rispecchiamento o di raffigurazione privilegiata della realtà, quanto piuttosto per provare a rendere uno sguardo d’insieme su uno dei tanti spaccati di un mondo editoriale che, come noi ben sappiamo, sa ormai muoversi con agilità e qualità anche in territori un tempo negletti e che oggi, invece, si prendono il giusto spazio, come la fantascienza, il fantastico o il weird. EQUILIBRI PRECARI Andrea Bajani, L’anniversario, Feltrinelli, pp. 128, euro 16,00 stampa, euro 10,99 ebook di VALENTINA MARCOLI Con L’anniversario Andrea Bajani si è aggiudicato il Premio Strega Giovani edizione 2025 ed è in testa alla classifica per ottenere anche il premio principale. È comprensibile che i giovani lettori abbiano amato e votato questo romanzo perché rappresenta un contesto familiare complesso e delicato in cui la violenza fisica da parte del padre nei confronti della madre e della rabbia che esplode feroce in atti e parole prendono il sopravvento. I giovani lettori, dunque, si sono trovati davanti ad una vicenda che interpella ciò che vivono ma senza giudicare. Una donna semplice proveniente da una famiglia borghese che, accanto alla figura del marito, svanisce, si annulla, non ha voce in capitolo nelle questioni famigliari. Una confessione intima in cui molti – purtroppo troppi – ragazzi possono identificarsi, che racconta i sintomi del patriarcato. Una moglie che lavora è una minaccia al ruolo del padre che gestisce l’economia della famiglia, una moglie non può avere amicizie femminili perché il confronto è inevitabile e il telefono fisso in casa non è necessario, così come è dovere di una moglie tacere e accettare che il marito abbia svaghi extraconiugali. “La violenza era il mezzo quando ogni altro mezzo si era rivelato fallimentare, per procacciarsi qualche manifestazione di affetto, anche se insincera” e quindi il padre si serve della paura come forma d’intimidazione per ottenere in risposta amore, affetto. Un comportamento molto comune nella società d’oggi che cresce maschi col senso di colpa se falliscono o si dimostrano sensibili ed emotivi. Sebbene dall’altro lato la percezione sia di una donna debole, in realtà dobbiamo analizzare la forza silenziosa di una persona che evita conflitti e quindi disinnesca il comportamento del padre sul nascere. La penna di Bajani è diretta e pungente, non ha bisogno di mascherare o agghindare gli eventi e i fatti narrati, costituendo forse uno dei motivi per cui la storia colpisce dritta al cuore il lettore senza sbandate. La relazione tra genitori e figli è complicata, un equilibrio precario su cui lavorare con una sincera comunicazione e un confronto costante, osservando l’esistenza di alternative possibili, nella speranza che ci siano sempre più libri a trattare questi argomenti, spesso sottovalutati. COME LA SCRITTURA, ANCHE LA LETTURA È UNA NECESSITÀ Paolo Nori, Chiudo la porta e urlo, Mondadori, pp. 204, euro 19,00 stampa, euro 9,99 ebook di ANNA DA RE Quando esce un nuovo libro di Paolo Nori, sembra come quando uscivano gli LP di una band molto amata e seguita. Appuntamenti attesissimi dai fan e guardati con un po’ di sospetto dai detrattori. Perché Paolo Nori è un po’ divisivo. Ha quello stile suo, molto piacevole e scorrevole e a tratti divertente, ma anche un po’ compiaciuto. Parla di altri scrittori e lo fa molto bene, ma forse parla un po’ troppo di se stesso, nel mentre. E ha una passione assoluta per la letteratura russa e per la Russia, che fino a oggi sembrava molto esclusiva. Invece con Chiudo la porta e urlo Paolo Nori racconta Raffaello Baldini, poeta romagnolo tradotto (anche dallo stesso Nori), perché le sue poesie sono scritte in un dialetto che, persino per Paolo Nori che è di Parma, è una lingua straniera. Raffaello Baldini scriveva in versi liberi, ignorando la metrica e seguendo un suo ritmo interno. Il primo libro lo ha pubblicato a sue spese. Non ha mai cercato la fama o la gloria, la poesia era per lui una necessità, un modo di stare al mondo, di resistere al mondo. La poesia di Raffaello Baldini, strettamente ancorata alla realtà di Santarcangelo di Romagna, ha l’universalità dell’arte. Ci parla con delle parole che non conoscevamo o che non avevamo mai sentito in quell’ordine e in quel contesto, e sono parole che arrivano dritte e chiare a tutti. E dopo averle lette, ci dice giustamente Paolo Nori, ci guardiamo intorno e quello che ci circonda appare diverso, come se si fosse accesa una luce, o il nostro sguardo fosse diventato più acuto e limpido. La poesia, la letteratura ci trasforma profondamente e anche se non vogliamo, questo è il messaggio che gli ultimi romanzi di Paolo Nori ci trasmettono: Sanguina ancora e Vi avverto che vivo per l’ultima volta, dedicati rispettivamente a Dostoevskij e Achmatova. Come gli scrittori si interrogano sul perché scrivono, credo che anche i lettori si interroghino sul perché leggono. E forse è proprio perché cercano uno sguardo più chiaro e pulito sul mondo, di cui più che mai di questi tempi abbiamo bisogno. NEL REGNO DEI PADRI SFUGGENTI Elisabetta Rasy, Perduto è questo mare, Rizzoli, pp. 240, euro 18,00 stampa, euro 9,99 ebook di TANIA TONIN Perduto è questo mare è un memoir intimo e malinconico – la sinfonia che hanno le cose passate – dove Elisabetta Rasy (1947) apre la porta del suo “regno senza padri”: un abisso, dove si può solo sognare quel sole che si vede ma non si riesce a sentire. È mai possibile, si chiede l’autrice, andare avanti senza mai guardare negli occhi di chi ci ha messo al mondo, anche solo fugacemente ma senza maschere, per ricordarci da dove veniamo? Elisabetta Rasy inizia tracciando i fili della sua memoria infantile, in una Napoli sonnolenta del Secondo dopoguerra: una città sospesa tra il Boom economico italiano che lì sembra non arrivare mai e un torpore che scende dritto fino al mare, quel blu avvolgente che profuma di illusioni perdute. Tra i sogni di gloria sfumati del padre e la fuga a Roma con la madre, solo il richiamo inarrestabile del mare sembra tenere ancorata una ragazza che desidera fuggire all’immobilità che sente vibrare nelle ossa, nelle fondamenta di una casa paterna che non sa più di casa. Inizia allora una fuga che durerà decenni, che la farà entrare in quel regno dove i padri sono delle figure sfuggenti, in controluce – come Enea che scende nell’Ade inseguendo un’apparizione onirica del padre; oppure come Franz Kafka, che rivolge al padre austero una lettera, mai letta, sulla distanza insanabile tra di loro. Figure sfuggenti, eppure così concrete nella loro perenne assenza che Elisabetta, quando incontra Raffaele La Capria, celebre scrittore italiano, riconosce in quel “punto cavo in comune” la stessa sostanza – una mancanza che pesa come una pietra. L’amicizia con Raffaele rappresenta l’altro grande filone di Perduto è questo mare: un’amicizia longeva, quotidiana, il cui nucleo profuma dello stesso mare impossibile da risanare. Si conoscono quando Raffaele ha sessantatré anni, la stessa età del padre di Elisabetta quando è morto. Sebbene il loro non sia mai stato un rapporto tra padre e figlia, quell’incontro darà più vigore a quella mutua e abissale mancanza, riaccendo la fiamma paterna perduta. FUTURI RATTRAPPITI Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, TerraRossa Edizioni, pp. 208, euro 16 stampa, euro 8,90 ebook di ROBERTO DEROBERTIS In un’intricata rete di relazioni familiari, ma straziate da una doppia perdita, si immerge anche questo Inventario di Michele Ruol (1986) che, in novantanove brevissimi capitoli che hanno per titolo i mille oggetti che riempiono un interno domestico e quattro vite quotidiane – un inventario, appunto –, dispiega la vicenda frammentaria di due lutti. Cosa resta tra quegli oggetti/macerie quando chi li abita sparisce? Restano voci, episodi, detti e non detti, presenze fantasmatiche: non perturbanti ma certamente dolorose, a tratti lancinanti. La scrittura di Ruol non insiste su una narrazione patemica e tuttavia la sua prosa piana, l’incedere ben cadenzato di frasi brevi colpisce, affonda. Il lutto riavvolge il nastro della vita familiare: una dolorosa macchina del tempo che si spinge fino alla nascita di Maggiore e Minore e, al contempo, la vita di chi è rimasto va avanti, costringendo Madre e Padre a fare continuamente i conti con le conseguenze dell’assenza. Talvolta il racconto va ancora più indietro, a prima della nascita dei figli: è tutto il tempo della vita ad essere (s)travolto a ritroso. L’improvvisa solitudine dei due genitori è un abisso incolmabile che squaderna la devastazione di una coppia che perde completamente di senso. Perché Ruol ha scritto un delicato romanzo sulla disintegrazione nel quale alla graduale (ri)scoperta del mondo sconosciuto dei figli fa da contraltare il mondo nascosto degli adulti: bugie e tradimenti per sopravvivere a nuove routine, perdite, fallimenti, ruoli di genere cristallizzati e allo sfaldamento di un mondo che avrebbe potuto essere e non è stato. Nelle sue pagine implacabilmente analitiche, quasi anatomo-patologiche, Ruol sembra chiedersi e chiederci cosa sia, dinanzi all’inesorabilità della morte, quella costruzione sociale e dell’immaginario che chiamiamo “famiglia”. Di mezzo ci sono anche le nostre identità sociali e individuali. E con quella che sembra una citazione – o almeno un rimando involontario al commovente episodio Be Right Back (Torna da me) della serie Netflix Black Mirror (stagione 2, episodio 1) –, il romanzo lascia che uno dei protagonisti si illuda di poter riportare in vita i morti attraverso una tecnologia ormai quotidiana e pervasiva, perché da quella resurrezione passi anche la sua. IN VIAGGIO NELLA MEMORIA INDIVIDUALE E COLLETTIVA Nadia Terranova, Quello che so di te, Guanda, pp. 272, euro 19 stampa, euro 11,99 ebook di ROBERTO STURM I romanzi autobiografici rischiano sempre di essere autoreferenziali, ma non è il caso di questo testo. La protagonista di questo testo è la stessa scrittrice, diventata madre tardivamente, che non può non rievocare la storia dei suoi avi, e precisamente della bisnonna Venera, impazzita dopo aver perso la terza figlia al nono mese di gravidanza. Nadia non può permettersi di impazzire adesso che è madre e scende a Messina, la sua terra d’origine, per capire quanto di vero o immaginario ci sia nella storia della bisnonna e per dare un significato a tutti quei non detti, superstizioni e bugie che costellano quel poco che sa. È un viaggio nella memoria collettiva e individuale, pieno di intimismo, alla ricerca di scoprire quale sia la mitologia o la realtà della sua famiglia. Con una scrittura potente ed evocativa, uno stile pulito ed essenziale, parole scelte con una cura maniacale che formano un’orchestra, Terranova ci fa riflettere su come la memoria, oltre a uno strumento per non perdere le tracce di un passato che non dovremmo ripetere, sia anche il modo migliore per andare alla ricerca di noi stessi e delle nostre radici, scoprendone i lati più nascosti. E nel romanzo ci sono padri, madri, nonni e bisnonni che con le loro esperienze hanno plasmato e indirizzato anche le nostre vite, c’è una società che dai primi del Novecento è cambiata radicalmente, soprattutto dal punto di vista medico della psichiatria. Una prova difficile superata a pieni voti da un’autrice che si è messa a nudo di fronte ai lettori e che rappresenta un punto di forza della narrativa contemporanea italiana. Un libro che, credo, meriti davvero di essere nella cinquina dei finalisti dello Strega, che non è sempre scontato. UN’ITALIA INTROVERSA? L’orizzonte offerto da questa cinquina è decisamente stratificato e molteplice: si tratta di romanzi che complessivamente attraversano e costruiscono mondi articolati. Tuttavia, mentre quelli di Bajani, Rasy e Ruol insistono su genealogie e conflitti familiari dove le vicende individuali restano spesso confinate ai meri rapporti personali, quelli di Nori e Terranova provano a muoversi da una certa stasi di provincia, tessendo le trame complesse di andirivieni geografici e storici per abbracciare vicende più grandi. Difficile non pensare ad altri premi internazionali, i cui libri premiati, in effetti, tendono ad uscire da contesti claustrofobici – individuali, familiari, provinciali – per guardare a dinamiche temporali e spaziali ben più vaste. È il caso di James di Percival Everett  vincitore dello statunitense Pulitzer Prize for Fiction del 2025, che riattraversa storicamente e geograficamente gli Stati uniti a partire da una sorta di riscrittura di un classico nordamericano; per non parlare di Orbital di Samantha Harvey  vincitore del britannico Booker Prize nel 2024 e che, con grande originalità e un pizzico di vertigine, ci regala la vicenda di sei astronauti che osservano la Terra dalla Stazione orbitante internazionale. O, ancora, si potrebbe guardare al vincitore del francese Prix Goncourt nel 2024, Urì dell’algerino Kamel Daoud che torna nei tempi e nei luoghi della Rivoluzione algerina (1954-1962) per restituire voce ai suoi tanti e alle sue tante protagoniste dimenticate o rimosse e lo fa nella lingua del colonizzatore di allora. E se poi volessimo uscire almeno per un attimo dal recinto eurocentrico, il vincitore dell’International Prize for Arabic Fiction del 2024, Una maschera colore del cielo dello scrittore palestinese Bassem Khandaqji (1983) ci porta al conflitto israelo-palestinese attraverso la vicenda di un archeologo e del rinvenimento casuale di una carta di identità: una vicenda che sonda geologicamente questa Storia così intricata e dolorosa. Insomma, messa in un quadro più ampio, la bella cinquina del nostro Strega ci mostra forse un’Italia timida, quando non introversa: chiusa in se stessa, un Paese intimorito che avrebbe forse bisogno di esplorare i suoi confini e andare oltre, respirare un po’. In fondo, attraversata ai suoi bordi, forse mai come in questo momento la scrittura letteraria italiana è stata così vivace. L'articolo Cinque storie da votare, cinque voci da ascoltare. Note sui romanzi candidati al Premio Strega 2025 proviene da Pulp Magazine.
Dagli anni Settanta a oggi: eredità rivoluzionaria e nuove sfide
“Linea del tempo” costituisce di fatto l’ultimo capitolo de I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte (DeriveApprodi, pp. 312, Euro 22.00), undici pagine in cui Hardt compone il suo spartito musicale per l’inedito theatrum mundi che guerre di liberazione, rivoluzioni, colpi di stato cruenti, rivolte di vecchi e nuovi soggetti avrebbero allestito nel ventennio ’60-’70 del secolo scorso. Al ritmo di taluni suoi temi, veri e propri leitmotiv dello spartito, avrebbero ballato i movimenti nel loro assalto al cielo. Uno spartito, dunque, con un suo ordine e un suo senso senza i quali disordine e insensatezza offrirebbero una musica diversa, à la Bregović per intenderci, con l’impazzimento di trombe, clarinetti, tamburi, violini e fisarmonica. Hardt ne è consapevole e infatti per evitare l’anarchia del motu proprio suggerisce di partire dal riconoscimento del “valore della teorizzazione avanzata collettivamente nei movimenti (p. 14 ). Un chiaro ribaltamento dell’assioma deleuziano secondo cui sarebbero i filosofi a inventare i concetti. Qui invece sono i movimenti rivoluzionari a produrli con le loro lotte[1]. Il tutto all’insegna della Rivoluzione, la sola a proporsi di rifare il mondo dalle fondamenta, come recita il titolo della Prima parte del Saggio. Una tesi, questa, mutuata direttamente da molti dei protagonisti di quel ventennio[2] ed estesa dall’Autore all’universo mondo. Succinto il catalogo dei suoi concetti chiave: autonomia, molteplicità, democrazia, liberazione (pp. 14-17). La Rivoluzione ne sarebbe stata attraversata da cima a fondo e poco vale che sia stata sconfitta in malo modo un po’ ovunque ché essa va valutata “non in base alla sua vittoria finale, ma alla forza delle sue innovazioni principali” (p. 92), per l’appunto l’idea di un controllo in proprio delle lotte, l’intersezionalità delle stesse, la democrazia diretta al posto di quella  rappresentativa, la trasformazione radicale della società e degli stessi soggetti che la promuovono. Come descrizione del sovvertimento di quegli anni funziona ma il punto dirimente è un altro e riguarda la tesi secondo cui “gli anni Settanta sono stati l’inizio della nostra epoca”, che noi, oggi, si condivida “gli stessi sogni e gli stessi problemi”, che le lotte di allora “hanno costituito lo stadio larvale di qualcosa che sta oggi raggiungendo la maturità” ( p. 272/273). La rivoluzione, dunque, come un punto di non ritorno, un evento destinato a ripetersi nel continuum della linea del tempo. Volgendo lo sguardo a quel passato, sarebbe dunque possibile ritrovare un agire rivoluzionario orientato, rintracciabile oggi nel modo di pensare dei contemporanei che noi siamo e di cui evidentemente dovremmo avvertire l’urgenza . Un ritorno alla Denkungsart kantiana[3]  e alla sua idea di Rivoluzione come fenomeno della storia umana “che non si dimentica più”[4]? Parrebbe di sì. Non a caso ne porta traccia anche la storia della nostra Repubblica sorta, è bene ricordarlo, da una rivoluzione che la parola «resistenza» ha di fatto nascosto. Essa rivive kantianamente nelle giornate del 30 giugno-1 luglio nella piazza De Ferrari di Genova con i «ragazzi dalle magliette a strisce» e poi negli anni Settanta con una nuova generazione in rivolta – quella di cui si occupa Hardt – senza memoria per ragioni anagrafiche ma perfettamente consapevole del proprio legame con quanto accaduto tra il ’43 e il ’45 al punto di mitizzarne il momento insurrezionale del 25 aprile. Di rivoluzione in rivoluzione, dunque, dove importante a un certo punto non è più la rivoluzione in sé ma il pensiero della rivoluzione. Da cui Hardt non riesce a liberarsi.  Pur essendo consapevole che con la fine degli anni Settanta si è chiuso il cattivo infinito delle rivoluzioni[5] e che per la nuova intrapresa urgerebbe un linguaggio affatto nuovo, dal vecchio non riesce a districarsi. Lunga ad esempio è la storia del fascinoso concetto di democrazia diretta non inventata, si badi, ma solo innovata dalla prassi rivoluzionaria operaia[6]. E lo stesso vale per i concetti di autonomia, molteplicità e liberazione generati, secondo l’ardita tesi di Hardt, dalle lotte dei movimenti del trascorso ventennio ’60-’70. Anche se a tutt’oggi evidentemente nulla hanno perso del loro valore descrittivo, restano pur tuttavia “concetti secondari di per sé esangui”[7]. Cito Deleuze, il filosofo di riferimento del saggio. Il concetto, dice Deleuze, è un’altra cosa, esattamente conoscenza del nuovo. Guai confonderlo “con lo stato delle cose nel quale si incarna” e guai riferirlo “al vissuto per compensazione” (Ivi p. 22/23). Con un siffatto dispositivo teorico non si pensa il nuovo oltre la rivoluzione, il nuovo delle lotte s’intende, ché questo e solo questo è l’oggetto del saggio che evidentemente riprende alcuni temi affrontati a suo tempo in Assemblea (Negri, Hardt, Ponte alle Grazie, 2018)  che, è bene ricordarlo, aveva riposto la rivoluzione  tra le anticaglie del moderno per sostituirlo con il concetto di potere costituente utile per comprendere le “forme contemporanee di resistenza e rivolta” e per valutare il “loro potenziale di trasformazione sociale” [8]. Il ciclo delle rivolte sociali sviluppatosi nelle piazze di mezzo mondo a partire dal 2011 ne sarebbe il migliore esempio. Per evitare di confonderlo con la rivoluzione che ha sempre concluso il suo travagliato viatico con la nascita di una nuova forma di Stato, il potere costituente è stato pensato “come processo permanente di trasformazione” (p. 64) e associato direttamente alla rivolta, per l’occasione sganciata dalla classica sequenza di rivolta, insurrezione, presa del potere nella quale ha sempre recitato la parte della cenerentola. Fino a ieri era abilitata a funzionare al massimo come innesco del processo rivoluzionario, ora è finalizzata a non “prendere il potere così com’è, ma [..] a tenere aperto un processo di costruzione di contropoteri” (p. 181).  Ma anche, alla bisogna, dialogante col potere costituito e vogliosa di legittimazione (p. 270). Nonostante l’ottimismo profuso nel saggio per il futuro prossimo a venire, il bilancio resta negativo. Parliamo ovviamente del ciclo di rivolte sociali proposto come esempio di produttività della rivolta nelle nuove condizioni di riaffermato dominio capitalistico. Quanto all’oggi, ovunque nel mondo governi esplicitamente fascistoidi e antidemocratici rifiutano negoziazione e riforme. Nessuno, ha ragione Hardt, ascolta le proteste e “il comando e la violenza diventano le strategie primarie del potere” p. 270). È dunque lo stato delle cose che ci induce a sollevare più di un dubbio circa la produttività della rivolta costituente. Ad esempio, dubbio sul fatto che essa abbisogni, come accade alla rivoluzione, del lavoro sotterraneo della talpa, vale a dire di strutture organizzative dotate di capacità strategiche che dovrebbero starle dietro, oppure che debba essere produttiva di sempre nuove istituzioni partecipative preferibilmente stabili e che non possa essere spontanea. Già, la spontaneità della rivolta. È l’accusa che da sempre le è stata rinfacciata per screditarla. Possiamo veramente pensare che le moltitudini che la promuovono siano oggi afflitte da ignoranza, che accreditarla come suo attributo positivo sia “una posizione ideologica” (Assemblea, cit., p. 47)? Ecco, forse è proprio  questo concetto di rivolta, che I Settanta sovversivi  consegnano al lettore, che andrebbe  rivisto e approfondito[9]. NOTE [1] p. 264: “Nel Social Movements Lab, Sandro Mezzadra ed io abbiamo sviluppato un metodo efficace per iniziare lo studio di ogni movimento esplorando le sue connessioni genealogiche, trasversali e internazionali”. [2] Così P. Virno, oggi apprezzato filosofo del linguaggio, ieri militante dell’autonomia: Negli anni del nostro scontento. Diario della controrivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2022, p. 291: “Sarebbe una sciocchezza, per giunta assai meschina, raffigurare gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso come una collezione di violenze subite, un cocktail di soprusi e persecuzioni, una disperata resistenza all’offensiva di padroni arrembanti. È vero il contrario. Furono gli anni in cui ebbe luogo il primo e unico tentativo di rivoluzione comunista in seno al capitalismo maturo”. [3] «Denkungsart» è per Kant un aspetto del carattere intelligibile degli esseri umani, per l’esattezza il loro modo di pensare, da distinguere dal loro carattere empirico o modo di sentire (Sinnesart). Vedi I. Kant, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2004, p. 809 (A551/B567) [4] I. Kant, Il conflitto delle facoltà in tre sezioni in Stato di diritto e società civile, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 324 [5] Sul piano internazionale il pensiero corre alla rivoluzione khomeinista ma anche quanto è accaduto in Italia merita una qualche considerazione. Così L. Caminiti in Il fattore A ne Gli autonomi, DeriveApprodi, Roma 2007, p. 26: “Tutto l’immaginario della rivoluzione è precipitato qui: non v’è stata parola che non sia stata detta, non v’è stato gesto che non sia stato compiuto. Non v’è stata teoria che non sia stata teorizzata. Non v’è stata lotta nel mondo di cui non ci si sia fatti carico e non sia stati fratelli almeno per un giorno. Tutti i sogni e tutti gli incubi delle rivoluzioni si sono fatti carne qui”. [6] A. Negri, Democrazia diretta in Scienze politiche I, Feltrinelli Editore, Milano 1970, p. 101: “Nella prassi rivoluzionaria, dalla Comune del 1871 all’insorgenza europea del movimento dei consigli, con e dopo la rivoluzione sovietica del 1917, la democrazia diretta diviene una parola d’ordine assolutamente diffusa: i soviet russi, i Räte tedeschi, i consigli italiani, gli shop stewards inglesi sono nomi diversi di una sostanza unitaria.” [7] Deleuze-Guattari, Che cos‘è la filosofia? Einaudi editore, Torino 1996, p. 23 [8] M. Hardt-A.Negri, Assemblea, Adriano Salani Editore, Milano 2018, p. 62 [9] Sul tema G. Cavallini, R. Di Pauli, M. Sersante, Che cos‘è la rivolta? In Machina Rivista 4 aprile 2025 L'articolo Dagli anni Settanta a oggi: eredità rivoluzionaria e nuove sfide proviene da Pulp Magazine.
Il punto sul weird: tra riscoperte e prime edizioni
Molte interessanti uscite nel campo del weird negli ultimi mesi. Cerchiamo di tracciarne un rapido panorama editore per editore. Cominciamo da Hypnos che continuando la pubblicazione dell’opera omnia di Robert Aickman (1914-1981) delle cui strange stories ci siamo più volte occupati, manda in libreria ben due titoli dell’autore britannico: Intrusioni, (pp. 300, euro 24,90 stampa) la sesta e probabilmente ultima raccolta di tutti i racconti fantastici e un romanzo uscito nel 1964 The Late Breakfaster, titolo splendidamente ambiguo e suggestivo ma di difficile adattamento in italiano (Quelli che fanno colazione tardi ?… Improponibile…), si è optato per l’assai meno accattivante Il ballo esplosivo (pp.324, euro 18,90 stampa). Non ho avuto modo di leggere il romanzo, quindi non sono in grado di commentarlo, ma ho invece divorato Intrusioni, che raccoglie gli ultimi racconti scritti da Aickman prima della sua prematura scomparsa. L’abituale laconicità dell’autore nel presentare il soprannaturale, tanto da sfiorare spesso l’incomprensibilità, è in questi testi massima: ammetto di preferire altre raccolte più compatte come Sub Rosa o Cold Hand in Mine, ma anche questo Intrusions offre capolavori del non detto e dell’ambiguo come Il guanto, L’altra radura o Lettere al postino, assolutamente impossibili da etichettare – non ghost-stories perché di fatto non c’è alcun fantasma almeno nel senso classico, eppure proprio per questo supremamente inquietanti. La mia preferita della raccolta è però anche la più esplicita Lo sfondamento (The Breakthrough), storia che ha a che fare con il folklore scozzese ed il banshee, lo spettro familiare annunciatore di morte. Oltre ad Aickman, Hypnos ripropone anche una nuova antologia di un autore che ha contribuito a far conoscere in Italia, Stefan Grabinski (1887-1936), il cosiddetto Poe polacco, di cui aveva già pubblicato nel 2012 Il villaggio nero (pp.290, euro 21,90 stampa) e di cui oggi fa uscire Racconti spettrali (pp. 248, euro 21,90 stampa). Anche questa raccolta non ho potuto ancora leggerla ma giudicando dalla precedente non ho dubbi sulla qualità e l’interesse dei racconti presentati. Dopo Hypnos passiamo all’altra casa editrice più importante del panorama weird italiano, Agenzia Alcatraz, che proseguendo con la sua collana Bizarre la pubblicazione dei classici fantastici di lingua francese propone ancora il maestro belga Jean Ray (1887-1964) e la raccolta con la quale esordì nel 1925, I racconti del whisky (pp. 274, euro 17,00 stampa). Questa edizione riprende il volume omonimo già pubblicato nel 2013 da Hypnos (e oggi esaurito) ma aggiunge tre racconti in più non appartenenti alla raccolta originale. Il primissimo Jean Ray non ha qui ancora scelto, come farà in seguito, il fantastico e il soprannaturale come campo unico del suo estro creativo e alcuni racconti non sono propriamente pertinenti al genere: resta però in tutti il fascino invincibile dell’autore, le sue ambientazioni in città portuali del nord Europa, Olanda, Belgio, Inghilterra, Germania anseatica, con le nebbie, i flutti, le navi all’ancoraggio, i vicoli e le taverne e i suoi personaggi “marinai, contrabbandieri, tagliagole, prostitute, tutti accomunati da un sorso di whisky (o più di uno) al momento giusto”. Un vero e proprio classico che si accomuna, godibilissimo, alla seguente uscita recente di Alcatraz, altrettanto famigerata, Le confessioni di un peccatore eletto (pp.324, euro 18,00 stampa) di James Hogg (1770-1835), un’altra di quelle opere inetichettabili che utilizza la struttura del romanzo gotico, all’epoca della sua pubblicazione (1824) in pieno rigoglio, per sferrare una potente accusa contro il puritanesimo e i suoi eccessi. La storia di Robert Wringhim, cresciuto da un fanatico pastore calvinista, che diventa, preda di un delirio purificatore, un efferato serial-killer in nome della dottrina della predestinazione, fece scandalo quando uscì e fu considerato un romanzo blasfemo, anti religioso e contrario alle pubbliche istituzioni, oltre a dare spunto a R. L. Stevenson, che ne fu ammirato lettore, per il suo Lo strano caso del dott. Jekyll e di Mr. Hyde. Agenzia Alcatraz sta inoltre varando altre lodevolissime iniziative che la pongono ben al di sopra del semplice ruolo di casa editrice di genere: ad esempio, dopo il successo del capolavoro iconoclasta Lucifero e la bambina (pp.448, euro 16,00 stampa) – di cui ci siamo già occupati su Carmilla  – ha intrapreso la pubblicazione integrale delle opere ingiustamente censurate e dimenticate di Ethel Mannin (1900-1984), scrittrice e attivista politica femminista, anarchica e socialista radicale, per un certo periodo compagna di Bertrand Russel, dedicandole un’intera collana, Etheliana, a cominciare da La strada per Be’er Sheva, romanzo che spero di poter presto recensire, che si propose di narrare la Nakba palestinese del 1948 in opposizione al sopravvalutato Exodus di Leon Uris, libello di bieca propaganda filoisraeliana. In un momento come questo, in cui assistiamo increduli al genocidio di Gaza e alla soluzione finale del problema palestinese ad opera del fascismo israeliano, la pubblicazione del libro sincero e appassionato della Mannin ci sembra un doveroso atto politico che va incoraggiato e sostenuto con ogni mezzo: i nostri complimenti a Max Baroni e a tutta la Agenzia Alcatraz. Altra interessante notizia è il passaggio de La biblioteca di Lovecraft, collana diretta e curata dagli amici Jacopo Corazza e Gianluca Venditti e fino a questo momento pubblicata da Arcoiris, che da qualche mese viene invece accolta tra le collane di Agenzia Alcatraz. I primi volumi in questa nuova veste sono Il lupo mannaro (pp.148, euro 16,00 stampa) di Clemence Housman (1861-1955) e La promessa dell’aria (pp. 342, euro 19,00 stampa) di Algernon Blackwood (1869-1951), seguiranno a breve altri volumi già noti ripresi dalla precedente edizione: Il vampiro di Mistrali, I racconti della Bestia di Aleister Crowley, Freaks di Tod Robbins e Jimbo ancora di Algernon Blackwood. Anche di questi ultimi due volumi non sono ancora venuto in possesso ma conosco bene gli altri e posso anticipare che la Housman, meno famosa, è stata una suffragetta e racconta di un lupo mannaro donna in chiave ovviamente femminista; quanto a Blackwood è fin troppo conosciuto per i suoi racconti brevi horror, il ciclo di John Silence detective dell’occulto o capolavori come I salici o Il Wendigo, probabilmente uno dei più raffinati scrittori britannici del fantastico. I suoi romanzi sono meno celebrati e forse meno perfetti dei racconti ma è un utile e lodevole compito quello assunto da La biblioteca di Lovecraft di fare conoscere anche questi al pubblico italiano. Ne riparleremo più approfonditamente quando potrò visionare i volumi. Un’ultima menzione anche per gli italiani: Franco Pezzini, che già ben conosciamo come saggista, curatore ed esperto di gotico e di esoterismo, si è lanciato anche nella stesura di una notevole opera narrativa intitolata Morte astrale (pp.430, euro 18,00 stampa), pubblicata da Polidoro di Napoli nella collana Interzona, un romanzone dal ritmo sincopato che da modo all’autore di sviscerare tutte le sue competenze nel settore dei gruppi occulti e delle sette esoteriche, dalla Golden Dawn all’Ordo Templi Orientis, all’Astrum Argentinum di Crowley, un’opera immaginaria così ben architettata e descritta da sembrare vera e realmente accaduta. Infine Luca Cangianti che con Distruggi il male (pp.128, euro 15,00 stampa), pubblicato da DeriveApprodi, riesce a coniugare impegno e militanza politica con un plot altamente adrenalinico in cui fantascienza e horror, ricerca storica e indagine sociale si miscelano e si sostengono vicendevolmente in una carrellata nel tempo e nello spazio che comprende la Val di Susa e i notav, il riflusso, la repressione e il dilagare dell’eroina negli anni ’80, la Resistenza antinazista nella Roma occupata del ’44, e molto altro. Insomma per gli appassionati di weird c’è da leggere per un bel po’. L'articolo Il punto sul weird: tra riscoperte e prime edizioni proviene da Pulp Magazine.
Ucronie del corpo teatro
“Un esercizio di storia virtuale”. Sul filo di una straniante affinità con la fantascienza controfattuale – quella che, per capirsi, interroga gli sviluppi storici che avrebbero potuto verificarsi in condizioni alternative  – si snoda il piccolo ma densissimo libretto di Antonio Attisani La rivoluzione artistica di Francesco (Rasoi, Cronopio, 2025).[1] Partendo da due differenti contesti socioculturali, quello di Francesco, giullare di Dio, e quello del santo folle Thangtong Gyalpo, vissuto tra il quattordicesimo e il quindicesimo secolo in Tibet, l’autore cerca di “delineare altri possibili esiti” attraverso “un’attenta valutazione dei dati storici e delle condizioni controfattuali”, che vedono il nostro medioevo imboccare uno sviluppo materiale e una conseguente etica per allontanarsi progressivamente dall’istanza francescana, al contrario dell’altra “età di mezzo”, che vive “un proprio peculiare medioevo nell’ambito del quale si privilegiava lo sviluppo spirituale”. Esiti che la nostra storia avrebbe potuto avere a partire da Francesco se… “E se…?” proprio a partire da questa domanda in sospeso si potesse ripercorrere l’intera storia dell’Occidente, non solo del teatro, di cui Attisani si è occupato per tutta la vita, ma della vita stessa di tutti noi attori del grande teatro dell’esistenza? È quello che il saggio prova a fare definendo innanzitutto il soggetto di questa storia, quel “noi”, che si presenta qui come corpo, “corpo che è teatro”, come dal concetto originale dovuto a Jean-Luc Nancy, [2] Cioè “non corpo che fa teatro ma corpo che è teatro” – prosegue Attisani – “da cui derivano religione e arte.” Poche parole, queste ultime, che capovolgono quel senso comune che vorrebbe invece il teatro derivato dalla religione. Se il teatro, come qui è visto, è la vita nella sua particolare prerogativa performativa di un ethos del trascendimento, cioè di quella capacità, mai acquisita una volta per tutte, di trascendere la natura in valore umanamente operabile, allora la “pazzia” di Francesco è tutto meno che l’ ”eccezione” che conferma la “regola”; in questo caso della santità. Piuttosto è l’exemplum riuscito della trasformazione di una metafora in realtà (la predicazione della povertà) e del conseguente rifiuto di quella “tendenza all’astrazione” che la modernità assume come suo elemento costitutivo. Una povertà nuova e inedita quella suggerita da Francesco che non ha nulla da spartire con la miseria che è invece prerogativa dell’ingiustizia sociale che caratterizza l’individualismo di massa del mondo odierno. Una povertà che si basa su “un sapere superiore, non analitico ma intuitivo” che, come teorizzava, in un passato a noi più prossimo, Jerzy Grotowski, mette “in discussione i protocolli rappresentativi del moderno e la loro finalità nella prospettiva di un trascendimento consapevole.” Jerzy Grotowski (manifesto) Quel Ethos del trascendimento che costò tante critiche di irrazionalismo a De Martino e che potremmo anche un po’ parodiare nella raffigurazione del barone di Munchausen mentre si tira fuori dalla palude (insieme al suo destriero) tirandosi con una mano su per il codino. Come si trascende dalla natura, in forza di quali capacità innate o acquisite? Quello di De Martino è certamente un escamotage che giustamente problematizza al posto di risolvere; ma qui, invece, nella tesi di questo libro la risposta è data: il trascendimento possibile, l’uscita, l’estasi o la “verticalità” (Grotowski) e il necessario rientro, cioè la enstasi, saranno possibili proprio e solo a partire dal riconoscimento di un’interiorità custode di un’essenza: “ciò che non si è ricevuto dagli altri, ciò che non viene dall’esterno, che non si è imparato.” Il cammino dell’umanità non può che essere quindi un cammino verso questa essenza originaria, dimenticata, che dovrà portare l’uomo esteriore a morire come condizione indispensabile per la nascita dell’uomo interiore. Questa è la tesi (se corretta e non ho troppo semplificata) di fondo del libro ed è la tesi rispetto alla quale quelli che come me si ritengono “diversamente” materialisti sono chiamati a rispondere non in modo liquidatorio, aspro forse sì, ma che deve consentire la possibilità di far emergere, o quantomeno intravedere, un possibile spazio per un nuovo tipo di materialismo che non necessiti di stabilire alcuna sorta di amicizia con lo spirituale, non essendo più definibile un reale confine tra i due ambiti. Potremmo anche dire, prendendo una felice definizione di Paolo Virno: “un materialismo dalle spalle larghe, né esorcistico, né riduzionista, tale cioè da accogliere in sé, impostando altrimenti, i problemi più intricati della tradizione speculativa moderna.”[3] È ovvio, umanamente più che comprensibile, il desiderio di una via d’uscita che ci permetta “un’alternativa all’individualismo di massa”, ma è difficile immaginare che quanto qui viene prospettato: “l’insularità, il farsi isola, luogo ospitale per alcuni e inospitale per altri, luogo di uno spietato lavoro su se stessi, qualcosa che è al tempo stesso solitudine e socialità”, possa essere una reale “liberazione da un orizzonte concettuale che porta alla dipendenza di mondi immaginari e tossici”. Ahi noi, il “corpo teatro” temo (o forse per fortuna, dipende dai punti di vista) non si gioca in nessun luogo insulare, non esistono luoghi protetti. Anche questi alla fine sono immaginari, se non propriamente tossici, quantomeno illusori nella loro promessa di una via d’uscita con annessa garanzia di rientro. Ma l’uscita è sempre un rischio così com’è l’incontro con l’altro, con cui si desidererebbe potersi fondere, ma che cozza inevitabilmente con un limite, mai determinato in un confine preciso, ma che resta comunque invalicabile. Antonio Attisani E allora il teatro che potremmo auspicare, volendo seguire fino in fondo l’affascinante ipotesi controfattuale di questo discutibile (e in quanto tale importantissimo) testo di Attisani, contrariamente a quanto sostenuto, non dovrebbe vedere alcuna conciliazione tra “attori che dimostrano o che agiscono in base alla pretesa di spiegare ai loro spettatori impigriti come va il mondo” e “attori che fanno” cioè che ci pongono “di fronte a una teatralità altra, rispetto al senso comune e a una prassi della religio che implica una sollecitazione straordinaria del corpo teatro nella sua totalità”, un teatro che seguendo l’azione della povertà ambisce “a conquistare un sapere superiore, non analitico ma intuitivo” in cui la tecnica, al contrario della prassi ormai acquisita “emerge dal compimento, vale a dire che il sapere è in ciò che è fatto.” Non può esservi armonia tra queste due istanze diverse, ma solo quel necessario conflitto che è base della vita stessa, della sua potenza creatrice che, paradossalmente crea anche la possibile coesistenza tra diversi. Perché tutti noi siamo attori di storie diverse che si intrecciano e derivano con e dalle altre, rendendo così possibile il nostro esistere. “Non può esistere alcuna ‘politica culturale’, alcun progetto di sviluppo del teatro, ma soltanto la ridefinizione di una politica all’interno della quale il teatro viene aiutato a distruggersi dallo sviluppo di mille nuove forme di teatralità consapevole”[4] È allora forse ancora questa auspicata distruzione la chiave per una via d’uscita che contempli un possibile rientro in termini di trasformazione, del divenire incessante, motore creativo della vita in tutte le sue forme e modi. Un divenire capace di creare spazio, “divenire sempre più sobrio, sempre più semplice, divenire sempre più deserto, e attraverso ciò, popolato” (Gilles Deleuze e Claire Parnet, Conversazioni, Ombre Corte). In questa auspicata “involuzione” possiamo intravedere forse un’altra forma di povertà, una traduzione contemporanea dello spirito di Francesco? Sicuramente una sfida per cercare “insieme, di riconoscere nella tenebra del presente la luce che, senza mai poterci raggiungere, è perennemente in viaggio verso di noi[5] E cos’altro potrebbe essere un “nuovo” teatro di fronte a un nuovo mondo che ci fa apparire sempre più stranieri, anche a noi stessi? 1. Sempre in questa collana nel 2024, l’autore ha pubblicato con Lea Melandri La vita impresentabile. Femminismo e corpo teatro. Un dialogo). ↑ 2. Jean-Luc Nancy, Corpo teatro, Cronopio, 2010 ↑ 3. Promemoria su Ernesto De Martino, Studi culturali, A. III, n.1, giugno 2006 ↑ 4. A. Attisani, Teatro come differenza, Feltrinelli, 1978 – Essegi Edizioni, 1988 ↑ 5. Giorgio Agamben, Che cos’è contemporaneo?, Nottetempo, 2008 ↑ L'articolo Ucronie del corpo teatro proviene da Pulp Magazine.
Ascesa (e trasformazione) di BookTok
C’è chi i libri li scrive, chi li pubblica, chi li vende e chi li legge. Ma c’è anche chi li racconta sui social: BookTokers, Bookstagrammers, BookTubers. Questi influencer letterari, con video brevi o contenuti più elaborati, trasformano la lettura in un’esperienza virale, condivisa e accessibile, capace di incuriosire e coinvolgere un pubblico sempre più ampio. Tra tutti, è BookTok ad aver avuto l’impatto più forte, soprattutto a partire dalla pandemia del 2020. Una comunità di lettori e lettrici entusiasti che ha riportato in classifica titoli usciti anni prima e dato visibilità a nuovi autori, portando una ventata d’aria fresca anche nell’editoria italiana. Alcuni di questi libri sono diventati veri e propri bestseller: Fourth Wing di Rebecca Yarros, la serie fantasy che ha venduto oltre 12 milioni di copie e conquistato le classifiche del New York Times; Fabbricante di lacrime di Erin Doom, romanzo italiano che ha superato le 500.000 copie vendute nel 2022; e il revival de La canzone di Achille di Madeline Miller, diventato un successo internazionale proprio grazie alla viralità su TikTok. In un Paese dove si legge poco, questa community è diventata uno strumento prezioso per avvicinare i giovani ai libri e riportare la lettura al centro delle conversazioni. Secondo alcune stime, il 60% dei lettori under 25 dichiara di aver acquistato almeno un libro dopo averlo scoperto proprio su TikTok: una cifra che la dice lunga sul potere virale e immediato di questo strumento. Oggi BookTok è diventato un fenomeno culturale, capace di trasformare il modo in cui i libri vengono scoperti e raccontati, plasmando le tendenze editoriali. Non a caso, molte case editrici hanno aperto canali su TikTok per intercettare i lettori e le lettrici che popolano questa community appassionata. Proprio per questo, anche il Salone Internazionale del Libro di Torino ha iniziato a dare sempre più spazio a questo mondo. Lo scorso anno, ad esempio, si è tenuta la prima edizione italiana dei TikTok Book Awards: un evento che celebra i protagonisti della community del BookTok, il loro impatto sull’editoria e premia i titoli più discussi. L’hashtag #BookTok campeggiava sulle pareti di molti stand e TikTok stesso aveva allestito uno spazio interattivo per incontrare autori, editori e lettori. Quest’anno, però, niente stand ufficiale TikTok. È un segnale di declino? Una moda che sta passando? In realtà, il fenomeno non è scomparso: si sta solo evolvendo. Le classifiche dei libri “visti su TikTok” resistono, ma l’hype si è ridimensionato. Senza uno stand a catalizzare l’attenzione, i book creators erano meno presenti e i contenuti sono diminuiti. Tuttavia, BookTok non è sparito: si è normalizzato e integrato nelle strategie di marketing, perdendo parte della sua aura rivoluzionaria – come già successo con Bookstagram o BookTube. BookTok è passato dall’essere un movimento spontaneo e una novità dirompente a un elemento consolidato del marketing editoriale attraverso lo strumento del community-building. Non è una sconfitta, ma un’evoluzione. Il canale continua a funzionare, soprattutto per generi come romance, thriller e young adult, mentre fatica con la narrativa più sperimentale o di nicchia. TikTok stessa ha lanciato la sua casa editrice, la 8th Note Press, puntando su fiction, fantasy e romance. Tuttavia, si stanno affacciando anche generi come le distopie e l’horror, segno di un panorama sempre più variegato e in continuo cambiamento. I bookinfluencer italiani, spesso giovani e appassionati, sono diventati veri ambasciatori della lettura. Per l’editoria, rappresentano una nuova forma di recensione e passaparola: più immediata, empatica e visiva. Anche quest’anno, al Salone del Libro erano presenti: tra stand, incontri e contenuti condivisi, hanno documentato l’evento in tempo reale, alimentando la conversazione intorno ai libri. Molti panel del Salone hanno cominciato a confrontarsi con questa figura ibrida, a metà tra lettore e promotore culturale. Le collaborazioni tra editori e bookinfluencer sono sempre più frequenti, e la loro capacità di creare community e alimentare il dialogo è ormai un fattore chiave per il settore. BookTok e i bookinfluencer rappresentano una sfida e un’opportunità. La sfida è evitare la banalizzazione e l’omologazione dei contenuti; l’opportunità è usare la loro voce per avvicinare alla lettura chi oggi legge poco o nulla. Se BookTok ha perso parte della sua carica rivoluzionaria ed è diventato uno strumento di marketing, lo dimostra anche il minore clamore che ha avuto quest’anno al Salone del Libro. Ma al di là delle critiche e delle opinioni, resta un dato essenziale: BookTok ha reso la lettura più popolare, accessibile e condivisa. Ha intercettato un pubblico giovane, spesso lontano dai circuiti tradizionali – librerie, festival, critica letteraria. In un Paese come l’Italia, dove la lettura continua a mostrare segnali di debolezza — nel 2024, il 73% delle persone tra i 15 e i 74 anni ha dichiarato di aver letto almeno un libro nell’ultimo anno, in lieve calo rispetto al 74% del 2023, e il tempo medio settimanale dedicato alla lettura è sceso a 2 ore e 47 minuti (fonte: AIE) — BookTok rappresenta un’opportunità preziosa per scoprire la lettura come piacere. È un modo autentico e partecipativo di parlare di libri, capace di abbracciare generi, epoche e temi diversi. Se questo può contribuire a risollevare le sorti di un’Italia che legge poco, ben vengano i bookinfluencer, con la speranza che le nuove generazioni sappiano mostrare sempre di più la bellezza delle “parole fra noi leggere” che solo un libro può regalare. L'articolo Ascesa (e trasformazione) di BookTok proviene da Pulp Magazine.
L’insostenibile leggerezza del Salone del libro
Le parole tra noi leggere era il titolo e il tema del Salone del libro di quest’anno. Ma ovviamente la leggerezza non era sempre sostenibile, e non solo in termini ambientali. Seppure forse per la prima volta ci fosse uno stand, peraltro meraviglioso, dove si sono concentrati gli incontri a tema ambientale. Lo stand era “Il bosco degli scrittori”, di Aboca, pieno di verde e profumi, che solo ad entrarci ti sentivi meglio, a dimostrazione di quanto abbiamo bisogno, del verde e della natura. Gli eventi, che fossero presentazioni, dialoghi, panel, tavole rotonde o altro, erano come sempre tantissimi, e per la nota legge di Murphy ce n’erano almeno tre che mi interessavano tantissimo alla stessa ora. Quindi al Salone bisogna scegliere. Alle volte è il Salone stesso che ti fa scegliere, quando per esempio non hai prenotato e stai in coda per ascoltare Paul Murray dalla sua viva voce irlandese e poi ti mandano via perché tutti i prenotati si sono presentati. Of course. Alle volte si sceglie in base a dove si è, a dove c’è meno gente, a dove regna il silenzio. Al Salone, si sa, il silenzio è d’oro o meglio del tutto assente. Così come sono assenti dei punti dove ricaricare i telefoni o gli iPad, onestamente una cosa un po’ disdicevole. Di tutti i disagi del Salone, ovvero le code ai bagni, il guardaroba che alle 11 è già pieno, il caffè che costa 2 euro (come neppure al più caro degli autogrill), l’aria viziata, questo del non poter caricare i device lo trovo il più fastidioso e il più ovviabile. Ma basta lamenti. Vi racconto chi ho visto e sentito. JAN BROKKEN L’Olanda era il paese ospite di questa edizione. E Jan Brokken era l’ospite degli ospiti. Ha fatto diversi eventi, alcuni affollati come non mai, altri più di nicchia. Io sono andata a quello della serie “Lo scrittore invisibile”, in cui gli scrittori affrontano il tema della traduzione. Era quindi presente anche la traduttrice Claudia Cozzi, che con il suo lavoro prezioso e – per l’appunto – invisibile ha permesso a tutti i lettori italiani di godere delle opere di Brokken. Il quale sembra uscito da un quadro fiammingo, e in un francese molto pulito e vagamente esitante racconta che ha cominciato a scrivere a sette anni in un pomeriggio piovoso in cui, non sapendo cosa fare, suo padre gli ha dato un quadernetto blu; che usa sempre dei quaderni per appunti con la copertina blu; che deve la sua abilità di scrittore a un incontro fortuito con Gabriel Garcìa Marquez, da cui ha appreso tutti i segreti dei romanzi; e che da quando abita vicino alla casa in cui ha vissuto Anna Frank è ancora più consapevole di quanto le assenze, le persone che sono state sottratte alla vita con violenza e ingiustizia e perversione, le assenze sono tanto vive e percepibili quanto le presenze. Diventato famoso, almeno in Italia, per Anime baltiche, Brokken conosce molto bene i luoghi dello sterminio, non li dimentica e non ce li fa dimenticare. La scoperta dell’Olanda, sempre pubblicato da Iperborea, era nella cinquina dei finalisti al Premio Strega Europeo (che poi ha vinto Paul Murray con Il giorno dell’ape). IIDA TURPEINEN A proposito di finalisti allo Strega Europeo, a Torino c’erano tutti. Tra questi sono andata a sentire Iida Turpeinen, che insieme a Dente ci svela il triste destino de L’ultima sirena, (romanzo pubblicato da Neri Pozza) ovvero la ritina di Steller, animale marino dichiarato estinto solo 27 anni dopo la sua scoperta, oggetto delle attenzioni di collezionisti senza scrupoli e proto-ambientalisti, in qualche modo simbolo del nostro rapporto con la natura. Quando la domanda delle domande, posta da Dente, è se sia possibile scoprire qualcosa senza fare danni. Iida Turpeinen, con il suo inglese vibrante e solo leggermente straniero, risponde che pensa sia possibile. Anche perché a relazione tra uomo e natura nel corso del tempo è cambiata, e quindi è un fatto culturale, non scientifico o storico; come è cambiata nel passato, così può cambiare di nuovo. Può darsi che tra cento o mille anni qualcuno dirà di noi, che cretini, sapevano tutto del cambiamento climatico e non hanno fatto nulla; però intanto noi possiamo cambiare il nostro modo di essere con la natura. MARCO ALBINO FERRARI CON GIOVANNI COSTANTINI Marco Albino Ferrari e Giovanni Costantini La prima volta, al “Bosco degli scrittori” ci capito quasi per caso e ci trovo anche degli amici. C’è Marco Albino Ferrari (Il canto del Principe, Ponte alle Grazie) con il direttore d’orchestra e violoncellista Giovanni Costantini, e la storia che raccontano insieme è davvero meravigliosa. Un anno prima della tempesta Vaja, un’altra tempesta di vento abbatté l’Avez del Prinzep, l’abete del principe, un abete bianco secolare dell’altopiano di Lavarone. Una volta passato lo stupore e il dolore, una volta accertato che non c’erano morti e feriti, restava cosa fare con il legno. Ci voleva qualcosa che onorasse la vita ultracentenaria di questo abete che spiccava metri sopra gli altri e che richiamava i turisti ad ammirarlo in silenzio. In un’assemblea che raccoglieva tutti gli abitanti dei paesi sparsi per l’altopiano, qualcuno propose di fare degli strumenti ad arco. Era l’idea di Giovanni Costantini: di solito questi strumenti si fanno con l’abete rosso, ma si possono fare anche con quello bianco. E gli strumenti musicali vivono e suonano e regalano gioia per centinaia di anni. Il violoncello di abete bianco, nato dal Prinzep, risuona tra le panche di legno grezzo. E ovviamente nei cuori. CARLA MADEIRA Ed ecco un’altra finalista dello Strega Europeo (ve l’avevo detto che c’erano tutti), l’autrice brasiliana più amata nel suo paese, ma anche in Europa e qui da noi. Al Salone la presenta Chiara Valerio. Ed è una conversazione densa, solida, senza preliminari e senza giri di parole. Del resto in Preludio (Fazi editore) ci sono due figli, due gemelli, che vengono chiamati Caim e Abel dal padre, per fare dispetto alla madre. C’è Vedina che, in quella che sembra una giornata come le altre, fa qualcosa che non pensava di poter fare. C’è l’ambiguità della famiglia e dell’amore, quello che viene tolto e quello che viene dato. E a differenza che nella vita, in cui non riusciamo a trovare il tempo e l’energia per chiederci che cosa ci sia dietro la cattiveria o dietro la disperazione, nei romanzi il tempo per quel che viene prima dell’atto, il tempo per il preludio esiste. Sia Carla Madeira che Chiara Valerio hanno studiato matematica, e concludono sottolineando come tanto i simboli quanto le parole sono modi per esprimere la nostra soggettività, e diventano soggettivi nel momento in cui li si usano. Una bella riflessione da portarsi a casa. JACQUES ATTALI L’avevo cominciato prima del Salone, il saggio Conoscenza o barbarie, Storia e futuro dell’educazione (Fazi editore). Jacques Attali era insieme a Enrico Galiano, e chi meglio di loro due poteva conversare sull’educazione. A partire da quello che serve e servirà davvero, cioè “imparare a imparare”. È probabile che nel futuro non si vivrà facendo un solo mestiere, ma se ne cambieranno molti; anche ora ci sono persone che cambiano mestiere più volte nella vita, ma tra non molto lo dovranno fare tutti. E imparare a imparare presuppone la pazienza, la tenacia. Bisogna resistere al fallimento, che è un inevitabile passaggio nel processo di apprendimento, e bisogna avere la pazienza e la tenacia di continuare, di insistere. Le tecnologie che usiamo non contemplano la pazienza, per questo va insegnata… con pazienza. E poi bisogna avere amore per se stessi, e fiducia nelle proprie possibilità. Perché secondo Attali non ci sono limiti a quello che possiamo studiare. Il nostro mondo è fatto di contraddizioni estreme, l’oscurantismo tecnologico e una enorme massa di conoscenze condivise. Non sarà facile trovare un equilibrio tra queste contraddizioni, ma non è neppure impossibile. Saranno lo spirito critico, che si coltiva soprattutto con la lettura, e la grinta, la forza di voler superare i nostri limiti, a traghettarci nel futuro. GUIDO SARACCO E CLAUDIA PASQUERO Ritorno al “Bosco degli scrittori”, a rinfrescarmi e respirare un’aria che non sia quella viziata del Lingotto. Ora ci sono due professori, e il tema è “Sopravvivere al clima”. Claudia Pasquero (suo un contributo del volume Come sta la terra? Il Castoro) parte da un esempio: nessuno si è preoccupato dei danni della caccia alle balene quando non c’era più bisogno dell’olio di balena, finché un ricercatore aveva quasi per caso intercettato il suono che questi cetacei emettevano sott’acqua, un suono che era un canto e un linguaggio; improvvisamente le balene ci sono diventate vicine, amiche, abbiamo sentito il bisogno di proteggerle. La stessa narrazione deve essere trovata per tutti i problemi legati al cambiamento climatico, commenta Guido Saracco (autore con Maurizio Ferraris di Tecnosofia, Laterza). Se ci mettiamo in relazione con il mondo naturale in un modo diverso da come abbiamo fatto finora, certamente potremo trovare delle soluzioni che neppure immaginavamo. JEAN GIONO Per qualche ragione ignota, Il canto del mondo di Jean Giono non era mai stato pubblicato in Italia. Ci ha pensato ora l’editore Settecolori, che non potendo ovviamente invitare l’autore ha chiamato il traduttore Leopoldo Carra e il giornalista Carlo Grande, che conosce molto bene non solo l’opera di Giono ma anche quella Provenza aspra, montuosa e per niente turistica che il grande scrittore francese racconta. Carlo Grande ha anche incontrato, tempo fa, a Manosque, la moglie e la figlia di Giono. Il canto del mondo è un manifesto ecologista ante litteram, un romanzo sinestesico, un racconto che celebra il sacro presente nella natura. Molti di noi conoscono Jean Giono come l’autore di L’uomo che piantava gli alberi, spesso considerato un libro per ragazzi e utilizzato nelle scuole per comunicare la forza della natura, la tenacia dell’uomo e la possibilità della rinascita. Il canto del mondo è anch’esso un romanzo che ci indica la strada: ci si può salvare solo vivendo in armonia con la natura, obbedendo e rispettando le sue leggi. Il libro uscirà presto in edizione numerata. Posso concludere con la stessa frase che avevo scritto dopo un altro Salone del libro: la cultura, la lettura, i libri sono molto di più e molto di meno di quello che si pensa. Sono esattamente il valore che gli diamo noi. L'articolo L’insostenibile leggerezza del Salone del libro proviene da Pulp Magazine.
Rompere i confinamenti, immaginare narrazioni multiformi
> Non appena smetti di provare di funzionare all’interno di qualcosa che ti > rinchiude, non appena ti apri, si innesca un effetto domino. bell hooks > Vivere in opposizione a uno schema radicato è molto difficile, crea > infelicità, anche fra coloro che ci rimettono mano.                                                            Stuart Hall Capita talvolta di imbattersi in libri davvero inattuali anche solo per ragioni meramente anagrafiche: questo libro, per esempio, registra una serie di conversazioni (avvenute nell’estate del 1996) tra due intellettuali oggi morti da tempo. Una è bell hooks (nata Gloria Jean Watkins, 1952-2021), femminista e pedagogista nera nordamericana, teorica radicale e autrice di libri fondamentali del pensiero critico contemporaneo come Elogio del margine (Yearning: Race, Gender, and Cultural Politics, 1990) e di molti altri che (ri)vedono oggi la luce grazie al lavoro editoriale di Tamu edizioni  e il Saggiatore. L’altro è Stuart Hall (1932-2014), intellettuale nero caraibico-britannico da molti definito sociologo o teorico culturale, certamente uno dei più importanti animatori di quel Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham che nel giro di qualche decennio mise al centro delle proprie ricerche multidisciplinari la classe sociale, la razza e tutte quelle pratiche sub/culturali (musica, moda, stili, droghe e devianza) per tanto tempo tenute ai margini della Filosofia, dell’Antropologia e persino della Storia.   Una conversazione che avviene dentro la comune cornice – che è ciò che avvicina le due biografie, oltre al fatto di essere stati entrambi insegnanti – della diaspora nera e dei perduranti effetti del colonialismo europeo. LA FATICA DELLE LOTTE Ma quali sono, si chiedono i due all’inizio di questo dialogo, le condizioni di possibilità per le quali questa conversazione sia vero scambio e condivisione e non solo pedagogia, per due intellettuali che hanno svolto per una vita intera il lavoro dell’insegnamento? Da qui emergono aperture e limiti: per l’una la frustrazione di non riuscire ad avere dialoghi per estendere significati e confini del “femminismo”, per l’altro la presa d’atto di essere parte di una generazione che ha smarrito qualsiasi spinta propulsiva, ritrovandosi così ad avere solo interlocutori delle generazioni successive. E non lascia certamente indifferenti leggere che due pensatori così radicali e così vicini ai movimenti emancipazionisti e di liberazione manifestassero già allora il loro disagio per il dilagare del cosiddetto “politicamente corretto”, a partire dall’episodio in cui hooks ricorda di aver detto che “Oprah Winfrey era troppo impegnata a succhiare i cazzi della cultura bianca per poter tirare fuori qualcosa di interessante”. L’espressione molto forte lascia tuttavia trasparire quanto, per entrambi, essere marxisti, essere neri ed essere femministe siano tre condizioni – o assi di identità – che non sempre s’incrociano perché ciascuna delle tre traiettorie comporta esperienze personali e politiche di posizionamento nella società. È stata necessaria una certa ostilità spesso non ri/mediabile perché ciascuna delle tre identità si lasciasse influenzare dalle altre. In un mondo in cui si attacca la cosiddetta cultura “woke” e si scredita la cosiddetta “cancel culture”, ovvero in un mondo in cui il potere bianco maschile e patriarcale prova a mantenere la propria supremazia contro i conflitti portati dalle lotte emancipazioniste, i dialoghi tra hooks e Hall ci aiutano a storicizzare le lotte stesse e fare i conti con la fatica di portare, già in anni ribelli come i Settanta, le istanze del femminismo nero in America o quelle del femminismo tout court nel Centro di Birmingham. Erodere le nicchie di potere accademico e l’accumulazione di “capitale culturale” a scapito di soggettività oppresse, discriminate e razzializzate era e resta una delle questioni cruciali del nostro tempo e questo dialogo è qui a ricordarcelo con tutto il portato biografico e teorico dei due protagonisti. ANDAR VIA DI “CASA”, ROMPERE IL CONFINAMENTO I due intellettuali insistono su quanto costi fatica e quanto fondamentale sia per il lavoro (e il lavorio) critico la capacità di lasciarsi la “casa” alle spalle: la casa reale (il luogo d’origine) per l’intellettuale diasporico e diasporica variamente dislocati, ma anche metaforicamente quella casa come luogo delle certezze e delle idee cristallizzate, custodite da un padrone di solito maschio, bianco, di mezza età. Il ritorno a quest’ultima casa è però impossibile se non il frutto di idealizzazioni che guardano nostalgicamente e romanticamente al passato. Una nostalgia presa di mira decisamente proprio dal femminismo e dalla critica della “razza”. E dunque, occorre decostruire concetti cristallizzati come la mascolinità, la famiglia, la “mente etero” (come la chiamava Monique Wittig), l’essere donna o lesbica bianca o nera, l’essere neri in un mondo pervicacemente a misura dei bianchi e del loro persistente privilegio. Questa conversazione rimette al centro – proprio qui e ora – un’emergenza che avremmo voluto fosse superata e lo fa senza temere mai di attraversare insolubili contraddizioni. Sostiene bell hooks: > non sono così convinta che l’idea di famiglia costituisca necessariamente un > sito conservatore e reazionario. Il problema sta nella nostra incapacità di > estendere il concetto. In sé per sé la famiglia rimane un luogo di > autodeterminazione. Il motivo per cui Harriet Tubman decide di aprire una > scuola dentro casa, in soggiorno, per cui gran parte dell’attivismo per i > diritti civili prende avvio da un soggiorno o da una cucina, è che alla fine > si tratta di spazi in cui le persone hanno un certo tipo di controllo. Se > voglio comprendere cosa siano lo spazio domestico e la famiglia, la domanda > che mi pongo è perché mai una visione della famiglia così conservatrice abbia > finito per prevalere. A ben vedere, per entrambi si trattava di criticare anche un certo “essenzialismo nero” che, a un certo punto della traiettoria politica degli intellettuali neri, ha portato ad inquadrare tutto solo all’interno di una cornice “afrocentrica”. “Il senso di essere intellettuali sta nell’essere ambasciatrici del mondo” sostiene hooks, l’idea insomma secondo la quale coloro che pensano si fanno mondo e che oggi segna insieme una frattura e un orizzonte dinanzi al dilagare di nazionalismi, neofascismi muri, segregazioni e territori perimetrati scambiati per identità. “Rompere il confinamento” di una politica essenzialista, ribatte Hall. Attenzione però a scambiare il radicalismo dei due intellettuali come un approccio serioso e severo alle questioni affrontate: per entrambi l’apertura al gioco, all’umorismo e all’ironia è una prospettiva necessaria la cui assenza rende il mondo accademico un luogo cupo oltre che territorio di replicazione dell’idea di autorità patriarcale. “Il punto è esattamente questo” dice Hall, “la mancanza di una qualche visione ironica di sé […] conserva la politica patriarcale”. La centralità delle figure paterne, o il paradigma patriarcale in generale – dominio maschile incontrastabile anche a livello simbolico – e il nazionalismo hanno proprio questo in comune: l’assenza di gioco e autoironia. E che cos’è stato, del resto, lo scontro tutto maschile e tossico tra Trump, Zelensky e J.D. Vance nello studio ovale della Casa bianca se non uno scontro tra maschi del tutto privi di (auto)ironia se non esclusivamente virata verso l’umiliazione dell’interlocutore? IL DESIDERIO, TRA IMBRIGLIAMENTI E LIBERAZIONI Certo, non basta la sola critica del dominio. È necessaria una politica attiva dell’identità che, inevitabilmente, passa attraverso il corpo: desiderio, potere, sapere, rivendicazione e apertura sono gli assi che ci attraversano in un continuo gioco di posizionamento tra imbrigliamenti e liberazioni. Guai a giudicare con il metro di una presunta consequenzialità logica le avventure dell’identità; hooks, infatti, riporta un episodio piuttosto significativo: > Pochissimo tempo fa una ragazza bianca britannica è venuta a parlare con me, > dicendomi che aveva fatto coming out al corteo del gay pride, al che ha > aggiunto: “Dopo averlo fatto ho scopato con diversi uomini neri, e sto > cercando di capire cosa significa il mio lesbismo, cosa significa che dopo il > coming out io stia facendo tutte queste nuove esperienze. > > […] In qualche modo rivendicare il proprio lesbismo è un atto di > rivendicazione della propria agentività sessuale a tal punto che dopo averla > rivendicata con più consapevolezza questa ragazza ha potuto ripartire da > quelle premesse per andare oltre.” Dunque, dopo aver rivendicato la propria “agentività sessuale” si può “andare oltre”. E similmente produrre vigilanza critica, elaborazione e consapevolezza genera inquietudine e irrequietezza: le soggettività radicali devono, dice hooks, “immaginare narrazioni multiformi, modelli multiformi” senza potersi mai accontentare di un’“unica concezione”. Contestare tradizioni e idee cristallizzate e/o date per scontate è un progetto esistenziale oltre che politico, nel segno di desideri necessariamente molteplici e in ogni ambito della vita, rischiando di continuo il fallimento. Fallimento e sconfitta sono, del resto, due dei grandi temi che aleggiano – talvolta con sfumature di frustrazione e malinconia – su questo dialogo: le malattie prodotte dal colonialismo, dalla diaspora e dal razzismo non trovano quasi mai soluzione né consolazione nella terapia psicanalitica, comunque spesso appannaggio delle sole classi privilegiate e bianche. Rovesciare sistemi di oppressione e segregazione secolari e perseguire il soddisfacimento di desideri molteplici non è indolore. Malinconicamente, in chiusura, la conversazione prende atto che, dopo la caduta del Muro nel 1989, “il liberalismo è diventato l’unico linguaggio politico che abbia una qualche validazione”, dice Hall. Si tratta di un orizzonte monologico, quello che alcuni anni dopo Mark Fisher avrebbe chiamato Realismo capitalista (Capitalist Realism: Is There No Alternative?, 2009) e che sembra non lasciare più spazio a idee di futuro che prevedano il sovvertimento del capitalismo che, appunto, si manifesterebbe nella cristallizzazione acritica di privilegio di classe sociale, razza e genere sessuale. Davanti a questo, hooks solleva la necessità di “un certo tipo di solidarietà diasporica […] per la nostra sopravvivenza” provando a portare in ambito maggioritario (“mainstream”) le proprie istanze che rischiano, viceversa, di restare confinate in uno sterile radicalismo minoritario. A conferma dell’ottimo lavoro culturale di Tamu edizioni – che con la vicenda frammentaria eppure notevole degli Studi culturali in Italia ha un legame indissolubile, come quello che esiste tra i semi e la pianta –, questo è un libro bellissimo sin dalla copertina (design e grafica) e dalla attentissima traduzione fino alla dolente introduzione di Paul Gilroy anche se, proprio a dispetto delle idee di quest’ultimo secondo il quale sarebbe “sempre più complicato” dare “voce a modi alternativi e dissidenti di vivere e pensare”, questo libro merita di finire tra le mani di veri agitatori e agitatrici contemporanee non inclini alle passioni tristi ma aperti alla (auto)critica e alla radicalità, oggi. -------------------------------------------------------------------------------- bell hooks, Stuart Hall, Improvvisazioni funk. Un dialogo contemplativo, tr. di Emanuele Giammarco, Tamu edizioni, pp. 192, euro 15,00 stampa, euro 7,99 ebook L'articolo Rompere i confinamenti, immaginare narrazioni multiformi proviene da Pulp Magazine.