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Il riflesso di Kafka
«Versioni», versions nel titolo originale, è termine quanto mai utile per introdurci al tema di questo saggio narrativo di Maïa Hruska su Kafka  (Dieci versioni di Kafka, tr. Francesco Peri, pp. 192, euro 18,00 Mondadori). Dieci versioni di altrettanti traduttori che nella prima metà del Novecento si sono cimentati con lo scrittore ceco allora sconosciuto ai più. Traduzioni da una lingua, il tedesco di Kafka, in un’altra. Nell’ordine: l’inglese di Eugene Jolas, lo spagnolo di Borges, il rumeno di Paul Celan, l’yiddish di Melech Ravith, l’italiano di Primo Levi, il francese di Alexandre Vialatte, il polacco di Bruno Schulz, l’ebraico di Yitzhak Shenhar, il ceco di Milena Jesenská, anonimi invece i primi traduttori russi. Accomunati, i più, dall’esperienza diretta della Shoah, tutti dall’aver attraversato gli orrori del secolo breve e le sue atrocità. Verrebbe da dire: compagni di un viaggio al termine della notte. Un altro tempo e un altro mondo. Tutti, infine, pienamente consapevoli di “cosa vuol dire trasferire una lingua in un altra“. Un Kafka di copertina di Andy Warhol chiarisce meglio la portata dell’operazione: non un Kafka a tutto tondo, à la Scholem per intenderci, assimilato alla tradizione talmudica, o à la Cacciari, di un Kafka leibniziano. No, con le parole dell’Autrice, un Kafka riflesso “nel riverbero dei suoi primi traduttori” ciascuno dei quali lo ha interpretato a modo suo, proiettandoci dentro un po’ di sé. Il che significa che ognuna di queste biografie ha incrociato almeno in un punto quella di Kafka: un ritrovato pokoj – “[…]quel luogo fisico o psichico nel quale aspiriamo a ritirarci per ritrovare la profondità e la distanza critica, lontano dal chiasso del mondo” – nel caso di Jolas, l’amore per la letteratura in quello di Borges, l’yiddish con Ravitch, la morte con Violatte, e via di questo passo. Insomma, una forte attrazione non dissimile da quelle che Goethe, che Kafka leggeva in modo assiduo, chiamava le «affinità elettive». La stessa Autrice, di famiglia ceca e la cui nonna si chiamava, guarda un po’, Ludmilla Kafka, ci confessa di esserne affetta. Sarebbe stata questa risonanza personale a decidere della qualità delle traduzioni. Che non possono essere per ciò stesso fedeli all’originale. Ne era convinto il Borges traduttore il quale aborriva le traduzioni-calco che farebbero sparire l’originale. Meglio la sfasatura, pensava, meglio lo scarto e quel certo «non so che», altrimenti, a renderlo troppo perfetto, l’originale smette di esistere. Eppoi, quel «non so che cosa» non è forse il cuore stesso del reale? Non ne era convinto l’editore di Vialatte, Gallimard, che affida la revisione e la rettifica delle sue traduzioni kafkiane a un professore della Sorbona. Invece ne era convinto Calvino che in veste di redattore dell’Einaudi giudicò troppo letterale la traduzione de Il processo allora in circolazione. Solo Levi, pensava, sarebbe stato capace di rendere con esattezza il tono kafkiano. Di traduzione fedele e infedele aveva parlato Walter Benjamin (Il compito del traduttore in Angelus Novus, Einaudi, 1982), lettore scrupoloso di Kafka e presenza discreta del saggio. La contrapposizione tiene, questa la sua tesi, “finché la traduzione pretende di servire al lettore”. Tutto lascia pensare che nel loro vis-à-vis con Kafka i nostri traduttori avessero in mente non un pubblico di lettori ma solo se stessi. Alcuni, si diceva, erano ebrei sopravvissuti ai campi o costretti a un esilio forzato e come Kafka scrittori. Sensibili al loro essere ebrei, chi meglio di Josef K. de Il processo o K. de Il castello o Karl Rossmann di America avrebbe potuto descrivere la tragedia della loro impotenza in tutti quei terribili anni? Vladimir Jankélévitch ne La coscienza ebraica (La Giuntina, 1995) parla di “una alterità costituzionale” propria dell’ebreo”, di “non essere mai assolutamente presente ma di essere sempre assente”, “due volte assente da se stesso”. L’inafferrabilità di Kafka – Kafka rimane per sempre inafferrabile, scrive la Huskra – affligge anche i suoi traduttori che l’esilio ha precipitato “al tempo stesso nell’estraneo e nel banale condannandoli a portare il viso di sempre, ma indossando il nome di un altro”. Letteralmente una metamorfosi a rovescio. Che la loro vita sia trascorsa anche in divergente accordo con quella di Kafka non deve allora stupire. Si prenda la lingua. Germanofoni come Kafka sono in particolare Celan e Milena Jesenská, letterato yiddishofono è Ravitch e sappiamo quanto Kafka sentisse lo yiddish una lingua al tempo stesso intima e lontana, del tedesco dei campi si serve Levi per la sua traduzione de Il processo mentre per il ceco Kafka scrivere in tedesco significava appropriarsi «di un possesso altrui che non si è conquistato, ma rubato con un gesto (relativamente) distratto e che rimane possesso altrui». Un tedesco impeccabile, di cancelleria, nella sua essenzialità quasi un altro scrivere, il suo, per qualcuno addirittura un “linguaggio di carta o artificiale”1. Pur tuttavia, necessario. Anche nell’intimità. Vuole che Milena gli scriva in ceco ma lui risponde nel suo tedesco. Al pari dei suoi traduttori, uno straniero nella propria lingua. Ma il nostro saggio narrativo riserva qualche sorpresa in più. Chi sono questi traduttori? Alcuni nomi ci sono noti perché di loro abbiamo letto qualcosa, ma gli altri? Ad esempio, chi erano Eugene Jolas, Melech Ravitch, Alexandre Vialatte? Dei noti e dei meno noti la Hruska riesce a tracciare un profilo che nulla concede alla secchezza delle biografie di seconda copertina. La modalità del suo procedere ricorda quella dei macchiaioli in pittura. Piccoli ma significativi episodi di vita vissuta, piccoli dettagli a disegnare un destino scritto da altri, subito stoicamente. Ma questo è Eugene Jolas? È questo, Melech Ravitch? Alexandre Vialatte … Yitzhak Shenhar? Siccome tutti questi destini alludono sapientemente a quello di Kafka di cui sono di fatto un riverbero, la domanda riguarda anche il nostro. Ma proprio questo è Kafka?2 Posseduto dal demone della scrittura, un po’ introverso, sensibile al comico, riservato in amore? Sì, in questi piccoli frammenti, abbiamo qualche difficoltà a riconoscerlo. Nei panni di conferenziere, ad esempio. Lui così schivo che “organizza nel municipio del suo quartiere una serata dedicata alla lingua yiddish”, sale in cattedra e riesce “a turbare il pubblico in sala” oppure, nel mentre sorseggia un caffè “sotto i lampadari di cristallo del caffè Arco”, cercare furtivamente lo sguardo della giovane Milena… 1 G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, 1996, p. 30 2. Ovvio il riferimento a R. Stach, Questo è Kafka?, Adelphi, 2016   L'articolo Il riflesso di Kafka proviene da Pulp Magazine.
Alla ricerca della mortalità
Pare sia stato durante le riprese di John Wick 2, e prima di girare Matrix Resurrections, che Keanu Reeves abbia cominciato a riflettere sull’idea di mortalità e, di conseguenza, sul personaggio del Berserker, un guerriero vissuto per 80.000 anni, passato attraverso innumerevoli cicli di morte e rinascita. In BRZRKR, il graphic novel illustrato da Ron Garney, scritto da  Matt Kindt e dello stesso Keanu Reeves, il protagonista Unute, detto “B.“, è forte come Hulk ma con le sembianze dell’attore hollywoodiano.  Un fattore rigenerante alla Wolverine rende il suo corpo gloriosamente indifferente alle armi convenzionali. Assorbito dalla trance azzurrognola che sopravviene nel cuore dell’azione – qui indicata con il termine riastrid  preso in prestito dalla mitologia irlandese – può capitare però faccia a pezzi tanto i nemici quanto gli amici abbastanza imprudenti da entrare nel suo campo d’azione, con conseguenze poco gradevoli per lo spirito del reparto.  Nella nostra epoca BRZRKR collabora infatti con un’agenzia governativa USA, in cambio del lavoro sporco che svolge al seguito della  solita unità speciale super segreta conta di ricavare informazioni sulle proprie origini. Fin qui il fumetto, che, per inciso, giunto al dodicesimo volume si è rivelato un successo commerciale sfacciato ma si conferma adesso anche la piattaforma di una strategia transmediale più articolata. Presto dovrebbero infatti vedere la luce un live prodotto da Netflix (nessuna release date è al momento disponibile), presumibilmente interpretato da Reeves stesso,  e una serie animata. In tutto questo gli è riuscito anche il “colpaccio” di coinvolgere nel progetto China Miéville, l’autore che ai nostri giorni ha praticamente ridefinito il canone weird della fiction speculativa, per scrivere un romanzo ispirato all’universo di  BRZRKR. Esito ancora meno scontato, dato che il Maestro da almeno 10 anni non pubblica un nuovo romanzo per dedicarsi a tempo pieno ai saggi su Marx e la rivoluzione russa. Perché vedesse la luce Il libro dell’altrove (Minimum Fax, pp. 421, €20) – questo il titolo in uscita il 28 novembre anche in Italia – Reeves ha dovuto prestare i suoi “giocattoli” allo scrittore inglese quasi senza condizione,  lasciandogli praticamente carta bianca su tutto il resto. Il risultato è un tie-in anomalo e autorale,  con pochi o nessun precedente, che un anno fà,  tra le altre cose,  ha diviso anche il mondo letterario anglosassone, tra l’entusiasmo dell’ala nerd e lo shock della componente più ammodo. Nelle mani di Miéville,  B. si trasforma infatti un iperoggetto vivente, non semplicemente un efferato semidio sanguinario ma un prodigioso “Osservatore della parabola umana” che,  avendo fatto slalom tra le stagioni del neolitico, in singolare sintonia con un antropologo anarchico come David Graeber, compatisce la nostra auto narrazione come civiltà occidentale: “Vi ho già detto che la storia come l’ha raccontate voi è una stronzata. L’ignoranza del paleolitico e poi – schioccò le dita – la rivoluzione del neolitico! Poi fate passare qualche migliaio di anni e puff arriva la scrittura e finalmente comincia la festa.” Scosse la testa. “ve l’ho detto, la storia ha fatto su e giù moltissime volte.” Nella sua interminabile esistenza, Unute – che a tempo perso ha collezionato 17 lauree,  imparando più lingue morte che  parlate – ha incontrato personalmente Marx, interpretato L’ultimo nastro di Krapp sotto gli occhi di Samuel Beckett, frequentato il poeta polacco Boleslaw Lesmian. Ma, soprattutto, può vantare l’amichevole frequentazione di Sigmund Freud e del suo lettino psicanalitico. Secondo la ricercatrice Hannah Zeavin, anzi, il romanzo stesso consisterebbe in una vera e propria “fan fiction freudiana”, dacché nel libro proprio a Herr Doktor spetta la prima e l’ultima parola. Unute, come ribadisce a più riprese nel corso della storia, non desidera affatto morire ma diventare mortale, uscire dal ciclo ”Uccido, muoio, ritorno” in cui è rinchiuso dalla nascita. Freud, il Freud del romanzo, che scambia  inizialmente la storia di B.  per il resoconto dei suoi incubi, confessa di essersi domandato “perché mai l’inconscio tornasse a quella carneficina”. Ed ecco la risposta. Malgrado B. si rifiuti infatti di diventare una metafora (“come se quello che siamo avesse importanza solo a patto che significhi qualcos’altro”)  il suo caso di studio aiuta il Freud immaginario a estrapolare quella che diventerà in seguito la teoria della pulsione di morte (death drive), infliggendo alla coscienza dello scienziato “il primo dei miei due shock sulla via di Damasco, il primo dei due colpi che mandarono in frantumi  tutti i miei paradigmi“. Miéville,  che ha costruito il romanzo su diversi piani temporali, offre numerosi flashback e una ricca galleria di personaggi – l’amico intersessuale, la sposa infelice e risentita, ecc –  destinati a invecchiare e morire in un arco temporale che nella vita del Berserker equivale più o meno a un giorno. Queste rievocazioni contribuiscono ovviamente a “umanizzare” una figura  che i culti dell’antichità (e non solo) hanno adorato o maledetto,  invece,  identificandola con la Morte stessa. D’altro canto, come ha chiarito lo scrittore inglese nelle interviste, “se desideri violenza e inseguimenti in elicottero, li otterrai, perché sarebbe un imbroglio non darteli in un romanzo di BRZRKR“. Il libro dell’altrove, insomma,  non può essere il libro degli imbrogli e non può venir meno alle attese dei fan. Logico che lo scheletro del racconto sia un thriller, con qualche elemento fantasy che, a prescindere dal genere letterario, per quello che so nei romanzi di Mieville non manca praticamente mai.  Un thriller soprannaturale visionario e indubbiamente ambizioso che annoda con un linguaggio sontuoso codici, forme letterarie e – perchè no? –  aspettative e pubblici normalmente discrepanti.  Un romanzo su commissione attorno un killer immortale che, in compagnia di un cinghiale (quasi) altrettanto imperituro, può testimoniare della nostra storia profonda,  fino a rivelarsene un involontario e invisibile protagonista (o, nel gergo dell’agenzia, un “vettore per l’innovazione”). Una storia appassionante, non perfetta,  specie nel raccordo finale, dove, tra un’esplosione e l’altra,  sette millenarie flirtano con scuole psicoanalitiche mentre la CIA, o chi per essa,  affida le sue sorti a un dipartimento delle «Migrazioni di tecnologie e sistemi di credenze nell’antichità».  Una storia, infine, che non disdegna i tropi più noti della narrativa di genere, a cominciare  da un Franken-B assemblato con gli scarti del protagonista, la sua versione collage che diventa la sua nemesi oscena e “mostruosa”.  Ma lo stesso Unute, che desidera sopra ogni cosa diventare un mortale,  e quindi un umano, qualsiasi cosa ciò significhi, non è forse, come ha osservato Miéville, l’ennesima versione di un pinocchio che vuole trasformarsi in un “bambino come tutti gli altri “?  L'articolo Alla ricerca della mortalità proviene da Pulp Magazine.
L’urlo del post punk contro il postmodernismo
Se il punk conobbe il suo apogeo nel 1977, l’anno del Giubileo celebrato nel pieno della crisi economica, il post punk si sviluppò tra l’inverno del malcontento del 1978 e il 1984, svolta epocale nella società inglese per lo sciopero dei minatori che si sarebbe concluso con una decisiva sconfitta della classe operaia. Nel 1978 i fratelli Dave e Robert Wise, ex membri di King Mob, scrissero un opuscolo, The End of Music. Criticando l’ambiente in cui si era mosso anche il loro gruppo, essi accusavano il punk e il reggae di avere sfruttato il malessere giovanile per farne un prodotto di consumo. La parabola dei Sex Pistols, secondo loro, confermava le teorie di Adorno e Horkheimer sull’industria culturale, dimostrando che la musica non aveva più nulla da dire in termini rivoluzionari: “Il nichilismo ulcerante quasi psicotico, che si incontrava ovunque – niente divertimento, niente sentimenti e fantasie selvagge di caos – persino nelle persone più vicine, divenne il linguaggio dei registratori di cassa. La società borghese aveva generato i suoi mostri. Essa li disapprovava nello stesso momento in cui traeva profitto dalle loro malformazioni”, si legge in The End of Music. Contemporaneamente, a Manchester, Tony Wilson, convinto che le influenze del pensiero situazionista che aveva assorbito nei dieci anni precedenti avessero invece ancora molto da dire, fondava il Factory Club e la Factory Records. L’Internazionale situazionista si era sciolta nel 1972, certificando la fine del senso della propria esperienza con la consolazione, per dirla con Debord, che ormai “le nostre idee sono nella testa di tutti”. Nella primavera di quell’anno un evento sembrava dargli ragione. A Saint Louis, in Missouri, venne abbattuto il primo dei trentatré palazzi di cemento alti undici piani che costituivano l’enorme complesso residenziale di Pruitt-Igoe, costruito a metà degli anni Cinquanta dall’architetto Minoru Yamasaki, il quale, proprio negli stessi giorni delle prime demolizioni, festeggiava l’inaugurazione dell’altro progetto per cui diventerà famoso: le Twin Towers di New York. Pruitt-Igoe, Saint Louis Edificato secondo gli ortodossi criteri corbusiani della “città radiosa”, il complesso di Pruitt-Igoe venne fatto saltare in aria su richiesta insistente della maggioranza dei suoi diecimila abitanti, esasperati da condizioni di vita che ritenevano non più sopportabili, visto che il complesso era rapidamente degradato in uno scenario di vandalismo, crimini e delinquenza. Negli anni Venti Le Corbusier aveva ideato la sua dottrina urbanistica secondo il principio “architettura o rivoluzione”, intendendo che occorreva offrire case dignitose alle masse e organizzare la vita urbana in modo da disinnescare i sommovimenti sociali. Trent’anni dopo, quando quella dottrina si diffondeva a Pruitt-Igoe come nel resto del mondo, Chtcheglov aveva rovesciato la questione: “rivoluzione o suicidio”. Nel 1954 i lettristi, futuri situazionisti, a proposito della “città radiosa”, scrivevano: “Ma ai nostri occhi i viaggi terrestri non sono né monotoni né tristi; le leggi sociali non sono inflessibili; le abitudini che occorre attaccare frontalmente devono far posto ad un incessante rinnovamento di meraviglie; e il primo confort che noi auspichiamo sarà l’eliminazione delle idee di questo genere, e delle mosche che le diffondono”. Le demolizioni volute dagli abitanti di Pruitt-Igoe sembravano cominciare a dare loro ragione, ma quella vittoria si rivelò illusoria. Nel 1977 il critico Charles Jencks pubblicava la prima edizione di un saggio destinato a fare storia nel suo settore, The Language of Post-Modern Architecture, nel quale dichiarava che quello dell’abbattimento del primo blocco di Pruitt-Igoe era stato “il giorno in cui l’architettura moderna è morta”: un’importanza epocale immortalata in una suggestiva sequenza del film Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, con la musica di Philip Glass. L’edilizia popolare del modernismo aveva fallito, l’architettura della città poteva liberarsi dal ruolo pedagogico imposto dal funzionalismo del secondo dopoguerra, si doveva trovare un nuovo linguaggio, qualcosa che superasse il moderno. Jencks all’epoca lavorava in Inghilterra, aveva studiato con Banham ed era consapevole, perché lo vedeva con i propri occhi, che, incuranti del fallimento di Pruitt-Igoe, gli urbanisti inglesi continuavano imperterriti a costruire quartieri brutalisti, come certificava l’inaugurazione dei Robin Hood Gardens degli Smithson proprio nel 1972. Nel 1978, mentre Tony Wilson fondava la Factory Records e metteva sotto contratto i Joy Division, uscì Jubilee, un film ideato da Derek Jarman, regista sperimentale e figura centrale della controcultura di quegli anni, e Jordan, già collaboratrice del negozio londinese di Vivienne Westwood e protagonista del film nel ruolo di Amyl Nitrate. Il film venne girato tra le banchine fatiscenti di Butler’s Wharf, nella zona dei Docklands, dove allora Jarman viveva in un magazzino abbandonato, e in altre zone degradate di una Londra spettrale. Il paesaggio rappresentato ha la stessa atmosfera di quella che Savage aveva documentato nella sua deriva a North Kensington; strade ancora danneggiate dalle bombe della guerra, edifici fatiscenti e tutti i segni del declino industriale britannico. In una delle scene più rappresentative del piglio sperimentale alla base del film, per il quale Jarman incoraggiava i giovani attori suoi amici a interpretare spontaneamente la sceneggiatura, il punk Sphinx tiene un sermone sulla miseria della vita plastificata regolamentata dai pianificatori urbani, mentre la telecamera indugia sul panorama punteggiato dei nuovi edifici brutalisti del centro di Londra: > È lì che io e Angel siamo nati. Non ho mai vissuto sotto il quattordice- simo > piano finché non sono stato abbastanza grande da poter scappare. È stato > piuttosto grandioso fino a quattro anni, stavo chiuso da solo con la > televisione tutto il giorno. La prima volta che ho visto dei fiori sono > impazzito. Avevo paura dei denti di leone. Una volta mia nonna ne ha colto uno > e io ho avuto una crisi isterica. Tutto in quel palazzo è regolato dai > pianificatori sociali secondo un minimo comune denominatore. Vista: cemento. > Suono: la televisione. Tatto: la plastica. Le stagioni sono regolate dal > termostato. Una volta all’anno, mamma e papà spolverava- no l’albero di Natale > di plastica e si scambiavano patetici regali. Non sapevo che fossi morto fino > a quindici anni. Non ho mai sperimentato amore o odio. La mia generazione è la > generazione vuota. A questo punto Kid, un altro punk interpretato da un giovane Adam Ant, esplode in una risata che, come ricorda Jarman, va interpretata come una reazione spontanea “alla mia scrittura pedante e forse anche piuttosto ridicola. Era una risata sincera per ciò che avevo scritto, dei luoghi comuni sui casermoni di cemento e tutto il resto”. Il punk incarnava la rabbia contro l’alienazione urbana ma ne respingeva la teorizzazione. “Ma penso”, aggiunge Jarman, “che in seguito le persone siano diventate più consapevoli delle trappole costruite dai quartieri di palazzoni; quando è diventato un tema centrale, hanno iniziato ad abbatterle”. Nei vuoti urbani della crisi industriale Jarman vedeva l’ambientazione visiva ideale per esprimere il disagio della generazione no future. A distanza di tempo, per spiegare lo spirito del film, egli ha paragonato il nichilismo punk inglese di quegli anni con il dada tedesco di Weimar: “In giro c’era un gran disgusto, giusto e comprensibile, verso qualsiasi cosa, disgusto che però non veniva incanalato, e che a suo modo si è ridicolmente trasformato in repressione, con l’Inghilterra di Margaret Thatcher”. Un’altra scena iconica all’inizio del film – girata tra Blackwall Lane e Grenfell Street, una zona di Greenwich oggi rasa al suolo e ricostruita – immortala tre punk appoggiati a un muro di cemento in una strada coperta di rifiuti e macerie, tra un’automobile rovesciata e un uomo intento a derubare due donne inermi sbalzate dall’abitacolo, un caseggiato popolare vittoriano a due piani in completo abbandono e un gasometro. Sul muro di cemento, sopra la testa dei tre, campeggia una scritta tracciata con lo spray: postmodern. L’associazione voluta da Jarman lanciava un messaggio fin troppo chiaro: il postmoderno urbano si esprimeva in un paesaggio apocalittico e in un grido espressionista contro una civiltà al collasso. Tre anni dopo, nel 1981, il governo inglese lanciava il London Docklands Development Corporation, un piano di risanamento che trasformò i magazzini in abitazioni residenziali e locali alla moda, facendone il cuore del rilancio di Londra avvenuto nei decenni successivi e un modello della riqualificazione urbana dell’Occidente postindustriale. Il postmoderno architettonico e urbano annunciato da Jencks si sarebbe evoluto nel compiaciuto pastiche citazionista all’interno di città che naufragavano nelle acque luccicanti della gentrificazione, nei flussi sempre più anestetizzati delle metropoli diffuse e liquide di oggi. Un processo certificato dalla quarta edizione di The Language of Post-Modern Architecture uscita nel 1984, lo stesso anno in cui il critico Fredric Jameson definiva, in un suo importante saggio, il postmodernismo come la “logica culturale del tardo capitalismo”, ovvero una trasformazione radicale dell’esperienza collettiva all’insegna di una compressione che frammenta le esistenze, appiattendo il senso di profondità temporale e negando la percezione di un possibile futuro diverso. In 1984 di Orwell, uno degli slogan del partito recita: “Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”. Con il postmodernismo la distopia dei totalitarismi novecenteschi si dissolveva in quella di un presente eterno e piatto. Nelle prime pagine del saggio, Jameson definisce Il grido di Munch “un’espressione canonica della grande tematica modernista dell’alienazione, dell’anomia, della solitudine, della disgregazione e dell’isolamento sociali, un emblema virtualmente programmatico di quella che un tempo si chiamava età dell’ansia”. Mettendolo in relazione con i soggetti piatti della pop art e di Andy Warhol, egli afferma come, nel postmodernismo, questi sentimenti non siano più adeguati alla percezione collettiva e degni quindi di una rappresentazione: “Si può definire tale mutamento nella dinamica della patologia culturale come una sostituzione del soggetto alienato con il soggetto frammentato”. Ben prima di Warhol, in una lettera indirizzata agli Smithson pochi mesi dopo la mostra This is Tomorrow, Richard Hamilton aveva definito così la pop art: “Popolare, ovvero pensata per un pubblico di massa; transitoria, in quanto soluzione e breve termine; non necessaria, perché verrà facilmente dimenticata; a basso costo, prodotta in serie; rivolta ai giovani; spiritosa; sensuale; che fa solo apparenza; attraente; un grande business”. Un elogio sfrenato della logica culturale del tardo capitalismo di cui il postmodernismo avrebbe raccolto il testimone. In controtendenza rispetto a questa ventennale trasformazione di sensibilità, il post punk ripropose il soggetto alienato – con i suoi corollari di anomia, solitudine, disgregazione sociale – come tema centrale della propria poetica. Incarnando un nuovo urlo espressionista nei confronti del mondo, esso si presentò come un fenomeno di “modernismo popolare”, come lo ha definito Fisher, a ricordarci che il cuore malato del capitalismo rimaneva sempre lo stesso. Prigionieri impossibilitati a fuggire dalle città raggelate dal declino industriale, i giovani post punk introiettarono l’atmosfera dell’ambiente urbano, l’isomorfismo tra cemento armato e capitalismo, facendone il prisma delle loro emozioni e la base della creazione di un nuovo linguaggio. Emarginati dal tramonto della società dei consumi, essi si sentivano fratelli dei loro coetanei che vivevano nei grigi casermoni oltre la cortina di ferro, in quell’eastern bloc, il blocco del Patto di Varsavia, nel quale le rassicurazioni dei comfort e della merce, con le quali i loro padri erano stati blanditi fin dai tempi di This is Tomorrow, non avevano avuto la possibilità di essere tradite. “I fautori della modernità ci hanno insegnato a non fidarci di noi stessi e a non amarci. Tutte quelle storie sulla coscienza individuale, sul dolore solitario. La modernità si basava sulla nevrosi e sull’alienazione. Basta guardare l’arte, l’architettura che hanno espresso. Hanno qualcosa di molto freddo”. Così scriveva Ballard nel suo ultimo romanzo, Regno a venire, uscito cinquant’anni esatti dopo la sua visita a This is Tomorrow e trenta dopo essere stato la principale fonte d’ispirazione per tanti gruppi della scena post punk. “Anziché temere l’alienazione, la gente dovrebbe accettarla. Forse è la chiave per accedere a qualcosa di più interessante. Ecco il messaggio della mia narrativa. Dobbiamo esplorare l’alienazione totale e scoprire cosa nasconde”: questo auspicio di Ballard è una sorta di manifesto del post punk. Se i suoi romanzi erano tesi a metterci in guardia da quella che lui stesso definì la “suburbanizzazione dell’anima”, una peste emotiva figlia dei nuovi paesaggi urbani, il post punk, facendone il proprio autore preferito, incarnò musicalmente molte delle suggestioni contenute nel Ciò in cui credo, un manifesto poetico scritto da Ballard stesso nel 1983: > Credo nel potere che ha l’immaginazione di plasmare il mondo, di liberare la > verità dentro di noi, di cacciare la notte, di incantare le autostrade, di > propiziarci gli uccelli, di assicurarsi la fiducia nei folli. […] Credo nella > morte del domani, nell’esaurirsi del tempo, nella nostra ricerca di un tempo > nuovo, nei sorrisi di cameriere di autostrada e negli occhi stanchi dei > controllori di volo in aeroporti fuori stagione. […] Credo nella non esistenza > del passato, nella morte del futuro, e nelle infinite possibilità del > presente. […] Credo nella morte delle emozioni e nel trionfo > dell’immaginazione. L’apocalisse del post punk. Nelle città ci annoiamo di Leonardo Lippolis in prossima uscita presso Odoya L'articolo L’urlo del post punk contro il postmodernismo proviene da Pulp Magazine.
Giotto / Nel blu dipinto di blu
Giotto abita quella zona della memoria dove teniamo le certezze scolastiche: grande, e fondatore della pittura moderna, è colui che dà corpo alla storia sacra. Ma, a dirla tutta, resta un sapere un po’ polveroso. Poi lo si incontra di nuovo — nella cappella di Padova, alzando gli occhi al blu profondo e terso del cielo, che sembra trattenere la luce più che rifletterla, o anche in una buona riproduzione — e quel deposito di manuali si dissolve: la sua pittura, ferma e necessaria, torna viva, piena di luce e misura. Con accanto un libro come quello di Chiara Frugoni, limpido e preciso, la meraviglia si riattiva: il sapere ridiventa conoscenza. Nel piccolo edificio voluto dal facoltosissimo Enrico Scrovegni all’inizio del Trecento, “la pittura raggiunge una coerenza narrativa e una profondità spirituale mai viste prima” grazie a Giotto e alla “sua visione concreta dell’umano” che “apre una strada nuova alla rappresentazione del sacro”. Non più simbolo lontano, ma incarnazione visibile; non illustrazione, ma narrazione. In Gli affreschi della Cappella Scrovegni a Padova — Einaudi, 2017; ora in edizione economica, bilingue italiano-inglese (pp. 224, euro 14,00) — Chiara Frugoni mette in atto il suo metodo: leggere un affresco come una pagina di storia. Tra le maggiori studiose di francescanesimo, iconografia medievale e cultura figurativa, unisce rigore filologico e chiarezza narrativa; non si limita a spiegare le immagini, le interroga come documenti di fede, potere e linguaggio. La cappella diventa così un laboratorio di significati: la teologia mariana, la costruzione del tempo e della luce, la relazione tra spazio terreno e visione celeste. Tutto concorre a mostrare come Giotto abbia saputo trasformare la pittura in un racconto coerente dell’umano e del divino, pur dentro la cornice della committenza di Enrico Scrovegni, a cui Frugoni restituisce voce e intenzione. Figlio dell’usuraio Rinaldo condannato da Dante all’inferno, con la cappella non cerca l’espiazione ma l’affermazione pubblica. Nella scena del “Giudizio universale” — riprodotta anche sulla copertina del saggio — il cavaliere inginocchiato ai piedi della Vergine offre il modellino della cappella: non un gesto penitente, ma un atto politico e di memoria. Enrico non chiede perdono, chiede di essere ricordato, e si fa ritrarre tra gli eletti, mentre la Vergine, simbolo di carità, accoglie il suo dono. Giotto, Annunciazione (Haltadefinazione.com) Proprio la Vergine annunciata, sull’arco trionfale, è per Frugoni la figura teologica centrale del ciclo. L'”Annunciazione”, interpretata come un momento di incarnazione reale nello spazio e nella luce, trasforma la cappella in un teatro sacro. Ogni 25 marzo, il giorno dell’Annunciazione, un raggio di sole attraversa la finestra e illumina la mano di Maria e il modellino dell’edificio nel “Giudizio universale”: l’arte diventa così liturgia cosmica, un segno tangibile dell’intercessione divina. Ma l’interpretazione che Frugoni dà dell’opera di Giotto è anche una riflessione sull’ambiguità del denaro e del peccato. Nella “Cacciata dei mercanti dal Tempio”, Giotto elimina cambiavalute e monete, una censura evidente voluta dal committente per allontanare da sé l’ombra dell’usura. Nel “Tradimento di Giuda”, invece, Frugoni respinge ogni lettura allegorica: Giuda non è il doppio di Scrovegni, ma l’immagine del male assoluto, posseduto dal demonio. Giotto, Incontro di Gioacchino e Anna (Haltadefinizione.com) Il ciclo comincia però da un altro bacio, di segno opposto: quello tra Gioacchino e Anna alla Porta Aurea, dove la tenerezza diventa teologia. Come scrive Frugoni, “il gesto affettuoso di due anziani sposi diventa il segno dell’Immacolata Concezione, un miracolo che avviene attraverso la dolcezza e non attraverso la carne. È l’inizio di una storia di salvezza che troverà il suo rovescio nel bacio di Giuda: là l’amore che genera, qui il tradimento che distrugge”. Due gesti uguali e contrari, che tengono insieme l’intero ciclo: la nascita e la fine, la promessa e la caduta, l’umano che si apre e quello che si chiude. Giotto, Compianto del Cristo morto (Haltadefinizione.com) Il “Compianto del Cristo morto” rappresenta per Frugoni forse il punto più alto dell’invenzione giottesca. Nella diagonale che taglia la scena — la montagna brulla, l’albero secco, la curva del corpo della Vergine — Giotto inventa una nuova grammatica del dolore: le donne sedute a terra, le mani che stringono il corpo di Cristo, gli angeli che gridano in tutte le posture del dolore e Giovanni che si slancia in avanti con le braccia indietro traducono in gesto e colore una compassione tutta umana. A questo punto, leggendo Frugoni — che ripercorre la cappella scena per scena, quadro per quadro — viene naturale pensare che l’intero ciclo funzioni come una narrazione per immagini continua, non lontana, per struttura, da quella del fumetto. Ogni riquadro procede dal precedente, riprende un gesto, un’emozione, un movimento: il tempo scorre visivamente, senza bisogno di parole. Forse è un po’ eretico pensarci, ma è anche il motivo per cui Giotto mi è sempre piaciuto: mi pare di leggerlo e guardarlo insieme, o forse un miscuglio dei due, come accade nei fumetti. Del resto, penso, Giotto non aggiungeva i balloon solo perché la gente non sapeva leggere! e, a ben vedere, non ce n’era alcun bisogno: ogni scena è così perfettamente composta, priva di superfluo e colma del necessario, che le didascalie sarebbero state ridondanti. E se è vero che Scrovegni e la Chiesa con quella opera volevano affermare il proprio potere e la propria grandezza, resta commovente pensare che la pittura di Giotto fosse comprensibile a chiunque, dotto o analfabeta. La sua chiarezza non esclude, ma include: è una lingua universale, altamente democratica, capace di parlare a tutti, ieri come oggi. La cappella, vista nella sua interezza, è insieme teologia e racconto sequenziale: un Vangelo per immagini in cui lo spazio è tempo e la pittura è scrittura. Frugoni sottolinea anche come in ogni pannello si rifletta la doppia natura di Giotto, architetto e pittore insieme, capace di costruire la profondità come spazio narrativo. La profondità, osserva, non è un espediente prospettico, ma una struttura mentale che tiene insieme architettura reale e finzione pittorica. Nell’“Incontro di Gioacchino e Anna” la città murata non è semplice sfondo: la porta, disegnata in obliquo, crea un passaggio simbolico tra attesa e compimento, nella “Presentazione di Maria al Tempio”, la lunga scalinata che la bambina percorre da sola costruisce lo spazio in verticale e, insieme, il senso spirituale della salita: l’ascesa verso il divino. Nell'”Annunciazione”, l’arco che separa Maria e l’angelo riproduce quello reale della cappella e fa entrare la luce nella scena con la stessa direzione dell’illuminazione naturale. Nel “Compianto” –  come abbiamo visto sopra – la diagonale del monte è insieme elemento architettonico e costruzione emotiva che conduce lo sguardo al corpo di Cristo. In questi esempi Frugoni mostra come Giotto pensi la pittura come un organismo spaziale coerente, dove ogni gesto e ogni architettura concorrono alla narrazione: “l’architettura non fa da cornice, ma da pensiero visivo”. Giotto, Invidia (Haltadefinizione.com) Nel registro inferiore  delle “Virtù e dei Vizi”, Frugoni nota un’assenza eloquente: al posto dell’”Avarizia” compare l’”Invidia”. Non un errore, ma una scelta precisa. Enrico Scrovegni, accusato di vivere di interessi e guadagni illeciti, non vuole che il peccato dell’usura compaia fra i muri che portano il suo nome. Il ciclo parla di lui e del suo tentativo di purificare la memoria familiare. La Cappella Scrovegni non è solo un capolavoro di pittura, ma anche parte della storia di Padova. Frugoni ricostruisce la vicenda ottocentesca della sua salvezza: dopo secoli di abbandono, i Gradenigo volevano demolirla, ma fu salvata dall’intervento del Comune e dei cittadini, fino all’acquisto pubblico del 1880 con un atto di civiltà grazie al quale il capolavoro di Giotto è giunto intatto fino a noi. Chi arriva oggi a Padova resta colpito dal contrasto tra l’esterno anonimo — un edificio tra gli alberi, dentro un giardino pubblico — e la vertigine dell’interno. Si entra dopo la prenotazione obbligatoria, in piccoli gruppi, per un tempo contingentato di contemplazione. Eppure, in quel breve tempo, la misura dello spazio cambia: il blu profondo del soffitto, i volti, i gesti, tutto sembra nuovo e al tempo stesso noto. Forse perché Giotto ci appartiene da sempre. Il suo nome evoca i pastelli dell’infanzia e le immagini del catechismo: un’educazione visiva comune che ci accompagna da bambini. Davanti alla cappella, anche chi è distratto o lontano dalla fede riconosce qualcosa di sé. Le storie di Maria e di Cristo, di Gioacchino e Anna, non parlano solo di teologia ma di nascita, paura, tenerezza, dolore. E forse è anche per questo che la cappella attira centinaia di migliaia di visitatori ogni anno, credenti e non. Di fronte a quella luce e a quella misura, si diventa quasi comprensivi verso l’overturismo: si capisce che tutti, in qualche modo, vogliono partecipare a questa esperienza, sentire per un momento che la bellezza può ancora essere condivisa. Ed è giusto sia così. Leggere Frugoni passo passo, mentre si osservano gli affreschi, è la via più naturale per comprenderli a fondo anche nei particolari miniti e per così dire, fuori quadro. La studiosa restituisce la limpidezza di Giotto: nessuna ridondanza, nessuna enfasi, ma un linguaggio esatto in cui ogni figura e ogni colore sono necessari e insostituibili. Il confronto tra il testo e le immagini diventa un piacere raro, oggi reso possibile anche online grazie alla ricostruzione in altissima definizione nel sito Haltadefinizione – Scrovegni 360° (dove si può esplorare ogni dettaglio del ciclo giottesco). Seguire la guida di Frugoni insieme alla visione delle pitture è un’esperienza incomparabile per chiarezza, rigore e misura: una lezione di metodo e di sguardo che, come gli affreschi stessi, non conosce ridondanza né orpello, ma soltanto necessità. Giotto, Soffitto Cappella Scrovegni, Padova (Haltadefinizione.com) Insomma per dirla tutta quando ho visto la cappella Scrovegni ho constatato che il “blu” era davvero quella roba là: un po’ come quando ho visto le piramidi ed erano proprio a forma di piramide. Effetti collaterali del sussidiario delle elementari. Non ci sono cose al mondo che corrispondano così tanto alle parole del primo libro di lettura. L'articolo Giotto / Nel blu dipinto di blu proviene da Pulp Magazine.
Dal vampiro al freak: compendio per la notte delle streghe
Una nuova collana si unisce alla scuderia weird di Agenzia Alcatraz, o meglio una vecchia e già ben conosciuta testata, La biblioteca di Lovecraft, sempre curata da Jacopo Corazza e Gianluca Venditti e finora distribuita da Arcoiris, si trasferisce e passa dal contesto più generalista della editrice di Salerno a quello più strettamente specialistico dell’altra milanese. Alle nuove uscite, di cui parleremo tra poco, si uniscono le ristampe dei vecchi volumi già pubblicati precedentemente che, a poco a poco, vengono riproposti in una versione aggiornata sia nella grafica che, soprattutto, nei contenuti che includono sempre testi inediti in più, in modo da giustificare il riacquisto anche da parte di chi già possedesse la passata versione Arcoiris. Sono per ora usciti il già best seller, I racconti della Bestia (trad. Luca Baldoni, pp. 170, euro 16,00), raccolta di una scelta di opere di narrativa breve del famigerato Magus britannico Aleister Crowley, di cui già ci siamo occupati, aggiungiamo quindi solo che il lettore troverà in questa nuova edizione due racconti in più rispetto all’altra. Poi il maestro del brivido Algernon Blackwood, il cui bel romanzo per young adults – più fantasy che horror – Jimbo viene anch’esso ripubblicato con l’aggiunta di un racconto breve dal titolo omonimo ma dalla trama molto diversa. Ancora un classico italiano sul vampirismo, Il vampiro. Storia vera di Franco Mistrali, edito nel 1869, che precede di ventotto anni il Dracula di Stoker, e di tre il Carmilla di Le Fanu, una primizia vampirica tutta italiana quindi, a cui sono stati aggiunti in questa nuova versione, una breve nota introduttiva di Magus (leader dei noti gruppi metal ellenici Necromantia e Yoth Iria), le illustrazioni di Michele Carnielli (cantante e chitarrista dei Kröwnn, altro gruppo metal italico) e da un estratto dal romanzo storico Balilla, ovvero la cacciata degli austriaci da Genova (1862), sempre di Mistrali, in cui si testimonia la prematura e precisa conoscenza da parte dell’autore del vampirismo nel folclore balcanico. Infine Freaks di Tod Robbins, un’antologia dei suoi racconti pulp (anche questa addizionata di due in più rispetto alla vecchia) tra cui quello da cui fu tratto il celeberrimo e “maledetto” film omonimo di Tod Browning del 1932, bandito dalla censura in molti Paesi – in Inghilterra per oltre trent’anni – per l’utilizzo di veri freaks come attori; questa edizione include, tra l’altro, le illustrazioni originali delle prime pubblicazioni, e l’introduzione di Harden Harrison (membro fondatore della thrash band texana Rigor Mortis, che a Freaks dedicò un omonimo EP), oltre che una postfazione ad opera del sottoscritto. Fra le nuove uscite invece Il lupo mannaro di Clemence Housman (trad. Gabriele Scalessa, pp.150, euro 16,00), originale presentazione del mito licantropico in chiave femminile, lontano dagli stereotipi cinematografici sui lupi mannari (lune piene e pallottole d’argento…) e con profonda attenzione invece per il folclore, il sottotesto femminista e i richiami biblici che producono un unicum assoluto e irripetibile come ben evidenzia la postfazione di Vera Gheno. Poi ancora Algernon Blackwood con un altro dei suoi romanzi, meno conosciuti e citati dei suoi impareggiabili racconti brevi, La promessa dell’aria (trad. Lucio Besana, pp. 340, euro 19,00), un testo complesso e di non immediata fruizione – ben poca suspense e meno ancora horror – ma ricco di spunti filosofici e di prospettive metafisiche, sorta di romanzo di formazione al contrario che narra il progressivo ritorno di un uomo ormai maturo, dal materialismo della vita adulta alla spiritualità appassionata e spontanea della giovinezza. Infine, forse il volume più appetibile e corposo di tutti, Jumbee: zombie e altri orrori del Voodoo (trad. Francesco Vitellini, Marta Suardi, Gianluca Venditti, pp. 560, euro 25,00), di Henry S. Whitehead – il quarto moschettiere di Weird Tales, lo storico pulp dedicato all’horror, dopo H.P. Lovecraft (di cui fu intimo amico), Robert E. Howard e Clark Ashton Smith – un insolito reverendo della chiesa episcopale in missione nelle isole Vergini dei Caraibi dove si dedicò a studiare il folclore locale e le pratiche voodoo facendone l’oggetto della maggior parte della sua narrativa, raccolta dopo la sua morte in due antologie di cui questa Jumbee è la prima, per la prima volta tradotta integralmente in italiano (la seconda, l’ancor più monumentale West India Lights, sarà pubblicata prossimamente nella collana, forse in due volumi…).  Whitehead e il suo protagonista seriale (e in parte alter ego) Gerald Canevin, sorta di investigatore dell’occulto per diletto e affinità elettiva con il bizzarro ed il sovrannaturale, tracciano un originale e assai interessante percorso nella narrativa di genere dell’epoca, sia nella rappresentazione realistica del mondo coloniale e della négritude, sia nell’utilizzo degli spunti fantastici ed orrorifici, arrivando addirittura ad anticipare, nei racconti più riusciti (e più raccapriccianti) il body horror tanto caro al cinema di Cronenberg: mi riferisco in particolare alle mie due storie preferite dell’antologia, Cassius e Tramonto di un dio. Anche se non appartiene alla collana La biblioteca di Lovecraft ma a Bizarre Off, sempre di Agenzia Alcatraz, colgo l’occasione per ricordare anche un’altra delle ultime e più accattivanti uscite, Ritual (trad. Stefania Renzetti, pp. 288, euro 17,00) di David Pinner, romanzo britannico pubblicato nel 1967 ispirando uno dei più importanti film dell’epoca, The Wicker Man, diretto nel 1973 da Robin Hardy e sceneggiato da Anthony Shaffer, e capostipite del sottogenere tutt’ora fondamentale del folk horror. La storia di David Hanlin, ispettore di polizia di Scotland Yard, inviato in uno sperduto villaggio in Cornovaglia per investigare sulla morte di una ragazzina ritrovata cadavere accanto a una testa di scimmia inchiodata a un albero in maniera bizzarra, come a suggerire l’arcaico rituale di un entroterra rurale pagano dove le regole dell’esistenza quotidiana si piegano ad antichi riti religiosi celati da una coltre di inganno ed omertà. Il film cambia molto della trama del romanzo e anche il protagonista – in questo caso il sergente di polizia Neil Howie, che arriva sull’isola remota di Summerisle per indagare sulla scomparsa, non la morte, di una ragazza – è decisamente diverso. Chi, come me, è molto affezionato al film resta abbastanza spiazzato da queste differenze, dalla ben distinta atmosfera e dal finale cupo ma assai più ambiguo del libro, senza sacrificio umano e senza “uomo di vimini”: per sintetizzare il film è iconico, iconograficamente e simbolicamente troppo meglio documentato, il romanzo risulta invece suggestivo quanto alle psicologie dei personaggi (la dicotomia poliziotto/comunità, manipolato/manipolatore) ma non così eclatante quanto a simbologia e raffigurazione idolatrica neopagana. Resta comunque una lettura seminale e necessaria per comprendere le radici del folk horror.   L'articolo Dal vampiro al freak: compendio per la notte delle streghe proviene da Pulp Magazine.
Tra storia e fumetto: guerra sporca, eroi e poeti
Per millenni e millenni gli esseri umani si sono raccontati storie l’uno con l’altro. Incontrarsi e raccontarsi erano sinonimi, e queste storie erano loro stesse vive, mutavano, crescevano e si riproducevano, generandone altre. Questi racconti nel tempo si sono sedimentati, generando un inconscio speciale, collettivo, dove noi stessi e i personaggi che li abitavano ci siamo trasformati, nel bene e nel male. È solo negli ultimi istanti della nostra vita che questo processo si è accelerato in modo prima inimmaginabile, creando e bruciando intere mitologie sull’altare di Internet nell’arco di poche ore. Questo però non impedisce, se si riesce a resistere all’impetuosa corrente del tempo, di fermarsi e ancora dare spazio a delle storie davanti al fuoco, dove si racconta di eroi e di poeti. COMACCHIO E GARIBALDI Questa primavera è sbocciata una di quelle occasioni. Il comune di Comacchio, in occasione dell’80° Anniversario della Liberazione, ha reso disponibile un’edizione speciale de Un pallido sole primaverile, breve graphic novel pubblicata da Hugo Pratt nel 1992 in cui, attraverso una sua libera reinterpretazione di ciò che accadde negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale nella Valle di Comacchio, vengono raccontati i luoghi, le persone, gli amori.  Questa riedizione, voluta dal Sindaco e dal Comune di Comacchio, oltre alle tavole di Hugo Pratt contiene un saggio di Thomas Harder sulle figure storiche di due personaggi indirettamente abbozzati nel fumetto: Anders Lassen e Thomas Peck Hunter. L’opera di Pratt, pur non raccontando direttamente la storia del maggiore danese (Anders Lassen), si muove negli stessi luoghi e nello stesso periodo in cui il marinaio trovò la morte. È uno straordinario racconto per immagini basato su fatti realmente accaduti nell’aprile 1945, a pochi giorni dalla vittoria, nelle valli di Comacchio, nei luoghi che videro la fuga, un centinaio di anni prima, di Giuseppe Garibaldi e della sua compagna Anita. Il protagonista del fumetto è William (Bill) Fogg, un ufficiale inglese con parenti in Romagna, di formazione socialista e con studi effettuati in Italia, che arriva alla laguna di Comacchio dall’Inghilterra per partecipare insieme ai partigiani italiani a una delle ultime azioni di guerra contro i tedeschi. Anders Frederik Emil Victor Schau Lassen, marinaio danese in forza ai reparti speciali inglesi, rappresenta una delle figure più straordinarie e tragiche delle forze speciali britanniche durante la Seconda Guerra Mondiale. Nato il 22 settembre 1920, è stato l’unico destinatario non-Commonwealth della Victoria Cross durante la Seconda Guerra Mondiale. La sua storia inizia in Danimarca, dove nasce benestante, figlio di proprietari terrieri, e si sviluppa attraverso una serie di operazioni sempre più audaci che lo porteranno dall’Africa occidentale alle isole greche, fino alle valli di Comacchio. Mentre prestava servizio nella marina mercantile danese, Lassen si ritrovò a dover decidere se consegnare la nave ai nazisti oppure ribellarsi. Fuggì, e arrivò nel Regno Unito poco dopo l’inizio della guerra. Si unì ai commando britannici nel 1940, prestando servizio con il Commando n. 62 (noto anche con il nome di Small Scale Raiding Force). La sua prima operazione di rilievo fu quella che lo rese leggendario: l’Operazione Postmaster. L’AFRICA E IAN FLEMING Questa fu condotta da unità britanniche (circa una quarantina di uomini) nel gennaio 1942 in Guinea Equatoriale, nel quadro della battaglia dell’Atlantico della Seconda guerra mondiale. L’azione segreta avvenne nel capoluogo Santa Isabel sull’isola di Fernando Po, all’epoca territorio spagnolo, e quindi formalmente neutrale. Nel porto dell’isola erano presenti tre navi: la Duchessa d’Aosta, un mercantile italiano da 8 500 tonnellate, il Likomba, un grosso rimorchiatore tedesco, e la Bibundi, una chiatta con motore diesel. La Duchessa d’Aosta possedeva una radio funzionante, perciò era considerata una minaccia, dato che poteva fornire ai tedeschi dettagli immediati sulle manovre navali degli Alleati. Uno del commando, l’unico marinaio di professione, il soldato Anders Lassen, fu il primo a salire a bordo della Duchessa d’Aosta. L’operazione fu un successo senza precedenti: le tre navi furono catturate in circa trenta minuti senza perdere nemmeno un uomo. Questa operazione, rimasta a lungo segreta, è tornata di recente alla ribalta grazie al cinema. Il ministero della guerra sporca (The Ministry of Ungentlemanly Warfare) è un film del 2024 diretto da Guy Ritchie. La pellicola è l’adattamento cinematografico del libro Il ministero della guerra sporca. Le unità militari segrete di Churchill dietro le file naziste di Damien Lewis. Il film, disponibile su Prime Video, ripercorre le vicende dell’esercito privato voluto da Churchill per combattere i nazisti, con Anders Lassen interpretato dall’attore Alan Ritchson, mentre Gus March-Phillips da Henry Cavill. Il film, pur basato sulla storia vera dell’Operazione Postmaster, romanza in modo eccessivo i personaggi e gli eventi, ma ha il merito di aver riportato l’attenzione su questi eroi dimenticati. Un dettaglio interessante è che Ian Fleming, all’epoca in quota ai servizi segreti inglesi, fu uno degli organizzatori del team che diede vita all’operazione. Gus March-Phillips, comandante degli incursori, prima della guerra aveva pubblicato tre romanzi, rappresentava in un certo senso, il prototipo dell’ufficiale-intellettuale britannico, ed è stato storicamente una figura centrale nella creazione dei gruppi speciali e del controspionaggio. Probabilmente quest’ultimo fu per Fleming una delle fonti di ispirazione per confluirono nel personaggio di James Bond. Dopo il successo dell’Operazione Postmaster, Lassen ricevette la Military Cross per il suo ruolo nell’operazione, ma – come vedremo – la sua guerra era appena iniziata. Nel febbraio 1943, Anders Lassen fu inviato in Egitto per unirsi a una forza anfibia recentemente costituita, lo Special Boat Squadron. CRETA E PATRICK LEIGH FERMOR La destinazione successiva fu Creta, dove Lassen partecipò a una delle operazioni più significative: l’operazione Albumen, condotta tra il 22 giugno e il 12 luglio 1943. Gli inglesi escogitarono un piano complesso che prevedeva un evento inscenato in cui un individuo deceduto portava una valigetta piena di documenti falsificati che sarebbero caduti nelle mani tedesche. L’obiettivo era ingannare il nemico facendogli credere che il principale sbarco alleato sarebbe avvenuto a Creta o in Sardegna, distogliendo la loro attenzione dalla Sicilia, dove era programmato lo sbarco reale per il 10 luglio 1943. Anders Lassen, accompagnato da 13 compagni, sbarcò a Tripiti sulla costa meridionale di Creta. La squadra si divise poi in tre gruppi, ciascuno con il compito di attaccare tre aeroporti militari tedeschi chiave: Tympaki, Kastelli Pediadas e Heraklion. Furono azioni molto rischiose, ma ebbero successo e Lassen riuscì ad allontanarsi da Creta dopo aver distrutto diversi aerei nazisti. È in questo contesto cretese che probabilmente avvenne un incontro che merita di essere sottolineato: Lassen potrebbe aver incontrato il grande scrittore viaggiatore Patrick Leigh Fermor.  Fermor era a Creta come agente SOE già dal 1942, noto ai cretesi come “Michalis”, mentre Lassen partecipò all’operazione Albumen proprio a Creta nel luglio 1943. Gli inglesi formarono un gran numero di cellule isolate sparse per le montagne, con buone comunicazioni tra loro, e considerando il piccolo mondo delle forze speciali britanniche nel Mediterraneo orientale, sarebbe sorprendente se i due non si fossero mai incontrati, anche solo di passaggio. Inoltre, sembra che almeno due partigiani greci, Kimon Zografakis e Giannis Androulaki, abbiano collaborato con entrambi seppur in operazioni differenti. Sebbene non esistano documenti che attestino un incontro diretto tra i due, la rete delle operazioni SOE a Creta era sufficientemente ristretta da rendere probabile almeno un contatto indiretto. Lassen, da un punto di vista militare era indisciplinato e ribelle, riluttante verso la gerarchia, ma alla prova dei fatti, sul campo, estremamente efficace, Patrick Leigh Fermor invece rappresentava l’altra faccia delle operazioni speciali britanniche: l’intellettuale-avventuriero che aveva fatto del viaggio e della conoscenza delle culture locali la sua missione di vita. Nato a Londra l’11 febbraio 1915, Fermor aveva intrapreso a diciotto anni un leggendario viaggio a piedi attraverso l’Europa, dai Paesi Bassi a Istanbul, partendo l’8 dicembre 1933, poco dopo l’ascesa al potere di Adolf Hitler in Germania, portando con sé solo pochi abiti, The Oxford Book of English Verse, e un volume contenente le Odi di Orazio. La guerra lo trovò quindi perfettamente preparato per operazioni dietro le linee nemiche. Fermor, che parlava greco e tedesco perfettamente, ebbe un ruolo importante dietro le linee della battaglia di Creta, durante la Seconda guerra mondiale. Fu infatti il comandante dell’operazione che portò alla cattura del generale tedesco Heinrich Kreipe. La notte del 26 aprile del 1944, rapirono, travestiti da polizia militare della Wehrmacht, il generale tedesco Heinrich Kreipe. Ne seguì una rocambolesca fuga. L’operazione Kreipe fu un capolavoro di audacia e pianificazione. Il maggiore Patrick L. Fermor e il capitano W. Stanley Moss aspettarono l’auto di Kreipe prima della sua residenza, in un finto posto di blocco. Quando arrivò, chiesero all’autista di fermarsi e di mostrare i documenti. Non appena la macchina si fermò, Fermor aprì la portiera dal lato di Kreipe, lo minacciò con la pistola e lo rinchiuse, legato e imbavagliato, nel bagagliaio della vettura. L’episodio più celebre dell’operazione avvenne quando Kreipe, condotto dal commando fino sul monte Ida, colpito dallo spettacolo dell’alba sulla montagna innevata, recitò ad alta voce la prima strofa dell’ode di Orazio che inizia con Vides ut alta stet nive candidum / Soracte, a cui Fermor rispose citando le restanti strofe. Questa straordinaria avventura è stata tradotta sia in letteratura sia al cinema, prima di tutto nel diario di Moss, I’ll Met by Moonlight (Trad. It.  Brutti incontri al chiaro di luna, Adelphi), pubblicato nel 1950, mentre pochi anni dopo il libro è stato poi adattato in un film con lo stesso titolo (in italiano Colpo di mano a Creta) diretto e prodotto da Michael Powell e Emeric Pressburger. Il film fu interpretato da uno splendido Dirk Bogarde nei panni di Patrick Leigh Fermor, mentre David Oxley era Stanley Moss. Anders Lassen invece, dopo la sua fuga da Creta continuava la sua guerra mortale attraverso il Mediterraneo. Dopo la capitolazione italiana l’8 settembre 1943, le forze britanniche – con l’SBS come elemento di supporto importante – tentarono invano di stabilire il controllo sull’Egeo prima che i tedeschi potessero impossessarsi delle isole, subentrando all’esercito italiano. Il tentativo fallì, ma fino a quando i tedeschi iniziarono finalmente a ritirarsi dalla Grecia nell’autunno del 1944, l’SBS continuò a svolgere un ruolo importante nella guerriglia combattuta dagli inglesi. Lassen si distinse come leader di queste operazioni, che impegnarono considerevoli forze tedesche che altrimenti avrebbero potuto essere impiegate sul fronte orientale o per opporsi agli sbarchi in Normandia. Lassen fu decorato con la Military Cross per le sue azioni a Creta, Santorini e Symi nel 1943. Fu uno dei soli ventiquattro ufficiali a ricevere la MC tre volte durante la Seconda Guerra Mondiale, ma il destino di Lassen si stava già delineando verso il suo epilogo nelle acque italiane, dove la guerra stava volgendo al termine COMACCHIO E PRATT Il maggiore Anders Lassen (a destra) nel 1945, mentre discute dell’imminente raid sul Lago di Comacchio. La fine arrivò nelle valli di Comacchio, negli stessi luoghi che avrebbero ispirato Hugo Pratt mezzo secolo dopo. Accadde nella notte tra l’otto e il nove di aprile, quando il maggiore Anders Lassen dello Special Boat Section, una sottounità dello Special Air Service, aggregato alla 2ª Brigata Commando, guidò un audace assalto contro una serie di postazioni tedesche. A Lassen in particolare fu ordinato di guidare una pattuglia per razziare la sponda nord della laguna. I suoi compiti erano causare il maggior numero di vittime e confusione possibile, dare l’impressione di un grande sbarco e catturare prigionieri. Si trattava, come a Creta, di una operazione per sviare il nemico, far credere che una determinata zona fosse sotto attacco così da indure i tedeschi a ridurre l’attenzione in altri territori. Sotto il fuoco nemico, mosse i suoi uomini in avanti silenziando personalmente tre posizioni nemiche che ospitavano sei mitragliatrici tedesche. Lassen e i suoi uomini furono avvistati da forze molto superiori, e, nonostante fosse ferito più volte, continuò a guidare e ispirare i suoi uomini, prima di soccombere a una raffica di mitragliatrice che lo ferì mortalmente. Poiché la vita dei suoi uomini sarebbe stata messa in pericolo durante la ritirata, rifiutò di essere evacuato dall’area. Per questo ultimo atto di eroismo ricevette la Victoria Cross postuma. La storia di Lassen, dalla Costa d’Oro africana alle valli emiliane, attraverso le isole greche e le operazioni più segrete della guerra, rappresenta l’epitome del coraggio e della dedizione. È una storia che ha affascinato anche Hugo Pratt, il maestro del fumetto d’avventura che proprio in quegli stessi luoghi ha ambientato una delle sue opere. Il 2025 segna un anno particolare per la memoria di Hugo Pratt: il 20 agosto si ricordava il trentennale dalla sua scomparsa ed è stato ricordato con iniziative che hanno dato il via al cosiddetto “triennio prattiano”, un periodo di celebrazioni che si concluderà nel 2027 con il centenario della nascita dell’autore, avvenuta il 15 giugno 1927. Le mostre dedicate al maestro di Corto Maltese si moltiplicano in questi mesi, e sorgono in moltissime città italiane e no: Siena, Roma, Bologna, Milano, Cagliari, Genova, Parigi, Ginevra. L’arte di Pratt continua a esercitare un fascino particolare sul pubblico, proprio perché capace di coniugare avventura, storia e una profonda riflessione sulla condizione umana. La sua capacità di trasformare eventi storici reali in narrazioni universali, come dimostrato in Un pallido sole primaverile, conferma ancora una volta la grandezza di un autore che ha saputo fare del fumetto una forma d’arte elevata. La nuova edizione dell’opera dedicata agli eventi di Comacchio rappresenta quindi non solo un omaggio a quegli eroi dimenticati, ma anche una testimonianza della capacità dell’arte di mantenere viva la memoria storica, trasformandola in qualcosa di eterno e universale. D’altronde, non è difficile riconoscere in un marinaio danese, sradicato e giramondo, i tratti di un altro marinaio, che probabilmente scompare anche lui combattendo la stessa guerra, in Spagna. Lassen conclude eroicamente la sua vita a Comacchio, poco a nord della natia Rimini e poco a sud della adottiva Venezia, davanti a quell’adriatico che riempie le finestre di una casa a Malamocco. L'articolo Tra storia e fumetto: guerra sporca, eroi e poeti proviene da Pulp Magazine.
Lancio di Demetra Digest: l’episodio 1 è ora disponibile!
DEMETRA Digest. Voices on Democratic and Sustainable Food Systems è la rivista video nata per sensibilizzare e promuovere la partecipazione attiva alla transizione verso sistemi alimentari sostenibili.   Guarda tutto il DEMETRA Digest! Per saperne di piu sul progetto di cui Campi Aperti è partner: https://www.qmul.ac.uk/demetra/   L'articolo Lancio di Demetra Digest: l’episodio 1 è ora disponibile! su CampiAperti è stato scritto da tommasot.
Stella 111: il grande romanzo europeo della caduta del Muro
Stella 111, Lutz Seiler, trad. it. Paola Slaviero, Utopia,  pp. 481, euro 22.00 Capita raramente di leggere un romanzo che appare immediatamente come uno spartiacque letterario tra un prima e un dopo. Un romanzo che ne contiene altri cento e che pure mantiene una sua intatta, coesa, potentissima, vena lirica e narrativa. Allora lasciamoci trasportare dalla poetica prosa, è il caso di dirlo, di Lutz Seiler, tra i più rilevanti poeti e romanzieri europei di lingua tedesca, classe 1963, che pubblica Stern 111 nel 2020, ora finalmente anche nella preziosa traduzione di Paola Slaviero, per l’altrettanto preziosa Utopia editore, che non finiremo mai di ringraziare abbastanza. TRIPLO MOVIMENTO ALLA FINE DEL MONDO Siamo intorno al 1989 del crollo del Muro di Berlino e del passaggio ai ‘90 della riunificazione tedesca. Carl Bischoff è un giovane studente universitario, nato il 1963 a Gera (Turingia, Repubblica Democratica Tedesca), come Lutz Seiler, richiamato alla sua piccola casa paterna, dai genitori che vogliono approfittare della caduta della cortina di ferro per abbandonare la Germania (orientale, ma non solo quella!), e fuggire verso occidente, l’Occidente estremo. Il momento storico sembra aver dato alla testa ai suoi genitori, che pure meritano una vita migliore. Il figlio Carl è chiamato a essere la retroguardia, nel nome del padre e della madre che sono l’avanguardia di un mondo a venire, fuggendo dal piccolo mondo antico che hanno operosamente contribuito a edificare e in cui sono rimasti disciplinatamente ingabbiati per tutta la loro vita, fino alla fine di quel mondo. Siamo dinanzi a una sovversione dei rapporti intergenerazionali. Che non può reggere, non può durare. Così Carl prende la mitica Zhiguli del padre – una Fiat 124 prodotta a Togliattigrad – e comincia anch’egli il suo personale viaggio verso ovest. Mentre la radio Stella 111 sarà una meravigliosa madeleine di un tempo incompreso. Ecco il doppio movimento verso occidente che smuove avanguardia e retroguardia. Un doppio movimento che diviene triplo, perché Carl è impegnato anche in una fuga da fermo, una fuga sul posto, un movimento introspettivo, in surplace, sul proprio mutamento esistenziale, affettivo, sociale, in definitiva poetico. Carl sarà uno zhiguliano a Berlino. L’aria della città rende liberi, ci ricorda sempre il motto medieval-weberiano, tanto più nei pressi dell’isola dei musei, al centro di un sottomondo di utopia pirata e muratoria, libera e comunarda. UNO ZHIGULIANO A BERLINO, A BERLINO! Qui di fatto comincia quello che mi sentirei di definire, con una certa dose di azzardo, mi rendo conto, come il Grande Romanzo Europeo del passaggio di secolo e millennio che ancora mancava. O forse il Grande Romanzo di formazione della Generazione X europea, ecco che cos’è Stella 111. Anche se, a rigor di logica, l’Autore è in bilico sulla soglia estrema della generazione precedente, quella dei Boomer. Poi lo si può definire a piacimento come romanzo storico, esistenziale, sociale, politico, urbanistico, d’amore. Tutto questo e molto di più, in una lettura entusiasmante, nella quale mi sono ritrovato, anche dal punto di vista esistenziale. Poiché tra il 1989 e il 1991, come quasi tutti i ventenni europei di quella rivoluzione europea in atto, a ridosso del bicentenario parigino 1789, passammo le nostre estati a Berlino, in quegli scantinati tracimanti di vita, musica, danze, alcool, fumo, soprattutto nella parte orientale. Come l’Assel, dove Carl troverà tutto quello di cui avrà bisogno: uno spazio sociale comune e accogliente, che è rifugio sotterraneo, sottomarino, un pontone tra l’era glaciale e la comune. Diverrà un caffè dei lavoratori, un bar e mescita, l’epicentro di una contro-città liberata, underground, ramificata, abitata dalla vita che ascolta le voci dei morti, seppelliti in una voragine ancora aperta, e che attrae esseri umani liberi e autonomi, dà loro ospitalità, assegna case, difende una solidarietà intergenerazionale. La libertà trova i suoi discepoli, sempre e ovunque, capisci cosa intendo? L’INVINCIBILE TRIPLICE A DELL’AGUERRILLA SOTTERRANEA È l’aguerrilla sotterranea, dell’invincibile triplice A dell’Assel, che poi deriva il suo nome dagli scarafaggi che vi pullulano. Anfang, le fatiche dell’inizio, dell’immaginare ancora una volta Sisifo felice, diremmo noi. Arbeit e la dignità del lavoro, del muratore e di quello letterario, della transizione verso l’esistenza poetica di Carl, un percorso di crescita, maturazione, superamento. L’Aguerrilla che sono gli abitanti, con la bandiera della A cerchiata, dell’azione autonoma evocata dalle radio libere, e accanto quella dei pirati. Ancora oggi, che diviene quella di One Piece con il teschio sorridente e il suo cappello di paglia, della rivoluzione globale della Generazione Z. Eccoci di nuovo qui, nei passaggi intergenerazionali! E l’intermediario verso questa esistenza collettiva di Carl, di nuove amorevoli amicizie è il Pastore Hoffi. Una sorta di pacificato e autorevole leader dell’Assel, che per via del suo poncho fa pensare al Peppino Garibaldi rivoluzionario di tutti i mondi possibili, per la Repubblica universale, al Michail Bakunin dalla anarchica capigliatura ammaliatrice, a un Don Letts, per l’andatura appena molleggiata, come a noi traspare da quella celebre copertina di Super Black Market Clash. Con accanto la sua amata capra Dodo, che ha al collo gli occhiali da saldatore donati da quelli del Tacheles, altro spazio sociale e artistico vicino, e capace tanto di produrre un miracoloso latte setoso, quanto di librarsi, liberarsi in volo, a mezz’aria e oltre. E Hoffi è talmente saggio che dispensa consigli tuttora validi. Le case e gli spazi sociali che la comune gestisce non sono occupati, sono abitati, appartengono a chi li abita. E, avendo letto questo romanzo nell’estate dell’infame sgombero del Leoncavallo di Milano, del Leo, del Leonka, che era già uno Spazio Pubblico Autogestito, mi verrebbe da consigliare di cambiare il nome dei CSOA – Centri Sociali Occupati e Autogestiti – in CASA – Centri Autogestiti Sociali e Abitati – oggi che il problema casa è il problema di queste nostre città da liberare. Giù le mani dalla città. Ancora una volta. Mentre seguiamo Carl perso tra l’amore silente per Ragna, col suo perenne colbacco e i suoi vestiti sovietici, di feltro, così come quello invece esplicitato per la luminosa e ombrosa Effi, fratturata dalla sua irreparabile tragedia di figlia, che per Carl comporterà anche una sorta di divenire padre altrui. Con l’Assel che diviene rifugio per le molte e i molti: naturalmente arrivavano anche relitti alla deriva, avventurieri, spacconi, scavezzacollo, adolescenti scappati di casa e tipi techno, buoni a nulla e fuochi fatui dei cosiddetti nuovi tempi. Facciata esterna del centro sociale Leoncavallo in via Antoine Watteau, 7, 20125 Milano fotografato nel gennaio 2025 da Marmolada48 Leo, Leonka, ti ricordi Fuoco Fatuo? Leo, è questo che siamo (diventati)? (in sottofondo i nostri Massimo Volume degli anni Novanta, sempre). D’altro canto i genitori di Carl si ricongiungono alla loro giovinezza musicale accantonata, sospesa, taciuta. Senza anticipare nulla, forse tutte e tutti finiranno con il concordare con un motto comune che comincia a trasparire: avevamo lo stesso senso del ritmo, direi, era la base. È la base di tutto, Carl. La musica e il ridere. E di musica, cinema, poesia e molto altro tracima questo romanzo, dal Nick Cave con i suoi Bad Seeds di the weeping song a Milva e Fassbinder, dagli amati poeti francesi, Baudelaire e Lautréamont, a Anna Seghers alla luce verde di Gatsby, da Mad Max ai Mutoid, da Sylvia Plath a Gaston Bachelard. Per concludere, se volessimo trovare dei paragoni possibili con questo testo meraviglioso, bisognerebbe abbandonare non solo l’Italia, ma anche il vecchio Continente, e spostarsi ancora una volta oltre Oceano, dalle parti di Jonathan Lethem, non tanto quello della Brooklyn di The Fortress of Solitude, quanto di quella mirabolante accolita di Chronic City, anche lì tra case occupate – abitate, pardon – critici musicali, artisti troppo post-moderni e una comparsata di Werner Herzog che tiene unito il filo contro-culturale euro-atlantico. Per questo servirebbero altre recensioni, altre letture di Stella 111. Le faremo, entrambe. Intanto diffondiamo il verbo di questo romanzo, andandocene in giro a zonzo, ma concentrati, per le nostre città, come sovversivi urbanisti situazionali, ora che sappiamo che al numero 21 della Oranienburger Strasse di Berlino si trova solo una sorta di acquario, svuotato di tutto, anche dei suoi sotterranei. Ma nell’underground l’aguerilla trama per tornare a liberare case, spazi sociali, città, vita in comune. PS: Mi permetto di aggiungere un ringraziamento a Roberta De Marchis che cura l’ufficio stampa anche di Utopia editore e conosco virtualmente da tempo, per avermi messo a conoscenza di questo capolavoro. Per aver pensato a me. Il prezioso, ancora una volta, e faticoso, autonomo, indipendente lavoro editoriale, “lavoro culturale”, necessita di essere riconosciuto, in adeguate forme materiali, che spesso esulano dalle possibilità di noialtri operatori “del settore”, per questo qui ci si limita a quelle immateriali, ancor più quando mette in moto amichevoli risonanze comuni, riallaccia fili dispersi di passioni e ragionamenti condivisi, rintraccia dimenticati sentieri battuti insieme e in definitiva mai interrotti. L'articolo Stella 111: il grande romanzo europeo della caduta del Muro proviene da Pulp Magazine.
E fu così che decisero di rimanere sole! Da Anna Banti a Carrie Bradshaw
>  Donna indipendente valeva a quei tempi come termine scientifico: nome di > bacillo, di nuovo metallo, di nuova cometa, roba insomma aggressiva, > pericolosa. Anche si legava a richiami esotici, nordici, sempre in linea > generale e in astratto; perché venendo alla pratica e nei casi concreti, un > apprezzamento sbrigativo bastava, in Italia, a illuminare il fenomeno. “Quella > matta della Sofia” si usava dire, per esempio, e le parole erano accompagnate > da un crollar di testa.[1] Così in “Sofia o la donna indipendente”, un racconto del 1937/’38, Anna Banti (1895-1985) mette in scena Sofia e due sue amiche che trascorrono l’estate del 1910 in una spiaggia della Versilia, guardate a vista dagli altri bagnanti e forestieri e considerate matte per la loro pretesa di bastare a se stesse e vivere in “mancanza di marito”. Il racconto è inserito nella raccolta intitolata Il coraggio delle donne, uscito nel 1940 (l’anno in cui l’Italia entra in guerra accanto alla Germania) e adesso riedito da Mondadori con la curatela e la postfazione di Daniela Brogi. Altre storie fanno parte della raccolta, storie che grazie alla mirabile e sensibilissima scrittura di Banti, entrano nell’animo di chi legge per restarvi a lungo. Come è per es. per “Vocazioni indistinte”, il cui arco narrativo segue le vicende di una ragazza che non si riconosce nessun talento, è una virtuosa pianista cioè padroneggia un’arte che forse la metterebbe in grado di condurre una vita dignitosa e autonoma, ma non ne porta nessun vanto e ancora meno consapevolezza. Il tratto di Banti, la sottigliezza e delicatezza con la quale racconta le trasformazioni dell’animo della ragazza e la sua perpetua insicurezza, e le contingenze familiari che la costringeranno a fare un matrimonio che sarà la sua rovina, sono pagine che restano dentro e che raccontano le difficoltà di una donna artista, musicista o scrittrice che sia. Ma torniamo a Sofia che si muove su un versante opposto e non rischia un matrimonio tragico. Qui la penna di Banti mantiene un tono vagamente ironico, costeggiando senza cadervi l’amaro del contrasto tra quel temporaneo matriarcato estivo e l’arretratezza e misoginia della società che lo circonda; e ha, oltre alla piacevolezza di lettura, il merito di richiamare l’attenzione su una questione che non ha ancora finito di sprigionare il suo veleno. Perché ancora  siamo lì, a pensare che una donna senza un uomo non ha ragion d’essere e se capita è perché deve esserle successo qualcosa. Che le cose stiano in questo modo, che il patriarcato sia ancora qualcosa che impregna di sé inconscio, immaginario e strutture sociali, malgrado il lavorio di oltre un secolo e l’evoluzione degli spazi delle donne nel mondo (occidentale) contemporaneo, lo dimostra l’ultima puntata della serie TV And just like that che curiosamente, ma guarda un po’, va a insistere proprio su quel tasto. Perché, come scrive Federica Fabbiani sull’ultimo numero di Leggendaria: > Nell’ultima stagione Carrie Bradshaw è una figura profondamente in crisi, > spesso insoddisfatta, sbagliata, incapace di realizzare l’ideale che pure > rappresenta. E’ una donna che si emancipa, sì, ma inciampando. Che racconta il > sesso ma fatica a viverlo con libertà vera. In questa contraddizione > permanente, Carrie diventa un testo culturale stratificato, un prisma > attraverso cui osservare non solo le ambivalenze del femminismo mainstream e > le derive del neoliberismo, ma anche la nostalgia, l’invecchiamento e la paura > di restare fuori dal discorso dominante.[2] Già perché il vero problema è l’irrilevanza sociale che colpisce chi ha superato la stagione dell’ancillarità verso il maschio. Carrie va a pranzo in un ristorante e per la prima volta, dopo le diverse stagioni della serie e della precedente Sex and the City, che mettevano in scena tanti pranzi, tante colazioni e aperitivi in buona compagnia, siede da sola guardando il menù. Non aspetta nessuna e nessuno e questo basta per ritrovarsi davanti a un pupazzo messole lì dalla cameriera intenzionata a consolarla del fatto di essere sola. Scena iconica quella del pranzo con un commensale di stoffa, che dimostra che ancora, ai nostri giorni, tutto è meglio della solitudine, anche un uomo fasullo, un umo finto, di pezza. E che soprattutto senza un uomo devi per forza sentirti una fallita. Ora la zitellaggine è un tema di lungo corso raccontatoci da Valeria Palumbo in “Piuttosto m’affogherei”(Enciclopedia delle donne); in quel testo Palumbo esplicita il suo ragionamento sulle singles dall’antichità ai giorni nostri, spinta da una duplice fascinazione: Le zitelle, però, mi erano rimaste nel cuore. E non solo perché avevo deciso di appartenere alla loro schiera (non sempre con la leggerezza e l’ironia in cui avevo sperato, ma con tenacia). Ma anche perché, occupandomi, da storica e da giornalista, del tema della libertà delle donne, mi ero accorta ben presto che la libertà dall’obbligo di sposarsi era stata una delle grandi conquiste dell’umanità. Non solo delle donne.[3] Questione questa della libertà delle donne che era sentita anche dall’altra parte dell’Atlantico, e ne testimonia una scrittrice come Louise Mary Alcott che esalta, parlo di un articolo del 1868, il nubilato, affermando come la libertà fosse, per molte donne, un marito migliore. Ma siamo negli Stati Uniti e comunque, nei decenni a venire, si susseguiranno le scrittrici che rappresenteranno i guasti di una vita matrimoniale scelta a dispetto delle proprie inclinazioni. Fino a arrivare al racconto di Anna Banti che mette in scena la novità dei primi anni del XX secolo, gli anni del governo Giolitti, che virando a sinistra guardava ai socialisti per un appoggio esterno e che per questo riformava il lavoro di donne e bambini introducendo nuovi limiti di orario (max 12 ore) e di età (non al di sotto dei 12 anni). In quegli anni di apertura a nuove libertà e stili di vita, la novità sottolineata dal racconto di Banti si chiama “la donna indipendente”, una figura che spesso ricopre il ruolo di maestra elementare (che ricordiamo è stato un volano fondamentale per l’emancipazione) e che costituisce una sorta di anello di congiunzione tra il ruolo sottomesso delle donne lungo tutto l’arco dell’ottocento e il risveglio dei primi due decenni del Novecento, un periodo di innovazioni sociali e culturali anche per le donne. Progressi  che saranno poi soffocati dall’avvento del fascismo che auspicherà il rientro delle donne nel focolare domestico attraverso il dimezzamento dei loro salari, il divieto di ingresso nei pubblici uffici e l’istituzione nel 1927 dell’imposta sul celibato; e spingerà sul pedale dell’incremento demografico per cui le donne saranno chiamate a fare molti figli per dare soldati alla patria. La figura della donna indipendente riemergerà in Italia soltanto alla fine della II guerra mondiale, e ne testimonia per esempio il romanzo “Prima e dopo” che Alba de Cespedes pubblica nel 1955. In quelle pagine de Cespedes rivolge lo sguardo soprattutto alle dinamiche interne dell’animo di Irene, la protagonista, una giovane donna che nel dopoguerra rifiuta l’agiatezza borghese e un destino che non lascia spazio alla autorealizzazione, preferendo inseguire invece il sogno di una vita indipendente. Nadia Terranova nella prefazione al romanzo ben descrive la situazione di Irene e i costi emotivi che questa comporta: > la sua condizione reale è la solitudine, quella che paghiamo quando scegliamo > di stare al mondo nel modo che più ci somiglia e meno somiglia alle > aspettative altrui. La paghiamo tutti, ma soprattutto tutte: alle donne è > sempre toccato il prezzo più alto, e Alba de Cespedes l’ha sempre raccontato, > altrove come traguardo, qui come punto di partenza.[4] Come nota giustamente Daniela Brogi, Sofia, Amina, Felicina, Ofelia, Giulia, ossia le personagge attorno alle quale Anna Banti costruisce i racconti de Il coraggio delle donne, non sono “caratteri” e quei testi non sono “ritratti di costume”. Sono spazi di resistenza, tanto più significativi dal momento che Banti attraverso loro scrive una “storia culturale delle donne in quanto categoria soggetta, in senso sistemico, a una “cattiveria sociale” che abita in ogni dettaglio e in ogni momento della vita”[5]. Una storia culturale da cui, Carrie Bradshaw ce lo conferma, non siamo ancora fuori e che ci riguarda direttamente. [1] Anna Banti, Il coraggio delle donne, a cura di Daniela Brogi, Mondadori, 2025, p. 69. [2] Federica Fabbiani, “Essere, oggi, Carrie Bradshaw”, in Leggendaria, Fantastiche. La violenza trasfigurata, n. 173, agosto-settembre 2025, pp. 55-56. [3] Valeria Palumbo, Piuttosto m’affogherei, Enciclopedia delle donne, 2018, pp. 342-343. [4] Nadia Terranova, “Prefazione”, in Alba de Céspedes, Prima e dopo, Cliquot edizioni, 2023. [5] Daniela Brogi, “Una genealogia di donne coraggiose”, in Anna Banti, Il coraggio delle donne, Mondadori 2025, p. 177-197. L'articolo E fu così che decisero di rimanere sole! Da Anna Banti a Carrie Bradshaw proviene da Pulp Magazine.