Eco-acquario di Messina: riflessioni e perplessità
A giugno 2025 il Consiglio Comunale di Messina ha approvato, quasi
all’unanimità, un ordine del giorno che impegna l’amministrazione a includere,
tra le infrastrutture compensative del ponte, un Grande “Eco-Acquario” dello
stretto. L’idea è quella di realizzare un Polo Scientifico Internazionale,
all’interno di un’ampia area verde chiamata Parco Blu delle Sirene, situata
nella strategica zona falcata di Messina con architetture ispirate alla
biodiversità marina: forme evocative di stelle marine, ricci, meduse.
Siamo ancora lontanissimi dall’affidamento della progettazione esecutiva,
eppure, i rendering naïf circolanti tradiscono già un aspetto un po’ vintage.
Un po’ lo stesso effetto che fa l’edificio del Pala cultura della città,
progettato dagli architetti D’Amore e Basile nel 1975, ma inaugurato solo nel
2010. D’altronde il fascino attrattivo degli acquari risale agli anni ’90:
quello di Genova è stato inaugurato nel 1992, quello di Barcellona nel 1995,
quello di Valencia nel 2002. Già in ritardo, nel 2009, arriva il concorso per
quello di Reggio Calabria vinto da Zaha Hadid e non ancora realizzato.
Nel frattempo, qualcosa sarà pure cambiato.
Ma soffermiamoci sulla filosofia dell’Eco-Acquario”: perché anche quando ci
troviamo nella fase di immaginare una “Visione” possibile per le nostre città
non riusciamo ad abbandonare l’ottusa posizione antropocentrica?
Dall’acquario progettato da Renzo Piano, le cose sono profondamente cambiate:
oggi circa il 60 % degli stock ittici nel Mediterraneo sono ancora
sovrasfruttati e circa il 75 % delle malattie infettive emergenti come SARS,
aviaria, suina, Ebola e persino COVID-19 derivano da spillover di virus da
animali all’uomo, spesso da allevamenti intensivi o wet market. Gli allevamenti
ittici sono ancora in fase di regolamentazione poiché spesso sono mal gestiti e
provocano fonti di inquinamento, malattie e perdita di biodiversità.
Il termine “eco acquario” può essere visto dunque come un paradosso, soprattutto
se lo si guarda con una lente critica, antispecista e ambientalista. È un po’ lo
stesso paradosso che sottende il concetto di “pesca sostenibile”: quale pesca
può essere sostenibile? non esiste pesca sostenibile per chi viene ucciso!
Soprattutto in una condizione di iper-sfruttamento dei nostri fondali.
Ci nascondiamo dietro il greenwashing, a volte anche ingenuamente perché la
nostra cultura è fortemente intrisa di specismo. Ma proviamo a spezzare certe
abitudini antropocentriche e fermiamoci a riflettere: davvero la cosa migliore
che possiamo fare per valorizzare la biodiversità è progettare una prigione a
forma di Riccio?
Quando impareremo che gli animali sono “soggetti di una vita” e non nostri
strumenti che sia per intrattenimento o profitto?
Anche L’approccio progettuale dovrebbe cambiare rotta e prendere consapevolezza
della nostra contemporaneità adottando un approccio antispecista che riconosca
in questo caso, la sensibilità dei pesci, il loro valore intrinseco e i limiti
ecologici reali:
-l’ambiente acquatico, infatti, è ancora più difficile da replicare rispetto
alla terraferma: bisogna simulare corrente, pressione, stimoli sensoriali,
temperatura e le interazioni sociali sono spesso completamente distorte;
-i pesci sono tra gli animali più trascurati moralmente pur essendo
scientificamente riconosciuti come senzienti. I pesci sono infatti le vittime
numericamente più uccise al mondo: si stima tra 1.000 e 3.000 miliardi di pesci
all’anno (pesca + allevamenti). Una delle motivazioni è che si tratta di una
specie anatomicamente molto distante dagli esseri umani: non hanno zampe, peli,
occhi espressivi, vocalizzazioni udibili o interazioni visive familiari e questo
rende più facile l’oggettivazione per cui spesso non sono completamente inclusi
nelle regolamentazioni sul maltrattamento o benessere animale. Per questo motivo
vengono uccisi attraverso torture che non sono immaginabili su altre specie:
asfissia lenta all’aria, congelamento da vivi, sventramento da vivi, pescati
sportivamente e lasciati morire lentamente dopo un’agonia. Eppure, la maggior
parte della gente non ha consapevolezza che ciò accade. Addirittura, molti
vegetariani decidono di continuare a mangiarli. I pesci sono “muti” ma non
perché non hanno voce ma perché siamo noi che ci rifiutiamo di ascoltare
continuando a commettere ingiustizie ai loro danni;
-molti animali marini muoiono durante la cattura e il trasporto prima ancora di
arrivare negli acquari e anche quando vi arrivano gli acquari sono delle vere e
proprie prigioni acquatiche dove gli animali muoiono lentamente per noia e
stress.
Tutto quanto elencato è un dato di fatto e non esistono approcci ecologici che
possano compensare.
Perché non immaginare, invece, un’alternativa all’acquario mantenendo gli
obiettivi educativi, scientifici ed ecologici ma senza utilizzare animali in
cattività?
Perché non immaginare delle aree marine protette dove gli animali vivano liberi
nel loro habitat, non disturbati da umani?
Perché non immaginare delle esperienze sensoriali progettate attraverso la
tecnologia (realtà aumentata, simulazione 3D)?
Perché non immaginare dei santuari per proteggere davvero le specie in pericolo
e la biodiversità?
Perché non immaginare centri di formazione e di educazione alla biologia
marina ma anche all’empatia raccontando le storie di animali salvati e
cooperando con ONG?
Chiudere un pesce in una vasca non è un gesto neutro: è l’espressione di un
mondo che separa, riduce e domina. Ma nel mondo-tutto, ogni vita è legata alle
altre. E finché ci ostiniamo a osservare la natura attraverso il vetro del
possesso, continueremo a distruggere ciò che diciamo di preservare.
Redazione Sicilia