Scioglimento del PKK e confederalismo democratico: considerazioni sul processo di pace in TurchiaLa chiamata al disarmo del 27 febbraio da parte del leader Öcalan ha avviato un
cambiamento epocale, rispetto al quale si aprono molte incognite. La strada
della pace è senza dubbio una strada nuova, e un certo scetticismo rispetto
all’atteggiamento della Turchia rimane tuttavia legittimo e doveroso, visto
anche che Bahçeli, leader del Mhp, il partito nazionalista di estrema destra
turco, attraverso le sue dichiarazioni ha continuato sì a chiedere lo
scioglimento del PKK, ma senza promettere cambiamenti nella costituzione per il
riconoscimento del popolo, della cultura e della lingua curda.
Le stesse dichiarazioni di Erdogan rispetto all’apertura sono molto più caute di
quelle di Bahçeli: non a caso è proprio quest’ultimo a essersi esposto, e non il
capo dello Stato. In ogni caso, come abbiamo visto e sentito all’inizio di
questa settimana, a seguito del dodicesimo congresso, il PKK ha dichiarato la
cessazione della lotta armata e il suo scioglimento.
Di certo non ci si può aspettare che la lotta del popolo curdo finisca qui, ma
proseguirà con altri mezzi se lo stato turco si impegnerà attraverso passi
altrettanto significativi.
> Al di là di quanto i media occidentali vogliano far passare, la questione non
> si svolge seguendo una logica binaria, in cui da un momento all’altro finisce
> tutto e il diritto di un popolo di difendersi viene cancellato. Tale diritto è
> – e rimane – inviolabile e in grado di travalicare qualunque gerarchia.
E questo implica quantomeno un fermo no all’approccio securitario portato avanti
dal governo turco, ma riforme e inclusione del PKK dissolto nel processo di pace
e nella vita politica in Turchia, nonché il rilascio di prigionieri politici e
un cambio di paradigma riguardo al coinvolgimento turco in Siria. C’è bisogno di
cambiamenti approvati dal parlamento che vadano oltre le vuote dichiarazioni di
apertura attualmente sul piatto rilasciate dal governo turco, nonché del
riconoscimento del popolo curdo e dei suoi diritti, anche culturali.
In tal senso, l’arresto e l’incarcerazione del sindaco di Istanbul Ekrem
Imamoglu e la sistematica sospensione delle amministrazioni locali del partito
filo-curdo Dem nei territori nel sud est della Turchia non sono certo un buon
viatico per il governo.
Istanbul, Gezi Park dall’alto, foto di Benedetta Rossi, dicembre 2024
Non lo sono dal punto di vista del consenso interno, dal momento che il Paese è
attraversato da movimenti di piazza brutalmente repressi ormai da mesi, né per
le prospettive di mantenimento delle promesse nei confronti della comunità
curda. Ma Erdogan ha bisogno di un largo consenso per poter cambiare la
costituzione ed essere rieletto per un quarto mandato nel 2028, obiettivo questo
pressoché irraggiungibile senza il sostegno di elettori ed elettrici curde.
> Riuscirà il governo a comporre le opposizioni interne, a fronte dei passi
> epocali compiuti dal PKK? Non c’è un impegno altrettanto incisivo da parte
> della Turchia, al momento.
La diffidenza è molta, e questo è in parte naturale, ma non si possono porre le
basi per il dialogo su una pace duratura senza che ci sia uno sforzo equo da
entrambe le parti. Anche a livello sociale, nessuna delle due parti gode di
ottima fiducia e su questo aspetto sarà fondamentale operare. Non c’è democrazia
senza trasparenza e senza il sostegno del popolo.
In tal senso, il rilascio di Abdullah Öcalan sembra ancora una richiesta lontana
dall’essere accolta, ma a questo punto sarebbe opportuno quantomeno un drastico
cambiamento delle sue condizioni di isolamento carcerario, e del resto è
impossibile immaginare un avanzamento dei negoziati senza che a guidarlo sia
proprio Öcalan. Continuare a tenerlo in isolamento e in uno stato di
prostrazione politica e personale perpetuerebbe uno squilibrio di potere
inaccettabile, che non gioverebbe certo alla costruzione di un futuro di pace.
Accogliere questa richiesta sarebbe un segno tangibile dell’impegno di Erdogan.
> Questo potrebbe forse tradursi in una maggiore fiducia da parte delle curde e
> dei curdi e del partito Dem nei confronti dell’Akp e della maggioranza di
> governo, ma avrebbe forse un costo in termini di voti da parte degli elettori
> duri e puri del partito di Erdogan.
Sul piano internazionale, inoltre, ci sono moltissimi elementi da tenere ancora
ben presenti: il cambiamento di governo negli Usa e l’incertezza tanto a
Washington quanto in Medio Oriente. Ma la domanda che occorre porsi è questa:
nel PKK c’erano combattenti curdə, turchə, irachenə, iranianə, sirianə, solo per
citarne alcunə. Cosa accadrà a queste persone? Come potremo garantire che i loro
diritti vengano rispettati?
Sia come sia, l’Occidente ha tutto da guadagnare e imparare, da questo processo
di pace.
Guadagnare in termini di potenziale stabilizzazione del Medio Oriente, qualora i
negoziati andassero a buon fine, imparare perché, attraverso una maggiore
integrazione dei principi del confederalismo democratico a livello
istituzionale, si potrebbero realmente cogliere i presupposti per far
germogliare e prosperare un nuovo approccio alle istituzioni e soprattutto alla
messa in discussione del concetto stesso di Stato-nazione, per guardare
piuttosto a una più che auspicabile unione di popoli, con ripercussioni concrete
sul modo in cui concepiamo le politiche migratorie e i conflitti. Altrettanto
potremmo imparare in merito all’integrazione e al ruolo fondamentale, sociale e
istituzionale, delle donne, nel momento in cui i principi del confederalismo
democratico venissero sdoganati nel dibattito pubblico e istituzionale.
Wishful thinking? Per ora osserviamo e ascoltiamo con occhi e orecchie ben
aperte.
Immagine di copertina di Kurdishstruggle su Wikimedia Commons
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