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E fu così che decisero di rimanere sole! Da Anna Banti a Carrie Bradshaw
>  Donna indipendente valeva a quei tempi come termine scientifico: nome di > bacillo, di nuovo metallo, di nuova cometa, roba insomma aggressiva, > pericolosa. Anche si legava a richiami esotici, nordici, sempre in linea > generale e in astratto; perché venendo alla pratica e nei casi concreti, un > apprezzamento sbrigativo bastava, in Italia, a illuminare il fenomeno. “Quella > matta della Sofia” si usava dire, per esempio, e le parole erano accompagnate > da un crollar di testa.[1] Così in “Sofia o la donna indipendente”, un racconto del 1937/’38, Anna Banti (1895-1985) mette in scena Sofia e due sue amiche che trascorrono l’estate del 1910 in una spiaggia della Versilia, guardate a vista dagli altri bagnanti e forestieri e considerate matte per la loro pretesa di bastare a se stesse e vivere in “mancanza di marito”. Il racconto è inserito nella raccolta intitolata Il coraggio delle donne, uscito nel 1940 (l’anno in cui l’Italia entra in guerra accanto alla Germania) e adesso riedito da Mondadori con la curatela e la postfazione di Daniela Brogi. Altre storie fanno parte della raccolta, storie che grazie alla mirabile e sensibilissima scrittura di Banti, entrano nell’animo di chi legge per restarvi a lungo. Come è per es. per “Vocazioni indistinte”, il cui arco narrativo segue le vicende di una ragazza che non si riconosce nessun talento, è una virtuosa pianista cioè padroneggia un’arte che forse la metterebbe in grado di condurre una vita dignitosa e autonoma, ma non ne porta nessun vanto e ancora meno consapevolezza. Il tratto di Banti, la sottigliezza e delicatezza con la quale racconta le trasformazioni dell’animo della ragazza e la sua perpetua insicurezza, e le contingenze familiari che la costringeranno a fare un matrimonio che sarà la sua rovina, sono pagine che restano dentro e che raccontano le difficoltà di una donna artista, musicista o scrittrice che sia. Ma torniamo a Sofia che si muove su un versante opposto e non rischia un matrimonio tragico. Qui la penna di Banti mantiene un tono vagamente ironico, costeggiando senza cadervi l’amaro del contrasto tra quel temporaneo matriarcato estivo e l’arretratezza e misoginia della società che lo circonda; e ha, oltre alla piacevolezza di lettura, il merito di richiamare l’attenzione su una questione che non ha ancora finito di sprigionare il suo veleno. Perché ancora  siamo lì, a pensare che una donna senza un uomo non ha ragion d’essere e se capita è perché deve esserle successo qualcosa. Che le cose stiano in questo modo, che il patriarcato sia ancora qualcosa che impregna di sé inconscio, immaginario e strutture sociali, malgrado il lavorio di oltre un secolo e l’evoluzione degli spazi delle donne nel mondo (occidentale) contemporaneo, lo dimostra l’ultima puntata della serie TV And just like that che curiosamente, ma guarda un po’, va a insistere proprio su quel tasto. Perché, come scrive Federica Fabbiani sull’ultimo numero di Leggendaria: > Nell’ultima stagione Carrie Bradshaw è una figura profondamente in crisi, > spesso insoddisfatta, sbagliata, incapace di realizzare l’ideale che pure > rappresenta. E’ una donna che si emancipa, sì, ma inciampando. Che racconta il > sesso ma fatica a viverlo con libertà vera. In questa contraddizione > permanente, Carrie diventa un testo culturale stratificato, un prisma > attraverso cui osservare non solo le ambivalenze del femminismo mainstream e > le derive del neoliberismo, ma anche la nostalgia, l’invecchiamento e la paura > di restare fuori dal discorso dominante.[2] Già perché il vero problema è l’irrilevanza sociale che colpisce chi ha superato la stagione dell’ancillarità verso il maschio. Carrie va a pranzo in un ristorante e per la prima volta, dopo le diverse stagioni della serie e della precedente Sex and the City, che mettevano in scena tanti pranzi, tante colazioni e aperitivi in buona compagnia, siede da sola guardando il menù. Non aspetta nessuna e nessuno e questo basta per ritrovarsi davanti a un pupazzo messole lì dalla cameriera intenzionata a consolarla del fatto di essere sola. Scena iconica quella del pranzo con un commensale di stoffa, che dimostra che ancora, ai nostri giorni, tutto è meglio della solitudine, anche un uomo fasullo, un umo finto, di pezza. E che soprattutto senza un uomo devi per forza sentirti una fallita. Ora la zitellaggine è un tema di lungo corso raccontatoci da Valeria Palumbo in “Piuttosto m’affogherei”(Enciclopedia delle donne); in quel testo Palumbo esplicita il suo ragionamento sulle singles dall’antichità ai giorni nostri, spinta da una duplice fascinazione: Le zitelle, però, mi erano rimaste nel cuore. E non solo perché avevo deciso di appartenere alla loro schiera (non sempre con la leggerezza e l’ironia in cui avevo sperato, ma con tenacia). Ma anche perché, occupandomi, da storica e da giornalista, del tema della libertà delle donne, mi ero accorta ben presto che la libertà dall’obbligo di sposarsi era stata una delle grandi conquiste dell’umanità. Non solo delle donne.[3] Questione questa della libertà delle donne che era sentita anche dall’altra parte dell’Atlantico, e ne testimonia una scrittrice come Louise Mary Alcott che esalta, parlo di un articolo del 1868, il nubilato, affermando come la libertà fosse, per molte donne, un marito migliore. Ma siamo negli Stati Uniti e comunque, nei decenni a venire, si susseguiranno le scrittrici che rappresenteranno i guasti di una vita matrimoniale scelta a dispetto delle proprie inclinazioni. Fino a arrivare al racconto di Anna Banti che mette in scena la novità dei primi anni del XX secolo, gli anni del governo Giolitti, che virando a sinistra guardava ai socialisti per un appoggio esterno e che per questo riformava il lavoro di donne e bambini introducendo nuovi limiti di orario (max 12 ore) e di età (non al di sotto dei 12 anni). In quegli anni di apertura a nuove libertà e stili di vita, la novità sottolineata dal racconto di Banti si chiama “la donna indipendente”, una figura che spesso ricopre il ruolo di maestra elementare (che ricordiamo è stato un volano fondamentale per l’emancipazione) e che costituisce una sorta di anello di congiunzione tra il ruolo sottomesso delle donne lungo tutto l’arco dell’ottocento e il risveglio dei primi due decenni del Novecento, un periodo di innovazioni sociali e culturali anche per le donne. Progressi  che saranno poi soffocati dall’avvento del fascismo che auspicherà il rientro delle donne nel focolare domestico attraverso il dimezzamento dei loro salari, il divieto di ingresso nei pubblici uffici e l’istituzione nel 1927 dell’imposta sul celibato; e spingerà sul pedale dell’incremento demografico per cui le donne saranno chiamate a fare molti figli per dare soldati alla patria. La figura della donna indipendente riemergerà in Italia soltanto alla fine della II guerra mondiale, e ne testimonia per esempio il romanzo “Prima e dopo” che Alba de Cespedes pubblica nel 1955. In quelle pagine de Cespedes rivolge lo sguardo soprattutto alle dinamiche interne dell’animo di Irene, la protagonista, una giovane donna che nel dopoguerra rifiuta l’agiatezza borghese e un destino che non lascia spazio alla autorealizzazione, preferendo inseguire invece il sogno di una vita indipendente. Nadia Terranova nella prefazione al romanzo ben descrive la situazione di Irene e i costi emotivi che questa comporta: > la sua condizione reale è la solitudine, quella che paghiamo quando scegliamo > di stare al mondo nel modo che più ci somiglia e meno somiglia alle > aspettative altrui. La paghiamo tutti, ma soprattutto tutte: alle donne è > sempre toccato il prezzo più alto, e Alba de Cespedes l’ha sempre raccontato, > altrove come traguardo, qui come punto di partenza.[4] Come nota giustamente Daniela Brogi, Sofia, Amina, Felicina, Ofelia, Giulia, ossia le personagge attorno alle quale Anna Banti costruisce i racconti de Il coraggio delle donne, non sono “caratteri” e quei testi non sono “ritratti di costume”. Sono spazi di resistenza, tanto più significativi dal momento che Banti attraverso loro scrive una “storia culturale delle donne in quanto categoria soggetta, in senso sistemico, a una “cattiveria sociale” che abita in ogni dettaglio e in ogni momento della vita”[5]. Una storia culturale da cui, Carrie Bradshaw ce lo conferma, non siamo ancora fuori e che ci riguarda direttamente. [1] Anna Banti, Il coraggio delle donne, a cura di Daniela Brogi, Mondadori, 2025, p. 69. [2] Federica Fabbiani, “Essere, oggi, Carrie Bradshaw”, in Leggendaria, Fantastiche. La violenza trasfigurata, n. 173, agosto-settembre 2025, pp. 55-56. [3] Valeria Palumbo, Piuttosto m’affogherei, Enciclopedia delle donne, 2018, pp. 342-343. [4] Nadia Terranova, “Prefazione”, in Alba de Céspedes, Prima e dopo, Cliquot edizioni, 2023. [5] Daniela Brogi, “Una genealogia di donne coraggiose”, in Anna Banti, Il coraggio delle donne, Mondadori 2025, p. 177-197. L'articolo E fu così che decisero di rimanere sole! Da Anna Banti a Carrie Bradshaw proviene da Pulp Magazine.
‘La lunga marcia’ e ‘L’uomo in fuga’ al cinema. Attualità dello Stephen King più politico
In un’America distopica, il Maggiore governa il paese col pugno di ferro. Le squadre, il suo braccio armato, fanno sparire i dissidenti che osano esprimersi a voce troppo alta. La forma di intrattenimento più popolare negli Stati Uniti controllati dal Maggiore è una marcia che ogni anno vede cento ragazzi camminare dal confine con il Canada fino a dove i loro corpi riescono a portarli. Non sono previste pause di alcun tipo fino alla fine della competizione. Chi si ferma riceve un avvertimento. Chi scende sotto la velocità stabilita dal regolamento riceve un avvertimento. Chi commette un’infrazione riceve un avvertimento. Dopo il terzo avvertimento si viene fucilati sul posto dai soldati che seguono i marciatori a bordo dei mezzi corazzati. La partecipazione è facoltativa, il vincitore riceverà tutto quel che desidera per il resto della propria vita. Il premio alletta molti dei ragazzi che partecipano sperando di vincere in qualità di ultimo sopravvissuto. Altri partecipano per ragioni tutte loro. Ciò di cui nessuno si rende conto è della trappola spaventosa in cui si sta andando a cacciare con le proprie mani. In un’altra America non meno distopica e governata da un regime altrettanto autoritario, Ben Richards è un disoccupato senza un soldo la cui moglie si prostituisce per guadagnare qualche soldo per tentare di curare la figlia malata. Per tentare di cambiare il destino della piccola, Ben si reca alla Federazione Giochi, un ente che produce competizioni trasmesse in TV in cui i poveri come lui partecipano a programmi in cui mettono a rischio la propria salute per soldi. Lui non punta ai giochi pericolosi ma fattibili come il Macinadollari. Lui punta alla gara più estrema, quella da cui nessuno finora è uscito vivo. L’uomo in fuga, una caccia all’uomo che frutta al fuggitivo un pozzo di soldi a patto di sopravvivere trenta giorni di fila braccato dall’America intera: dai poliziotti ai cittadini comuni, o peggio ancora dai Cacciatori, una squadra specializzata alla guida dello spietato Evan McCone. L’uomo in fuga non serve solo a intrattenere, aiuta il governo a liberarsi di potenziali sovversivi pericolosi. Ma Ben Richards, con il suo acume e con la sua rabbia dirompente, potrebbe dimostrarsi più pericoloso del previsto.     La lunga marcia, la prima opera scritta (anche se non la prima pubblicata) da Stephen King e L’uomo in fuga fanno parte dei Bachman Books, una serie di libri che il Re scrisse, insieme a Ossessione, Uscita per l’inferno e L’occhio del male, sotto lo pseudonimo di Richard Bachman un po’ per gioco e un po’ per sfida, in sintesi per rendersi conto di quanto il suo nome pesasse realmente nel determinare il successo dei suoi libri e quanto esso fosse dovuto alla loro qualità. Di tutta la sterminata produzione di King, i libri scritti come Bachman sono forse i più politici e fra di essi La lunga marcia e L’uomo in fuga si distinguono per una critica particolarmente dura, diretta e rabbiosa. Proprio in questi mesi è prevista l’uscita nelle sale cinematografiche di due pellicole tratte da queste due opere. Ora, il rapporto fra i libri di King e i loro adattamenti per il grande schermo è come minimo complicato, nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a risultati mediocri a voler essere generosi, eccezion fatta per opere come Shining (1980) di Kubrick, e in tal senso sono ancora i due libri sopra citati a distinguersi. Se l’idea di portare nelle sale cinematografiche La lunga marcia ha infatti parecchi anni e altrettante false partenze sulle spalle, L’uomo in fuga ha generato un adattamento, conosciuto in Italia con il titolo L’implacabile (1987), su cui sarebbe forse meglio soprassedere, un film sci fi d’azione con Schwarzenegger che è pure divertente ma che con il libro di King non ha nulla a che vedere. Al di là del comprensibile hype da parte dei fan del re, fomentato almeno nel caso di La lunga marcia da un paio di trailer che promettono i fochi d’artificio, è interessante come proprio oggi questi due libri così attuali siano finalmente diventati due film e, soprattutto, è interessante capire cosa li rende così inquietantemente contemporanei. Il primo aspetto difficile da non notare è che le due opere sono due modi completamente diversi di raccontare fondamentalmente la stessa storia. La narrazione è la medesima: in un’America controllata da un regime autoritario il protagonista sceglie liberamente di partecipare a un gioco che illude di poter cambiare la propria vita ma che, nella realtà dei fatti, è un tritacarne da cui non è possibile uscire vivi. Quindi, gli elementi fondamentali sono tre: il regime autoritario, il ruolo e le modalità dell’intrattenimento e la chiave di volta, la libera scelta. Partiamo dall’ambientazione. A metterli insieme tutti e due, i world building dei due libri per quanto accennati ci restituiscono una fotografia sinistramente precisa del nostro presente, contando che sono stati pubblicati fra il 1979 e il 1982. Il regime autoritario del Maggiore, in La lunga marcia, è poco più che accennato ma le poche parole con cui è tratteggiato sono di una sintesi efficace che fornisce tutte le informazioni necessarie. C’è la figura carismatica, c’è la repressione del consenso strisciante ma presene, c’è un consenso generalizzato derivante dal culto della personalità. L’uomo in fuga racconta fa forbice fra le classi sociali, con le sue differenze sempre più chiare, accentuate e apertamente giustificate con una borghesia che non fa nemmeno finta di non disprezzarli, i poveri. L’ambientazione qui è più delineata, dickensiana ma in pieno bad trip di quelli pesanti con la gente comune che è tornata ad avere la sussistenza economica e la sopravvivenza tout court come problemi principali dagli esiti niente affatto garantiti. Quanto all’intrattenimento, entrambi i libri raccontano di una nazione che segue assiduamente un gioco al massacro nel senso letterale, basato su una morte violenta in qualche modo catartica e attesa da un pubblico acclamante. Qui si vede la maggior complessità della struttura di L’uomo in fuga: il libro è dinamico, pieno di eventi e di rovesciamenti di fronte rapidi e improvvisi, giocato su una tensione costruita a strappi, a scatti di adrenalina che si alternano a seppur brevi momenti dove il protagonista riesce a riprendere fiato. Il parallelismo con i gladiatori è più scoperto, il ruolo dei media è più invadente e la sete di sangue della folla più urlata per quanto ci sia dello spazio per alleati che aiutano Ben Richards soprattutto come atto di resistenza dettata da un barlume di coscienza di classe, non a caso il consiglio che riceve da uno degli antagonisti è: stai con la tua gente. La lunga marcia, nella sua costruzione maggiormente lineare, costruisce la narrazione su una trappola che all’inizio del romanzo si chiude sui protagonisti e non li lascia più uscire, un meccanismo di tortura lento e inarrestabile da cui le vie d’uscita semplicemente non esistono. Si può solo camminare e morire, anzi, camminare e poi morire. Il ruolo dei media è meno invadente perché il Maggiore è un dittatore vecchio stampo, di quelli che ancora andavano di moda all’epoca per esempio in Sud America, con il loro amore per le piazze e per le parate. Il pubblico qui non guarda il gioco davanti alla TV (anzi, alla tri-vu) come ne L’uomo in fuga, qui le famiglie si sistemano a bordo strada cercando un punto di osservazione ottimale. In entrambi i casi, l’intrattenimento basato sulla sofferenza fisica e sulla morte svolge la fondamentale funzione di collante della società, uno sfogo per persone a cui è stata portata via la possibilità di una vita dignitosa. L’ultimo, drammatico elemento che rende La lunga marcia e L’uomo in fuga è la scelta, o l’illusione della stessa. Nessuno costringe i partecipanti ai giochi a iscriversi. Lo decidono loro, di loro spontanea volontà. O almeno credono. Certo, l’atto di espressione del consenso è deliberato, non estorto, ma nel migliore dei casi sono guidati da una pulsione di morte indotta dal mondo in cui vivono, quando non è direttamente il bisogno a guidare la loro mano alla compilazione dei documenti necessari. Se le motivazioni di Ben Richards sono chiare, ha bisogno dei soldi per le cure di sua figlia, Ray Garraty non lo sa nemmeno perché si è iscritto alla marcia, forse c’è un motivo correlato al fatto che Squadre hanno portato via suo padre, col vizio del bere e di parlare di politica, lasciandolo solo con una madre traumatizzata e spaventata dalla propria ombra. Altri marciatori lo fanno per quella microscopica possibilità di garantire un futuro alle loro famiglie, altri sono semplicemente consapevoli di star compiendo un suicidio. Tutti, in questi due romanzi, scelgono di giocare una partita le cui possibilità di vittoria sono assurdamente basse, ma sono accecati dal premio, dall’incapacità di capire le implicazioni del loro gesto o da una voglia di morire che sa di resa allo stato delle cose. Una scelta libera sul piano formale, un po’ meno nella sostanza. Voler indicare col ditino i parallelismi con l’epoca in cui viviamo sarebbe didascalico, gli elementi sono lì da vedere, l’ironia amara che sta dietro al tempismo che vede La lunga marcia e L’uomo in fuga de film proprio adesso è che forse non esiste un momento storico che queste due opere sono più adatte a rappresentare. L'articolo ‘La lunga marcia’ e ‘L’uomo in fuga’ al cinema. Attualità dello Stephen King più politico proviene da Pulp Magazine.
Da Spoon River a Winesburg: rileggendo Sherwood Anderson
Un modo curioso – ma secondo me efficace – per farsi un’idea della popolarità di un autore nel mondo anglofono è dare un’occhiata alla lunghezza della sua voce su Wikipedia (naturalmente non quella in italiano). Seguendo questo piccolo criterio, si scopre che la voce dedicata a Sherwood Anderson è lunga circa il doppio rispetto a quella del nostro amatissimo Edgar Lee Masters. Non che l’autore dell’Antologia di Spoon River sia trascurato negli Stati Uniti: alcune sue poesie rientrano stabilmente nei programmi scolastici. Tuttavia, la sua notorietà è stata in parte oscurata dal successo di Anderson e della raccolta di racconti Winesburg, Ohio. Eppure i versi di Masters erano usciti già nel 1915, quattro anni prima, e Anderson ne era rimasto così colpito da leggerli senza sosta fino all’ultima pagina. Non sorprende, dunque, che qualcuno abbia visto in Winesburg, Ohio una sorta di versione in prosa di Spoon River. Diciamo subito che i due scrittori appartenevano alla medesima generazione, con Masters più vecchio di Anderson di otto anni – avrebbero potuto essere fratelli. Inoltre venivano dalla stessa area geografica, il Midwest: Anderson dell’Ohio, Masters del Kansas. Erano nati e cresciuti in piccole città di provincia in quello sconfinato territorio pianeggiante un tempo coperto di sterminate foreste, poi abbattute per far posto al granaio degli Stati Uniti. Erano figli di un’America agraria, non ancora industrializzata, che si muoveva col treno o a cavallo, che ricordava ancora il tempo in cui c’era la frontiera, e il Midwest era territorio indiano. Entrambi, nelle loro opere, si concentrano su quella realtà, che tutti e due avevano lasciato per andarsene – dopo varie peripezie – nella grande metropoli, che per loro non era New York bensì Chicago. È la classica storia del ragazzo di paese che va in città in cerca di fortuna; dei due quello che se la cavò meglio fu indubbiamente Anderson, che con Winesburg, Ohio non solo arrivò al successo, ma divenne un modello letterario per la generazione più giovane di scrittori, quella di Hemingway, Faulkner, Crane, e venne elogiato da critici prestigiosi come Mencken, Wilson, Stein. Certo, all’epoca della pubblicazione la raccolta di Masters ebbe un successo commerciale superiore (ottantamila copie vendute in quattro anni), fu apprezzata da Ezra Pound e Carl Sandburg, ma non si può dire che abbia esercitato sui poeti successivi un influsso paragonabile a quello di Anderson sui narratori. Non credo di dover illustrare il contenuto e soprattutto la struttura dell’Antologia di Spoon River; ma siccome da noi Anderson è molto meno conosciuto di Masters, andrà spesa qualche parola sui racconti di Winesburg. Sono 22 racconti, ognuno dei quali ha un diverso protagonista, che viene esplicitato nel sottotitolo: il primo, per esempio, è “Hands – concerning Wing Biddlebaum” (cioè “Mani – riguardante Wing Biddlebaum”). Come nella raccolta di poesie di Masters ciascun componimento dà la parola a un diverso “abitante” del cimitero di Spoon River, in Winesburg, Ohio ogni racconto è incentrato su un abitante (per lo più vivente) della cittadina, e ne rivela la personalità penetrando nella sua interiorità, spesso svelandone segreti che i suoi concittadini ignorano. Questo porta Anderson a toccare temi che nel 1919 erano decisamente scabrosi. Prendiamo per esempio Wing Biddlebaum, che in realtà si chiama Adolph Myers; il nomignolo “Wing” (ali) gli deriva dall’abitudine di muovere freneticamente le mani quando parla, come un uccello che spicca il volo. Wing ha un segreto: era un maestro elementare in una cittadina della Pennsylvania prima di trasferirsi a Winesburg, e i suoi atteggiamenti troppo affettuosi coi suoi alunni (quelle mani che si muovevano sempre e carezzavano) portarono i genitori a sospettare che fosse un pedofilo, al punto di malmenarlo e farlo fuggire. Ripeto: non era un tema facile da toccare all’epoca, e Anderson ci lascia nel dubbio, senza chiarire se Wing fosse semplicemente molto affettuoso o veramente nutrisse un’attrazione morbosa per i suoi scolari. Interessante notare che la pedofilia veniva toccata, in modo assai più esplicito e inequivoco, in un altro racconto, “Un incontro”, incluso nella raccolta joyciana Gente di Dublino, del 1914 – quando si parla del modernismo si tende a evidenziare soprattutto il carattere sperimentale delle opere partorite dal movimento, ma esse erano rivoluzionarie anche per il fatto di andare a toccare argomenti fino ad allora evitati o solamente sottintesi nella letteratura inglese e americana. Non dimentichiamo che Ulisse fu ritenuto per decenni un libro osceno la cui vendita era vietata; non a caso Joyce lo pubblicò a Parigi e non a Londra o New York. Di Winesburg, Ohio è nuova anche la lingua. Ci fu un fitto scambio di lettere tra Anderson e Gertrude Stein, la grande sperimentatrice, e certamente la prosa di questi racconti, pur senza arrivare alla sinteticità cubista di Hemingway (tradita da certe discutibili traduzioni italiane, ma si sta rimediando), è decisamente diversa da quella turgida dell’Ottocento (come la troviamo nelle pagine di Henry James): è lineare, essenziale, scarnificata. Anderson se ne serve per scavare nella psiche dei personaggi, e identificare quell’idea di cui si sono impossessati e che li ha fatti diventare grotteschi. Perché ognuno di essi ha una fissazione, un’ossessione, un desiderio inespresso e spesso frustrato, che è divenuto il centro della loro esistenza; questo viene detto esplicitamente nel capitolo introduttivo, “Il libro del grottesco”, nel quale Anderson rigioca il vecchio topos del manoscritto ritrovato, opera di un vecchio e anonimo scrittore restato inedito. Elizabeth Willard, la protagonista di “Madre”, ha l’ambizione frustrata di diventare un’attrice; in “Solitudine” Enoch Robinson va a New York illudendosi di poter diventare un’artista, senza riuscirvi; nell’ottavo racconto (il più lungo, diviso in quattro parti), “Devozione”, Jesse Bentley si identifica col suo omonimo biblico, padre del futuro re David, e si sforza di fare del figlio un grand’uomo. Queste ambizioni più o meno nascoste quasi sempre segnano la vita di chi ne è preda, e lo conducono al fallimento o all’infelicità – o entrambe le cose. Fa eccezione, tutto sommato, il personaggio ricorrente che in qualche modo tiene insieme i vari racconti, e cioè George Willard, figlio di Elizabeth, che lavora come cronista nel giornale locale. Per via del suo lavoro George è perennemente in giro per Winesburg in cerca del minimo avvenimento da riportare sul quotidiano, e ciò fa sì che compaia in pressoché tutti i racconti; talvolta come figura sullo sfondo, talvolta come interlocutore, o parte in causa. Ricorda un po’ quel Leopold Bloom che gira per Dublino in cerca di inserzionisti nell’Ulisse, e a tutti gli effetti è l’alter ego del suo autore – non a caso nel penultimo racconto, “Sofisticazione”, del quale è protagonista assieme a Helen White, una ragazza con la quale sta flirtando, George giunge a una sorta di maturazione che sembra innescare l’evento cruciale dell’ultimo racconto, “Partenza”, l’unico nel quale il giovane è protagonista, dove si narra il giorno in cui prende il treno per lasciare Winesburg senza poi farvi più ritorno. Un po’ quel che accadde ad Anderson, anche se in chiave assai meno melodrammatica. Lo scrittore, infatti, nel 1912 lasciò la cittadina di Elyria, nell’Ohio, dove possedeva una piccola fabbrica di vernice, dopo un esaurimento nervoso accompagnato da amnesia temporanea (sparì per quattro giorni prima di presentarsi in una farmacia chiedendo di essere identificato); lasciò lavoro e famiglia (moglie e due figli) per trasferirsi a Chicago e intraprendere la carriera di scrittore. Inevitabilmente al centro di questa costellazione di storie c’è l’opposizione tra centro e periferia, tra la piccola cittadina sonnolenta dove non succede niente, e la grande metropoli dove c’è la vita vera. Un tema classico, ma particolarmente rilevante negli Stati Uniti. Cesare Pavese era convinto che la letteratura americana fosse compatibile con la cultura italiana perché entrambe le nazioni erano fatte di paesi e paesoni, senza una Capitale con la maiuscola (come Parigi o Londra) a fare da centro di gravità socioculturale; in realtà la particolarità americana, e in qualche modo anche italiana, è di avere più capitali (da noi, la Roma della politica e la Milano del danaro). Il mondo della piccola città rurale lontana da tutto, esplorato da Anderson, ritornerà in tanti romanzi e racconti statunitensi: basti pensare a Babbitt di Sinclair Lewis, all’opera di Ray Bradbury, che da Winesburg, Ohio prese tanto, ai romanzi di Stephen King; potremmo tranquillamente uscire dalla letteratura stampata e arrivare alla Twin Peaks di David Lynch – la lista è lunga. Quel mondo oggi sembra si stia prendendo la sua rivincita, visto che tanti sostenitori dell’attuale presidente (paradossalmente uomo della metropoli più metropolitana del mondo) provengono da o risiedono in cittadine assai simili alla Winesburg di Anderson, anche se pickup e fuoristrada hanno sostituito i calessi, e al posto del giornale locale ci sono i social media della destra razzista e omofoba. Fors’anche per questo vale la pena di andare a leggere questi racconti, perché da quest’America che non c’è più discende l’America più inquietante che c’è oggi. E in fondo, in questa galleria di casi umani, alcuni dei quali decisamente curiosi, non è escluso che ne incontriate qualcuno che vi somiglia parecchio – se è vero che il microcosmo del Midwest rispecchia il macrocosmo globale, alla fine può anche darsi che tutto il mondo sia Winesburg. Chiudiamo tornando alla considerazione iniziale: Sherwood Anderson più famoso di Edgar Lee Masters in patria, eclissato dall’Antologia di Spoon River da noi. Curioso fenomeno, tenuto conto che Cesare Pavese amava entrambi gli autori, e se non fosse stato per la censura fascista avrebbe fatto tradurre o avrebbe tradotto sicuramente Winesburg, Ohio prima della guerra, come accadde alla raccolta di poesie di Masters. Comunque, come si potrà vedere dalla piccola bibliografia in appendice, già dopo la caduta del Duce usciva la prima traduzione italiana, e nel 1950 Anderson entrava nel catalogo Einaudi. Come mai non giunse allo stato di cult book come Spoon River? La mia ipotesi è che alla fine della fiera la cultura italiana ritenesse sempre la poesia al vertice della gerarchia letteraria; inoltre, la sua somiglianza della raccolta di Masters coll’Antologia greca (alias Antologia palatina) la rendeva accettabile anche ai prof di italiano e latino; mettiamoci anche che i versi di Masters sono decisamente immediati, e che a leggere uno dei componimenti di Spoon River ci si mette meno che a finire un racconto. E poi Masters ha incontrato da noi un eccezionale influencer, un certo De André, che col suo LP Non al denaro non all’amore né al cielo ha fatto diventare quel cimitero del Midwest parte della nostra mappa mentale collettiva. Come dicono gli americani, del tutto misteriose sono le vie di Dio: e misteriose anche le strade che portano un’opera letteraria da un paese all’altro.   Nota bibliografica Mentre il libro di Masters ha avuto sempre lo stesso titolo in italiano, quello di Anderson è uscito in diverse traduzioni diversamente intitolate. Le elenco qui sotto per facilitare la vita a chi, leggendo il mio pezzo, avesse voglia di visitare Winesburg senza allontanarsi da casa. * Piccola città nell’Ohio (Polin, 194-, tr. Orsola Nemi); questa edizione non è datata, ma si può ipotizzare che sia stata stampata tra il 1944 e il 1945, dato che in precedenza la censura fascista scoraggiava le traduzioni della letteratura americana. * Racconti dell’Ohio (Einaudi, 1950, tr. Giuseppe Trevisani), successivamente riedita da Mondadori nel 1958. * I racconti dell’Ohio (Newton Compton, 1992, tr. Marina Fabbri) * Winesburg, Ohio (BCDe, 2012, tr. Giulio Pane) * Racconti dell’Ohio (Theoria, 2024, tr. Jzreel Cassata) * Winesburg, Ohio (Feltrinelli, 2025, tr. Enrico Postiglione) A questi va aggiunta la pionieristica traduzione di un singolo racconto della silloge: * Solitudine (Slavia, 1931, tr. Ada Prospero) L'articolo Da Spoon River a Winesburg: rileggendo Sherwood Anderson proviene da Pulp Magazine.
L’autofiction chiude il cerchio. “Anatomia della battaglia” di Giacomo Sartori
Prima parte Nell’ultima prova di “biologia della letteratura” di Alberto Casadei – per prendere in prestito il titolo di un suo saggio, piuttosto fortunato, del 2018 e applicarlo a un’opera dello stesso autore che non si lascia facilmente perimetrare nelle tassonomie letterarie conosciute – ovvero in Anni ombra (ed. Polidoro, 2025), fa a un certo punto capolino un’entità pronominale ibrida, un “io-lui”. Non è soltanto la manifestazione di una determinata alienazione sociale, ma anche un’allusione iper-consapevole, per quanto da una certa distanza, a un genere letterario che negli ultimi anni ha conosciuto un grande sviluppo, forse ipertrofico, e adesso è probabilmente in una sorta di declino, o di ritirata – analogamente alle dinamiche intradiegetiche della prima persona singolare, nei singoli testi – come l’autofiction. A suggerire questa parabola, o anche ad anticipare una certa chiusura del cerchio, si aggiunge ora la ripubblicazione, dopo vent’anni esatti, di uno dei primi libri italiani ad avere intrattenuto un rapporto, complesso e articolato con la categoria di autofiction, ovvero Anatomia della battaglia (ed. TerraRossa, 2025) di Giacomo Sartori – testo che, peraltro, invoca una declinazione più immediatamente referenziale della biologia citata in apertura. La battaglia citata nel titolo, infatti, è una battaglia vissuta nel corpo dal padre del narratore, contro un tumore maligno; il lessico militare non proviene tanto dall’ormai tristemente nota retorica militare del discorso medico, quanto da una chiara analogia, istituita fin da subito nel testo, tra la malattia del padre e il suo personale culto della guerra, di marca fascista. Come ha rilevato Jacopo Manna in un’acuta recensione pubblicata su Laletteraturaenoi, Anatomia della battaglia «non [è] l’ennesima saga di famiglia: […]. Non una storia di conflitto generazionale […]. Nemmeno un romanzo sugli anni di piombo. […] E tutto sommato nemmeno un Bildungsroman, almeno nel senso usuale del termine», perché, pur condividendo elementi di tutti questi generi e sotto-generi, «[t]ra gli eventi in cui è più evidente l’investimento di energie e risorse da parte dell’autore spicca senz’altro la storia della malattia e morte del padre […]. Anatomia della battaglia è anche la storia di una costruzione di sé che però sceglie di attenersi a ciò che abbiamo di più immediato e di più sfuggente, il nostro corpo appunto». Allo stesso tempo, però, quella di Sartori non è neppure soltanto la biologia di un padre – per ricalcare l’espressione di Magrelli nel titolo della sua fortunata opera einaudiana del 2013 (dove alla biologia si sostituiva, in realtà, la geologia) – ma anche un esempio assai rilevante di autofiction. E non tanto perché, come vorrebbe la vulgata, si tratti di un testo che allarga la dimensione della prima persona singolare, includendo elementi ad essa esterni (in funzione di una loro qualità più chiaramente fictional), ma proprio per il costante, e irrisolto, ondeggiamento della prima persona singolare nei confronti di tali elementi. Un ondeggiamento già esplicitamente descritto come tale, ovvero come «perpetua oscillazione tra autobiografia e fiction», in uno dei primissimi esempi di autofiction mai rivendicati come tali, ovvero Fils (1977) di Serge Doubrovsky, e che torna, in Sartori, con particolare evidenza nei due paratesti di cui è ora corredato Anatomia di una battaglia. Nella nota del 2005, è forse più evidente l’orientamento verso la fiction: «Nelle pagine di questo libro vivono personaggi che possono sembrare persone reali. Essi nascono invece nelle parole che si succedono una dopo l’altra e muoiono nelle parole», e così via, fino a decretarne la qualità onirica: «Sono lì forse per capriccio, o magari per suggerire verità che fatichiamo a penetrare. Come succede nei sogni» (Sartori 2025, p. 264). Nella postfazione del novembre 2024, il movimento sembra essere, à rebours, verso l’io: «Io non avrei dovuto esserci in questo romanzo. E nemmeno un personaggio che per tanti aspetti mi assomiglia», inclusione che poi diventa necessaria come quella degli «esami di coscienza», all’interno di un tormentato processo di assunzione di responsabilità: «era soprattutto la mia vita privata a aver ricevuto le eredità di quell’epoca che i più consideravano ormai lontana, e che io stesso avevo faticato a disseppellire. Quindi parlare di [mio padre] era anche parlare di me e del mio percorso, e riesumare l’origine delle mie scelte di vita» (p. 265). Nella sua recensione per Allegoria, Andrea Inglese definiva una simile oscillazione come «piena realizzazione delle potenzialità conoscitive proprie del genere romanzesco»; pur riconducendola qui alle maglie, spesso larghe o larghissime, dell’autofiction, non si intende di certo sminuirne il grado e la complessità del processo di formalizzazione. Peraltro, quel «non avrei dovuto esserci» della postfazione getta una luce ancora diversa sulle varie dichiarazioni di inettitudine del protagonista, e narratore in prima persona, ad esempio su questa: «Come il solito non ero né da una parte né dall’altra, ero dove non avrei voluto essere» (p. 246). Rispecchiamento che sfiora addirittura la mise en abyme quando il narratore parla del proprio libro, un «romanzo per certi versi autobiografico» (p. 122) in uscita nello stesso periodo dell’agonia del padre. Con ciò, non si vuole sottolineare un preziosismo formale fine a se stesso, o il fatto che tutto si tenga, nella narrazione; al contrario, lettura e scrittura restano sullo sfondo di tutto il testo, venendo di volta in volta trattate con spietata lucidità autocritica come forma di escapismo, battaglia a propria volta persa con la realtà, palliativo. Spietatezza che non di rado sfiora l’autoflagellazione: «ero quello che viene definito un debole, lo sono sempre stato» (p. 10), si legge già nelle prime pagine del libro, dichiarazione seguita da numerose conferme nel resto del libro, che vanno dalla scarsa resistenza a un desiderio sessuale attraversato da ineludibili questioni di potere, nel corso dell’esperienza africana del narratore, alla manifestazione di quella specifica forma di odio che è il lascito introiettato del culto fascista della violenza e della guerra del padre. Ed è proprio in questa eredità scomoda che si delinea più compiutamente la fisionomia del fascismo, e non solo della personalità autoritaria, nella scrittura di Sartori. Più che retorica mussoliniana, fascismo è allora un disciplinamento della persona e, in seconda battuta, della collettività: «comportarsi come un vero fascista, o comunque – quando il fascismo non esisteva più da anni – come la sua nostalgia del fascismo gli faceva credere che bisognasse comportarsi» (p. 156), legittimando quindi il culto della violenza, simboleggiato in primo luogo dal frequente ritorno della «GUERRA». Quest’ultima una delle tante parole scritte in maiuscolo che costellano il testo, con un’enfasi diversa da quella che potrebbe dare il corsivo, e che denota, quindi, un travaso della violenza fascista anche nel linguaggio quotidiano; l’importanza simbolica della guerra, tuttavia, è preminente, laddove impone una serie apparentemente senza fine di comportamenti, mentre agita il fantasma di quel conflitto armato che avrebbe reso impossibile la deviazione da una certa norma. In questo senso, uno dei pilastri del fascismo è l’esaltazione della giovinezza, emblematicamente usata come titolo di una famigerata canzone del ventennio: «il fascismo è sempre stato dalla parte dei giovani e dell’energia vitale» (p. 124). La malattia del padre interviene, da un lato, a rafforzare questo mito della giovinezza e, dall’altro, a scardinarlo; il libro si apre infatti con la decisione del padre di mangiare i prodotti del proprio orto anche durante l’interdizione per la radioattività in fuga dai reattori di Chernobyl – decisione commentata così dal figlio: «Io sono sicuro che se l’è preso mangiando l’insalatina radioattiva e gli altri prodotti contaminati del suo orto, il linfoma» (p. 105). Mostrandosi sprezzante del pericolo, il padre agisce secondo un monolitico dettato vitalista – nutrito peraltro, nei primi anni Novanta, da una generalizzata e qualunquista sfiducia verso il panorama politico e mediatico dell’Italia di Tangentopoli. La narrazione segue poi, con afflato spesso diaristico, il decorso della malattia del padre, assumendo via via sempre di più i toni della Lettera al padre kafkiana; la battaglia contro la morte non esclude nemmeno momenti di resipiscenza autoritaria, o anche fascista, nel caso di un doppio compleanno vissuto, durante la fase finale della malattia come «una celebrazione fascista, un perfetto rito nazifascista» (p. 185). La guerra, evocata con nostalgia per tutti i decenni post-conflitto mondiale, continua così a svolgersi su più livelli, da quello biologico a quello famigliare a quello ideologico-politico, continuando così, letteralmente fino allo stremo, lo stato di guerra civile – secondo la definizione dello storico Claudio Pavone, ormai accolta nella storiografia italiana della seconda guerra mondiale – inaugurato dall’insorgere della Resistenza. Due capitoli di importanza decisiva, nell’economia del libro, si hanno tuttavia in precedenza, con l’adesione da parte del figlio e narratore alla lotta armata di ispirazione comunista, prima, e con il lavoro di cooperazione in un paese africano: meritano trattazione separata, nella seconda parte di questo intervento, poiché completano il quadro di storia dei generi – tra autofiction e “nostalgia dell’azione”, secondo la fortunata definizione coniata da Gianluigi Simonetti per la “fortuna della lotta armata nella narrativa italiana degli anni Zero” – in cui si è inserita, e torna ora a inserirsi, Anatomia della battaglia. Seconda parte Nella molteplice battaglia “anatomizzata” da Sartori, riveste un’importanza fondamentale il travaso del culto della violenza – nella sua forma forse più semplice e immediata, dell’odio – dalle nostalgie di fascismo del padre alla lotta armata del figlio. Quest’ultima è di segno politicamente contrapposto, ma non “opposto”, per non cedere a quella dicotomia liberal degli “opposti stremi” su cui nemmeno il testo, a dire il vero, si adagia mai del tutto. Come sottolinea anche Simonetti in questo importante saggio di qualche anno fa, nel libro di Sartori è possibile ritrovare anche le «tracce di una riflessione sui legami profondi tra l’eredità della Resistenza e i “compagni che sbagliano”, e tra questi e il cuore del Movimento» – aspetto che l’accomuna a testi, per altri versi dissimili, come Tuo figlio (2004) di Gian Mario Villalta e Piove all’insù (2006) di Luca Rastello. Sartori, in particolare, perviene a una critica serrata dell’antifascismo post-bellico più salottiero e opportunista (come in quest’asserzione indubbiamente fondata, benché utilizzata spesso, e spesso da destra, come cliché: «Prima erano quasi tutti fascisti convinti, adesso invece sono altrettanto sfegatatamente antifascisti», p. 85): una sorta di moto delusivo e reattivo, per il narratore, che sembra collocarsi all’origine della sua adesione alla lotta armata almeno tanto quanto il rapporto con il padre e le sue nostalgie fasciste. Naturalmente, l’impresa armata, per quanto porti con sé la violenza dell’astrazione, non è soltanto una conseguenza dell’analisi politica, rivelandosi un’esperienza capace di coinvolgere interamente il narratore, con una serie di gravi implicazioni morali. Lasciandone la scoperta a chi vorrà leggere o rileggere Anatomia della battaglia, risulta però evidente il senso di colpa provato dal narratore per questa stagione esistenziale e politica. Non sono, in ogni caso, i vaghi tormenti del rimorso (lasciati sullo sfondo di questa narrazione, che pur essendo anche una storia della provincia montanara clerico-fascista italiana, si mantiene, dal punto di vista culturale, laica), ma un percorso di autoanalisi spietata, che porta infine a un’assunzione di responsabilità precaria, priva di quella maturazione piena che avrebbe luogo in un Bildunsgroman più ortodosso. La medesima ferocia nell’autoanalisi è applicata anche al periodo di lavoro che il narratore svolge in una nazione africana, la cui realtà – più volte definita «postcoloniale», in ossequio a uno studio che negli ultimi decenni ha attecchito anche in Italia – induce la sua inettitudine a invischiarsi presto in comportamenti e azioni neocoloniali (un aspetto persistente, anche in epoca postcoloniale, per la permanenza del dominio e del discorso ideologico del dominio di marca occidentale). In questo contesto, assurge a possibile contraltare soltanto il successivo matrimonio del protagonista con Nora, donna che invece porta l’eredità del conflitto anticoloniale algerino, in un processo di elaborazione generalmente più positivo e compiuto di quello abbozzato dal narratore. Così come la relazione affettiva tra i due è infine destinata a naufragare, tutte le tensioni politiche che attraversano il testo non trovano mai sintesi: sembra valere, dunque, anche per Anatomia della battaglia il giudizio che Simonetti, nella sua ricognizione critica, limita ad altre opere, ossia il fatto che «il romanzo» o, in questo caso, un esempio peculiare di autofiction, «tende […] a mettersi a lato della Storia; a parlare di impotenza, a illuminare ciò che non si vede». Quella di Sartori è, anzi, la narrazione paradigmatica dell’impotenza che, da groviglio psicanalitico individuale, riverbera anche su un livello autoriale e intellettuale più generale; Anatomia della battaglia, è vero, indulge sporadicamente nella spettacolarizzazione del terrorismo che emerge in una porzione dei testi censiti da Simonetti, ma ha anche – si ricorderà la nota di Sartori del 2005 – quella qualità onirica della narrazione che poi sarebbe esplosa in uno dei romanzi più importanti degli anni Zero, Il tempo materiale (2008) di Giorgio Vasta. In conclusione, Terrarossa edizioni ha senza dubbio individuato nel libro di Sartori – già apparso vent’anni fa in una collana importante come quella curata da Giulio Mozzi per Sironi – uno di quei testi “Fondanti” (questo è, senza timori di sorta, e anzi con molte conferme, il titolo della collana che ha accolto Anatomia della battaglia) per la letteratura italiana contemporanea che oggi pare davvero necessario riproporre. Esponendo con estrema, talora feroce, lucidità la permanenza di un’educazione e, più in generale, di una cultura fascista nel secondo Novecento italiano – e da verificare ancora, fino allo scenario odierno e al prossimo futuro – Anatomia della battaglia è un testo che interpreta in modo peculiare le questioni aperte dalle declinazioni autofinzionali della scrittura, approfondendole a tal punto che la sua riproposizione, dopo vent’anni circa dalla prima pubblicazione, sembra la chiusura del cerchio, e di un ciclo, dal punto di vista della storia dei generi nella letteratura italiana contemporanea. Chissà che non se ne apra presto un altro.   L'articolo L’autofiction chiude il cerchio. “Anatomia della battaglia” di Giacomo Sartori proviene da Pulp Magazine.
Raccontare il desiderio femminile senza paura
(R.D.) SE IL NOME È “MENOPAUSA”  Cosa succede quando improvvisamente sentiamo che un cambiamento epocale è piombato nelle nostre vite e stravolge il nostro corpo, le nostre relazioni e i nostri desideri? Non si tratta certo di mettersi a tavolino e prendere delle decisioni, soprattutto perché spesso questi cambiamenti ci attraversano e per lungo tempo stentiamo a riconoscerli, a comprenderne gli effetti profondi a dar loro un nome. Menopausa (o perimenopausa come è stato scritto da più parti) è il nome del cambiamento che Miranda July (1974, scrittrice, regista e sceneggiatrice statunitense) ha deciso di raccontare in un rutilante, divertente e divertito romanzo, in originale intitolato All Fours (Miranda July, A quattro zampe, tr. di Silvia Rota Sperti, Feltrinelli, pp. 328, euro 20,00 stampa, euro 4,99 ebook) che chiaramente richiama anche in italiano la posizione della “pecorina”: perché a quattro zampe, in fondo, si tende ad essere più stabili. La (presunta) stabilità della vita che precede la menopausa dell’anonima protagonista quarantacinquenne di questo romanzo – artista di una qualche fama ma giunta ad un punto morto della propria carriera, moglie del produttore musicale Harris e madre dell figl non binaria Sam – viene sconvolta da dubbi incipienti sul suo intero mondo: continui ripensamenti su scelte e desideri, inspiegabili colpi di testa, rocambolesche casualità spesso condite da soluzioni maldestre quanto imbranate. Perché per la protagonista la menopausa non è affatto, banalmente e stereotipicamente, l’età del calo del desiderio, della secchezza vaginale e di tutte la gamma di possibili rinunce e ritiri dal mondo che affliggerebbero donne condannate dalla fine dell’età fertile, anche perché la nostra eroina non ha alcuna intenzione di riprodursi ancora. La nostra eroina ha piuttosto una grande, irrefrenabile voglia di godere e non intende certo rassegnarsi a incomprensibili grafici che mostrano quanto la sua vita fisiologica possa essere biologicamente e deterministicamente orientata da saliscendi ormonali. Del resto il punto di svolta, che fa da perno all’intera costruzione narrativa, è l’incontro con Davey, un giovanotto qualunque di una decina d’anni più giovane di lei che diventa, suo malgrado, l’im/possibile oggetto di un desiderio incontenibile che risveglia una spumeggiante creatività e un’intensa voglia di sperimentazione estetica, emotiva e sessuale. “Può il mondo accogliere l’idea di un sé in continua evoluzione?”, si è chiesta non troppo banalmente Marie Solis scrivendo di A quattro zampe sul “New York Times”, dove non ha esitato a definirlo come “il primo grande romanzo sulla perimenopausa” ]. DEMOLIRE I TOTEM DEL PATRIARCATO In un percorso segnato da selvagge oscillazioni e fatto di auto-riabilitazione, non rassegnazione e una più o meno ferrea volontà di non subire i cambiamenti ma di governarli o, quanto meno, di assecondarli per estendere le proprie percezioni e piaceri, M (ad un certo punto compare questa iniziale riferita alla protagonista – ovviamente casuale ogni riferimento al nome della scrittrice stessa) decide di sfidare apertamente i totem del patriarcato che vorrebbero – ancora oggi nel discorso comune dominante! – presiedere al congedo definitivo da una vita non più valida ai fini riproduttivi. Almeno quella di una donna, con gli uomini che, stando ai terribili grafici ormonali di cui sopra, partirebbero con un vantaggio biologico: > È strano, ha detto, che gli uomini abbiano quasi sempre la stessa quantità di > testosterone. > Ho ingrandito il grafico con due dita. La lieve discesa della linea > punteggiata del testosterone indicava un cambiamento quasi impercettibile. > Mentre io precipitavo da uno strapiombo, Harris avrebbe passeggiato per una > stradina di campagna che degrada dolcemente, fischiettando con una pagliuzza > nell’angolo della bocca. L’eterosessualità compulsiva e obbligatoria, il dispositivo sociale della coppia (soprattutto in una “relazione romantica” con tutte le implicazioni intime e sociali del caso) e quello giuridico e pseudo antropologico del matrimonio e infine l’accerchiante monogamia sono elementi pronti ad esplodere in faccia a lettori e lettrici, sotto i colpi di scelte e opinioni squadernate dalla protagonista e dalle sue amiche, ovviamente tutte in o sulla soglia della menopausa. Amicizia e solidarietà femminile – altri fatti sociali ottimamente raffigurati dal congegno narrativo di July – servono a vivere come una forma di liberazione tutte le direzioni che di volta in volta la vita della protagonista sembra intraprendere: non senza inciampi talvolta ridicoli, che connotano il testo di un’ironia mai feroce e sempre empatica con tutti i personaggi. Del resto, la ben nota bisessualità della nostra eroina e la scelta di abbandonarsi a travolgenti passioni lesbiche non fa che ricordarci, per converso, l’ingombrante centralità sociale dell’eterosessualità che, come scrisse Carla Lonzi in La donna clitoridea e la donna vaginale (1971), “non siamo così cieche da non vedere che è un pilastro del patriarcato, non siamo così ideologiche da rifiutarla a priori”. Molti pilastri del patriarcato vengono ridicolizzati dalla narrazione di July che però non è mai didascalica: non ha lezioni da impartire quanto esperienze da mettere in forma di prosa brillante. E così anche il piacere della penetrazione, idolo intorno al quale ruota il rapporto eterosessuale, più che essere demistificato dai rapporti lesbici viene relativizzato: se quello è il piacere ce lo prendiamo senza cazzi fatti di corpi cavernosi irrorati di sangue. Dunque, se in un memoir come Perdersi (Se perdre, 2001) di Annie Ernaux, il piacere di una relazione sentimentale complicata per una donna di mezza età brucia intorno ad una passione fortissima ma confinata tra incontri segreti e le pagine di un diario, A quattro zampe sconfina oltre i recinti di quello che le donne (di solito) non dicono. Più di tutto, in barba ai più triti cliché riguardanti soprattutto la corporeità delle donne, il corpo in A quattro zampe è sì misura del tempo ma la sua rappresentazione non è necessariamente una parabola e i cambiamenti indotti dalla menopausa non conducono necessariamente al suo versante discendente. Non a caso forse, come ha scritto Zoe Williams sul Guardian, molte lettrici avrebbero trovato nel libro le chiavi per cambiare radicalmente la propria vita. (E.M.) DESIDERIO SESSUALE, IL NUCLEO INCANDESCENTE Quando un libro mette al centro il sesso, corre un rischio preciso e radicale: o è un romanzo pornografico sans phrase — e in quel caso l’atto sessuale è rappresentato come fine e motore del testo da cui deborda per definizione — oppure, se vuole essere un romanzo vero e proprio, il sesso finisce per slittare altrove, sublimato, raccontato attraverso discorsi metasessuali su amore, coppia, maternità, patriarcato, rivoluzione… In questo secondo caso, c’è sempre il pericolo che il desiderio sessuale, pur essendo ovunque, salti dal punto di vista narrativo, o venga disinnescato dal peso delle sue implicazioni simboliche.  Ma proprio questo scivolamento interpretativo rivela un punto cieco: il desiderio sessuale è il nucleo incandescente di A quattro zampe, ed è descritto in modo radicale, preciso, esploso. Non è simbolo, non è struttura, non è teoria. È azione, fame, materia. Non è sfondo né sintomo: è l’oggetto narrativo centrale. Non si tratta di un desiderio represso o implicito, ma di un desiderio esplicitamente agito. La protagonista lo insegue con ostinazione, senza paura del ridicolo, dell’umiliazione, della perdita. Non lo maschera, non lo sublima: lo esibisce nella sua forma più cruda e incontrollabile. Eppure, non si consuma mai in un atto sessuale. E proprio questo mancato compimento ne accresce la forza. Il desiderio attraversa tutto il romanzo, ma non ha un punto d’arrivo, e per questo non si estingue mai. Anche quando il tempo passerà e ci saranno altre storie.  Il massimo della tensione erotica si concentra in una scena al limite tra intimità e grottesco: lui che le cambia un tampone durante le mestruazioni. Un atto che non è sesso ma ne condivide la carica simbolica e fisica. È un gesto quasi di cura, ma anche di invasione, di esposizione, di resa. La scrittura di July non lo chiude in una categoria: resta miracolosamente sul crinale tra il sublime e il ridicolo, lasciando che il lettore ne percepisca tutta la forza ambigua e perturbante. Questo stesso meccanismo di desiderio incompiuto si estende anche alla dimensione materna. Il figlio della protagonista nasce dissanguato, praticamente morto, ma poi sopravvive. Non è solo una figura liminale tra vita e morte, ma anche tra identità: non ha un genere assegnato. Mi pare che non sia semplicemente una scelta narrativa legata alla sensibilità contemporanea sul genere, ma parte integrante di una poetica del desiderio che sfugge alla normazione, che rifiuta i compimenti canonici, anche quello della maternità come conferma identitaria. A tutto ciò si aggiunge un altro paradosso: la protagonista ha già una vita sessuale appagante. Con il marito ha rapporti sessuali intensi e soddisfacenti, ricchi di orgasmi; anche con le donne ha esperienze piene. Ma ciò che cerca in Davey è qualcosa d’altro, qualcosa che non può essere contenuto nelle forme sessuali note o condivise. Non è l’amore, non è la coppia, non è il piacere. È la fame assoluta di essere posseduta, consumata, dissolta. In questo senso, la protagonista non incarna un modello femminista emancipato, bensì una figura antica e vertiginosa della passione: vuole essere inferiore, dipendente, schiava d’amore. E lo fa senza compiacimento, senza vittimismo, senza ironia anche se lei come narratrice non può non vedere il lato addirittura comico della vicenda. Vuole vivere una forma di abbandono totale, in cui il desiderio coincide con la sottomissione, non come regressione, ma come atto consapevole di immersione nel proprio desiderare. Questo è ciò che la rende insieme patetica e grandiosa, vulnerabile e potentissima: sceglie di non proteggersi. LA VECCHIAIA & IL PIACERE In questa dinamica, si inserisce anche un aspetto sorprendente e spesso taciuto: la paura di essere troppo vecchia si mescola con il piacere. La protagonista non solo è consapevole del proprio corpo che cambia, del tempo che passa, della possibilità concreta di non essere più desiderabile da un uomo più giovane, ma è proprio questa consapevolezza a intensificare l’esperienza del desiderio. L’insicurezza non cancella il piacere, lo moltiplica: è come se l’eccitazione passasse anche attraverso il rischio del rifiuto, la vergogna dell’inadeguatezza, l’imbarazzo del confronto. La protagonista desidera non nonostante la sua età, ma anche grazie a essa. Il desiderio si fa più acuto perché si sa temporaneo, più esposto perché sa di sfidare una norma. Il piacere, in questa forma, è inseparabile dalla paura di perderlo. Davey, l’oggetto del suo desiderio, è assente in modo assoluto. Non perché sia cattivo o indifferente, ma perché è totalmente assorbito dal proprio progetto di vita: diventare ballerino. Non può permettersi distrazioni, né di restituire l’intensità che riceve. Ma questa asimmetria non annulla il desiderio, anzi lo sacralizza: la protagonista ama Davey proprio perché lui non può amarla. Perché è inaccessibile, e quindi perfetto. Alla fine, A quattro zampe racconta una donna che non vuole farsi amare, ma desiderare fino al dissolvimento. Una donna che non cerca emancipazione, ma esposizione radicale. Che non chiede pari dignità, ma la grazia pericolosa della sottomissione. E lo fa con una precisione narrativa, emotiva e politica notevole e – cosa non secondaria – molto divertente. July costruisce così un romanzo che non ha paura del desiderio femminile, neanche quando è osceno, irrazionale, o disperato. E questo, nel panorama letterario contemporaneo, è forse il gesto più libero e più feroce che si possa compiere. IN ULTIMO LA COPERTINA … che è del tutto incongruente al punto di far credere che chi l’ha licenziata abbia perso la trebisonda leggendo il romanzo. Chissà. L'articolo Raccontare il desiderio femminile senza paura proviene da Pulp Magazine.
Distrutta la banca dei semi di Hebron
Riportiamo un comunicato della Via Campesina sull’attacco, da parte dell’IDF, a un centro palestinese di moltiplicazione dei semi https://viacampesina.org/en/2025/07/israeli-forces-demolish-seed-multiplication-unit-of-uawcs-seed-bank-in-hebron L'articolo Distrutta la banca dei semi di Hebron su CampiAperti è stato scritto da caf.
20 libri per l’estate
Yael Artom Alla fine della guerra del Vietnam, l’attendente di un generale sudvietnamita, spia doppiogiochista per i comunisti del nord, viene evacuato con le ultime partenze organizzate dagli americani. Militare, spia, profugo, carnefice e vittima, getta uno sguardo intimo e allo stesso tempo estraneo sulle ipocrisie dell’Occidente. Un romanzo ironico e intelligente che può essere scritto solo da chi conosce intimamente una cultura che lo tiene a debita distanza. Vincitore del Premio Pulitzer 2016. Viet Thanh Nguyen, Il simpatizzante, tr. Luca Briasco, Neri Pozza, pp. 383, euro 12,20  stampa, euro 8,99 epub.   -------------------------------------------------------------------------------- Walter Catalano Ethel Mannin (1900-1984) scrittrice “scomoda” se mai ve ne fu una e per questo rimossa dalla memoria letteraria europea. Anarchica, socialista radicale (ma antisovietica), pacifista, femminista, bisessuale dichiarata, amorosa compagna, a tratti, di W.B. Yeats e di Bertrand Russell. Agenzia Alcatraz, dopo aver tradotto il capolavoro di Weird femminista Lucifero e la bambina, le dedica un’intera collana Etheliana che inaugura con il suo libro più compromettente e rimosso: uscito nel 1963 come reazione al propagandistico e sopravvalutato best seller filoisraeliano Exodus di Leon Uris, è forse l’unico e senz’altro il primo testo occidentale a denunciare la pulizia etnica sionista in Palestina nel 1948. La memoria della Nakba. Oggi da leggere più che mai per togliersi la soddisfazione di farsi dare degli “antisemiti” da Netanyahu… Ethel Mannin, La strada per Be’er Sheva, tr. Stefania Renzetti,  pp. 3982, Agenzia Alcatraz, € 19,00 -------------------------------------------------------------------------------- Mariangela Cofone Vito di Battista intreccia la potenza della narrazione orale con la grazia della letteratura. Ci dimentichiamo delle pagine per immergerci in un affresco vivido e vibrante, dove la memoria si fa racconto e il tempo si dilata. Una saga familiare che attraversa la Seconda guerra mondiale fino agli anni ’60, in un piccolo paese del Centro-Sud. Per chi ama perdersi nelle storie profonde e ritrovarsi nella bellezza delle parole. Vito di Battista, Dove cadono le comete, Feltrinelli, pp. 368, euro 18,05 stampa, 9,00 epub. -------------------------------------------------------------------------------- Roberta Cospito Amerai quello che hai ucciso è un libro folgorante e inquietante così come il suo titolo. Kevin Lambert, poco più che trentenne scrittore canadese, ambienta nella sua città natale Chicoutimi, una storia nera e violentissima. Una storia di vendetta. Dietro una rispettabile patina borghese, Chicoutimi nasconde ogni tipo di degenerazioni e aspetti inquietanti: genitori che approfittano delle figlie, il primo cittadino che ama indossare gli abiti della moglie ormai defunta, ma, soprattutto, ci sono tanti bambini morti che, nonostante vengano regolarmente sepolti, ritroviamo nelle loro case e nelle aule scolastiche insieme ai vivi, come nulla fosse accaduto. Politicamente scorretto, ma incredibilmente poetico; un faro acceso sulla difficile condizione dei nostri adolescenti. Kevin Lambert, Amerai quello che hai ucciso, tr. Maruzza Loria, Playground, pp. 174, euro 16,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Cristina Daglio Nelle più di mille pagine del suo nuovo lavoro Griffi conferma quello che già con Ferrovie del Messico risultava lampante: una narrazione forte anche se non temporalmente consecutiva tiene incollati al volume fino a che tutto si chiude. Digressioni è fedele al proprio titolo, se alla prima lettura potrebbe sembrare di entrare in un guazzabuglio di storie senza un filo conduttore, così non è, anzi ogni singola digressione, ogni singolo paesaggio che sia apre per connessione logica da un punto a un altro del libro trova compimento della propria parabola e chiusura del proprio filone narrativo. Ritroviamo nomi, citazioni più o meno velate, personaggi e storia, parole desuete o curiosità lessicali, ma soprattutto appare limpido come nel 2025, in una stagione editoriale “di commercio” quando escono opere mondo, scritte e intellettualmente stimolanti, il lettore vada a cercarle, stanarle e se ne innamori perdutamente della loro complessità. Gian Marco Griffi, Digressioni, Einaudi, pp. 1024, euro 22,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Anna da Re Ne ho così tanto sentito parlare, che a un certo punto ho deciso di comprarlo. Poi però, data la mole, dovevo trovare il tempo per leggerlo. Così è arrivata quest’estate, ed è una lettura magnifica. C’è tutto il gusto dell’invenzione, dell’avventura, del racconto e della scrittura. Uno di quei libri che quando ti chiedono un consiglio ti viene subito in mente. Perché è la quintessenza della lettura: il piacere, il divertimento, la costruzione di un mondo dove ci sei solo tu e quello che ti stai immaginando. Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico, Laurana Editore, pp. 824, euro 22,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Roberto Derobertis In un’altra estate torrida e viscosa nell’emisfero nord, A quattro zampe di Miranda July (1964, scrittrice, regista e sceneggiatrice statunitense) mi chiama, mi intrattiene, non abbandona i miei pensieri, è una lettura che si fa persistente. A 45 anni e nel pieno di un desiderio sessuale irrefrenabile per un uomo più giovane e sposato – nonché della voglia incontenibile di abbandonare marito e figlia –, la protagonista senza nome e di mestiere artista di questo romanzo ci accompagna, con candore e impudicizia, attraverso un cambiamento emotivo e fisiologico potente e irreversibile. Ironico, erotico, a tratti rutilante romanzo on the road e a tratti amaro romanzo introspettivo, A quattro zampe (All Fours, 2024) può essere definito il romanzo della premenopausa o della menopausa. E il modo in cui July racconta l’ingresso in questa fase della vita intenerisce ma non fa sconti: sfata tabù e restituisce carne ed emozioni a quanto spesso taciuto da un discorso ancora piuttosto patriarcale e maschilista sui corpi delle donne. “Era fantastico fare qualcosa che non fosse sollevare pesi o vivere la vita” dice la protagonista – stanca anche del suo lavoro, per quanto creativo – perché A quattro zampe ci getta dentro il vortice del rinnovamento e ci spinge verso forme per certi aspetti sovversive di liberazione, mettendo a fuoco il desiderio di poter essere (ancora e di nuovo) tutto. È una lettura bollente e divertente che segnerà un’estate tutt’altro che banale, per lettori e lettrici che si troveranno davanti alla narrativizzazione di ciò che le donne non dicono. Miranda July, A quattro zampe, tr. Silvia Rota Sperti, Feltrinelli, pp. 328, euro 20 stampa, euro 4,99 ebook -------------------------------------------------------------------------------- Alessandro Fambrini Dopo più di sessant’anni dal suo arrivo in Italia, finalmente Lovecraft pubblicato da Adelphi: è un evento e come tale lo celebriamo. Che poi ciò avvenga attraverso una lunga lettera a tratti verbosa, a tratti ripetitiva, a tratti irritante per il suo anacronistico razzismo e la sua intolleranza, possiamo anche perdonarlo. Lovecraft è anche questo, e gli squarci di intelligenza pura che si aprono qua e là anche in un testo come Potrebbe anche non esserci più un mondo ripagano il disagio che si prova dinanzi alle professioni di fede antidemocratica e i salamelecchi a Spengler e al pensiero più reazionario e oscuro del suo tempo. A patto che sull’altro piatto della bilancia si ponga ciò cui portò questa visione ristretta e anche un po’ patetica del mondo: la paura continua dell’annientamento di fronte a forze implacabili, il tremore dell’uomo sperduto in un universo popolato di mostri, e la magnifica letteratura che dà corpo e voce a tutto questo. H.P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, pp. 162, € 14,00 --------------------------------------------------------------------------------   Alberto Fraccacreta I textos recobrados di Borges sono sempre un evento da salutare con una certa emozione: radunati dopo la scomparsa dell’autore argentino, nell’edizione originale constano di quasi duemila pagine. E Adelphi – dopo una prima antologia apparsa nel 2009, Il prisma e lo specchio. Testi ritrovati (1919-1929) – ne propone felicemente un’altra ampia scelta. Si spazia dal Don Chisciotte all’ebraicità, da Kafka a Nietzsche, da Apollinaire a Dante. Proprio per il sommo poeta Borges ha parole di miele: “C’è una prima lettura della Commedia; non ce n’è un’ultima, perché il poema, una volta scoperto, continua ad accompagnarci fino alla fine. Come la lingua di Shakespeare, come l’algebra o come il nostro passato, la Divina Commedia è una città che non esploreremo mai tutta”. E conclude, con maggiore gravità: “La più conosciuta e ripetuta delle terzine può, un pomeriggio, rivelarmi chi sono o che cos’è l’universo”. Jorge Luis Borges, La mappa segreta. Testi ritrovati (1933-1983), a cura di Tommaso Scarano, traduzione di Rodja Bernardoni, Adelphi, pp. 285, euro 22,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Elio Grasso È un Montale vacanziere quello delle lettere, persino spiritoso, catturato dal mare bollente dei magici pomeriggi estivi a Monterosso, o assediato dalla malinconia delle sedute idroterapiche alle Terme di Voltaggio. Ma le poesie donate a Bianca, in numero di trentotto, di cui dodici inviate anche a Francesco, costituiranno la parte fondamentale del libro (Ossi di seppia) che Gobetti stamperà nel 1925. Fra di esse troviamo Meriggiare pallido e assorto (ancora con il titolo di Rottami), I limoni, Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, Caffé a Rapallo, Sarcofaghi, Esterina, i vent’anni ti minacciano (pubblicata poi come Falsetto), Cigola la carrucola nel pozzo, Spesso il male di vivere ho incontrato. Pagine fondamentali, come si vede, a cui bisogna aggiungere tre importanti poesie inedite, Domande, La stasi, Turbamenti, non accolte nell’edizione critica Contini-Bettarini del 1980. Eugenio Montale, Lettere e poesie a Bianca e Francesco Messina, Scheiwiller, pp. 248, euro 40,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Caterina Incerti   Goodbye Hotel è un romanzo capace di racchiudere un mistero da svelare, un passato da scoprire e un futuro da saggiare. Bible ha una narrazione particolare, lo scrittore è abile a confondere il lettore donando indizi che si disperdono piano come in un sogno diretto da David Linch, confluendo poi in una trama piena di verità incontrovertibili, profonde e concrete. Michael Bible, Goodbye Hotel, tr. Martina Testa, Adelphi, pp. 419, euro 18,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Fabio Malagnini La curiosità e il piacere di ritrovare uno dei principali storici italiani di fantascienza alla prova di una duplice impresa autorale (i volumi sono due, dedicati alla produzione degli anni ’90 e degli anni Zero). Raccogliendo la sfida dell’afa e della noia, si pone davanti a noi una narrativa fantastica ribelle e resistente a quel racconto distopico che è già diventato il nostro presente. Domenico Gallo, La patria del ribelle e altri racconti dell’anno duemila, pp. 206, Edizioni Delos, euro 4,99 epub -------------------------------------------------------------------------------- Valentina Marcoli È arrivato giusto in tempo per questa estate torrida il nuovo romanzo (che in realtà è una ristampa) della coppia francese di scrittori ispiratori di Hitchcock in molte occasioni. I loro thriller psicologici ad alta tensione sono strepitosi, tutti, sempre, e anche se sono poche pagine e lo divorerò in poche ore, è in cima alla lista delle mie letture estive. Pierre Boileau, Thomas Narcejac, I vedovi, tr. Giuseppe Girimonti Greco, Ezio Sinigaglia, pp. 172, Adelphi, euro 18,00 stampa   -------------------------------------------------------------------------------- Lorenzo Mari   Come reagireste, se vi dicessero che uno dei maître à penser più influenti della contemporaneità è un cristiano rinato, o meglio che è rinato come cristiano? Parte da questo interrogativo destabilizzante il percorso di questo nuovo libro di Timothy Morton, per poi offrire un corpo a corpo con l’opera del poeta William Blake che è anche un memoir, dalla scrittura libera, assai densa eppure sempre agile e coinvolgente. Per aprire le porte della percezione, e anche del pensiero. Timothy Morton, Inferno. William Blake e la ricerca di un’ecologia cristiana, tr. Valerio Cianci, Timeo, euro 25,00 stampa. -------------------------------------------------------------------------------- Elisabetta Michielin C’è stato un tempo, molti anni fa in cui tutti avevamo letto Il maestro e Margherita di Bulgakov e quando si chiedeva qual è il romanzo più bello tutti avevamo la risposta pronta. Adesso anche grazie al bel film appena uscito è tornato il tempo per leggerlo o rileggerlo (nel mio caso anche accorgersi che essere sicura di averlo letto fosse un falso ricordo) e scoprire quanto Margherita amasse essere una strega.  Dei diavoli Woland, Azazello – un criminale di prima categoria –  e compagnia non aggiungo niente, che tutti sanno e forse non è un caso che il libro sia nei primi posti dei bestseller fantasy di Amazon.  Raccomando la lettura ad alta voce! Michail Bulgakov, Il Maestro e Margherita, tr. Vera Dridso, pp. 408, Einaudi, euro 12,00 stampa, euro 2,99 epub -------------------------------------------------------------------------------- Paolo Prezzavento All’origine di questo Libro – a nostro avviso uno dei più importanti di Jacques Derrida – ci sono due conferenze, tenute all’Università della California Riverside, il 22 e il 23 aprile del 1993, nell’ambito del Convegno “Whither Marxism?” (“Dove va il Marxismo?”) organizzato da Bernd Magnus e Steven Cullenberg. In questa nuova edizione la curatrice, Marta Vlachou, ha aggiunto un dibattito inedito tra Derrida ed Ètienne Balibar, tenutosi il 1 febbraio del 1994 al Collège international de Philosophie. In queste conferenze Derrida, con una delle sue intuizioni geniali, ci propone di interrogare, a 4 anni di distanza dalla caduta del Muro di Berlino, e dunque dalla fine ufficiale del comunismo, proprio lo spettro di quel filosofo che era ormai da tutti creduto morto, Karl Marx, e lo fa a partire dal celebre incipit dell’Hamlet di Shakespeare, in cui Amleto interroga lo Spettro di suo padre. Come Amleto, Derrida ha il coraggio di salire sui bastioni di Elsinore e rivolgersi allo Spettro di Marx, anzi agli spettri di Marx (perché ce n’è più di uno), dimostrando che le sue ingiunzioni (Swear) pressanti a noi che siamo ancora in vita sono più attuali che mai. Viviamo in un “tempo fuori di sesto”, pieno di spettri (basti pensare agli innumerevoli “spettri di Gaza). Ecco perché dobbiamo continuare ad interrogare lo Spettro – gli spettri – di Marx. Jacques Derrida, Spettri di Marx. Nuova edizione, tr.  Gaetano Chiurazzi e Annalisa Romani,  Raffaello Cortina Editore, pp. 266, euro 25,00 stampa --------------------------------------------------------------------------------   Umberto Rossi Uno dei più americani tra gli scrittori italiani che non vanno allo Strega ci racconta una storia hollywoodiana, un quasi thriller con infiniti echi della cinematografia americana più mitologica, scritto come al solito con elegante parsimonia e precisione cristallina. Roberto Saporito, Polimeri, Cose note Edizioni, pp. 152, euro 15,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Nicole Spallina L’estate è il mio momento preferito per recuperare classici antichi, classici moderni e libri di grandi dimensioni; quest’anno ho scelto un titolo che rientra a perfezione in tutte e tre le categorie: Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso, uscito per la prima volta nel 1988.La scrittura sontuosa di Calasso interroga le storie senza tempo del mito in una vera e propria epopea letteraria, per tornare alle origini del nostro mondo e allo stesso tempo dialogare con il presente. Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, pp. 487, Adelphi, euro 14,25 stampa, euro 7,99 epub -------------------------------------------------------------------------------- Roberto Sturm In una Australia poco lontana nel futuro, una band in tour si scontra con l’autocrazia al potere che punisce severamente quella che chiama l’indecenza morale. Sono i soli ad avere accesso a F. una nuova droga che ti permette di andare avanti nel tempo, di vedere cosa succederà nei prossimi istanti. Una lucida accusa alla società di oggi, il tipo di fantascienza dispotica che preferisco. Il compito di critica del presente che questa letteratura di genere, se ben congegnata, ha sempre fatto nel migliore dei modi. Jordan Prosser, Big Time, tr. Sebastiano Pozzani, pp. 408, Mattioli 1885, euro 21.00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Tania Tonin Per circostanze lungi dall’essere influenzate dal mio volere, mi ritrovo nuovamente con un libro della scrittrice Donna Tartt in mano nel bel mezzo dell’estate. Le sue storie sono adatte ad alterare il ricordo di giorni caldi e uguali grazie alle loro trame tortuose e ai loro personaggi memorabili. Inizio a pensare non sia un caso, quindi, che dopo Il cardellino letto nei mesi caldi di qualche anno addietro, mi accingo solo ora, con l’avanzare dell’estate, a iniziare Dio di illusioni, acquistato in lingua inglese durante l’inverno. Nessun momento mi è sembrato adatto, fino a queste temperature roventi che reclamano una ventata di buone parole. Donna Tartt, Dio di illusioni, tr. Idolina Landolfi, Rizzoli, pp. 624, euro 15,00 stampa, euro 9,99 epub                 >   L'articolo 20 libri per l’estate proviene da Pulp Magazine.
Orwell prima di Orwell. La nuova edizione di Una boccata d’aria
In una conversazione con il curatore di questa nuova edizione (con una traduzione finalmente all’altezza della situazione) di Coming Up For Air (Una boccata d’aria, a cura di Andrea Binelli, Feltrinelli, pp. 354, € 13,00), l’ultimo romanzo di Orwell prima dell’accoppiata che gli diede fama imperitura (Animal Farm e Nineteen Eighty-Four), Andrea Binelli mi diceva che l’autore britannico considerava quest’opera, scritta e ambientata nel 1938 e uscita nel 1939, come la sua più riuscita, quella che più gli corrispondeva nel dosaggio di elementi d’invenzione, di osservazione della realtà e di diagnosi su un presente impoverito moralmente nelle sue convenzioni sociali e nelle ricadute di queste sul comportamento degli individui, sulla loro etica ristretta a un orizzonte senza gloria. Non solo, diceva Binelli: in Una boccata d’aria echeggiano già le campane fantastico-fantascientifiche di quei due romanzi successivi: quelle della satira e del grottesco della Fattoria degli animali e quelle distopiche di 1984. Ora, confesso di dissentire da entrambe queste affermazioni. Una boccata d’aria è una bellissima, quasi irresistibile esperienza di lettura, il memorabile ritratto psicologico della miseria umana, di un esemplare in cui la miseria umana – quella dei tempi, della civiltà dei consumi, della mancanza di senso e di scopo in una società parcellizzata in unità individuali incapaci di riconoscersi in un disegno più complesso, negli altri – si incarna e si mette alla prova di un’ennesima Odissea moderna, raggrinzita al tempo di una settimana rispetto al modello classico e irriducibile alla dimensione neo-epica della dissacrazione joyciana: l’odissea di un modesto impiegato, un quarantenne piccolo-borghese già decrepito nel fisico (memorabile l’incipit del romanzo in cui il protagonista descrive le proprie abluzioni mattutine, il cui momento culminante è il posizionamento della dentiera in bocca) e soprattutto negli orizzonti ideali, che tenta la fuga dalle pastoie di una vita familiare e lavorativa infelice (perché non può esserci felicità in quelle istituzioni) attraverso il ritorno alla vagheggiata condizione edenica della propria infanzia, identificata con il paesello di campagna natio e simboleggiata da un laghetto scoperto dal protagonista nei suoi giovani anni e a lui solo noto, traboccante di carpe enormi e grasse, in attesa solo di essere pescate. Non le pescherà mai, quelle carpe, George Bowling (questo il nome del protagonista che narra la storia in prima persona), e anzi scoprirà che quello specchio d’acqua segreto non esiste più, è stato prosciugato e le sue cavità sono state adibite a deposito per i rifiuti del quartiere residenziale che ha preso il posto della campagna intorno al suo paese natale, ormai sfigurato da edifici popolari e da fabbriche fumanti, il cui principale compito è quello di produrre bombe per l’industria bellica di un conflitto che sembra ormai imminente. George si chiede se quell’epoca da lui vagheggiata sia perduta per sempre e si risponde in tono di disincanto: “Non ne sono sicuro, ma posso dirvi che era un bel mondo in cui vivere. E io gli appartengo. Anche voi”. Romanzo felice, divertente, agro e anche attuale, per quanto il mondo che raffigura sia ormai tramontato (e lo sia da quando i cacciabombardieri che qui sono una minaccia spaventosa, ma ancora sospesa nelle ipotesi del divenire, hanno di lì a poco cominciato davvero a scaricare i loro carichi di morte sull’Europa e sul mondo): ma non ha forza trascinante, l’afflato epico e visionario, la spinta verso l’alterità che possedeva la prima prova narrativa di Orwell dopo il semiautobiografismo di Down and Out in Paris and London (1933), ovvero quell’autentico capolavoro che è Burmese Days (1934), e non ha nemmeno la visionarietà scioccante di 1984. Poco importa, comunque. Più interessante è soffermarsi sulla seconda affermazione di Binelli: e qui la questione si fa più sottile. Io, leggendo Una boccata d’aria, ho tentato di individuarne gli elementi che lo proiettassero quantomeno in una direzione fantascientifica o comunque utopico-preveggenziale, e alla fine mi sento di dire di averli trovati, anche se non ci sono. Non ci sono, in quanto il romanzo è immerso in una quotidianità disarmante, perfino avvilente, con il diario minuzioso di giornate sospese tra l’inerzia dell’impotenza di questo piccolo uomo che racconta la sua vita e il desiderio, la pulsione a sfuggire alla trappola, alle acque avvelenate in cui si trova a dibattersi: senza successo, perché le acque pulite che cerca, in realtà, non sono mai esistite e quelle che a lui apparivano tali, nella sua ingenuità di ragazzo, erano già pronte a trasformarsi nel veleno che ammorberà la sua vita adulta. Eppure, ciò che aleggia su George Bowling e sul mondo che lo circonda è l’ombra di un futuro ineluttabile, di una guerra che sta per scoppiare e cui Orwell dà la voce di un’ansia opprimente, di una catastrofe già scritta che sta per abbattersi sul mondo e non offre nemmeno l’illusione di una palingenesi, è fatta solo di distruzione. Il futuro entra così nel romanzo: un futuro nero, simile a quello di altre opere coeve, come quelle – di opposto segno – di L. Ron Hubbard, Final Blackout (1940), o di Katharine Burdekin, Swastika Night (1937), e non a caso uno dei pochi elementi letterari cui si appella George, uomo di formazione scolastica e approssimativa, è H. G. Wells: > Vi siete fatti un’idea sbagliata se pensaste che tutt’a un tratto scoprii > Marcel Proust, Henry James o qualche nome del genere. Non li avrei letti > nemmeno per dovere. Le letture di cui sto parlando non erano affatto > ricercate. A volte accade di imbatterti in un libro che è in perfetta sintonia > con lo stato mentale che hai maturato in quel frangente, a tal punto da > sembrare scritto appositamente per te. Uno di questi fu Storia di Mr Polly di > H. G. Wells in un’edizione da uno scellino così scalcagnata da cadere a pezzi. Ma la molteplice gamma di futuri dischiusi dall’opera di Wells, che riecheggia anche in alcune considerazioni sul tempo e sulla sua natura inafferrabile, oggettiva e soggettiva insieme, qui si contraggono in uno solo, e nero. Un mondo in cui il nazismo è sorto ed è andato al potere non lascia scampo: questo sembra dirci Orwell con i suoi reiterati riferimenti a Hitler e alla guerra che la Germania inevitabilmente scatenerà e alla quale George guarda con una sorta di cupio dissolvi: > Se fossi Hitler, sguinzaglierei i caccia nel bel mezzo di una conferenza sul > disarmo. Un mattino tranquillo, mentre i fiumi di impiegati attraversano il > London Bridge, il canarino cinguetta e una vecchia attacca le culotte al filo > del bucato… FIUUUU… BOOOOM! SKRRASH! Le case che saltano per aria, le culotte > fradice di sangue, il canarino che cinguetta sui cadaveri. Con simili premesse, la diagnosi del presente e l’ipotesi sul futuro passano inevitabilmente per una fenomenologia della guerra, maturata attraverso l’esperienza del primo conflitto mondiale, in cui si palesa la natura profonda di un esistente innervato nel profondo della logica di relazioni che nella guerra viene più vistosamente alla luce: > In cosa consiste questa realtà? Be’, in primo luogo consiste in un’eterna, > frenetica battaglia per vendere cose. Per la maggioranza delle persone si > traduce nella vendita di se stessi […]. Nella gente maturò uno stato d’animo > nuovo, agghiacciante. Un po’ come trovarsi in diciannove su una nave che va a > fondo e dispone di quattordici salvagente. Vi chiederete se tutto questo sia > davvero caratteristico della modernità e se abbia a che fare con la guerra. > Be’, sì, l’impressione era che fosse legato alla guerra. La sensazione di > dover continuamente sgomitare e fare a botte, l’idea che non otterrai mai > niente se non lo strappi di mano a un’altra persona, che c’è sempre qualcuno > intento a soffiarti il posto, che il mese prossimo o quello dopo faranno tagli > al personale e sarai tu a tirare su la pagliuzza corta; tutto ciò, ve lo > giuro, non esisteva nella vecchia vita prima della guerra. La guerra è origine e al tempo stesso conseguenza della miseria morale che l’ha portata a inverarsi, rendendola imprescindibile. E alla fine la guerra, che innerva ogni fibra di questa realtà disumanizzata, sembra scoppiare davvero, e il romanzo sembra prendere la direzione di un’ucronia: > Dopo colazione passeggiai fino alla piazza del mercato. Era una mattina > deliziosa, piuttosto fresca e senza un filo di vento. […] Ma a un tratto si > intromise un rombo sordo dietro le case e quindi saettò in cielo una > squadriglia di enormi cacciabombardieri neri. Li guardai ed ebbi l’impressione > di averli proprio sopra la testa. > > Un attimo dopo sentii qualcosa e, se foste stati presenti, avreste > testimoniato quasi in contemporanea un episodio interessante di ciò che credo > chiamino riflesso condizionato. Perché quello che avevo udito, e non c’era > possibilità di sbagliarsi, consisteva nel fischio di una bomba. […] Scattai > così rapidamente che nel microsecondo durante il quale la bomba planò > fischiando, ebbi persino il tempo di temere di essermi sbagliato facendo la > figura del pollo per niente. > > E invece, neanche un istante dopo… Ah! > > BUUUMMM – BRRRR! > > Dapprima un frastuono da giudizio universale e poi il clamore di una > tonnellata di carbone che precipita su un foglio di lamiera. Era una pioggia > di mattoni. Mi sembrò di sciogliermi sul marciapiede. “È iniziata”, pensai. > “Lo sapevo. Il vecchio Hitler non ha aspettato e ci ha mandato i suoi > bombardieri senza avvisare”. In realtà, lo sappiamo, la storia è andata diversamente. Ben presto apprendiamo che la bomba è stata sganciata per errore da un aereo britannico durante un volo di prova, e tutto ritorna nell’alveo della normalità. Ma è una normalità ingannevole. Quell’esplosione ha prodotto vibrazioni nel reale attraverso le quali occhieggia e si palesa il mondo da incubo che seguirà, e al quale Orwell dà voce con passi che anticipano 1984: > La guerra! Mi scoprii di nuovo a pensarci. Sta per scoppiare, questo è sicuro. > Ma chi è che ha paura della guerra? Voglio dire, chi ha paura delle bombe e > delle mitragliatrici? “Tu hai paura”, direte. Sì, io sì, e come me chiunque ne > abbia fatto esperienza. Ma a spaventarci non è tanto la guerra quanto il > dopoguerra, il mondo in cui precipiteremo, un mondo di odio e di slogan: le > camicie nere o grigie, il filo spinato, i manganelli di gomma, le celle > segrete dove la luce resta accesa giorno e notte, con la polizia che ci > controlla mentre dormiamo. E ancora, i cortei, i poster con sopra un faccione > enorme, folle assordanti di un milione di persone che acclamano un leader fino > a convincersi di adorarlo quando sotto sotto lo odiano al punto di voler > vomitare. Sta per accadere tutto questo. O forse no? Alcuni giorni so che è > impossibile, in altri so che è inevitabile. Ecco allora che Binelli aveva anche ragione. Non è un romanzo di fantascienza, questo, ma il sogno, anzi l’incubo della fantascienza orwelliana già lo sta attraversando. L'articolo Orwell prima di Orwell. La nuova edizione di Una boccata d’aria proviene da Pulp Magazine.
Helgoland 1925-2025. 100 anni di Fisica Quantistica – 100 anni di Bomba Atomica
Sono passati 100 anni, e siamo ancora lì, a parlare della Bomba Atomica. La scienza e la tecnologia hanno fatto passi da gigante, i nostri scienziati riescono a ottenere risultati incredibili, eppure le guerre si fanno ancora (fino a poco tempo fa non si facevano) per la Bomba ma soprattutto contro la Bomba, come è accaduto nella disastrosa Guerra dei 12 giorni  Israele – Usa Vs. Iran. Sono passati 100 anni, eppure stiamo ancora qui a parlare della geniale intuizione di un ragazzo tedesco di 23 anni, un giovane e brillante studente di Fisica che, per evitare dei fastidiosi pollini che gli procuravano allergia, si rifugiò nella primavera del 1925 sull’Isola di Helgoland, nel Mare del Nord, un agglomerato di rocce quasi del tutto privo di vegetazione. Questo ragazzo tedesco era una delle menti più brillanti della sua generazione, si chiamava Werner Heisenberg, aveva studiato Fisica a Gottinga con Max Born e Pascual Jordan, e si interrogava ormai da anni su alcuni dei più sconcertanti paradossi della fisica, il “salto” degli elettroni, il loro comportamento ondulatorio, i pacchetti di fotoni, etc. Ad Helgoland, una notte, questo ragazzo ebbe una straordinaria intuizione: > “Erano più o meno le tre del mattino quando il risultato finale dei miei conti > fu davanti a me. Mi sentivo profondamente scosso. Ero così agitato che non > potevo pensare di dormire. Lasciai la casa e mi misi a camminare lentamente > nell’oscurità. Mi arrampicai su una roccia a picco sul mare, sulla punta > dell’isola, e attesi il sorgere del sole.…” Quella che vide il giovane Heisenberg era l’Alba della nuova Era Atomica. Sull’isola di Helgoland, Heisenberg ebbe l’idea geniale che, ai livelli più elementari della materia, la teoria possa descrivere solo delle osservazioni, e non quello che succede tra una osservazione e l’altra. In pratica, non possiamo sapere che cosa accade tra un’osservazione e l’altra, ad esempio sapere esattamente dove si trova un elettrone, perché, a livello quantistico, l’osservazione modifica l’oggetto che noi osserviamo. È il famoso “Principio di Indeterminazione di Heisenberg”, un’idea che ha plasmato la Fisica del Novecento, che ha posto le basi della Teoria della Meccanica Quantistica, un’idea che ha spianato la strada alla comprensione profonda della materia, delle particelle elementari della materia, che ha spianato la strada alla Bomba Atomica. Questa è l’idea rivoluzionaria alla base della Teoria dei Quanti, della Fisica Quantistica, la più grande scoperta scientifica dopo le scoperte di Galileo e Copernico sul moto dei corpi e della Terra intorno al Sole, e dopo la scoperta di Isaac Newton della forza di gravità. Tutta la tecnologia moderna si basa sulla Fisica quantistica: senza la Fisica quantistica non avremmo i moderni computer, gli orologi atomici, le misurazioni precise al nanomillimetro, le armi più moderne. E poi c’è Lei: la Bomba. Un’invenzione che ha cambiato il Mondo e ha inaugurato una nuova era, l’Era Atomica, che ha garantito con la sua deterrenza e con la cosiddetta MAD (Mutual Assured Destruction) tra le due superpotenze, 70 anni di pace in Europa, ma adesso che la guerra è tornata ci rendiamo conto che da questa Era non siamo ancora usciti e forse non ne usciremo mai. O forse ne usciremo con una grande esplosione. Non con un gemito ma con un grande botto, che scuoterà il Mondo. Tutto questo è stato reso possibile – nel bene e nel male – dalla geniale formula di Albert Einstein E = mc e dall’intuizione geniale di Werner Heisenberg. Come scrive il fisico Carlo Rovelli nel suo Libro dedicato all’intuizione di Heisenberg, Helgoland (2020), la Fisica Quantistica è una sorta di pensiero esoterico, una sorta di Teologia Negativa. Capire la Fisica Quantistica significa allontanarsi da qualsiasi preconcetto noi possiamo avere su come sia strutturata la realtà. Significa operare un vero e proprio cambio di paradigma. Dobbiamo sforzarci di uscire dai noi stessi, di uscire dalla nostra mente (ex-stasis), dal nostro modo consueto di pensare la realtà. La Meccanica quantistica, la Legge fondamentale che regola il comportamento delle particelle elementari della materia, è quanto di più controintuitivo si possa immaginare. Come diceva uno dei grandi filosi e apologeti del Cristianesimo, Quinto Settimio Tertulliano: “credo quia absurdum”, “proprio perché è assurdo, io ci credo”. Scrive Rovelli: > “Prendere sul serio la meccanica quantistica, riflettere sulle sue > implicazioni, è un’esperienza quasi psichedelica. Ci chiede di accettare che > la realtà sia profondamente diversa da quanto immaginavamo. Di tuffare uno > sguardo nell’abisso.”  (Helgoland) Ancora più esplicito il grande Fisico Richard Feynman: “se qualcuno pensa di aver capito la Meccanica Quantistica, significa che non l’ha capita.” Mistero dei misteri: una Teoria che non abbiamo mai ben compreso ci consente di utilizzare i nostri GPS, i nuovi computer, i nostri smartphone, e la Bomba. Biografia? Giallo a sfondo scientifico? Thriller scientifico? Spy story? Romanzo storico? Romanzo psicologico? Tutte queste definizioni si potrebbero applicare a uno degli aspetti di questa monumentale biografia di Werner Heisenberg, scritta da Thomas Powers negli anni ‘90 e pubblicata qualche mese fa in traduzione italiana. (Thomas Powers, La guerra di Heisenberg. La Storia Segreta dell’atomica nazista, tr. di Paola Frezza, Fuoriscena, pp. 760, euro 22,00 stampa, euro 13,99 epub). Powers tenta di penetrare nell’Enigma Heisenberg, di squarciare il velo che ci impedisce di vedere da 80 anni che cosa pensasse veramente Heisenberg della Bomba, della possibilità di realizzare l’Atomica Nazista, di intuire gli scrupoli morali che lo spinsero a boicottare o quantomeno a ritardare il programma nucleare tedesco. Senza sostenere mai esplicitamente di aver boicottato la realizzazione della Bomba tedesca, Heisenberg nel dopoguerra fece spesso riferimento alla “situazione psicologica” in cui si erano ritrovati gli scienziati tedeschi che non vennero cacciati in quanto ebrei, gli scienziati tedeschi che avevano deciso di rimanere  “per senso di responsabilità” (attaccamento alla patria in guerra), pur non essendo, nella maggioranza dei casi, esplicitamente nazisti. “Non sono nazista, sono tedesco”, disse lo stesso Heisenberg. Questo libro ha l’ambizione di chiarire una volta per tutte se Heisenberg abbia volutamente rallentato il programma atomico nazista perché ne temeva le conseguenze devastanti derivanti dalla realizzazione della Bomba Atomica, oppure se ne abbia sopravvalutato le difficoltà, oppure ancora se abbia sottovalutato lo stato di avanzamento degli altri, degli Alleati, la loro capacità di produrre effettivamente la Bomba Atomica. Come è noto, alla fine della seconda Guerra mondiale Heisenberg venne catturato dagli Alleati e portato in Inghilterra, in località Farm Hall, e ospitato in una struttura dove era spiato h24 con delle microspie. Da queste registrazioni emerge, all’indomani della terribile duplice esplosione nucleare di Hiroshima e Nagasaki, il 6 e il 9 Agosto del 1945, la sorpresa di Heisenberg e degli altri scienziati nazisti reclusi a Farm Hall, la loro inconsapevolezza di quanto in là si fossero spinti gli scienziati rivali, che all’inizio degli anni ‘40 stavano sviluppando in America un programma atomico analogo al loro. Resta il fatto che, come dice Leonardo Sciascia ne La scomparsa di Majorana (1975), paragonando le drammatiche scelte di Heisenberg, di Ettore Majorana, e i dilemmi morali postumi di Robert Oppenheimer ed altri, le differenze tra gli scienziati al servizio dei due campi contrapposti appaiono evidenti. Gli scienziati tedeschi erano schiavi, vivevano sotto un regime totalitario, ma fecero una scelta da uomini liberi. Gli scienziati europei espatriati in America, invece, erano uomini liberi, ma non esitarono a realizzare la Bomba e a consegnarla ai loro governanti, una Bomba che avrebbe potuto uccidere in un solo colpo decine di migliaia di persone e radere al suolo intere città. Scrive Sciascia: > “Comunque, in un mondo piú umano, piú attento e piú giusto nella scelta dei > suoi valori, dei suoi miti, la figura di Heisenberg piú dovrebbe e nobilmente > aver spicco di altre che nel campo della fisica nucleare operarono negli > stessi suoi anni – piú di coloro che la bomba la fecero, la consegnarono, con > esultanza accolsero la notizia degli effetti e soltanto dopo (ma non tutti) ne > ebbero smarrimento e rimorso.” Parole che ancora risuonano nelle nostre menti. Parole dure come pietre, che ci ricordano sempre quanta ipocrisia c’è nella presunta “superiorità morale” dell’Occidente, degli Alleati, dei “buoni” insomma. Parole da rileggere prima di sganciare nuove bombe, soprattutto atomiche. Corsi e ricorsi storici: il 21 Agosto 1943, gli scienziati Hans Bethe ed Edward Teller presentano ad Oppenheimer un documento in cui si sottolinea che i tedeschi potranno arrivare a produrre una Bomba atomica tra il Novembre del 1943 e il gennaio del 1944. Non so a voi, ma questo piccolo episodio citato da Powers ci ha fatto pensare alle prove sciorinate durante una conferenza stampa dal Premier israeliano Netanyahu in merito alla possibilità che l’Iran potesse produrre entro breve tempo la Bomba Atomica. La Bomba, la possibilità della Bomba, non è più un deterrente, non è più uno dei pilastri sui quali si basava il cosiddetto “equilibrio del terrore” della Guerra Fredda, ma è diventato uno dei più validi motivi scatenanti di nuove guerre. Tra l’altro, chi leggerà attentamente queste pagine capirà perché il metodo di arricchimento dell’uranio tramite centrifughe – su cui si basa l’intero programma nucleare iraniano – fu adottato e successivamente accantonato dagli scienziati americani… Corsi e ricorsi storici: nel 1944 gli americani dell’OSS mandarono il giocatore di baseball Morris “Moe” Berg, ebreo di Newark, in missione in Italia per contattare alcuni dei principali fisici nucleari, tra cui Edoardo Amaldi, tentando tramite loro di contattare Heisenberg, allo scopo di rapirlo o forse ucciderlo durante un convegno scientifico cui doveva partecipare, a Zurigo. Poi, per fortuna, non se ne fece nulla, Moe Berg, uomo di grande cultura, non utilizzò la pistola che portava mentre seguiva le conferenze di Heisenberg, scrisse nei suoi rapporti che Heisenberg somigliava a Oliver St John Gogarty, scrittore irlandese, amico di Joyce e ispiratore del personaggio di Buck Mulligan nello Ulysses, e la vita di Heisenberg fu risparmiata. Da questa spy story quasi incredibile ed estremamente affascinante, ma confermata dai documenti dell’epoca consultati da Powers, è stato tratto un film, The Catcher Was a Spy, per la regia di Ben Lewin, nel 2018. Ottanta anni dopo, lo Stato di Israele sotto il comando di Bibi Netanyahu non si fa scrupoli di organizzare omicidi mirati di decine di scienziati e di tecnici nucleari iraniani, quindi di soggetti che non sono coinvolti direttamente in alcuna azione di guerra contro Israele, al fine di interrompere il programma nucleare degli Ayatollah. La storia si ripete, ma gli scrupoli morali sono quasi del tutto scomparsi. Heisenberg, Einstein, Bohr e pochi altri avevano intuito già negli anni Venti che era possibile, grazie alle nuove teorie quantistiche, costruire una Bomba che avrebbe rilasciato in un attimo l’immensa energia racchiusa negli atomi. In un istante, tutta la materia presente all’interno della Bomba si sarebbe trasformata in energia, secondo la celebre formula di Einstein. Di fronte a questa terribile possibilità, Heisenberg si era tirato indietro, inorridito: E gli altri? La Bomba Atomica non passa mai di moda. Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, la guerra di Gaza, e adesso la guerra dei 12 giorni Israele – Usa – Iran, l’argomento è tornato prepotentemente alla ribalta. Più e più volte, in questi ultimi tre anni, in questi ultimi mesi, in questi ultimi giorni, siamo stati a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, dall’Olocausto nucleare. Per questo continuiamo a chiederci: Heisenberg non riuscì oppure non volle realizzare la Bomba Atomica nazista? Gli studiosi continuano ad indagare sui dilemmi morali di uno dei più grandi scienziati del Novecento. C’è da scommettere che la storia della Teoria dei Quanti, la storia della nascita e dello sviluppo della Bomba, di cui discutiamo ancora oggi, forniranno ancora argomenti sui quali gli storici contemporanei continueranno a discutere nei prossimi decenni. L'articolo Helgoland 1925-2025. 100 anni di Fisica Quantistica – 100 anni di Bomba Atomica proviene da Pulp Magazine.
Cinque storie da votare, cinque voci da ascoltare. Note sui romanzi candidati al Premio Strega 2025
La scrittura letteraria non ha nulla a che fare con la competizione, la scrittura letteraria produce trasformazioni. Se è vero questo assunto, è vero anche che noi di “PULP Magazine”, divoratori e divoratrici di oltre quattrocento libri l’anno e maniacalmente interessati a tutto ciò che orbita intorno all’oggetto libro, abbiamo provato a cimentarci con una rapida disamina dei cinque libri finalisti del Premio Strega 2025, tra i quali questa stasera (in diretta tv) sarà proclamato il vincitore. Un’edizione condita, come sempre, dalle polemiche per quei libri rimasti fuori dalla prima dozzina di selezionati, come Giorni di vetro di Nicoletta Verna (Einaudi) o dalla famigerata cinquina, come La signora Meraviglia di Saba Anglana (Sellerio). Giunto alla sua 79esima edizione, lo Strega fu istituito nel 1947 sotto la direzione di Maria Bellonci e tra i suoi libri premiati annovera alcuni testi a loro modo importanti nella vicenda della letteratura in italiano dal Secondo dopoguerra a oggi. Basti pensare a Tempo di uccidere di Ennio Flaiano (1947) a Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani (1956), a L’Isola di Arturo di Elsa Morante (1957), a Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1959), a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (1963), fino a La chiave a stella di Primo Levi (1979) e a Il nome della rosa di Umberto Eco (1981) o a i più recenti Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti (2007), Resistere non serve a niente di Walter Siti (2013) o La scuola cattolica di Edoardo Albinati (2016). Si tratta, insomma, di andare a sbirciare cosa produce oggi una certa narrativa – va detto che da alcuni anni il Premio si assegna anche alla poesia e alla saggistica – mainstream in Italia, largamente rappresentata da quattro romanzi: L’anniversario di Andrea Bajani (Feltrinelli), Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori (Mondadori), Perduto è questo mare di Elisabetta Rasy (Rizzoli) e Quello che so di te di Nadia Terranova (Guanda), più uno pubblicato da una casa editrice indipendente: Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol (TerraRossa Edizioni). Non per cercare forme di rispecchiamento o di raffigurazione privilegiata della realtà, quanto piuttosto per provare a rendere uno sguardo d’insieme su uno dei tanti spaccati di un mondo editoriale che, come noi ben sappiamo, sa ormai muoversi con agilità e qualità anche in territori un tempo negletti e che oggi, invece, si prendono il giusto spazio, come la fantascienza, il fantastico o il weird. EQUILIBRI PRECARI Andrea Bajani, L’anniversario, Feltrinelli, pp. 128, euro 16,00 stampa, euro 10,99 ebook di VALENTINA MARCOLI Con L’anniversario Andrea Bajani si è aggiudicato il Premio Strega Giovani edizione 2025 ed è in testa alla classifica per ottenere anche il premio principale. È comprensibile che i giovani lettori abbiano amato e votato questo romanzo perché rappresenta un contesto familiare complesso e delicato in cui la violenza fisica da parte del padre nei confronti della madre e della rabbia che esplode feroce in atti e parole prendono il sopravvento. I giovani lettori, dunque, si sono trovati davanti ad una vicenda che interpella ciò che vivono ma senza giudicare. Una donna semplice proveniente da una famiglia borghese che, accanto alla figura del marito, svanisce, si annulla, non ha voce in capitolo nelle questioni famigliari. Una confessione intima in cui molti – purtroppo troppi – ragazzi possono identificarsi, che racconta i sintomi del patriarcato. Una moglie che lavora è una minaccia al ruolo del padre che gestisce l’economia della famiglia, una moglie non può avere amicizie femminili perché il confronto è inevitabile e il telefono fisso in casa non è necessario, così come è dovere di una moglie tacere e accettare che il marito abbia svaghi extraconiugali. “La violenza era il mezzo quando ogni altro mezzo si era rivelato fallimentare, per procacciarsi qualche manifestazione di affetto, anche se insincera” e quindi il padre si serve della paura come forma d’intimidazione per ottenere in risposta amore, affetto. Un comportamento molto comune nella società d’oggi che cresce maschi col senso di colpa se falliscono o si dimostrano sensibili ed emotivi. Sebbene dall’altro lato la percezione sia di una donna debole, in realtà dobbiamo analizzare la forza silenziosa di una persona che evita conflitti e quindi disinnesca il comportamento del padre sul nascere. La penna di Bajani è diretta e pungente, non ha bisogno di mascherare o agghindare gli eventi e i fatti narrati, costituendo forse uno dei motivi per cui la storia colpisce dritta al cuore il lettore senza sbandate. La relazione tra genitori e figli è complicata, un equilibrio precario su cui lavorare con una sincera comunicazione e un confronto costante, osservando l’esistenza di alternative possibili, nella speranza che ci siano sempre più libri a trattare questi argomenti, spesso sottovalutati. COME LA SCRITTURA, ANCHE LA LETTURA È UNA NECESSITÀ Paolo Nori, Chiudo la porta e urlo, Mondadori, pp. 204, euro 19,00 stampa, euro 9,99 ebook di ANNA DA RE Quando esce un nuovo libro di Paolo Nori, sembra come quando uscivano gli LP di una band molto amata e seguita. Appuntamenti attesissimi dai fan e guardati con un po’ di sospetto dai detrattori. Perché Paolo Nori è un po’ divisivo. Ha quello stile suo, molto piacevole e scorrevole e a tratti divertente, ma anche un po’ compiaciuto. Parla di altri scrittori e lo fa molto bene, ma forse parla un po’ troppo di se stesso, nel mentre. E ha una passione assoluta per la letteratura russa e per la Russia, che fino a oggi sembrava molto esclusiva. Invece con Chiudo la porta e urlo Paolo Nori racconta Raffaello Baldini, poeta romagnolo tradotto (anche dallo stesso Nori), perché le sue poesie sono scritte in un dialetto che, persino per Paolo Nori che è di Parma, è una lingua straniera. Raffaello Baldini scriveva in versi liberi, ignorando la metrica e seguendo un suo ritmo interno. Il primo libro lo ha pubblicato a sue spese. Non ha mai cercato la fama o la gloria, la poesia era per lui una necessità, un modo di stare al mondo, di resistere al mondo. La poesia di Raffaello Baldini, strettamente ancorata alla realtà di Santarcangelo di Romagna, ha l’universalità dell’arte. Ci parla con delle parole che non conoscevamo o che non avevamo mai sentito in quell’ordine e in quel contesto, e sono parole che arrivano dritte e chiare a tutti. E dopo averle lette, ci dice giustamente Paolo Nori, ci guardiamo intorno e quello che ci circonda appare diverso, come se si fosse accesa una luce, o il nostro sguardo fosse diventato più acuto e limpido. La poesia, la letteratura ci trasforma profondamente e anche se non vogliamo, questo è il messaggio che gli ultimi romanzi di Paolo Nori ci trasmettono: Sanguina ancora e Vi avverto che vivo per l’ultima volta, dedicati rispettivamente a Dostoevskij e Achmatova. Come gli scrittori si interrogano sul perché scrivono, credo che anche i lettori si interroghino sul perché leggono. E forse è proprio perché cercano uno sguardo più chiaro e pulito sul mondo, di cui più che mai di questi tempi abbiamo bisogno. NEL REGNO DEI PADRI SFUGGENTI Elisabetta Rasy, Perduto è questo mare, Rizzoli, pp. 240, euro 18,00 stampa, euro 9,99 ebook di TANIA TONIN Perduto è questo mare è un memoir intimo e malinconico – la sinfonia che hanno le cose passate – dove Elisabetta Rasy (1947) apre la porta del suo “regno senza padri”: un abisso, dove si può solo sognare quel sole che si vede ma non si riesce a sentire. È mai possibile, si chiede l’autrice, andare avanti senza mai guardare negli occhi di chi ci ha messo al mondo, anche solo fugacemente ma senza maschere, per ricordarci da dove veniamo? Elisabetta Rasy inizia tracciando i fili della sua memoria infantile, in una Napoli sonnolenta del Secondo dopoguerra: una città sospesa tra il Boom economico italiano che lì sembra non arrivare mai e un torpore che scende dritto fino al mare, quel blu avvolgente che profuma di illusioni perdute. Tra i sogni di gloria sfumati del padre e la fuga a Roma con la madre, solo il richiamo inarrestabile del mare sembra tenere ancorata una ragazza che desidera fuggire all’immobilità che sente vibrare nelle ossa, nelle fondamenta di una casa paterna che non sa più di casa. Inizia allora una fuga che durerà decenni, che la farà entrare in quel regno dove i padri sono delle figure sfuggenti, in controluce – come Enea che scende nell’Ade inseguendo un’apparizione onirica del padre; oppure come Franz Kafka, che rivolge al padre austero una lettera, mai letta, sulla distanza insanabile tra di loro. Figure sfuggenti, eppure così concrete nella loro perenne assenza che Elisabetta, quando incontra Raffaele La Capria, celebre scrittore italiano, riconosce in quel “punto cavo in comune” la stessa sostanza – una mancanza che pesa come una pietra. L’amicizia con Raffaele rappresenta l’altro grande filone di Perduto è questo mare: un’amicizia longeva, quotidiana, il cui nucleo profuma dello stesso mare impossibile da risanare. Si conoscono quando Raffaele ha sessantatré anni, la stessa età del padre di Elisabetta quando è morto. Sebbene il loro non sia mai stato un rapporto tra padre e figlia, quell’incontro darà più vigore a quella mutua e abissale mancanza, riaccendo la fiamma paterna perduta. FUTURI RATTRAPPITI Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, TerraRossa Edizioni, pp. 208, euro 16 stampa, euro 8,90 ebook di ROBERTO DEROBERTIS In un’intricata rete di relazioni familiari, ma straziate da una doppia perdita, si immerge anche questo Inventario di Michele Ruol (1986) che, in novantanove brevissimi capitoli che hanno per titolo i mille oggetti che riempiono un interno domestico e quattro vite quotidiane – un inventario, appunto –, dispiega la vicenda frammentaria di due lutti. Cosa resta tra quegli oggetti/macerie quando chi li abita sparisce? Restano voci, episodi, detti e non detti, presenze fantasmatiche: non perturbanti ma certamente dolorose, a tratti lancinanti. La scrittura di Ruol non insiste su una narrazione patemica e tuttavia la sua prosa piana, l’incedere ben cadenzato di frasi brevi colpisce, affonda. Il lutto riavvolge il nastro della vita familiare: una dolorosa macchina del tempo che si spinge fino alla nascita di Maggiore e Minore e, al contempo, la vita di chi è rimasto va avanti, costringendo Madre e Padre a fare continuamente i conti con le conseguenze dell’assenza. Talvolta il racconto va ancora più indietro, a prima della nascita dei figli: è tutto il tempo della vita ad essere (s)travolto a ritroso. L’improvvisa solitudine dei due genitori è un abisso incolmabile che squaderna la devastazione di una coppia che perde completamente di senso. Perché Ruol ha scritto un delicato romanzo sulla disintegrazione nel quale alla graduale (ri)scoperta del mondo sconosciuto dei figli fa da contraltare il mondo nascosto degli adulti: bugie e tradimenti per sopravvivere a nuove routine, perdite, fallimenti, ruoli di genere cristallizzati e allo sfaldamento di un mondo che avrebbe potuto essere e non è stato. Nelle sue pagine implacabilmente analitiche, quasi anatomo-patologiche, Ruol sembra chiedersi e chiederci cosa sia, dinanzi all’inesorabilità della morte, quella costruzione sociale e dell’immaginario che chiamiamo “famiglia”. Di mezzo ci sono anche le nostre identità sociali e individuali. E con quella che sembra una citazione – o almeno un rimando involontario al commovente episodio Be Right Back (Torna da me) della serie Netflix Black Mirror (stagione 2, episodio 1) –, il romanzo lascia che uno dei protagonisti si illuda di poter riportare in vita i morti attraverso una tecnologia ormai quotidiana e pervasiva, perché da quella resurrezione passi anche la sua. IN VIAGGIO NELLA MEMORIA INDIVIDUALE E COLLETTIVA Nadia Terranova, Quello che so di te, Guanda, pp. 272, euro 19 stampa, euro 11,99 ebook di ROBERTO STURM I romanzi autobiografici rischiano sempre di essere autoreferenziali, ma non è il caso di questo testo. La protagonista di questo testo è la stessa scrittrice, diventata madre tardivamente, che non può non rievocare la storia dei suoi avi, e precisamente della bisnonna Venera, impazzita dopo aver perso la terza figlia al nono mese di gravidanza. Nadia non può permettersi di impazzire adesso che è madre e scende a Messina, la sua terra d’origine, per capire quanto di vero o immaginario ci sia nella storia della bisnonna e per dare un significato a tutti quei non detti, superstizioni e bugie che costellano quel poco che sa. È un viaggio nella memoria collettiva e individuale, pieno di intimismo, alla ricerca di scoprire quale sia la mitologia o la realtà della sua famiglia. Con una scrittura potente ed evocativa, uno stile pulito ed essenziale, parole scelte con una cura maniacale che formano un’orchestra, Terranova ci fa riflettere su come la memoria, oltre a uno strumento per non perdere le tracce di un passato che non dovremmo ripetere, sia anche il modo migliore per andare alla ricerca di noi stessi e delle nostre radici, scoprendone i lati più nascosti. E nel romanzo ci sono padri, madri, nonni e bisnonni che con le loro esperienze hanno plasmato e indirizzato anche le nostre vite, c’è una società che dai primi del Novecento è cambiata radicalmente, soprattutto dal punto di vista medico della psichiatria. Una prova difficile superata a pieni voti da un’autrice che si è messa a nudo di fronte ai lettori e che rappresenta un punto di forza della narrativa contemporanea italiana. Un libro che, credo, meriti davvero di essere nella cinquina dei finalisti dello Strega, che non è sempre scontato. UN’ITALIA INTROVERSA? L’orizzonte offerto da questa cinquina è decisamente stratificato e molteplice: si tratta di romanzi che complessivamente attraversano e costruiscono mondi articolati. Tuttavia, mentre quelli di Bajani, Rasy e Ruol insistono su genealogie e conflitti familiari dove le vicende individuali restano spesso confinate ai meri rapporti personali, quelli di Nori e Terranova provano a muoversi da una certa stasi di provincia, tessendo le trame complesse di andirivieni geografici e storici per abbracciare vicende più grandi. Difficile non pensare ad altri premi internazionali, i cui libri premiati, in effetti, tendono ad uscire da contesti claustrofobici – individuali, familiari, provinciali – per guardare a dinamiche temporali e spaziali ben più vaste. È il caso di James di Percival Everett  vincitore dello statunitense Pulitzer Prize for Fiction del 2025, che riattraversa storicamente e geograficamente gli Stati uniti a partire da una sorta di riscrittura di un classico nordamericano; per non parlare di Orbital di Samantha Harvey  vincitore del britannico Booker Prize nel 2024 e che, con grande originalità e un pizzico di vertigine, ci regala la vicenda di sei astronauti che osservano la Terra dalla Stazione orbitante internazionale. O, ancora, si potrebbe guardare al vincitore del francese Prix Goncourt nel 2024, Urì dell’algerino Kamel Daoud che torna nei tempi e nei luoghi della Rivoluzione algerina (1954-1962) per restituire voce ai suoi tanti e alle sue tante protagoniste dimenticate o rimosse e lo fa nella lingua del colonizzatore di allora. E se poi volessimo uscire almeno per un attimo dal recinto eurocentrico, il vincitore dell’International Prize for Arabic Fiction del 2024, Una maschera colore del cielo dello scrittore palestinese Bassem Khandaqji (1983) ci porta al conflitto israelo-palestinese attraverso la vicenda di un archeologo e del rinvenimento casuale di una carta di identità: una vicenda che sonda geologicamente questa Storia così intricata e dolorosa. Insomma, messa in un quadro più ampio, la bella cinquina del nostro Strega ci mostra forse un’Italia timida, quando non introversa: chiusa in se stessa, un Paese intimorito che avrebbe forse bisogno di esplorare i suoi confini e andare oltre, respirare un po’. In fondo, attraversata ai suoi bordi, forse mai come in questo momento la scrittura letteraria italiana è stata così vivace. L'articolo Cinque storie da votare, cinque voci da ascoltare. Note sui romanzi candidati al Premio Strega 2025 proviene da Pulp Magazine.