Tag - Rojava

Dal fiume al mare
NELLE GRANDI MANIFESTAZIONI E INIZIATIVE PER LA PALESTINA C’È UNA ASPETTATIVA, SOPRATTUTTO TRA I TANTI GIOVANI DI OGNI ANGOLO DEL MONDO, A ROVESCIARE IN PROFONDITÀ LO STATO DI COSE PRESENTE. A “DUE POPOLI E DUE STATI” NON CI CREDE PIÙ NESSUNO. COS’ALTRO? ILAN PAPPÉ, AD ESEMPIO, ALLUDE, SENZA PERÒ FINORA MISURARSI FINO IN FONDO, ALL’IPOTESI CHE LA SOLUZIONE POSSIBILE STIA NEL SUPERAMENTO, NON SOLO IN PALESTINA, DELLO “STATO VESTFALIANO” (UN TERRITORIO, UN POPOLO, UN POTERE STATUALE, E ANCHE UNA RELIGIONE O UNA CULTURA, CHE COINCIDONO), SOSTITUITO, SCRIVE GUIDO VIALE, DA UNA LIBERA ASSOCIAZIONE E CONVIVENZA DI COMUNITÀ AUTONOME IN GRADO DI NEGOZIARE I RECIPROCI RAPPORTI: UNA PROSPETTIVA CHE IMPLICA, TRA LE ALTRE COSE, LO SMANTELLAMENTO DELL’ESERCITO ISRAELIANO, IL DISARMO DI HAMAS E L’AFFRONTARE, CON IL SUPPORTO DI ENTI TERZI, LA QUESTIONE DELLA RESTITUZIONE DEI BENI. UNA STRADA IN SALITA, CERTO, E NON IMMEDIATA, MA CHE IN REALTÀ È GIÀ IN PARTE REALIZZATA, TRA INEVITABILI LIMITI E CONTRADDIZIONI, DALLA CONFEDERAZIONE DEMOCRATICA DEL ROJAVA… Parma, 2 ottobre. Foto di Donne in nero -------------------------------------------------------------------------------- Demonizzare, prendere le distanze, o anche solo disertare le manifestazioni e le iniziative per la Palestina che si svolgono da mesi (e anni) in tutto il mondo, pur non avendo nessuna intenzione di sostenere il genocidio messo in atto da Israele perché, tra decine, centinaia e migliaia di striscioni e cartelli ce n’è uno che inneggia al 7 ottobre è come guardare il dito (orribile) e non vedere la luna (bellissima). È noto che, quali ne siano i promotori, l’adesione di massa a queste manifestazioni è il frutto di molteplici reti informali che non sono organizzazioni, non hanno “servizi d’ordine”, ma soprattutto non hanno “autorità” in grado di decidere chi ha diritto di sfilare e chi no. Il senso vero di queste mobilitazioni sta tutto nel numero e nella giovanissima età dei partecipanti, e nel loro spirito al tempo stesso disperato, per quel che succede, e gioioso, per il fatto di esserci: nel rovesciamento di quella cappa di conformismo complice che caratterizza il “mondo politico” nei cinque continenti. Ma che ne è di quel “Dal fiume al mare – Palestina libera!” gridato (in inglese) da tutti, che è lo slogan di Hamas? Non è solo “lo slogan di Hamas”; è lo slogan di tutte e di tutti i partecipanti a quelle mobilitazioni, a cui ciascuno da un senso differente. Ma forse che tra quel fiume e quel mare c’è qualche parte del territorio in cui la Palestina, cioè i palestinesi, non debbano o non possano voler essere liberi? Certo c’è chi interpreta quello slogan come la soppressione di Israele, anche se ben pochi pensano che se in un domani, per non si sa quali circostanze, le sorti del conflitto si invertissero, ciò debba comportare la cacciata o l’eliminazione di tutti gli ebrei insediati in Israele, come oggi le destre sioniste messianiche invocano apertamente discriminazione, sottomissione, cacciata e sterminio di tutti i palestinesi che si trovano tra il fiume e il mare. Ma per i più, per coloro che riempiono le mobilitazioni e le altre iniziative per la Palestina che si moltiplicano in tutto il mondo, dal fiume al mare dovrà essere un territorio in cui ci sia posto per tutte e per tutti: ebrei, musulmani, cristiani, drusi, laici; autoctoni e immigrati. Tutti e tutte messe in grado di godere degli stessi diritti. Perché nelle mobilitazioni per la Palestina, ma anche in molte di quelle che vedono come protagoniste le nuove generazioni in tante parti del mondo, c’è molto di più della sola solidarietà e di una prospettiva di pace che riscatti la condizione di chi oggi è oppresso nel più crudele, cinico e ipocrita dei modi. C’è una aspettativa e un’aspirazione a rovesciare lo stato di cose presente. Ma, tornando al fiume e al mare, il problema è il “come?”. Si aprono divergenze che non riguardano solo la Palestina di domani, ma in qualche modo il futuro di tutto il mondo di oggi. Perciò questa vicenda attrae l’attenzione generale, anche se in altre regioni massacri, esecuzioni, distruzioni, fame e sterminii sono, se possibile, persino più estesi o spietati di quelli messi in atto da Israele. Allora? “Due popoli e due Stati”? Non ci crede più nessuno: quello che dovrebbe esse lo Stato di Palestina è completamente devastato nella striscia di Gaza e divorato da insediamenti e “avamposti” di coloni israeliani in Cisgiordania. Diviso in zone non contigue, privo di una propria economia, messo continuamente in forse dalla prepotenza di Israele, non ha alcuna chance di esistere se non come appendice del suo potente antagonista. D’altronde, nei piani di pace, la “striscia” è destinata a diventare una proprietà privata altrui, riaprendo le porte alla colonizzazione israeliana sotto forma di investimenti immobiliari, mentre la Cisgiordania resterà comunque un’area di occupazione dove i palestinesi avranno sempre meno possibilità di vivere in pace. Un unico Stato, allora? Ormai lo prospettano tutti coloro che si rifiutano di usare “due popoli, due Stati” come specchietto per le allodole e alibi per evitare di confrontarsi con la realtà. Ma quale Stato? Per alcuni non c’è alterativa all’annessione a Israele di tutta la Palestina. Non lo dicono apertamente, ma non prospettano alcun possibile esito diverso. Per altri, invece – e lo dicono apertamente già nei titoli dei loro libri, come Il suicidio di Israele o La fine di Israele – sarà il genocidio in corso e il modo in cui si è innestato nella guerra che Israele conduce contro la Palestina dalla sua nascita, o dal 1967, a decretarne la fine: non quella della comunità ebraica ormai insediata da tre o più generazioni su quella terra, ma quella del suo Stato, insidiato dal contrasto incontenibile tra messianici e laici; per aprire la strada a una nuova entità statale di cui non si sa, o non si sa ancora, enunciare né nome né connotati. Anche lo storico Ilan Pappé (in La fine di Israele citato), tra quelli che si spingono di più in questa direzione, non arriva a confrontarsi con i due problemi principali – non che siano gli unici! – di questa prospettiva; che non è solo la convivenza e la tolleranza tra due comunità nemiche. Il primo è il “diritto al ritorno”: che non quello che apre le porte di Israele a chiunque dimostri o dichiari di essere ebreo, e con cui i governi di quello Stato hanno popolato il suo territorio per decenni, bensì quello la risoluzione 194 dell’Onu riconosce ai profughi palestinesi della Nakba del ’47, ‘48 e ’49 e anni seguenti che si trovano nei campi, sia in Palestina che all’estero, soprattutto in Libano, Siria, Giordania ed Egitto. Allora erano quasi un milione; oggi sono cinque volte tanto. Pappé ritiene che “tra il fiume e il mare” ci sia posto per tutti, tanto più che molti ebrei se ne stanno andando o lasceranno Israele nei prossimi anni. Ma come risolvere il problema della restituzione di beni, case, terreni e interi villaggi nel frattempo occupati da generazioni di cittadini ebrei di Israele? E quello delle relative compensazioni? È evidente che non potrà esserci una soluzione univoca, centralizzata e meno che mai immediata. Dovrà essere un processo graduale, decentrato e negoziato caso per caso – cosa che non può essere fatta se non da comunità il più possibile autonome – sotto una sorveglianza ferrea di qualche entità “terza”. Un’entità che abbia il controllo della forza. Questo richiede non solo il disarmo di Hamas, ma anche lo smantellamento dell’esercito israeliano (uno dei più potenti del mondo!) e del suo arsenale, compreso quello nucleare; un potere che nessun israeliano e nessun palestinese potrà mai accettare che venga messo in mano a un governo e a uno Stato maggiore di ufficiali civili e militari “misti”. Pappé adombra, senza misurarsi fino in fondo con le sue implicazioni, l’ipotesi che la soluzione possibile di questo garbuglio stia nel superamento o nella dissoluzione, innanzitutto in terra di Palestina, ma non solo, dello “Stato vestfaliano” (un territorio, un popolo, un potere statuale, e anche una religione o una cultura, che coincidono), sostituito da una libera associazione e convivenza di comunità autonome in grado di negoziare i reciproci rapporti: come era, almeno in parte, la coesistenza di comunità etniche e religiose differenti sotto l’impero ottomano, sottoposte al suo dominio e controllo ma capaci di convivere e di contaminarsi reciprocamente, prima che le potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale le smembrassero per costituirle in Stati (coloniali) separati e divisi da confini disegnati a tavolino: la vera origine del caos che da allora caratterizza il Medio Oriente. Una prospettiva già in parte delineata e realizzata dalla Confederazione democratica del Rojava, ma che, proprio per le difficoltà e le problematiche della sua realizzazione esplora la strada che dovrà essere percorsa per superare gli attuali assetti politici, ma soprattutto quelli sociali, economici e culturali, anche in tutto il resto del mondo. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY: > La critica è un canto di lodi alla rivoluzione -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Dal fiume al mare proviene da Comune-info.
Scontri nella notte nel nord-est della Siria
Situazione molto pesante nel nord-est della Siria e nelle altre zone del paese abitati dalle comunità curde, scontri e violenze hanno provocato decine di vittime civili. Con Tiziano di UIKI onlus cerchiamo di fare il punto della situazione.
L’Amministrazione autonoma condanna il “barbaro attacco” a Dêr Hafir
L’Amministrazione autonoma democratica della Siria settentrionale e orientale ha descritto il massacro di civili perpetrato dalle forze di Damasco sabato sera come un “attacco barbaro” e ha invitato la comunità internazionale ad assumersi le proprie responsabilità. La sera di sabato 20 settembre, le forze affiliate al governo ad interim di Damasco hanno compiuto un attacco nel villaggio di Um Tine, a Dêr Hafir, uccidendo 7 civili. L’Amministrazione Autonoma della Siria Settentrionale e Orientale ha dichiarato: “Condanniamo fermamente questi attacchi barbarici. Questo assalto è un segno del perdurare di un approccio ostile contro il nostro popolo”. La dichiarazione prosegue: “In questo periodo in cui il nostro Paese sta attraversando un processo delicato, tutti devono impegnarsi in sforzi liberi dalla violenza e dalla negazione per un futuro sicuro. I colpevoli devono essere portati davanti alla giustizia e puniti. Invitiamo inoltre la comunità internazionale ad adempiere alle proprie responsabilità morali e umanitarie nei confronti dei civili”.
La Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia compie 10 anni
Fondata a Livorno nel 2015, la Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia ETS è nata in un momento cruciale: la guerra civile siriana era al suo apice e l’avanzata dell’ISIS in Siria e in Iraq stava causando massacri e distruzione. Proprio allora … Leggi tutto L'articolo La Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia compie 10 anni sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
La rivoluzione in Rojava e la Siria del dopo Assad
L’esperienza rivoluzionaria che da più di dieci anni con fatica si sta realizzando in Siria del Nord e dell’Est oggi deve confrontarsi con la nuova realtà politica di Hayat Tahrir al-Sham (HTS, Unione di Liberazione del Levante) che dall’otto dicembre 2024 ha preso il potere a Damasco. La fine del regime dispotico e sanguinario del Partito Ba’th siriano (Ḥizb al-baʿṯ al-ʿarabī al-ištirākī), a guida incontrastata della famiglia Assad, è stata accolta con gioia dalla popolazione della Siria del Nord e dell’Est. Hafez Assad, il padre di Bashar, prese il potere in Siria con un colpo di stato nel 1970. La corruzione e la repressione sono state alla base del potere del Ba’th in Siria, trasformando il paese in una cleptocrazia e in una dittatura spietata. Il culto della personalità, prima di Hafez e poi di Bashar, è stato imposto in modo dispotico ai siriani. Come è stata imposta l’arabizzazione di tutto il paese, nonostante in Siria siano presenti numerose etnie non arabe e diverse comunità religiose (curdi, armeni, assiri, turkmeni e circassi, sunniti, sciiti, alawiti, cristiani, drusi, ezidi e altri siriani). Pur di rimanere al potere, gli Assad, hanno esercitato una durissima repressione contro ogni dissenso, usando anche le armi pesanti e i bombardamenti aerei contro le manifestazioni popolari che chiedevano una svolta democratica in Siria. La repressione ha colpito centinaia di migliaia di persone tra oppositori, ribelli e dissidenti, aprendo la strada alla guerra civile che ha insanguinato la Siria per quasi quindici anni. Il dissolvimento in soli otto giorni del regime Baathista apre però tantissimi interrogativi sul futuro dell’intero Medio Oriente. Appare chiaro come la caduta del regime di Damasco sia stata orchestrata da un intenso lavoro fra le intelligence delle potenze geostrategiche (in primo luogo Stati Uniti e Russia) e delle potenze locali (Arabia Saudita, Qatar, Iran, Israele, Turchia), con il beneplacito dell’Unione Europea, che con nonchalance hanno sdoganato i jihadisti tagliagole dell’HTS, eredi di al-Nuṣra e del Daesh (ISIS), e il loro leader Ahmed al-Sharah/al-Jolan quali portatori della democrazia in quella terra martoriata. Dopo la dissoluzione del regime degli Assad, il governo turco ha iniziato una dura campagna militare spingendo le milizie jihadiste del cosiddetto Esercito Nazionale Siriano (SNA) contro i territori controllati dall’Autorità Autonoma Democratica della Siria del Nord e dell’Est (DAANES). L’SNA, foraggiato e diretto dalla Turchia, già dal dicembre scorso ha intrapreso un massiccio attacco contro i territori autonomi della Siria del Nord e dell’Est spingendosi fino alle sponde dell’Eufrate. Le Forze Democratiche Siriane (SDF), hanno fermato lungo l’Eufrate l’offensiva delle SNA diretta alla conquista di Kobane, città simbolo della resistenza ai tagliagole dell’ISIS. La popolazione della Siria del Nord e dell’Est si è sollevata dando pieno appoggio alle milizie popolari rivoluzionarie e contribuendo in modo essenziale a difendere la diga di Teshrin, dove sono giunte migliaia di persone, famiglie intere che hanno offerto i propri corpi per respingere l’orda reazionaria del SNA. Tantissimi i morti sotto i bombardamenti, ma l’avanzata delle milizie Jihādiste filo-turche è stata fermata. La diga di Teshrin sull’Eufrate è divenuta il nuovo simbolo della resistenza in Rojava per la difesa delle conquiste del Confederalismo Democratico. Mentre le SDF fermavano l’offensiva dell’SNA i rappresentanti dell’Autorità Autonoma Democratica della Siria del Nord e dell’Est (DAANES) hanno cercato un dialogo costruttivo con i nuovi governanti di Damasco nel tentativo di andare verso la costruzione di una nuova Siria democratica e confederale. Ma i messaggi arrivati da Damasco non sono confortanti. Dopo le dichiarazioni Jihādiste di Ahmed al-Sharah in vista della riscrittura della carta costituzionale, il governo sunnita di Damasco ha scatenato le forze di sicurezza nella Siria dell’Ovest dove sono stati compiuti atti di efferata violenza contro la popolazione alawita (di osservanza sciita). Più di 1.400 i civili alawiti sono stati uccisi, soprattutto nelle provincie di Latakia e Tartus. A controbilanciare il centralismo di Damasco a fine aprile a Qamishlo, nella Siria del Nord Est, oltre 400 delegati provenienti da diverse parti del Kurdistan e della Siria hanno partecipato alla Conferenza sull’unità curda e la posizione comune in Rojava. La Conferenza ha rilanciato la centralità del progetto del Rojava, tra pluralismo, autodeterminazione e ruolo centrale delle donne nel futuro democratico della Siria. L’incontro ha reso centrale l’esperienza rivoluzionaria del Rojava, reclamando il diritto all’esistenza e alla partecipazione nella nuova Siria post Baathista. La partecipazione ampia delle organizzazioni delle donne ha ribadito come la questione della parità di genere attraversi ogni livello del dibattito curdo, definendo una pratica politica in cui l’autodeterminazione si intreccia a una riformulazione radicale dei rapporti di potere. In Siria del Nord e dell’Est, la liberazione delle donne non rappresenta un segmento separato, ma il centro propulsivo di un immaginario condiviso. La Conferenza ha approvato il documento finale che auspica l’unificazione delle regioni curde sotto l’egida federale siriana, come unità politica e amministrativa integrata, e che contiene disposizioni chiave sia sullo Stato nazionale siriano che sull’entità nazionale curda. Viene ribadito che la Siria è una regione con una molteplicità di nazionalità, culture, religioni e sette; la sua costituzione deve garantire i diritti di tutte le componenti presenti in Siria (Arabi, Curdi, Siriaci, Assiri, Circassi, Turcomanni, Alawiti, Drusi, ezidi e Cristiani). Lo Stato deve rispettare i diritti umani e il principio di cittadinanza paritaria. Il sistema di governo della Siria dove essere basato sul pluralismo politico, il trasferimento pacifico del potere, la separazione dei poteri e l’inclusione di consigli regionali all’interno di un quadro di decentralizzazione. Si deve adottare la decentralizzazione, garantendo una distribuzione equa dell’autorità e della ricchezza. Lo Stato dovrà essere neutrale verso le religioni e le credenze, garantendo la libertà di pratica religiosa e riconoscendo ufficialmente la fede ezida. L’identità nazionale unificata deve rispettare la specificità delle diversità. Ci deve essere la garanzia dell’uguaglianza di genere e della rappresentanza delle donne in tutte le istituzioni. Tutela dei diritti dei bambini. Garanzia al ritorno sicuro degli sfollati, nelle aree curde e in tutta la Siria. L’Assemblea costituente dovrà essere sotto patrocinio internazionale, con rappresentanti di tutte le componenti siriane, per redigere principi democratici e formare un governo rappresentativo di tutta la Siria con pieni poteri esecutivi. Deve valere la facoltà di esprimersi ed essere educati nella propria lingua madre e di praticare la propria cultura come diritto di tutte le comunità. Dev’essere legittimata la proclamazione dell’8 marzo come Giornata Nazionale delle Donne. Le aree curde devono essere unificate in un’unità politico-amministrativa all’interno di una Siria federale con il riconoscimento del popolo curdo come popolo autoctono in Siria, garantendo i propri diritti politici, culturali e amministrativi. La lingua curda va riconosciuta come lingua ufficiale accanto all’arabo con garanzia del suo insegnamento e apprendimento. Vanno abolite tutte le politiche, procedure e leggi eccezionali applicate contro i curdi, risarcendo i danneggiati da tali discriminazioni, ripristinando lo status precedente di queste aree e annullando gli accordi segreti e pubblici che minano la sovranità siriana e l’esistenza curda. Va restituita la cittadinanza siriana ai curdi, a cui era stata sottratta durante il censimento eccezionale del 1962, e avviata la risoluzione dello status dei curdi non registrati. Va promosso lo sviluppo delle infrastrutture nelle aree curde con l’allocazione di una quota delle risorse pubbliche per lo sviluppo e la ricostruzione, affrontando la marginalizzazione e il deliberato abbandono subiti nelle fasi precedenti. La risposta del governo di Damasco non si è fatta attendere, già il 27 aprile esso ha ribadito la difesa strenua della propria architettura centralista e islamista. Nel mirino del governo il sostegno riaffermato durante la Conferenza di Qamishlo a un modello di governance decentralizzato e pluralista che la presidenza siriana ha definito una minaccia all’unità nazionale e un tentativo unilaterale di imporre nuovi equilibri nel Nord-Est del Paese. Mentre è stato accolto in modo positivo l’appello di Öcalan del 27 febbraio per la pace e la democrazia, viene sottolineato che fino a quando non ci saranno garanzie valide per il rispetto delle conquiste del Confederalismo Democratico in Siria le milizie popolari SDF e YPG non deporranno le armi e che le YPJ, strutture di difesa delle donne, non disarmeranno in nessun caso.     Renato Franzitta
Aprire il cammino, un’esperienza in Chiapas
Lunedì 12 maggio alla Casa della Cooperazione, a Palermo, per iniziativa del CISS, del laboratorio Ballarò e della redazione cittadina di Pressenza, si è svolto un incontro con l’autore del libro Ta Spol Be (Aprendo il cammino), l’antropologo messicano Oscar Garcia Gonzales. Il volume, autofinanziato, raccoglie testimonianze, racconti, pagine di diario, poesie e un registro etnografico legati a un progetto di educazione popolare con il popolo Tsotsil in Chiapas tra il 1998 e il 2003. Nel 1992 era stato cancellato dalla Costituzione federale messicana l’articolo 97 che tutelava le proprietà collettive delle terre dei villaggi. Il passaggio successivo fu l’accordo commerciale Nafta che rovinò i contadini. Essi reagirono con il levantamiento, la ribellione iniziata il primo gennaio 1994 e guidata dall’esercito zapatista, cui lo Stato rispose con una “guerra a bassa intensità” e con la strage di Acteal del dicembre ’97, che uccise una cinquantina di persone, fra le quali molte donne e bambini, e provocò l’esodo di migliaia di sfollati rifugiatisi anche nel municipio autonomo di San Pedro Polho. La vicenda indignò l’opinione pubblica mondiale. Si recarono a Polho, tra gli altri, José Saramago, Susan Sontag, Manu Chao. Molti giovani studenti e docenti dell’Università del Mexico decisero di avviare lì un progetto educativo, ma l’istituzione non li appoggiò; anche per questa ragione essi crearono una Università Autonoma Messicana e organizzarono comunque la partenza. L’obiettivo era di insegnare ai bambini a leggere e scrivere in spagnolo. A staffetta i volontari si alternarono per cinque anni, fino a quando gli zapatisti non chiesero a tutti i volontari di lasciare le comunità, per misurarsi con la propria autonomia. Da principio, i giovani maestri sarebbero dovuti rimanere solo sei mesi, ma si resero subito conto che tutta l’iniziativa andava rimodulata, poiché i bambini parlavano solo la lingua Tsotsil: da quella bisogna muovere per insegnar loro a usare la penna, da quella e dal loro vissuto esperienziale. Perciò i docenti si fecero discenti: appresero la lingua e gli usi locali, studiarono le consuetudini i giochi gli arnesi che sarebbero divenuti esempi per le narrazioni quotidiane. La didattica si avvalse di un sistema di letto-scrittura per passare dallo Tsotsil al castigliano, sistema messo a punto da una pedagogista lì sul posto. Si lavorava non per materie e discipline, ma per progetti di ricerca su temi scelti dai bambini. Le famiglie erano coinvolte poiché vedevano l’apprendimento dello spagnolo come uno strumento di autonomia. Ad ascoltare questo racconto tornano in mente le esperienze di Mario Lodi con i figli degli emigrati meridionali a Mirafiori e la maieutica reciproca di Danilo Dolci. C’erano maestri e formatori di maestri di ogni nazionalità, che si riunivano di frequente per discutere e confrontarsi sull’approccio corretto, poiché, come sottolinea Garcia Gonzales, “apprendere una lingua significa apprendere una cultura, che è come un’insalata: più ingredienti ci sono meglio è”. Una delle lingue parlate in Chiapas, ad esempio, ci ricorda un medico italiano e formatore di “promotori di salute” che lì ha vissuto diversi anni, è la lingua Tojolabal, nella quale non esiste complemento oggetto, sostituito da una sorta di complemento di termine (cosa molto simile a quanto accade nel siciliano): l’altro, l’altra non è mai reificato, ridotto a strumento di cui servirsi e impadronirsi; ci si rivolge a lui, a lei, con un gesto di apertura e accoglienza, a riprova di quella orizzontalità che caratterizza la mentalità dei contadini degli Altos, delle montagne, e che permea tutta la politica zapatista. L’educazione, del resto, è uno dei sette principi chiave della rivoluzione zapatista, ma i bimbi coinvolti in questo progetto non erano affatto scolarizzati: o scappavano da tutte le parti, anche dalla finestra, o all’opposto avevano paura di giocare perché a scuola dovevano “stare buoni”. Dunque, si è trattato anche e prima di tutto di costruire relazioni comunicative e affettive sincere e chiare. Nella testimonianza di Garcia Gonzales, i suoi sentimenti dominanti all’inizio erano di paura ed entusiasmo insieme: era un giovane studente di psicologia sociale che si buttava a capofitto in un’avventura non solo umana ma anche politica, e non priva di rischio per la vita; alla fine, invece, dopo diversi anni nella selva, andarsene significò dapprima sbandamento e poi la decisione di diventare antropologo. Adesso è insegnante in un liceo messicano e, soprattutto, portavoce di un popolo che lotta e non si arrende. Come ci rammenta Mimma Grillo, organizzatrice di questo incontro, il clima odierno in Messico è di repressione: ci sono più di centomila desaparesidos e c’è da fronteggiare non solo l’esercito e i paramilitari ma ora anche i narcos, diffusi dappertutto con la complicità dei governi federale e locali. È nata un’associazione di donne, Las buscadoras, donne che vanno in cerca dei parenti scomparsi, un po’ come erano state le Madri di Plaza De Majo in Argentina. Nel frattempo l’autogoverno zapatista sta attuando una riforma dei Comuni che ne eviti la verticalizzazione e la burocratizzazione e ne ripristini la orizzontalità. Garcia Gonzales rimarca come oggi sia difficile in Mexico realizzare autonomia; ma si può lavorare sulla consapevolezza. L’impegno politico deve riguardare l’intero pianeta, che è unico per tutti e tutte, e la solidarietà. Como se lleva? Come si fa? “È come studiare in una scuola in costruzione”, dice. Tra luglio e agosto si terrà una nuova convocatoria con la comandancia per analizzare “la tormenta” che ci avvolge tutti in questi tempi bui. Si dovrà progettare il futuro, poiché la tormenta non dura per sempre e occorre pensare a costruire il giorno dopo, come avverte Marcos. Dai rappresentanti del Laboratorio Ballarò e della redazione di Pressenza, Franzitta e Casano, viene avvertita l’analogia con la Palestina, ma soprattutto con il Rojava: il Chiapas e il Kurdistan esprimono soggettività rivoluzionarie che realizzano pratiche di cura del bene comune, modelli comunitari esemplari per tutta la sinistra mondiale. Si tratta di società senza Stato e, almeno al proprio interno, disarmate, in cammino (proprio come suona il titolo del libro che stiamo esplorando) verso il superamento dello Stato-nazione e dell’esercito che ne è la prima incarnazione, verso il superamento del patriarcato, del modernismo capitalistico ed in intima consonanza con la natura. Si tratta, non a caso, di due percorsi estranei al “pensiero unico” occidentale, che davvero ci indicano la strada.   Daniela Musumeci