Di che cosa Toni è il nome
Chi non è più giovanissimo sa che cosa voleva dire citare il nome di Toni Negri
in Italia negli anni precedenti al suo successo planetario avvenuto più o meno
all’altezza dei primi anni Duemila. Nella migliore delle ipotesi ci si trovava
di fronte a un’alzata di spalle, nella peggiore a un anatema o a un’accusa di
essere fiancheggiatore di un terrorista. Perchè il teorema Calogero – la cui
istruttoria, è bene ricordarlo a chi non conosce la storia italiana degli anni
Settanta, venne ridicolizzata in sede di dibattimento e la pressoché totalità
delle accuse riconosciute come delle bizzarre fantasie cospirazioniste – ha in
realtà scavato nel profondo dell’inconscio della nazione.
E l’associazione di Toni Negri con un insieme indefinito di fatti di sangue
degli anni Settanta («l’ideologo degli anni di piombo») è stato per molto tempo
così forte da andare oltre ogni evidenza giudiziaria e verità storica. Poi
certo, le cose sono cambiate e, come accade sempre a un paese così esterofilo
come l’Italia, gli intellettuali rimossi e cacciati fuori dalla porta, sono
finiti per rientrare dalla finestra, magari passando da Parigi, New York o
Londra, o da qualche copertina di rotocalchi americani à la page. Ma fino
all’uscita di Impero Negri continuava a essere nel senso comune reazionario e
conservatore (ma anche PCI-ista, è bene ricordarlo ai nostalgici di quel
partito) una figura quasi mefistofelica e dalla morale ambigua.
> Se questo è quello che ha vissuto negli anni Ottanta e Novanta chiunque si sia
> associato a lui o al suo nome, intellettualmente o politicamente, immaginiamo
> che cosa dev’essere stato per una figlia che nel 1979, l’anno dell’arresto,
> aveva 14 anni e che ha vissuto la devastante campagna di stampa contro Negri
> negli anni dell’adolescenza: il mondo che parlava del proprio padre e che lo
> identificava come il sommo responsabile di tutto quello che di negativo stava
> accadendo a un paese.
Dire «non volevo più essere la figlia di Toni Negri», non vuol dire altro che
ammettere l’ingombro di un nome che, come tutti i nomi, non si è scelto, ma che
può finire per sovradeterminare una vita, fino a paralizzarla. Perché può
succedere che “essere la figlia di” esca dalla bocca dell’Altro come una
sentenza su di sé. I nomi, però, anche quando in un momento particolare della
storia (collettiva e soggettiva) sembra che creino un’associazione inevitabile e
che diventino una gabbia dalla quale è impossibile uscire, sono anche qualcosa
di molto poroso, che nel tempo può cambiare e di cui eventualmente – attraverso
un lavoro senz’altro lungo e difficile – ci si può riappropriare. Lacan lo
sapeva bene: il padre, è innanzitutto un nome. E i nomi possono voler dire tante
cose: non solo perché nelle bocche degli altri “Toni Negri” vuol dire tante cose
diverse, spesso anche in contraddizione tra loro. Ma perché per una figlia si
tratta di interrogare – nel momento in cui tutte queste significazioni, dopo
tanti anni, si sono esaurite – che cosa quel nome voglia dire per sé.
Toni, mio padre è proprio questo e lo si capisce evidentemente già dal titolo:
un film dove la figlia Anna scava dentro quel nome per interrogarlo e vedere che
cosa c’è dentro. Non per il mondo attorno, non per le tantissime compagne e i
tantissimi compagni che l’hanno conosciuto e che hanno fatto un pezzo di strada
con lui, ma innanzitutto per lei stessa. E si potrebbe obiettare che questo è
quello che Anna Negri aveva già fatto nel libro autobiografico Con un piede
impigliato nella storia (Feltrinelli 2009 e ora DeriveApprodi).
In realtà la bellezza di questo film è che non è né un documentario sulla vita
di Toni Negri (di cui mancano pressoché del tutto diversi decenni
importantissimi, a partire da tutto quello che è successo dopo gli anni Duemila,
ma anche sull’esilio di Parigi si dice poco o nulla), sul quale esistono tre
volumi di esaustiva autobiografia, né soltanto un film sul rapporto tra Anna e
suo padre, che ricreerebbe un doppione del libro. Con grande sensibilità
cinematografica, Anna Negri decide quel rapporto di rimetterlo in scena di
fronte a una macchina da presa, con un gusto per il re-enactment non privo anche
di qualche nota comica e persino ridicola, e per il quale Toni si mette in gioco
con un’umiltà e dedizione davvero stupefacente (durante le riprese del film la
sua salute è già piuttosto precaria).
Quello che ne esce è un film pieno di momenti con un altissimo tasso di
performance e di finzione (e Anna Negri lo sa bene perché include nel montaggio
anche diversi dialoghi che parlano del film stesso e della sua messa in scena)
ma che non per questo – o forse proprio per questo – non è privo di grandi
attimi di verità. Anzi, forse i momenti più deboli del film sono proprio quelli
propriamente documentaristi dove la regista si lascia andare a qualche
illustrazione di troppo, sottomettendosi alla regola d’oro del senso comune
documentaristico: cioè voce off più materiale d’archivio. Ma per la gran parte
questo film non ci parla di un rapporto tra padre e figlia nel passato, ma ce lo
mostra mettendolo in scena nel presente.
> I momenti migliori sono infatti quelli dove la tensione tra i punti di vista
> si fa più acuta, e dove i linguaggi di una figlia che vorrebbe parlare di
> rapporti famigliari e di un padre che invece vede il registro pubblico e
> privato in completa continuità si scontrano e per lo più non si capiscono.
Ma dove anche a partire dall’incomprensione qualcosa accade. Perchè Toni non è
certo colui che vuole rimuovere il privato della vita soggettiva a beneficio
della dimensione collettiva e universalizzante, ma dove la dimensione privata è
parte di quello stesso desiderio di liberazione che muove la collettività: l’uno
sta dentro l’altro e viceversa.
È per questo che il film non diventa mai quello che in casi analoghi sarebbe
quasi certamente diventato: l’esposizione della vita privata della grande figura
pubblica che mostra la verità che il discorso pubblico nasconde.
E allora, la storia di un ragazzo calabrese che emigra in una città per cambiare
sesso diventa l’occasione per Toni per mettere in discussione il presunto
individualismo di Anna (che a detta sua non riesce ad accettare la radice comune
e non individualista anche di un desiderio di transizione). Così come la celebre
fotografia del militante dell’autonomia in via de Amicis a Milano che punta la
pistola contro un agente di polizia diventa l’occasione per Anna per ammettere
la sua difficoltà di fronte alla violenza del conflitto di classe italiano a cui
Toni risponde: «perché fai fatica ad accettare che i tuoi genitori siano stati
due rivoluzionari?».
Ma il film è pieno di momenti memorabili, come quando Toni spiega che cosa sia
per lui ancora oggi il comunismo («resto comunista non solo perchè è giusto
distribuire la ricchezza in parti uguali, ma è anche giusto lavorare tutti
ugualmente») o perché continui a usare l’espressione «i compagni delle BR», o
perché il conatus di Spinoza parli in realtà di una dimensione comune e
trans-individuale, o come quando alla fine del film parli dell’amore come una
virtù della vecchiaia e non della gioventù («l’amore in gioventù è una cosa
eccitata, spesso volgare, che ha più a che vedere con la ginnastica mentre
quando sei vecchio l’amore è qualche cosa che veramente si lega alla vita»).
> Ha ragione Ida Dominijanni a dire che «quella funzione paterna che Anna gli
> imputa di non aver saputo o voluto esercitare nella vita» Toni Negri la
> conquista nel film «di fotogramma in fotogramma», e che il film ce la mostra
> più che raccontarcela.
E che la sua figura ne esce in modo splendido, anche se in conseguenza di uno
sguardo obliquo, molto diverso da quello che qualunque compagno o militante
avrebbe mai saputo dare. Perché quello che Anna Negri vuole mostrare è una
funziona paterna che non ha niente a che vedere con la comprensione, il
rispecchiamento o la sentimentalità ma che prende corpo in una differenza non
priva di spigoli («se noi abbiamo sbagliato, dimmelo tu come si fa oggi a
lottare contro l’alienazione che tu stessa denunci»). E in effetti il film non
si chiude con una riconciliazione, magari recitata a beneficio della macchina da
presa, ma con due persone che in una barca in giro per Venezia guardano in due
direzioni diverse, con anche un lieve sguardo malinconico. Che è anche un bel
modo per mostrare al termine di film, che quello che ci unisce e ci separa, a
volte è fatto di quella medesima sostanza comune a cui Toni ha dedicato tutta la
vita.
In copertina un fotogramma del film
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