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Tutti in fila per i fondi per il riarmo europeo. Indebitarsi per la guerra
Sono diciotto gli stati della Ue che hanno presentato richieste di prestiti emessi dalla Commissione europea (Safe) per finanziare i progetti di riarmo: tra questi figura, ovviamente, l’Italia e questo nonostante fino a poco tempo fa il ministro dell’economia Giorgetti storcesse il naso davanti alla prospettiva di indebitarsi ulteriormente per […] L'articolo Tutti in fila per i fondi per il riarmo europeo. Indebitarsi per la guerra su Contropiano.
Gli italiani in guerra. Indagine sulla percezione dei conflitti e sul riarmo nella società italiana
Pacifisti, disertori e mercenari stranieri. Secondo gli italiani le probabilità che l’Italia sarà coinvolta in un conflitto entro i prossimi cinque anni sono salite a quota 31 su una scala da 0 a 100. Se scoppiasse la guerra, l’Italia però non correrebbe alle armi con ardore patriottico. Le persone anagraficamente più interessate, tra i 18 e i 45 anni, sarebbero in larghissima maggioranza riluttanti a rispondere alla chiamata delle Forze armate. Solo il 16% si dichiara pronto a combattere (tra gli uomini la percentuale sale al 21% e tra le donne scende al 12%). Il 39% invece protesterebbe, in quanto pacifista. Il 26% preferirebbe appaltare le operazioni militari e la difesa del territorio a soldati di professione e a contingenti di mercenari stranieri, da reclutare e stipendiare. Il 19% diserterebbe: si darebbe alla fuga pur di evitare il fronte. Per il 65% degli italiani non siamo un popolo di guerrieri e saremmo travolti dal nemico, se non potessimo contare sull’aiuto degli alleati. Nato o sistema di difesa europeo? Se le alleanze saranno decisive per la nostra salvezza, la Nato rimane una pietra angolare della politica di difesa: poco meno della metà degli italiani (il 49%) è favorevole al rafforzamento del patto atlantico. Il 18% crede invece che si dovrebbero costruire alleanze a geometria variabile, l’8% ritiene che l’Italia debba uscire dalla Nato e fare affidamento esclusivamente sulle proprie forze, ma il 25% non ha una chiara opinione in proposito. C’è però anche un’altra strada percorribile. Il 58% degli italiani è favorevole a un sistema di difesa europeo integrato, con un esercito unico, armamenti comuni e un comando unificato. Il 22% è invece contrario, convinto che non si debba né rafforzare il nostro esercito, né unirci alle forze degli altri Paesi europei: sono gli oppositori a qualsiasi programma di riarmo. Ma qual è la politica preferibile per l’Italia? La neutralità. Il riarmo resta un dilemma, le alleanze sono strategiche, ma la politica preferibile per l’Italia è la neutralità. Riguardo alla guerra russo-ucraina, il 33% degli italiani ritiene giusto schierarsi a difesa di Kiev, solo il 5% sta dalla parte di Mosca, ma la maggioranza assoluta (il 62%) è convinta che il nostro Paese dovrebbe restare neutrale. Riguardo al conflitto in corso in Medio Oriente, il 21% è a favore dei palestinesi, solo il 9% si schiera con Israele, mentre la grande maggioranza (il 70%) auspica una posizione neutrale dell’Italia. Riguardo alle dichiarate mire espansionistiche americane, nell’ipotesi di una occupazione della Groenlandia, solo il 4% degli italiani starebbe dalla parte di Washington, il 38% sarebbe favorevole alla costruzione di un’alleanza internazionale per difendere l’isola e la maggioranza (il 58%) preferirebbe ancora una volta che l’Italia mantenesse una posizione di neutralità. Eppure, in questi anni l’Italia non è stata assente nei tanti teatri di guerra: dopo il 1989, l’Italia è stata presente con proprie truppe in 8 diversi teatri di guerra. “In più, sottolinea il CENSIS, la partecipazione a operazioni di peacekeeping sotto l’egida delle Nazioni Unite è stata intensa. Lo scorso anno l’Italia era prima tra tutti i Paesi occidentali per numerosità del personale impegnato in missioni internazionali di pace: 1.783 militari. Il prezzo pagato in termini di vite umane è stato alto. Dal 1989, i caduti italiani sono stati 146: 53 nella missione Isaf (Afghanistan), 35 nella missione Antica Babilonia (Iraq), 7 nella missione Ibis (Somalia) e 7 anche nella missione Kfor (Kosovo)”. Intanto, aumenta sempre più la spesa militare: nel 2024 la spesa per la difesa dell’Italia si è attestata a 35,6 miliardi di dollari, corrispondenti all’1,5% del Pil. L’incremento della spesa militare negli ultimi dieci anni è stato considerevole: +46,0% in termini reali. Ma il valore per abitante in Italia è pari a 586 dollari a fronte di 2.440 dollari pro capite negli Stati Uniti (per complessivi 935 miliardi di dollari, pari al 3,2% del Pil), 2.095 in Norvegia, 1.725 in Danimarca, 1.376 in Svezia, 1.291 in Olanda, 1.214 in Finlandia, 1.138 nel Regno Unito, 1.096 in Germania, 926 in Francia, 807 in Polonia. Anche la Grecia presenta un valore superiore all’Italia: 686 dollari per abitante e il 3,0% del Pil. Tra gli Stati europei, si collocano ai primi posti la Polonia (con una spesa militare pari al 4,1% del Pil), i Paesi baltici (l’Estonia e la Lettonia al 3,4%, la Lituania al 3,1%) e i Paesi scandinavi (la Finlandia e la Svezia al 2,3%, la Norvegia al 2,2%). All’ultimo posto tra tutti i Paesi Nato c’è la Spagna, con l’1,2% del Pil. Il personale militare italiano ammonta a 171.000 unità. Siamo preceduti soltanto da Stati Uniti (1,3 milioni), Turchia (481.000), Polonia (216.000), Francia (205.000) e Germania (186.000). Precediamo Regno Unito (138.000) e Spagna (117.000). Nel mondo le testate nucleari in dotazione a 9 Paesi sono complessivamente 12.241, nonostante la successione nel tempo di diversi trattati di non proliferazione e lo smantellamento parziale degli arsenali russi e americani (il picco si toccò nel 1986, con 70.374 bombe atomiche disponibili). Oggi la Federazione russa ne possiede 5.459, gli Stati Uniti 5.177, la Cina 600, la Francia 290, il Regno Unito 225, l’India 180, il Pakistan 170, Israele 90 e la Corea del Nord 50. Qui il Report del CENSIS: Gli italiani in guerra. Indagine sulla percezione dei conflitti e sul riarmo nella società italiana: https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/Gli%20italiani%20in%20guerra.pdf. Giovanni Caprio
Cantieri lavoro in Sicilia: tra pagamenti fantasma e sfruttamento istituzionale dei disoccupati
Si tinge di mistero la vicenda dei disoccupati impiegati per i 4 progetti di Cantieri Lavoro avviati in alcuni Enti di Culto di Catania a seguito di bandi emanati dalla Regione Siciliana. Dopo il danno di un lavoro a carattere edile, eseguito in assenza di formazione, su 42 ore settimanali […] L'articolo Cantieri lavoro in Sicilia: tra pagamenti fantasma e sfruttamento istituzionale dei disoccupati su Contropiano.
Intervista a Francesco Schettino su Radio Onda d’Urto su spese militari: l’economista cita l’Osservatorio
Francesco Schettino, docente di economia all’Università “Luigi Vanvitelli” di Napoli nel commento che vi proponiamo, basato su analisi qualitative dell’ultima scelta della NATO sugli investimenti in armi fino al 5%del PIL delle singola nazioni, cita esplicitamente l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. Nell’intervista ai microfoni di Radio Onda d’Urto (clicca qui per ascoltare sul sito) possiamo ascoltare questo passaggio: «C’è chi fa analisi sulla militarizzazione come il lavoro pregevole dell’Osservatorio – spiega Schettino – che ci mette in guardia su questo fenomeno, ma mi chiedo se i genitori dei compagni di scuola dei miei figli e in generale nella società c’è questa consapevolezza che saranno loro ad essere obbligatati ad indossare una divisa».
Acerbo (PRC): oggi Spagna, domani Italia. Cacciare Meloni per fermare riarmo
Le minacce di Trump alla Spagna rappresentano un inaccettabile attacco a un paese democratico che ha dimostrato di saper tenere la schiena diritta. Il governo spagnolo merita il plauso di tutti i popoli europei per aver detto no al diktat di Trump, della NATO e della Commissione Europea. Al contrario dei finti sovranisti come Meloni e Salvini genuflessi di fronte a Trump e Ursula von der Bomben, l’unico governo in Europa a dire no al folle aumento delle spese militari è quello con dentro comunisti e sinistra radicale. Meloni per legittimarsi nella recita da statista ha accettato un riarmo che costerà al popolo italiano enormi sacrifici. Il governo si è impegnato a portare la spesa militare dal 1,57 al 3,5% in 10 anni, insomma a un aumento ulteriore di circa 6-7 miliardi all’anno. Parliamo di 700 miliardi di euro nel decennio. La spesa è già in aumento da anni. Passeremo dagli attuali e già troppi 35 miliardi agli oltre 100 miliardi, cioè triplicheremo la spesa militare. Dal vertice NATO arriva una dichiarazione di guerra al resto del mondo da parte di un blocco occidentale che ha già di gran lunga una potenza militare soverchiante. Ma si tratta anche di una dichiarazione di guerra contro i popoli europei e quello italiano in particolare dato lo stato dei nostri conti pubblici. Siamo un paese con la spesa sanitaria al di sotto della media europea e Giorgia Meloni non ha la dignità di dire no a Trump. Questo governo va cacciato e gli impegni assunti a L’Aja vanno gettati nella spazzatura. Questa dovrebbe essere la base di un fronte pacifista e di sinistra che si ponga l’obiettivo di una vera alternativa al governo fascioleghista. Noi comunisti, antifascisti e pacifisti riprendiamo lo slogan di Carlo Rosselli: ‘oggi in Spagna, domani in Italia’. Si può dire no al riarmo e alla guerra. NON è un obbligo l’aumento delle spese militari. Per salvare la democrazia e lo stato sociale l’Europa e l’Italia debbono dire stop a un riarmo che è un regalo agli azionisti dell’industria bellica. Innanzitutto il riarmo è un atto di sottomissione al complesso militare-industriale degli Stati Uniti che beneficerà di enormi commesse ma non va sottovalutata la mutazione genetica di un’Europa che fa proprio il keynesismo militare. Sarebbe anche ora di aprire la discussione sulla necessità di liberarsi della NATO e fare la scelta della neutralità attiva che è quanto ci impone l’articolo 11 della Costituzione. Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea Maurizio Acerbo
Oltre il muro dell’odio e del silenzio. Il messaggio e l’attività del Comitato Monteverde per la pace
Cessiamo il fuoco ora La pace è possibile, dipende anche da noi Fermiamo l’annientamento del popolo palestinese! Campi profughi bombardati e bruciati, ospedali, scuole, edifici pubblici distrutti, personale sanitario, giornalisti, operatori della solidarietà torturati o uccisi, aiuti umanitari bloccati, fame, sete, freddo, malattie, negazione di cure, usate sistematicamente come armi di guerra. Israele continua a non rispettare gli accordi della tregua e ha ripreso bombardamenti sempre più violenti a Gaza, mentre in Cisgiordania la violenza dei coloni che distruggono case e beni e si appropriano di terre è sostenuta e impunita. Ormai gli scopi appaiono chiari: appropriazione di tutta la terra con espulsione del popolo palestinese da Gaza, occupazione a tempo indeterminato e apartheid in Cisgiordania, con la popolazione confinata in spazi sempre più ridotti. Tutto questo non è iniziato il 7 ottobre, ma parte dalla Nakba del 1948 (distruzione di 500 villaggi ed espulsione dei palestinesi). Noi di Monteverde per la Pace continuiamo a denunciare a gran voce la gravità della situazione, sosteniamo le voci di dissenso nei confronti della politica del governo israeliano, invitiamo tutti a prendere posizione per fare pressione sulle nostre istituzioni, perché impongano al governo israeliano il rispetto del diritto internazionale e sostengano il diritto del popolo palestinese all’esistenza e all’autodeterminazione.” Questo il testo di uno degli ultimi volantini prodotti e diffusi dal romano Comitato Monteverde per la Pace (CMP), una libera e ammirevolmente dinamica associazione di persone non disposte a rimanere rassegnate in silenzio e desiderose di tentare di contrastare il fenomeno della guerra e le dolorose vicende internazionali del mondo contemporaneo intrise di ingiustizia, irrazionalità e violenza. Con alcuni attivisti del Comitato è nata la conversazione che segue. Negli ultimi mesi, grazie ad alcune iniziative di una certa rilevanza, una realtà associativa come la vostra ha finito per godere di un’improvvisa e insperata attenzione, soprattutto all’interno del mondo progressista e del volontariato. Più merito vostro o demerito di tanti altri soggetti, molto più grandi di voi, sfortunatamente alquanto inattivi e silenziosi? Stiamo parlando di una piccola realtà associativa territoriale (Comitato Monteverde per la Pace – CMP) che si è costituita (intorno a ottobre 2023) come aggregazione di tante altre realtà sociali e politiche storiche del quartiere Monteverde allargato. Sono comunque tutte realtà non legate, anzi orgogliosamente indipendenti, dalle forze politico-partitiche. Cito, come esempio: “Comitato solidale e antirazzista Monteverde”, “Reti di Pace – Piazze per la sostenibilità e la Pace”, “Comitato Roma XII per la Costituzione” , Comitato Roma XII per i Beni Comuni”, “Circolo  Arci Canapè”, etc. Queste realtà si conoscono da anni, avendo collaborato su varie campagne (ad es. per il Referendum per l’Acqua Pubblica del 2011, per il Referendum sulla Riforma Costituzionale di Renzi del 2016, o per la costituzione di un circolo ANPI indipendente dai partiti nel 2019); gli attivisti in alcuni casi si conoscono dall’epoca delle scuole medie e superiori. Dato il pregresso storico, ormai gli attivisti militanti hanno tutti una età avanzata e sono rimasti piuttosto legati ai metodi tradizionali di diffusione delle campagne, dove si agisce mettendoci la faccia e il corpo con volantinaggi su strada, tavolini, presidi, etc. Per dire, il CMP non ha neanche una pagina Fb … Ci avvaliamo, però, di due chat Whatsapp: una più orientata agli aspetti operativi/organizzativi interni; l’altra a mettere in evidenza le iniziative, le informazioni, gli eventi esterni. Questa seconda funge anche da fonte di informazione alternativa al mainstream. Praticamente, l’adesione al comitato avviene con l’adesione a queste due chat. Ad oggi, il numero di adesioni a ciascuna chat è di circa 70 persone, anche se i partecipanti agli incontri in presenza (circa ogni 15 giorni) scendono circa a 20. Quali eventi e considerazioni sono alla base della nascita del vostro gruppo e quali le finalità che vi siete dati? La data di nascita del CMP è intorno a ottobre 2023, come reazione spontanea alla questione palestinese riesplosa dopo i fatti del 7 ottobre, presi a pretesto da Israele come inizio della storia della “guerra” Hamas-Israele, quando invece, grazie alla conoscenza storica di noi attivisti, sappiamo bene che la questione palestinese risale alla catastrofe del 1948 con la Nakba, l’espulsione di centinaia di migliaia di nativi palestinesi dalle loro terre e case. Le finalità che ci siamo dati sono le seguenti: * L’immediata cessazione del genocidio del popolo palestinese * La cessazione definitiva di ogni aggressione per la realizzazione di una pace giusta * La liberazione dei prigionieri palestinesi e degli ostaggi israeliani * Un’azione diplomatica per il cessate il fuoco in Ucraina * La messa al bando delle armi nucleari * La progressiva cessazione delle spese militari * La conversione dell’industria bellica. * La trasparenza sull’import-export delle armi: No allo smantellamento della legge 185/90. * L’immediata cessazione del sostegno politico, militare ed economico e dell’invio di armi a tutti gli Stati belligeranti * Il rispetto della legalità internazionale Che tipo di consenso state riscontrando all’interno del quartiere? Avete ricevuto concrete manifestazioni di simpatia e solidarietà, o anche di ostilità? Abbiamo ricevuto un consenso crescente, mano a mano che si andava evidenziando il vero obiettivo del governo israeliano di farla finita una volta per tutte con i palestinesi di Gaza e di Cisgiordania. Siamo passati attraverso varie fasi. All’inizio, dovevamo contrastare l’accusa dell’antisemitismo: superata quella, perché era superabile in quanto falsa, abbiamo dovuto affrontare la resistenza all’affermazione “Stop al genocidio”. Ci furono resistenze anche interne al nostro gruppo da parte di chi ancora non voleva credere ai propri occhi. La svolta ci fu con l’incontro del 14 febbraio 2025 con Riccardo Noury (portavoce della sezione italiana di Amnesty International), che chiarì definitivamente la questione: quelle di Israele sono azioni chiaramente genocidiarie. Abbiamo ricevuto su strada anche improperi e minacce a livello fisico, di ebrei-sionisti-fascisti e abbiamo avuto a che fare con vari eventi di identificazione della polizia, che poi ci ha chiesto di essere sempre informata dei nostri volantinaggi, anche a nostra protezione. Siete riusciti a entrare in contatto anche con realtà giovanili del quartiere e ad attirare qualche giovane desideroso di impegnarsi al vostro fianco? Sì, ma la nostra età e i nostri metodi non sono quelli usati dai giovani, i quali ragionano bene tra di loro e si organizzano nel modo più adatto al loro sentire socio-politico.  Al di là dei giudizi positivi fin qui ricevuti e al di là dell’attenzione che (fortunatamente) si è concentrata sulle vostre attività, quanto pensate che sia realmente possibile riuscire a fermare le immense macchine da guerra che si sono messe in movimento e che potrebbero trascinarci presto verso la catastrofe? Forse qualcosa di analogo potrebbe/dovrebbe nascere in ogni rione, in ogni contrada, in ogni condominio, in ogni luogo di lavoro, in ogni parrocchia, ecc? Se qualcun@ di coloro che ha aderito a questo piccolo movimento dal basso pensasse davvero di fermare le immense macchine da guerra … sarebbe un grande illus@ e soffrirebbe doppiamente, sia per la constatazione che il disastro sta continuando imperterrito, sia per la frustrazione derivante dall’apparente inutilità delle proprie iniziative. Ci siamo detti che le azioni che mettiamo in campo hanno due valenze: una individuale di poter affermare, mettendoci faccia e corpo (e non solo intellettualmente): “Non in mio nome!” L’altra è l’azione collettiva di sensibilizzazione verso la popolazione che incontriamo, con l’invito a partecipare attivamente. Infatti, nel retro dei volantini c’è sempre il “Cosa possiamo fare noi” . Certamente se un movimento dal basso come questo, in queste forme o in altre più consone ai promotori nascesse in ogni municipio o luogo associativo, sarebbe l’ideale. Un esempio rilevante nell’XI municipio è il “Collettivo Palestina Roma Trullo” che ha già organizzato incontri ed eventi di spessore, ma forse ne esistono in ogni Municipio. Contatti: monteverdeperlapace@gmail.com     Redazione Roma
“Giù le armi, su i salari”, sciopero generale a Milano
Il 20 giugno, al grido “Giù le armi, su i salari”, si è svolto un corteo per lo sciopero generale lanciato da alcune sigle del sindacalismo di base, CUB, USB, SGB, SI-COBAS, Sial Cobas. La temperatura non ha fermato le centinaia di persone che si sono assentate dal lavoro riversandosi in Piazza Santo Stefano, proseguendo per le vie del centro di Milano, fino ad arrivare in Piazza della Scala per far sentire con la propria presenza la vicinanza al popolo palestinese e denunciare il genocidio in atto a Gaza. Se era nostro dovere non essere indifferenti prima, a maggior ragione non dobbiamo esserlo adesso,  in un momento in cui perfino gli aiuti umanitari vengono bloccati e criminalizzati. No, non è una guerra, come troppo spesso si legge, perché il termine presuppone la presenza di due eserciti, mentre a Gaza come in Cisgiordania, c’è un esercito solo, quello israeliano. Ciò che sta accadendo realmente è un genocidio. La pace è ciò che auspichiamo, un termine troppo spesso dimenticato, come dialogo, convivenza, umanità. Dal comunicato per il lancio dello sciopero: “Il nostro compito è lottare per un lavoro degno, sicuro, garantito e retribuito. Giusto, eppure incompleto. Nostro compito è anche tornare a casa consapevoli di aver fatto la nostra parte per ciascun e non solo per noi stessi. Questo appello parte da lavoratrici e lavoratori della città e invita chiunque, nel settore pubblico e privato, oltre ogni appartenenza o non appartenenza sindacale, a costruire un fronte ampio di sostegno allo sciopero generale del prossimo 20 giugno. Mentre il mondo chiude gli occhi davanti al genocidio del popolo palestinese per mano dell’alleato israeliano, noi non saremo complici di questo crimine. Invitiamo colleghe e colleghi a dedicare questa giornata di sciopero non tanto all’astensione dal lavoro, ma a partecipare a una grande manifestazione del lavoro a Milano. * Contro colonialismo e genocidio, per l’autodeterminazione * Boicottaggio, disinvestimento, non un’arma a Israele * Nessun aumento delle spese militari, che sottraggono risorse a tutt* per gli interessi di pochi  Scegliamo la parte degli aggrediti, fermiamo l’economia di guerra, denunciamo la pulizia etnica del governo sionista, rigettiamo qualunque forma e qualunque accusa di antisemitismo, non dimentichiamo nessuna vittima di Gaza, l’attacco sistematico ai suoi ospedali, alle sue infrastrutture, alle sue case, al suo futuro. Le nostre figlie e i nostri figli ci guardano, Gaza ci guarda, le decine di migliaia di palestinesi uccisi, incarcerati, torturati, sfollati, affamati ci chiedono di rompere il silenzio ora”. Andrea Mancuso
Indice alternativo alla percentuale di spesa sul PIL pone l’Italia ai vertici di contributo alla sicurezza globale
Siamo sicuri che il parametro Nato della spesa in percentuale al Pil sia la metrica più adeguata e corretta per misurare il reale contributo di ogni Paese alla sicurezza collettiva? Per rispondere a questa domanda – cruciale alla luce delle decisioni che verranno prese al summit Nato dell’Aia settimana prossima – l’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane illustra un indice alternativo che il think tank californiano Rand Corporation ha elaborato tempo fa su richiesta del Pentagono, il primo a dubitare dell’affidabilità del parametro Nato della spesa militare. Il nuovo indice supera il mero input finanziario – che comunque viene considerato – misurando l’output capacitivo in vari ambiti: prontezza operativa di uomini e mezzi, efficienza dei sistemi di comunicazione e cyberdifesa, stato della logistica e della mobilità, capacità di comando congiunto, grado di interoperabilità e ospitalità fornita alle forze alleate, livello di contribuzione alle missioni internazionali (non la spesa in termini assoluti); e ancora, il costo economico per l’adesione a meccanismi sanzionatori e l’impegno nazionale in iniziative diplomatiche di prevenzione e soluzione dei conflitti. Il valore assoluto dell’indice così calcolato viene quindi parametrato alla ricchezza relativa del singolo Paese – non al Pil nazionale, ma al rapporto tra questo e Pil complessivo degli alleati. Se questo parametro, denominato Burdensharing Ratio, è maggiore di 1 significa che l’alleato contribuisce più quanto potrebbe, se inferiore potrebbe invece contribuire di più. Il risultato della simulazione della Rand, elaborata in chiaro da Milex, è sorprendente: l’Italia, fanalino di coda secondo il tradizionale parametro della mera spesa militare, risulta il primo alleato Nato degli Stati Uniti in termini di contribuzione assoluta e il settimo contributore per capacità di spesa con un Burdensharing Ratio superiore a 1. Secondo questo nuovo indice, quindi, il nostro Paese contribuisce già oltre le sue capacità e dunque non gli sarebbe richiesto alcuno sforzo maggiore. Approfondimento e tabelle in chiaro della simulazione su: https://www.milex.org/ 2025/06/20/nuova-misura-del-contributo-alla-sicurezza-collettiva-italia-al-top/ MIL€X - Osservatorio sulle spese militari italiane
Europa di guerra: prossimo summit NATO deciderà aumento spese militari al 5% del PIL?
«Immaginare nuovi paradigmi d’azione. Il mondo in cui ci troviamo a operare è segnato da un conflitto sempre più marcato tra democrazia e autarchia, dove i regimi autoritari sembrano guadagnare efficienza, mentre le democrazie si confrontano con la necessità di mantenere l’efficienza decisionale senza compromettere i principi democratici. L’evoluzione della società richiede che la Difesa non solo si adatti ai cambiamenti, ma che diventi un agente di trasformazione, migliorando continuamente le proprie strutture, la formazione e le capacità decisionali. Questo implica una valorizzazione delle diversità, una promozione della meritocrazia e un adattamento a tempi in cui la rapidità di azione e la capacità di visione globale sono essenziali. Una Difesa italiana rinnovata, più agile ed efficace. In effetti la Difesa italiana ha avviato un processo di trasformazione profonda per garantire uno Strumento moderno, sempre più interforze, capace di rispondere alle sfide globali in modo credibile e sinergico. Questo rinnovamento, che si fonda su un equilibrio tra la quantità e la qualità delle risorse militari, richiede uno sviluppo continuo delle capacità esistenti, il quale a sua volta necessita di investimenti sostenibili nel lungo periodo, in un contesto di stabilità e certezza finanziaria». Programma di Comunicazione MD 2025 Non importa come trovino i soldi, è di vitale importanza che li abbiano a disposizione anche a costo di poderosi tagli al sociale. Non sono queste le dichiarazioni virgolettate del Segretario generale NATO Mark Rutte, ma il suo messaggio, in vista del Summit NATOdel 24 e 25 giugno in Olanda, è fin troppo esplicito: entro 5 anni la UE potrebbe essere attaccata dalla Russia e per questo la spesa militare dovrà essere velocemente accresciuta fino al 5% del PIL suddiviso tra investimenti militari (3,5%) e sicurezza (1,5%). Spingere l’asticella in alto non significa ottenere queste percentuali, del resto già nel 2014 parlavano del 2 per cento del PIL per la spesa militare; tuttavia, le continue pressioni accelerano la tendenza al riarmo e alla guerra e spingono ogni paese ad aumentare la capacità di spesa e di investimento nel settore militare. Poi i paesi si accorderanno su come spendere queste risorse economiche intanto è preferibile liberare il campo da un equivoco: gli USA non vogliono aspettare troppo tempo prima che la UE e gli altri paesi aderenti alla NATO aumentino le spese militari investendo risorse nel cyberwarfare, nelle infrastrutture, per accrescere gli organici delle forze armate inclusi dei riservisti sul modello israeliano. Fin qui nulla di nuovo, siamo davanti a scenari già visti, gli USA vogliono spendere meno per la NATO e investire, sempre in ambito militare, nell’area Indo Pacifica in funzione anticinese, per farlo hanno bisogno che la spesa militare sia comunque non inferiore al 3% del PIL e nell’arco di pochi anni arrivi al 5%. Qualche segnale preoccupante per l’immediato futuro arriva dalla definizione della NATO come “un’alleanza più forte, più equa e più letale”. Il summit di fine giugno potrebbe essere l’occasione propizia per costruire una nuova Alleanza Atlantica, nel frattempo prosegue la più grande mobilitazione economica e militare dalla guerra fredda ad oggi. E il Riarmo viene banalizzato non collegandolo ai cambiamenti dell’economia, ai nuovi processi speculativi in campo finanziario, ai cambiamenti che interverranno nei bilanci di spesa nazionali e comunitari. Una lettura parziale e fin troppo angusta che impedisce di cogliere tutti i processi economici, sociali, finanziari, fiscali che comporterà l’aumento della spesa militare. Nel Regno Unito il governo laburista si impegna a portare il prossimo anno la spesa al 2,5%, hanno da poco presentato il loro Libro Bianco della difesa ribattezzato Strategic Defence Review, che stanzia 15 miliardi di sterline per testate tattiche nucleari, 1,5 miliardi di sterline per sei nuove fabbriche di munizioni, 6 miliardi di sterline destinate a missili a lungo raggio, 1 miliardo per la guerra Cibernetica. In Italia siamo lontani dal 5%, vetta irraggiungibile a detta del Governo, ragione per cui arrivare in un triennio al 2,5% del Pil per spesa militare sarebbe un risultato apprezzabile con l’aggiunta al budget attuale di 23 miliardi di euro e l’approvazione dell’Ue della norma che scorporerà le spese militari dal Patto di Stabilità. L’Italia lavora per rivedere le norme fiscali Ue, il timore del Governo Meloni è legato al giudizio di Bruxelles che vigila sui nostri conti; quindi, le preoccupazioni riguardano gli accordi con la Unione Europea e non la sostenibilità sociale della spesa militare in aumento. Per chi invoca il 5% ricordiamo che passeremmo da 32 miliardi a oltre 100 e si tratta di una spesa che un paese come il nostro potrebbe sostenere solo con decine di migliaia di licenziamenti nella PA, distruzione del welfare, chiusure di ospedali e scuole e una devastazione sociale politicamente insostenibile. Chiudiamo con la Germania, l’obiettivo del 5% entro fine mandato significa 215 miliardi di euro l’anno e il Parlamento tedesco intanto ha esentato dal rispetto delle regole di bilancio ogni spesa riconducibile al militare iniziando la riconversione a fini di guerra di piccoli settori della sua economia (indotto meccanico) I venti di guerra soffiano anche sul territorio iberico e il Governo ha già annunciato di arrivare al 2% del PIL entro il 2029, il massimo della spesa sostenibile dalla Spagna. Ben altre invece sono le dichiarazioni francesi, il presidente Macron da sempre è alfiere della spesa militare ma la crisi economica è tale da indurre a maggiore prudenza per cui il piano di riarmo è diluito nel prossimo decennio con una spesa annuale di 100 miliardi entro 2030. Abbiamo aperto l’articolo citando un documento ufficiale della Difesa italiana sulle strategie comunicative da seguire, sarà il caso di riservare grande attenzione a questo aspetto da cui passeranno anche le banali e semplici giustificazioni per accrescere la spesa militare con argomentazioni di vario genere prima tra tutte l’idea che ogni euro alla difesa sia un investimento per la nostra sicurezza. E proprio sulla nozione di sicurezza si gioca una opera di costante martellamento mediatico per arrivare all’obiettivo finale: militarizzare la società e ogni suo ambito e costruire le condizioni migliori per rendere ineluttabile il ricorso alla guerra. Federico Giusti, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Se vuoi la pace…
Dieci azioni che le istituzioni locali possono mettere in campo contro la guerra. Uno: sostenere i percorsi di riconversione civile delle attività industriali legate alla produzione di armi. Due: istituire fondi, di concerto con i sindacati, per supportare i lavoratori che decidessero di fare obiezione di coscienza all’industria bellica. Tre: adottare codici etici war free per gli appalti pubblici, le sponsorizzazioni e le collaborazioni. Quattro: aderire alle campagne nazionali per il disarmo e l’economia di pace promuovendole sui territori. Cinque: sottoscrivere protocolli con gli Uffici scolastici regionali per arginare il processo di militarizzazione della formazione. Sei: promuovere e finanziare percorsi di educazione alla pace nelle scuole e di formazione alla nonviolenza per gli insegnanti. Sette: organizzare nei luoghi della memoria tragica della guerra – da Monte Sole a Sant’Anna di Stazzema – soggiorni estivi di training per la risoluzione nonviolenta dei conflitti con gruppi misti di ragazzi provenienti dai paesi in guerra. Otto: promuovere Scuole e Accademie di pace e ricerche sulla risoluzione nonviolenta dei conflitti in collaborazione con la Rete delle Università per la Pace. Nove: contribuire a costituire corridoi umanitari per i profughi dai paesi in guerra. Dieci: prevedere percorsi di supporto nell’accoglienza dei rifugiati. Il punto di partenza? Smettere di pensare che la guerra sia una follia e considerarla invece come una strategia razionalmente perseguita. Smettere di pensare la pace come mera assenza di guerra. “Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace. Ci rendiamo sempre più conto che non si tratta solo di istituzioni politiche, nazionali o internazionali, ma è l’insieme delle istituzioni – educative, economiche, sociali – ad essere chiamato in causa”, è uno dei passaggi più significativi del discorso di papa Leone XIV nell’incontro dello scorso 30 maggio con i movimenti per la pace e il disarmo ad un anno dall’Arena di pace, voluta da papa Francesco a Verona. Affermazione che non solo ribalta l’obsoleto, falso e illusorio mantra del se vis pacem para bellum, del quale sono fanatici fondamentalisti i decisori nazionali e internazionali, e i loro chierici mediatici, ma riconduce alla responsabilità di tutti la costruzione di prassi di pace per il superamento dei sistema di guerra. Ed è di questi giorni anche l’inedito attivismo per la pace di diversi amministratori locali: dalla convocazione della Marcia Save Gaza, da Marzabotto a Monte Sole, significativamente nei luoghi dell’eccidio nazista, voluta dalla sindaca Valentina Cuppi per il prossimo 15 giugno, alle dichiarazioni di “interruzione delle relazioni istituzionali” con il governo israeliano espresse dai presidenti delle regioni Puglia, Michele Emiliano, ed Emilia Romagna, Michele De Pascale, seguiti da diversi sindaci dei rispettivi territori. Mentre parteciperemo alla marcia Save Gaza e vedremo come si declineranno concretamente i boicottaggi delle Regioni al governo genocida di Israele, è utile qui evidenziare il ruolo strutturale e continuativo che anche le istituzioni locali possono mettere in campo per preparare la pace, esattamente sui piani educativo, economico e sociale esplicitati da Prevost. Il punto di partenza è considerare la pace non come mera assenza di guerra (pace negativa), ma come costruzione delle condizioni per la sua preparazione e manutenzione (pace positiva). La degenerazione bellica dei conflitti è solo la punta dell’iceberg di un sistema di guerra che prepara e legittima questo esito: è il punto di esplosione di una lunga e articolata filiera di guerra. Rispetto alla quale se le Regioni e le altre istituzioni locali non possono fermare direttamente la violenza una volta avviata, possono invece contribuire attivamente a decostruirne la filiera, non sull’onda dell’emozione temporanea ma strutturalmente e culturalmente, ed a costruirne le alternative. Non solo, peraltro, nell’interesse generale della pace, ma anche di quello specifico dei propri cittadini, visti i numerosi tagli ai trasferimenti dallo Stato agli Enti Locali per alimentare le crescenti spese militari. Le azioni che le istituzioni locali possono mettere in campo, in modalità non occasionale ma continuativa, sono molte, sia a livello di Comuni che di Regioni e possono dare sostanza e coerenza alle diverse “deleghe alla pace” che si vanno diffondendo. Sul piano economico, per esempio, si possono monitorare le attività industriali che nei diversi distretti contribuiscono alla produzione, diretta o indiretta, di armi e sostenerne i percorsi di riconversione civile – ostacolandone quelli contrari – con l’istituzione di peace list virtuose e premianti; istituire fondi locali, di concerto con i sindacati, per supportare i lavoratori che decidessero di fare obiezione di coscienza all’industria bellica; adottare codici etici war free per gli appalti pubblici, le sponsorizzazioni e le collaborazioni, sotto qualunque forma. Oltre che aderire alle campagne nazionali per il disarmo e l’economia di pace, anziché per il riarmo e l’economia di guerra, promuovendole sui territori. E poi sono molte le azioni possibili e necessarie sui piani culturale e formativo. Per citarne solo alcune: sottoscrivere protocolli con gli Uffici scolastici regionali per arginare il processo di militarizzazione della formazione e, invece, promuovere e finanziare percorsi di educazione alla pace nelle scuole di ogni ordine e grado e di formazione alla nonviolenza per gli insegnanti; organizzare nei luoghi della memoria tragica della guerra del nostro Paese – da Monte Sole a Sant’Anna di Stazzema – soggiorni estivi di training per la risoluzione nonviolenta dei conflitti con gruppi misti di ragazzi provenienti dai paesi in guerra. Inoltre, Comuni e Regioni potrebbero farsi direttamente promotori di Scuole e Accademie di pace, anche in collaborazione con la Rete delle Università per la Pace (Runipace), per promuovere la ricerca e la formazione alla trasformazione nonviolenta dei conflitti, su tutte le scale: dal locale all’internazionale. Infine, contribuire a costituire corridoi umanitari per i profughi dai paesi in guerra e strumenti di protezione delle vittime, prevedere percorsi di supporto nell’accoglienza dei rifugiati che ne portano il trauma, favorire nei territori esperienze di dialogo tra comunità originarie da paesi in conflitto armato e adoperarsi per il riconoscimento dello status di rifugiati ad obiettori di coscienza e disertori di tutti i fronti. Si tratta solo di alcuni, ma fondamentali, esempi di come le istituzioni locali, che volessero davvero mettere in campo non retoriche ma politiche attive di pace, potrebbero agire pratiche di nonviolenza secondo il nuovo principio, razionale, realistico e universale: se vuoi la pace, prepara la pace. Ovunque. Pubblicato su un blog del fattoquotidiano.it (qui con il consenso dell’autore che ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura)   Pasquale Pugliese