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Cerro de Pasco, tra estrattivismo e negligenza: la voce dei giovani contro l’ingiustizia ambientale
Un’enorme voragine lunga circa due chilometri e profonda quasi mille metri viene quotidianamente scavata per estrarre rame, piombo e zinco. Si tratta di El Tajo, una gigantesca miniera a cielo aperto situata a Cerro de Pasco, oltre i 4.500 metri di altitudine. Nonostante secoli di sfruttamento delle sue risorse da parte di multinazionali e gli ingenti profitti generati, questa città resta tra le più povere del Perù. Attualmente, più di 70.000 persone vivono a Cerro de Pasco in condizioni di profondo disagio sociale ed economico, intrappolate in una realtà segnata da gravi conseguenze ambientali. La miniera ha contaminato l’area in modo critico, mettendo a rischio la salute della popolazione. I servizi sanitari sono quasi assenti, il sistema educativo è al limite del collasso e gli aiuti statali scarseggiano. Secondo i dati, l’intera comunità presenta tracce di metalli pesanti nel sangue e necessita urgentemente di cure mediche per evitare danni irreversibili. Nonostante le indagini condotte da organizzazioni come Source International e gli studi realizzati dai ricercatori della Columbia University, poi pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’inquinamento ambientale a Cerro de Pasco continua a rappresentare una minaccia concreta. La responsabilità principale ricade sulla compagnia mineraria, mentre lo Stato peruviano resta assente, incapace di garantire ai cittadini i diritti fondamentali. Diritti come quello di vivere in un ambiente salubre, avere accesso ad acqua potabile in quantità adeguata, un’alimentazione sicura e priva di sostanze tossiche e godere di buona salute. I metalli pesanti contenuti nelle enormi discariche minerarie attorno alla città si diffondono attraverso l’aria e l’acqua, penetrando nel corpo umano. I dati più allarmanti riguardano i bambini e i ragazzi, che risultano i più colpiti da questa esposizione costante. I bambini tra i 5 e i 14 anni, la fascia d’età più vulnerabile a questo tipo di esposizione, hanno sviluppato deficit cognitivi e fisici, oltre a disturbi mentali. Gli adulti, in particolare i genitori, a causa dell’elevata presenza di metalli pesanti nel loro organismo, hanno manifestato comportamenti violenti all’interno del nucleo familiare, soprattutto nei confronti dei figli. In questa città fantasma, vittima delle devastanti conseguenze di anni di estrattivismo e negligenza da parte delle istituzioni peruviane, sono le piccole realtà di resistenza locali che cercano, seppur a fatica, di accendere uno spiraglio di speranza per il cambiamento. Una di queste è l’associazione Red Interquorum Cusco, gestita da ragazzi di licei e università di Cerro de Pasco, uniti dalla lotta per i diritti umani e dalla denuncia delle condizioni ambientali in cui si ritrovano a vivere. Sono loro i vincitori del premio per i diritti umani dell’organizzazione Operation Daywork, basata a Bolzano. Questa realtà permette proprio ai giovani di battersi in prima persona per fare rete con altri gruppi di ragazzi in giro per il mondo, scegliendo ogni anno un progetto da sostenere a livello finanziario. Quest’anno il lavoro è stato svolto con i giovani di Red Interquorum, con l’obiettivo ultimo di ampliare le loro voci e sostenerli nel loro importante lavoro di sensibilizzazione per i diritti umani. Da qui nasce il progetto A.G.I.R.E., promosso dalla ong Future Rights, organizzazione basata in Italia e che fa della partecipazione giovanile il suo focus principale. Tramite la collaborazione tra queste organizzazioni e grazie alla preziosa partecipazione dei ragazzi di Red Interquorum, si sta costruendo un piano di azione condiviso, volto a portare il grave caso di Cerro de Pasco all’attenzione di tutti. A.G.I.R.E. ha come obiettivo quello di promuovere la partecipazione giovanile, la giustizia ambientale e la solidarietà globale, costruendo legami concreti tra giovani italiani e attivisti di Cerro de Pasco (Perù). L’idea è quella di dare ai ragazzi di Red Interquorum sempre più piattaforme internazionali da cui diffondere le proprie storie, ma anche di sostenerli nel denunciare il loro caso a livello legale, con l’obiettivo di produrre effetti concreti nel prossimo futuro. In un contesto in cui lo sfruttamento delle risorse continua a prevalere sui diritti delle persone, l’esperienza dei giovani di Cerro de Pasco dimostra che la resistenza è ancora possibile, anche nei luoghi più marginalizzati del mondo. Attraverso il lavoro di realtà come Operation Daywork e Future Rights, le nuove generazioni non solo alzano la voce contro l’ingiustizia ambientale e sociale, ma costruiscono ponti di solidarietà internazionale capaci di generare consapevolezza e, soprattutto, azione concreta.   Alice Lucchini
Riflessioni sul Capodanno Andino
“CIÒ CHE ACCADE NELLA NOTTE DEL SOLSTIZIO D’INVERNO AUSTRALE RIGUARDA IL SIGNIFICATO DELLA MATRICE CULTURALE ANDINO-AMAZZONICA IN CUI TUTTO CIÒ CHE ESISTE NEL ‘PACHA’ (UNIVERSO) HA VITA. SIAMO TUTTI PARTE DI ESSO, SIAMO TUTTI SOGGETTI E TUTTO È IN RELAZIONE CON TUTTO”. La messa in scena dell’Inti Raymi (Festa del Sole) di Cusco si svolge ogni 24 giugno dalla metà degli anni ’40 del secolo scorso. A quanto pare, i promotori del festival hanno combinato la ricorrenza del solstizio d’inverno australe con la festa cattolica di San Giovanni Battista. Lo segnalo perché nel 1621 Ramos Gavilán (1), tra gli altri cronisti, afferma che “Questa festa di Intirayme si celebrava quasi contemporaneamente a quella del Corpus Christi”. Tuttavia, negli ultimi decenni, a Puno e anche in Bolivia, ogni 21 giugno, data del solstizio d’inverno nell’emisfero sud, è diventato consuetudine celebrare il “Capodanno Andino”. Esaminiamo la sua coerenza ontologica per determinare se questo nuovo significato gli corrisponde o se si tratta di una folclorizzazione del rituale. Il tempo nel senso andino della vita è ciclico, come sottolineato da diversi studiosi; Estermann (2006), nel suo lavoro sulla “Filosofia andina”, si riferisce ad esso come a un presente permanente perché avviene in un “tempo-spazio” espresso con un unico termine “Pacha”. Nella lingua, sia quechua che aymara, la semplificazione di “futuro” è espressa anche come “presente progressivo” e si posiziona grammaticalmente dietro i nostri occhi, perché il futuro “non si vede” ed è dal passato, che si posiziona davanti ai nostri occhi, che dobbiamo imparare. Questo orizzonte di senso configura una razionalità diversa da quella del tempo lineare della cultura egemonica (occidentale-moderna). Allo stesso modo, sulla base di questa razionalità andina, molti pensatori ritengono che la cultura andina, come tante altre culture indigene, sia una cultura della vita. La vita, nel caso andino, ha due momenti: uno fertile e l’altro sterile, che per analogia si possono identificare con il ciclo agricolo nella sua stagione estiva (piovosa e rigogliosa) e nella sua stagione invernale (secca e fredda). La morte è solo un intervallo di transito tra questi due momenti. Come si può vedere, la differenziazione tra le due vite, nell’orizzonte di senso andino, è funzionale al loro ciclo produttivo. Un’altra differenza ontologica da considerare è la nostra posizione in quanto soggetto sociale. Nell’orizzonte andino, il soggetto è collettivo. Siamo nella misura in cui facciamo parte o apparteniamo a una comunità, ayllu, villaggio, nazione. La nascita che dà origine a questa appartenenza è il momento in cui si forma la coppia che permetterà la continuità della vita e la sostenibilità del collettivo. La parità (2) è il nucleo di base della relazione e configura i principi etici della reciprocità, della corrispondenza, della complementarietà. La relazione è sacra, è curata religiosamente attraverso questi principi. Per l’antropocentrismo, ontologicamente situato nella cultura dominante (“occidentale moderna”), l’essere, l’individuo, l’io, l’ego, è il nucleo centrale. Pertanto, la nascita di un nuovo individuo è estremamente importante. Diversi pensatori critici hanno dimostrato l’incongruenza di questa configurazione della cultura. La più evidente è che essendo l’essere umano parte di una specie gregaria, la cui caratteristica biologica è che l’individuo da solo non può esistere, il suo orizzonte di senso si riduce all’essere umano come centro dell’esistenza, aggravato dalla modernità, perché il centro è maschile. Questo comporta come conseguenza, per la sopravvivenza della specie, la cosificazione della donna. Vediamo chiaramente che la “nascita” ha significati diversi a seconda del “nostro luogo di enunciazione” e la riflessione ruota attorno alla questione se continuare a considerare il 21 giugno, giorno del solstizio d’inverno, freddo, secco, “sterile”, come il “capodanno andino” perché il “sole sta nascendo”  o se dobbiamo rivendicare il solstizio d’estate, caldo, piovoso e fertile, come ”capodanno andino“. Nella traduzione in quest’ultima data i chiwchis/coros (infanti in quechua/aymara) avendo raggiunto lo stadio di adolescenti maschili o femminili diventano, una volta formata la coppia (chacha/warmi), runa/jaqi (parte del soggetto collettivo: comunità, ayllu, popolo, nazione). Probabilmente, con l’imposizione del cristianesimo, i rituali del solstizio d’estate nel mondo andino (21 dicembre, nel nostro emisfero) sono stati sostituiti dalla “nascita del figlio di Dio” (Pasqua, Natale) e la colonizzazione ha imposto il calendario gregoriano, quello che ci governa oggi. Ho lavorato per diversi anni con le comunità contadine della zona aymara. Uno dei compiti degli awki e degli achachila (autorità naturali) era quello di salire sulla collina verso la mezzanotte del 20 giugno per l’incontro con il jawira (fiume di stelle) che, in quella data, mostra tutto il suo splendore e si possono apprezzare le costellazioni. Durante l’alba del 21, conversando con le stelle, chiedevano ciò che dovevano sapere per la loro annata agricola (se sarebbe stata un’annata precoce o tardiva, piovosa o secca, quando avrebbero dovuto seminare le patate, la quinoa, se ci sarebbero state grandinate e quando, ecc.). Queste rispondevano attraverso il loro linguaggio del colore (rossastro, bluastro), della luminosità (intensa, tremolante, opaca) e del momento della notte o dell’alba. Aspettavano il sorgere del sole perché era l’ultima stella ad apparire ed era loro dovere salutarlo e anche ascoltarlo. Con ogni probabilità – non l’ho percepito in quel momento – il rituale era eseguito dalle autorità prima di salire sulla collina, affinché l’incontro e la conversazione con le stelle onorassero e rafforzassero la loro relazione. Ciò che accade tra la notte del 20 giugno e il primo mattino del 21 sarebbe coerente con il senso della loro matrice culturale (andino-amazzonica) in cui tutto ciò che esiste nel “Pacha” (universo) ha vita. Ne facciamo tutti parte, siamo tutti soggetti e tutto è in relazione con tutto (3).   NOTE: (1) Ramos Gavilán, Alonso. HISTORIA DEL SANTUARIO DE NUESTRA SEÑORA DE COPACABANA. Lima, Perú: Ignacio PRADO PASTOR. Editore, 1988. 618 [147-157] Pp. In: https://www.casadelcorregidor.pe/d-interes/_biblio_Ramos-Gavilan.php (2) Si parla anche di “dualità” perché è l’insieme di due unità necessarie per stabilire una relazione. (3) Pino J. Ana M. e Riquelme M. Ivar R. “Coexistencia en ‘sociedades paralelas’. Una búsqueda para su diálogo con-vivencial”. In: Pluralidades. Revista para el diálogo intercultural. Vol. 4. Puno, Perù, 2015. Pp. 25-55. (https://www.pluralidades.casadelcorregidor.pe/pluralidades_4/Pino-Riquel…) -------------------------------------------------------------------------------- L’autrice:  Ana María Pino Jordán è ingegnere zootecnico dell’ “Universidad Nacional Agraria La Molina” in Perù, con oltre 25 anni di esperienza di lavoro con i contadini. Attualmente è promotrice culturale, intellettuale, accademica ed editorialista. Ha conseguito un diploma in Interculturalismo presso l’ “Instituto Ética y Desarrollo de la Universidad Antonio Ruiz de Montoya”. Membro del “Consiglio di Ricerca del Instituto de Estudios de las Culturas Andinas (IDECA)”. Promotrice della “Biblioteca Casa del Corregidor” e membro del “Gruppo Pluralidades (Puno)”, che pubblica l’omonima rivista. Email: promotora@casadelcorregidor.pe -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. SERVINDI
Una ferita lunga trent’anni
Nel 1997 Celia Ramos moriva dopo una sterilizzazione forzata. A quasi trent’anni di distanza, il 22 maggio si terrà l’ultima udienza davanti alla Corte interamericana dei diritti umani: la storia di una donna che racconta quella di migliaia rimaste nell’ombra.  In una giornata di luglio del 1997 Celia Ramos si reca al Centro di Salute di La Legua (Perù) per sottoporsi a un intervento di legatura delle tube. Non è una sua idea, è il personale del Centro a insistere da tempo. Alla fine, ha ceduto e deciso di assecondarli. Dopotutto, come le hanno detto, si tratta di un intervento semplice: come togliersi un dente.  Quello che Celia forse non sa, è che la sterilizzazione fa parte del Programma Nazionale di Salute Riproduttiva e Pianificazione Familiare istituito dal governo Fujimori, che mira a coinvolgere soprattutto contadine e donne povere. Non a caso, è un programma implementato soprattutto nelle zone rurali, dove in quegli anni vi è una forte presenza di guerriglia. Quel giorno, Celia viene operata e tre settimane dopo muore in seguito alle conseguenze riportate dall’intervento chirurgico. Lascia orfane tre figlie, e non sarà l’unica.  Esaurite le vie legali nazionali per ottenere giustizia, la famiglia intraprende quelle internazionali. Il caso è attualmente nelle mani della Corte interamericane dei diritti umani che ha previsto la prossima e ultima udienza per il 22 maggio. Continua così il lungo cammino di ricerca della giustizia da parte dei familiari, iniziato grazie al fratello; adesso che lui è un signore molto anziano, le figlie hanno preso le redini. “Le figlie erano molto piccole quando Celia è morta, la più grande aveva dieci anni” racconta Gisela De Leon, avvocata e direttrice giuridica di CEJIL (Center for Justice and International Law). “Il fattore temporale è la prima difficoltà che le famiglie si trovano ad affrontare in questi casi. Qui, nello specifico, uno dei principali snodi è se stiamo parlando di un crimine contro l’umanità o meno, perché questo lo renderebbe un crimine non prescrivibile. Più volte il processo è stato chiuso perché secondo lo Stato non si trattava di un crimine contro l’umanità. E questo ha portato a un ritardo importante nella ricerca di giustizia”. Quali sono le informazioni di contesto di cui abbiamo bisogno per capire cos’è successo? All’epoca esisteva una sorta di piano militare ufficioso, il “Plan Verde”. La sterilizzazione forzata era una possibile strategia contro i ribelli. La popolazione che viveva nelle aree in cui operava la guerriglia si riteneva rappresentasse la loro base di appoggio. Pertanto, doveva essere eliminata; una delle strategie era spingere le donne a sottoporsi alla sterilizzazione per impedire che dessero alla luce potenziali guerriglieri. La morte di Celia Ramos avviene in questo contesto. Su cosa state puntando in termini legali? È stato dimostrato che in quel periodo vi era un numero significativo di sterilizzazioni forzate, oltre 2000 casi. In passato lo Stato ha già riconosciuto tale pratica. Come anche nel caso di Celia, le vittime subivano pressioni di vario tipo fino a quando non optavano per sottoporsi agli interventi, che spesso si svolgevano in centri sanitari piccoli, che non avevano tutte le condizioni igienico-sanitarie per realizzare le operazioni in sicurezza. Le informazioni che davano alle vittime non erano né complete né del tutto veritiere. Celia non ha potuto dare il suo consenso in maniera libera e informata, e prendere così una decisione consapevole. Come state lavorando?  In questo caso noi di CEJIL portiamo la nostra specializzazione sul sistema legale interamericano. Lavoriamo insieme al Center for Reproductive Rights, associazione che si dedica al contenzioso internazionale e che si concentra sui diritti sessuali e riproduttivi. Insieme a noi c’è DEMUS, che è l’organizzazione peruviana in contatto con le vittime, e che le ha sostenute fin dall’inizio. L’avvocata María Ysabel Cedano García è la coordinatrice del loro team di contenzioso strategico. Avvocata Cedano, come si sta vivendo questo processo in Perù? Il fujimorismo e i suoi alleati al potere stanno portando avanti campagne di negazionismo, in cui attaccano vittime, sopravvissute, organizzazioni per i diritti umani. Ripetono che tutto è una bugia. Per fortuna si è riusciti a fare in modo che il governo di Ollanta Humala approvasse un decreto che dichiarava di interesse pubblico nazionale prioritario l’assistenza alle vittime di sterilizzazioni forzate e ordinava la creazione di un registro in cui finora si sono riuscite a iscrivere circa sei-settemila donne. Questo serve per fornire servizi e ottenere giustizia, come ad esempio avere un difensore di pubblico ufficio, o ricevere accompagnamento psicologico. Qual è la situazione dei diritti umani in Perù? Viviamo tempi dittatoriali in diversi paesi del nostro continente e il Perù è uno di questi. Oggi come oggi è nelle mani del governo una nuova legge che limita i diritti delle organizzazioni non governative. Non vogliono che queste consiglino o accompagnino le vittime nelle denunce contro lo Stato. Ciò significa che organizzazioni come la nostra, una volta entrata in vigore la legge, non potranno continuare a sostenerle. Qual è la sua impressione?  Sento che stiamo affrontando un alto rischio di impunità, perché non sono attacchi isolati. Sono attacchi sistematici contro il diritto alla verità, alla giustizia e alla riparazione da parte del Congresso e del Governo. Usano il potere legislativo e quello esecutivo per criminalizzare e reprimere, alla ricerca dell’impunità. Vuole aggiungere qualcosa sul caso di Celia Ramos? È molto importante che si tenga in considerazione il contesto: di conflitto armato interno, di povertà e povertà estrema, di violenza maschilista e razzista, di una cultura che non riconosce come diritto il consenso previo, libero e informato – a maggior ragione se sei donna, contadina, indigena. Se non si tiene presente questo contesto non si comprende perché le donne, abbiano “acconsentito” all’intervento. Si è trattato di un crimine reso possibile grazie a uno Stato crudele, che ha sfruttato queste circostanze per perseguire i propri scopi politici, senza preoccuparsi della violazione dei corpi delle donne. Novella Benedetti Unimondo
De-occidentalizzare e de-patriarcalizzare la Chiesa
SECONDO LEONARDO BOFF, INSIEME ALLA POVERTÀ E ALLA QUESTIONE ECOLOGICA, SONO DUE LE PRINCIPALI SFIDE PER IL NUOVO PAPA: LA DE-OCCIDENTALIZZARE E LA DE-PATRIARCALIZZARE DELLA CHIESA. GLI ANNI VISSUTI CON I POVERI DEL PERÙ, DOVE CON GUSTAVO GUTIÉRREZ È NATA E SI È SVILUPPATA LA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE, POTREBBERO RIVELARSI DECISIVI Contadini del Perù, un paese dominato dall’estrattivismo. Foto di desinformemonos.org -------------------------------------------------------------------------------- Confesso che sono rimasto sorpreso dalla nomina del cardinale nordamericano-peruviano Prevost al supremo pontificato della Chiesa. Ciò per mia ignoranza. In seguito, quando mi sono informato meglio, guardando i video su Youtube e i suoi discorsi tra la gente, stando in mezzo a un’alluvione in una città peruviana e la sua particolare attenzione per la popolazione indigena (la maggioranza dei peruviani), ho capito che lui può davvero essere la garanzia di continuità con l’eredità di papa Francesco. Non avrà il suo carisma, ma sarà se stesso, più riservato e timido ma molto coerente con le sue posizioni sociali, comprese le critiche al presidente Trump e al suo vice. Non a caso papa Francesco lo ha chiamato dalla sua diocesi dei poveri in Perù e lo ha chiamato a ricoprire un ruolo importante nell’amministrazione del Vaticano. Leone XIV ha vissuto gran parte della sua vita fuori dagli Stati Uniti, per molti anni come missionario e poi come vescovo in Perù, dove certamente ha acquisito una vasta esperienza di un’altra cultura e della difficile situazione sociale povera della maggior parte della popolazione. Confessò esplicitamente di essersi identificato con quelle persone al punto di naturalizzarsi peruviano. Il suo primo discorso al pubblico è stato contro le mie aspettative iniziali. È stato un discorso pio e rivolto all’interno della Chiesa. Non è stata citata la parola “poveri”, tanto meno liberazione, minacce alla vita e il grido ecologico. Il tema forte è stato la pace, in particolare “disarmata e disarmante”, una critica delicata a quanto sta accadendo oggi in modo drammatico, come la guerra in Ucraina e il genocidio, a cielo aperto, di migliaia di bambini e civili innocenti nella Striscia di Gaza. È sembrato che gli atri temi non fossero nella coscienza del nuovo papa. Ma credo che torneranno presto anche quelli, perché tali tragedie erano così forti nei discorsi di papa Francesco, suo grande amico, che devono ancora risuonare nelle orecchie del nuovo papa. Papa Francesco, in quanto gesuita, aveva un raro senso della politica e dell’esercizio del potere, attraverso il famoso “discernimento dello spirito”, una categoria centrale della spiritualità di Sant’Ignazio. La mia supposizione è che egli ha visto nel cardinale Prevost un suo possibile successore. Non apparteneva alla vecchia e già decadente cristianità europea, proveniva dal Grande Sud, con un’esperienza pastorale e teologica maturata nella periferia della Chiesa, nel suo caso il Perù, dove con Gustavo Gutiérrez è nata e si è sviluppata la teologia della liberazione (leggi anche L’impronta indelebile di Gustavo Gutiérrez, icona della teologia della liberazione). Sicuramente, con il suo modo di fare gentile e la sua predisposizione all’ascolto e al dialogo, porterà avanti le sfide assunte e le innovazioni affrontate da papa Francesco, che non è il caso qui di elencarle. Ma, dal mio punto di vista, ci saranno altre sfide, mai prese sul serio dagli interventi dei papi precedenti: come de-occidentalizzare e de-patriarcalizzare la Chiesa cattolica di fronte alla nuova fase dell’umanità. Essa è caratterizzata dalla mondializzazione dell’umanità (non solo in senso economico, ora turbato da Trump) che, anzi, si sta realizzando a ritmi sempre più rapidi in termini politici, sociali, tecnologici, filosofici e spirituali. In questo processo accelerato, la Chiesa Cattolica nella sua istituzionalizzazione e nella forma come si è strutturata gerarchicamente, appare come una creazione dell’Occidente. Questo è innegabile. Dietro a tutto, c’è il diritto romano classico, il potere degli imperatori con i suoi simboli, riti e modalità di esercizio del potere accentrati in un’autorità massima, il papa, «con potestà ordinaria, massima, piena, immediata e universale» (canone 331), attributi che, in verità, spetterebbero solo a Dio. A ciò si aggiunge la sua infallibilità in materia di fede e morale. Non si potrebbe andare oltre. Papa Francesco si è consapevolmente allontanato da questo paradigma e ha iniziato a inaugurare un altro modello di Chiesa semplice e povera in uscita per il mondo. Questo non ha nulla a che vedere con il Gesù storico, povero, predicatore di un sogno assoluto, il Regno di Dio e critico severo di ogni potere. Ma è proprio quello che è successo: con l’erosione dell’Impero romano, i cristiani, diventati Chiesa con un alto senso morale, si sono fatti carico della riorganizzazione dell’Impero romano che ha attraversato secoli. Ma questa è una creazione della cultura occidentale. Il messaggio originario di Gesù, il suo Vangelo, non si esaurisce né si identifica con questo tipo di incarnazione, perché il messaggio di Gesù è quello di una totale apertura a Dio come Abba (Padre caro), di misericordia illimitata, di amore incondizionato persino per i nemici, di compassione per coloro che sono caduti lungo le strade della vita e di vita come servizio agli altri. L’attuale papa Leone XIV non sarà immune a questa sfida. Vogliamo vedere e sostenere il suo coraggio e la sua forza nell’affrontare i tradizionalisti e nel compiere passi in quella direzione. Una grande, immensa sfida per qualsiasi papa è relativizzare questo modo di organizzare il cristianesimo affinché possa acquisire nuovi volti nelle diverse culture umane. Papa Francesco ha compiuto grandi passi in questa direzione. L’attuale nuovo papa ha accennato a questo dialogo nel suo discorso inaugurale. Finché non ci muoveremo con fermezza verso questa de-occidentalizzazione, per molti paesi il cristianesimo sarà sempre una cosa dell’Occidente. È stato complice della colonizzazione dell’Africa, delle Americhe e dell’Asia e ancora oggi è visto così dalle intelligenze dei paesi che furono colonizzati. Un’altra sfida non meno importante è la de-patriarcalizzazione della Chiesa. Ne abbiamo già parlato sopra. Nella guida della Chiesa ci sono solo uomini, celibi e ordinati con il sacramento dell’Ordine (da sacerdote a papa). Il fattore patriarcale è visibile nella negazione alle donne del sacramento dell’Ordine. Loro costituiscono, di gran lunga, la maggioranza dei fedeli e sono le madri e le sorelle dell’altra metà, degli uomini della Chiesa e dell’umanità. Questa esclusione maschilista fa male al corpo ecclesiastico e mette in discussione l’universalità della Chiesa. Fintanto che non si apre alla possibilità per le donne, come è accaduto in quasi tutte le chiese, di accedere al sacerdozio, si dimostra il suo radicato patriarcato, segno di una cultura occidentale sempre più un accidente nella storia universale. Oltre a ciò, l’obbligo di mantenere il celibato (convertito in legge) rende ancora più radicale il carattere patriarcale, favorendo l’anti-femminismo che si nota in alcuni strati della gerarchia ecclesiastica. Poiché si tratta solo di una legge umana e storica e non divina, nulla impedisce che venga abolita e che venga consentito il celibato facoltativo. Queste e molte altre sfide dovranno essere affrontate dal nuovo papa, mentre nella coscienza dei fedeli cresce sempre più il senso evangelico della partecipazione (la sinodalità) e dell’uguaglianza in dignità e diritti di tutti gli esseri umani, uomini e donne. Perché dovrebbe essere diverso nella Chiesa cattolica? Queste riflessioni vogliono essere una sfida permanente da essere affrontata da chi è stato scelto per il servizio più alto per animare la fede e orientare i cammini della comunità cristiana, come la figura del papa. Verrà il tempo in cui la forza di questi cambiamenti diventerà così esigente che essi si realizzeranno. Allora sarà una nuova primavera della Chiesa, che diventerà tanto più universale quanto più si farà carico di questioni universali e offrirà il suo contributo per risposte umanizzanti. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo De-occidentalizzare e de-patriarcalizzare la Chiesa proviene da Comune-info.