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La lobby israeliana si sta sciogliendo sotto i nostri occhi
Il mese scorso, un membro di spicco dell’organizzazione ebraica J Street, che aveva lavorato per Obama e Harris, ha spiegato che la tradizione del Congresso di sostenere Israele “a prescindere da tutto” è stata imposta da un “gruppo ben finanziato di ebrei“. “Un piccolo gruppo di ebrei americani, organizzato e […] L'articolo La lobby israeliana si sta sciogliendo sotto i nostri occhi su Contropiano.
Contro la violenza dei coloni in Cisgiordania servono scelte vincolanti
La violenza dei coloni israeliani in Cisgiordania contro la popolazione palestinese è in costante escalation. Le cronache e i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani documentano migliaia di attacchi negli ultimi due anni, registrando un record assoluto proprio lo scorso ottobre con almeno 264 attacchi in un mese: incursioni armate nei villaggi, pestaggi, distruzione sistematica di case, campi e infrastrutture, furti e saccheggi. Uno degli episodi più recenti è avvenuto nella zona di Ein al-Dujuk, vicino a Gerico: quattro attivisti – un canadese e tre italiani – sono stati aggrediti nel sonno, picchiati e derubati da un gruppo di coloni mascherati, armati di bastoni e fucili. È l’ennesima prova di una violenza di tipo squadrista, resa possibile dall’impunità garantita dalle autorità israeliane, che mira strategicamente a terrorizzare la popolazione palestinese per spingerla ad abbandonare la propria terra. Ogni giorno palestinesi subiscono gli stessi attacchi terroristici – spesso ancora più violenti e con esito letale – lontano dalle telecamere e dall’attenzione dei governi occidentali: «Siamo stati aggrediti nel sonno, picchiati, derubati di documenti, telefoni, carte di credito e di tutti i nostri effetti personali. Quello che è accaduto a noi è la realtà quotidiana dei palestinesi: siamo qui a supporto della popolazione e per documentare quanto accade, perché la nostra esperienza sia cassa di risonanza della loro quotidianità.», ci ha raccontato uno dei volontari aggrediti. Di fronte all’aggressione a Ein al-Dujuk, il Ministro degli Esteri Antonio Tajani si è limitato a un commento generico, minimizzando l’accaduto, condannando timidamente a Israele e invitandolo a fermare le azioni dei coloni in Cisgiordania. Non è sufficiente: il governo Meloni deve assumere decisioni concrete, all’altezza della gravità delle violazioni del diritto internazionale da parte dell’entità sionista. «L’Italia deve agire nei confronti di Israele alla stregua di quanto la comunità internazionale fece contro il regime di apartheid sudafricano, adottando misure non simboliche ma vincolanti, per isolare un regime criminale» ha dichiarato Maria Elena Delia, portavoce italiana di GMTG/GSF. «Per questo chiediamo che il governo italiano assuma immediatamente i seguenti impegni concreti»: * embargo sulle armi e sui componenti militari destinati a Israele; * sospensione degli accordi di cooperazione politica, commerciale, militare, di sicurezza e ricerca strategica che rafforzano l’occupazione; * disinvestire e smantellare ogni forma di collaborazione nelle arene politiche, culturali e sportive, finché non sarà messo fine all’occupazione e i responsabili del genocidio saranno perseguiti e chiamati a rispondere dei propri crimini. A Gaza, intanto, centinaia di migliaia di persone affrontano l’inverno in tende allagate e insicure, con accesso limitato a cibo, acqua e cure mediche. Chiediamo con forza al ministro Tajani di utilizzare tutti gli strumenti a disposizione del governo per ottenere l’apertura di corridoi umanitari permanenti e rimuovere gli ostacoli politici e burocratici all’ingresso degli aiuti. La credibilità di una nazione si misura sulla capacità di trasformare le dichiarazioni di facciata in scelte concrete, nel rispetto degli obblighi internazionali che l’Italia ha sottoscritto e ratificato. Global Movement to Gaza
Cisgiordania: aggressione da parte dei coloni ai danni di attivistx internazionali
Una decina di coloni israeliani, con il volto coperto, all’alba di domenica, ha fatto irruzione in un’abitazione a Ein Al-Duyuk, vicino a Jericho, che ospitava 4 attivistx internazionali che si trovano in Cisgiordania per supportare la popolazione palestinese. Dopo essere entrati, i coloni hanno aggredito le persone che stavano riposando all’interno, rubando loro i passaporti, i telefoni cellulari, e tutti i loro averi. Tre degli attivisti feriti sono cittadini italiani, mentre una quarta persona ha la cittadinanza canadese. Ascolta il racconto dell’aggressione.
Cisgiordania. Si stanno prendendo tutto…
All’alba. Ruspe, elicotteri, blindati. La nuova operazione terroristica dell’Idf – battezzata “Cinque pietre” – piomba su Tubas e sui villaggi attorno nella Cisgiordania settentrionale. Sessanta arresti, decine di case devastate, una trentina di civili costretti ad abbandonare le loro abitazioni. A essere trascinato via, tra gli altri, anche Samir Basharat, […] L'articolo Cisgiordania. Si stanno prendendo tutto… su Contropiano.
Cisgiordania:continua la pulizia etnica in vista dell’annessione
Continua in Cisgiordania la pulizia etnica da parte dei coloni e l’esercito contro i residenti palestinesi con un crescendo che fa supporre una prossima annessione. Ad ottobre si sono registrati 264 attacchi di coloni israeliani contro palestinesi: il numero più alto da quando l’Onu ha iniziato il monitoraggio. Alberi bruciati, strade chiuse, case colpite da incursioni notturne, auto date alle fiamme. La stagione della raccolta delle olive, momento comunitario in cui si consolida il legame dei palestinesi con la terra , è stata quella più colpita. Circa 150 attacchi, 140 feriti, oltre 4.200 alberi distrutti. Per molti villaggi, quegli alberi sono il principale sostegno economico. Perderli significa perdere mesi di lavoro e parte del reddito annuale. Nelle zone rurali, come a Masafer Yatta, i contadini sono cacciati dai loro campi, pastori inseguiti da gruppi di coloni armati, tende bruciate, greggi disperse. Nei campi profughi,a Tulkarem o Jenin le incursioni militari sono quotidiane. Secondo l’Ufficio Onu per i diritti umani dal 7 ottobre 2023 mille palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania , uno su cinque era un bambino. Continuano le demolizioni di abitazioni palestinesi, migliaia di famiglie sono costrette ad andare via senza poter prendere niente vittime dell’operazione “muro di ferro” lanciata dagli israeliani il 21 gennaio scorso . Pochi giorni fa Human Rights Watch ha pubblicato il suo ultimo rapporto sulla Cisgiordania. Un documento che ricostruisce le operazioni militari dei mesi scorsi nei campi profughi di Jenin, Tulkarem e Nur Shams. Secondo l’organizzazione, circa 32.000 persone sono state costrette a lasciare le loro case tra gennaio e febbraio. Molti edifici sono stati demoliti, altri resi inabitabili. Le testimonianze parlano di evacuazioni rapide, annunciate da droni che sorvolavano i tetti ordinando di uscire. Le famiglie hanno raccontato di aver preso ciò che potevano in pochi minuti, senza alcuna certezza di poter tornare. I gruppi di resistenza a Jenin e Tulkarem sono stati duramente colpiti con uccisioni ed arresti anche ad opera dell’ANP che partecipa attivamente insieme all’IDF alla repressione della resistenza . Le restrizioni alla mobilità aumentano deviazioni obbligate e attese ai checkpoint che si moltiplicano, i tempi di percorrenza raddoppiano, talvolta triplicano. Per andare al lavoro, per raggiungere la scuola, per arrivare in ospedale: ogni percorso è un calcolo di rischio, di orario, di strade possibili. Molti lavoratori hanno perso i permessi per entrare in Israele da cui dipendeva il reddito familiare; altri li rinnovano mese dopo mese senza alcuna garanzia. Nelle aree agricole, i contadini si trovano spesso davanti a cancelli chiusi senza preavviso. Intere porzioni di terra vengono dichiarate zone militari temporanee, bloccando la raccolta dell’olio o impedendo l’accesso ai campi durante i giorni del raccolto. Ci aggiorna sulla situazione una compagna che si trova in Cisgiordania.
La terra rubata: la violenza dei coloni in Cisgiordania
Tra ulivi bruciati e villaggi abbandonati, la Cisgiordania vive un conflitto invisibile: la lenta cancellazione di un popolo sotto gli occhi indifferenti del mondo politico. La Cisgiordania è diventata una terra di ombre, di colline presidiate da uomini armati e villaggi palestinesi che si svuotano nel silenzio generale. Mentre il mondo osserva Gaza, qui si consuma un’altra guerra, più silenziosa ma non meno feroce: quella dei coloni israeliani contro i palestinesi. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA), ottobre 2025 è stato il mese più violento degli ultimi vent’anni, con una media di otto attacchi al giorno. Una spirale di aggressioni che non si limita ai pestaggi o alle sparatorie: gli alberi di ulivo vengono bruciati, i raccolti rubati, le case devastate. Nelle valli tra Nablus e Hebron, dove le famiglie vivono di agricoltura e pastorizia, il fumo degli uliveti incendiati si confonde con quello dei copertoni bruciati per difendersi. Le aggressioni arrivano spesso all’alba, con gruppi di coloni incappucciati che penetrano nei villaggi e costringono gli abitanti a fuggire. Molti palestinesi raccontano di aver visto i soldati israeliani osservare senza intervenire, o addirittura scortare i coloni durante gli attacchi. È una violenza che non sorprende più nessuno, ma che continua a dilagare nell’indifferenza quasi generale. Bruciare, bruciare, bruciare Nel solo 2025, secondo Reuters e The Guardian, decine di comunità rurali palestinesi sono state abbandonate dopo ripetute aggressioni. Migliaia di ulivi — simbolo della sopravvivenza e della radice stessa di quella terra — sono stati distrutti o sradicati. “Gli ulivi sono tutto per noi”, raccontano i contadini intervistati dal quotidiano britannico, “ci danno pane, olio e dignità. Bruciarli è come bruciare la nostra memoria”. La distruzione agricola è parte integrante di una strategia di spossessamento: colpire i mezzi di sussistenza per spingere la popolazione a lasciare il territorio. Dietro questa brutalità c’è un mosaico complesso. I coloni non sono una massa indistinta di fanatici, ma una costellazione di comunità molto diverse tra loro: famiglie benestanti che si sono trasferite per godere di agevolazioni fiscali, giovani ultra-nazionalisti cresciuti nell’idea che la “Giudea e Samaria” siano terra promessa, gruppi ultraortodossi che cercano isolamento e controllo. Ma una minoranza sempre più attiva — organizzata, armata, convinta di essere l’avanguardia di una missione divina — ha trasformato le colline della Cisgiordania in un campo di battaglia permanente. Violenti e protetti Sono loro i protagonisti delle violenze più estreme. E la loro forza non deriva solo dall’odio, ma anche dalla protezione politica. Il governo israeliano, dominato da partiti dell’estrema destra religiosa, ha più volte bloccato o rallentato i processi giudiziari contro i coloni, riconoscendo retroattivamente decine di avamposti illegali. Le armi con cui agiscono non sono solo fucili, ma la certezza dell’impunità. Quando l’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani ha chiesto a Israele di “porre fine al sostegno agli attacchi dei coloni e di proteggere la popolazione palestinese”, la risposta è stata il silenzio. Un silenzio che vale come un lasciapassare. La violenza dei coloni non è più soltanto ideologica. È diventata una forma di gestione del territorio, uno strumento di controllo. Gli attacchi non sono esplosioni di rabbia, ma parte di un disegno più ampio: creare paura, destabilizzare, spingere i palestinesi a lasciare le loro case. Alcuni ricercatori israeliani parlano apertamente di “strategia dell’erosione”, un piano che trasforma la quotidianità in assedio costante. Ogni famiglia che abbandona un villaggio rappresenta un piccolo successo per chi vuole spingere i confini dell’occupazione un po’ più in là.  Fanatici educati alla violenza Eppure, dietro la retorica biblica e la retorica della sicurezza, si nasconde anche un senso di frustrazione. Molti di questi giovani coloni, cresciuti in un clima di fanatismo e isolamento, sono vittime di un sistema che li ha educati all’odio e li ha usati come strumenti di una politica di espansione. In loro convivono il delirio religioso e la disperazione sociale, l’illusione di essere difensori di una fede e la realtà di essere carne da propaganda. Ciò che resta, però, è la violenza. E il silenzio. Quello delle istituzioni internazionali che contano i morti e pubblicano rapporti, senza mai riuscire a fermare l’emorragia. Quello dei media occidentali che parlano di “scontri”, come se ci fosse simmetria tra chi occupa e chi resiste. Quello della stessa società israeliana, dove una parte crescente della popolazione sceglie di non vedere, di non sapere. Cisgiordania, laboratorio di violenza La Cisgiordania di oggi è un laboratorio di disumanizzazione. Case bruciate, bambini terrorizzati, ulivi carbonizzati, villaggi cancellati dalle mappe. Ogni colpo inferto a un contadino palestinese è una ferita aperta nel diritto internazionale, ma anche nella coscienza collettiva. E ogni volta che un soldato guarda altrove, che un politico giustifica, che un giornale tace, il crimine si ripete. Non è più una questione di insediamenti o di confini. È una questione di umanità. E quella, in Cisgiordania, sta scomparendo. Fonti: Reuters, “Israeli settler attacks against Palestinians reach record number in October, UN says”, 7 novembre 2025. The Guardian, “West Bank farmers prevented from harvesting by settler violence”, 3 novembre 2025. UN OCHA, “Humanitarian Situation Update 337 – West Bank”, ottobre 2025. UN Human Rights Office, dichiarazione del 16 aprile 2024. Fivedabliu, “Cisgiordania, Herzog: “Condanno la violenta e crudele furia contro i residenti della cittadina palestinese di Huwara” 27 febbraio 2023   Fivedabliu
I coloni che uccidono i contadini palestinesi
Sulle colline della Cisgiordania occupata, ogni giorno si consuma una strana e dolorosa ironia: gli stessi coloni israeliani che si appropriano della terra palestinese, bruciano i nostri ulivi e sparano ai nostri contadini, ora imitano proprio quello stile di vita che stanno distruggendo. Come contadino palestinese, ogni ottobre, quando passa il Giorno della Croce (Youm Al-Salib), cadono le prime gocce di pioggia e il colore delle olive comincia a cambiare, so che la stagione è arrivata. L’aria si fa pesante per l’umidità e la promessa di nuovo olio. Prendo i miei attrezzi, raduno la mia famiglia e scendo nei campi. Sono rituali antichi, tramandati da mia madre, che conosceva a memoria i segni della terra: quando potare, quando raccogliere, quando riposare. La terra profuma di timo e terra bagnata; gli uccelli cantano come se benedicessero la stagione. Per un attimo sembra prevalere la pace, finché il mio sguardo non cade sulla cima della collina e vedo i coloni accampati sul crinale, con i fucili in spalla, che giocano a fare i contadini negandoci il diritto di coltivare la nostra terra. È come uccidere la vittima e poi partecipare al suo corteo funebre. Occupazione e appropriazione culturale Occupano le cime delle montagne che sovrastano i nostri villaggi, dove un tempo i pastori pascolavano le loro greggi e gli agricoltori coltivavano i terrazzamenti scavati dai loro antenati. Hanno deturpato il paesaggio autoctono della nostra terra natale. Odiano noi, il popolo di questa terra, disprezzano la nostra lingua, la nostra musica e la nostra cultura, eppure imitano le nostre tradizioni rurali come se fossero le loro. Negli ultimi anni, gli avamposti illegali dei coloni sono proliferati in tutta la Cisgiordania. Da queste colline, i coloni molestano i pastori, rubano i raccolti di olive e cacciano le famiglie dalle loro terre ancestrali. Secondo B’Tselem e ARIJ, la violenza dei coloni ha raggiunto livelli record: migliaia di attacchi ogni anno contro agricoltori, case e frutteti palestinesi. L’OCHA delle Nazioni Unite ha documentato un aumento di oltre il 45% degli attacchi rispetto allo scorso anno. Decine di famiglie sono state costrette ad abbandonare le loro terre. L’obiettivo è chiaro: cancellare la popolazione indigena, rubando non solo la terra, ma anche lo stile di vita, il folklore e la cucina. Eppure, su quelle stesse colline, i coloni celebrano matrimoni sotto gli ulivi, raccolgono le olive a mano, cucinano la shakshuka – pomodori fritti in olio d’oliva con uova – su fuochi a legna, preparano il tè in teiere di latta annerite e suonano lo shibabeh, il flauto che risuona nei villaggi palestinesi da Jenin a Hebron. Indossano camicie di cotone grezzo, costruiscono piccoli giardini – hakura – e si comportano come se avessero ereditato un legame con la terra che hanno solo rubato. Lo chiamano “ritorno alla natura”, ma è una messinscena, un tentativo disperato di fabbricare un senso di appartenenza dove non esiste. La loro imitazione non è ammirazione, è appropriazione nata da un complesso di illegittimità. Nel profondo, sanno di essere stranieri qui. Sentono il vuoto dello sradicamento e cercano di colmarlo con simboli presi in prestito e tradizioni rubate. È una tragedia di contraddizioni: distruggono l’ulivo ma desiderano la sua ombra; cacciano il contadino ma invidiano la sua semplicità; occupano la terra ma imitano la vita di coloro che hanno espropriato. Il loro desiderio di apparire autoctoni mette a nudo la loro alienazione. La terra come identità Per noi palestinesi, la terra non è uno stile di vita o una fuga nel fine settimana: è storia, memoria e identità. Ogni ulivo porta con sé le storie di generazioni. Ogni appezzamento porta un nome arabo o siriaco legato alla memoria delle persone che hanno vissuto qui per millenni. Ogni sorgente ha un nome, ogni terrazza una storia. Ogni pietra è stata sollevata da mani che amavano questo suolo e ne conoscevano i segreti. Quando vedo i coloni nuotare nelle nostre sorgenti, costruire tavoli da picnic vicino ai nostri pozzi o organizzare matrimoni con musica folk palestinese, provo più che rabbia. È un dolore misto a incredulità, un senso di violazione della terra e del suo significato. Distruggono le radici e poi fingono di essere radicati. Uccidono i contadini e poi cantano le loro canzoni. Possono copiare i gesti di appartenenza, ma non possono ereditarne l’anima. Possono cucinare la shakshuka, ma non potranno mai assaporarla come noi, condita con il lavoro, la pazienza e la nostalgia. Possono cantare le nostre canzoni, ma le loro voci non trasmetteranno mai l’amore e il dolore che le hanno plasmate. La nostra essenza è fatta dell’argilla di questo paese. La terra ricorda La loro imitazione rivela una profonda verità: lo stile di vita palestinese è l’espressione autentica di questa terra. I coloni vogliono apparire come nativi, mimetizzarsi nel paesaggio e cancellare i segni visibili dell’occupazione. Ma per quanto possano imitare, la loro presenza rimane un’intrusione violenta. Non possono cancellare la verità con l’olio d’oliva o coprire l’ingiustizia con una melodia popolare. Non si può diventare indigeni rubando la terra o imitando la sua gente. L’appartenenza nasce dalla giustizia, non dall’imitazione. Finché i coloni continueranno a uccidere i contadini, a rubare i raccolti di olive e a cacciare le famiglie dalle loro case, i loro tentativi di mettere radici rimarranno vani. Possono occupare le colline, ma non possono occupare la verità. Quando mi trovo tra i miei ulivi al tramonto, sento il loro silenzio parlare. Ricordano le generazioni che li hanno curati, le mani che li hanno innaffiati, le canzoni cantate alla loro ombra e i passi che hanno tracciato i terrazzamenti. Hanno visto conquistatori andare e venire, eppure rimangono lì, saldi, radicati nella giustizia, nella memoria e nell’appartenenza. I coloni possono imitare la nostra vita, ma non possono imitare il nostro amore per questa terra: l’amore non può essere finto e le radici non possono essere trapiantate con la forza. Possono prendere in prestito le nostre canzoni, il nostro cibo e le nostre usanze, ma non possono ereditare i secoli di cura, sudore e devozione che hanno plasmato questa terra e la sua gente. Questa terra riconoscerà sempre i propri figli: quelli la cui pelle porta la sua polvere, la cui lingua è nata dalle sue colline, le cui canzoni si levano con il suo vento. La nostra pelle ha il colore del suo suolo, i nostri cuori battono al suo ritmo. Nessuna imitazione, violenza o occupazione potrà mai cambiare questa verità. Gli ulivi sopravviveranno a tutti loro, e così faremo anche noi. di Fareed Taamallah Traduzione di Nazarena Lanza Versione originale in inglese su Middle East Monitor: The settlers who kill Palestinian farmers and imitate their lives Redazione Piemonte Orientale
PALESTINA: COLONI DANNO FUOCO A UNA MOSCHEA IN CISGIORDANIA. A GAZA INVECE 3 VITTIME A RAFAH PER I RAID ISRAELIANI
Palestina: i coloni israeliani hanno compiuto gli ennesimi raid contro case e proprietà palestinese in Cisgiordania. Il salto di qualità riguarda l’incendio di una moschea tra le città di Kafr Haris e Deir Istiya, nella provincia di Salfit. Sui muri con minacce di sterminio nei confronti dell’intero popolo palestinese, ma pure per il capo del Comando centrale dell’Idf, Avi Blot, oltre a danni gravi all’edificio e copie del Corano bruciate. L’episodio si inserisce nell’ondata terroristica dei coloni contro la popolazione palestinese, ovunque essa abiti. Una situazione fuori controllo, tanto da spingere persino l’esercito occupante a cercare di limitare – seppur timidamente – la violenza dei coloni israeliani, responsabili di attacchi quotidiani contro i palestinesi e le loro proprietà, con l’obiettivo dichiarato di cacciare tutti gli abitanti della West Bank, occupandone case, terre, qualsiasi cosa. Il che è più o meno in realtà quello che fa pure l’esercito occupante israeliano, ogni giorno, in tutta la Cisgiordania; solo oggi, 40 le persone arrestate a Betlemme. Una pulizia etnica continua, come certificano i dati odierni dell’Ocha, agenzia Onu. Abbiamo tradotto in italiano la parte centrale del rapporto. Ascolta o scarica Gaza: il Segretario di Stato Usa Rubio si dice “ottimista sul fatto che il Consiglio di Sicurezza Onu possa finalizzare una risoluzione su Gaza che sostenga una forza di sicurezza internazionale”, cioè degli stessi Usa e di qualche regime arabo. Intanto Tel Aviv prosegue nella Striscia ad aprire il fuoco a piacimento: raid aerei su Khan Younis e Beit Lahia, demolizione continue di case ed edifici, mentre a Rafah ci sono 3 morti in 24 ore. Israele sostiene fossero “miliziani palestinesi” nascosti nei tunnel. Qui si stima ci siano 200 persone, oggetto di trattativa tra Hamas, Usa e Israele per liberare i combattenti intrappolati sotto la cosiddetta Linea Gialla. In Italia intanto Freedom Flotilla annuncia l’avvio di una campagna straordinaria di raccolta fondi a sostegno dell’Ospedale Al-Awda, una delle ultimissime strutture sanitarie ancora parzialmente operative nella Striscia di Gaza. “Al-Awda continua a garantire cure a migliaia di feriti, donne, bambini e anziani, operando in condizioni estreme e al limite delle forze”, spiegano dalla Freedom Flotilla. Sempre in Italia, spazio alla Palestina anche a Brescia per l’82esimo anniversario dall’eccidio fascista di piazza Rovetta, dove il 13 novembre 1943 la banda fascista guidata dall’ex federale Ferruccio Sorlini provocò la morte di 3 antifascisti, dopo avere già ucciso, in Valle Trompia, un altro antifascista, Luigi Gatta. Qui il programma.
Il genocidio dei palestinesi si è fermato solo sui mass media
Sbaglia grossolanamente chi pensa che il genocidio contro il popolo palestinese si sia interrotto con il Piano Trump su Gaza. Nonostante lo sforzo dei mass media occidentali di veicolare questo scenario, la realtà sul campo – a Gaza come in Cisgiordania – racconta cose ben diverse. Il corrispondente di Al-Jazeera […] L'articolo Il genocidio dei palestinesi si è fermato solo sui mass media su Contropiano.
Vita e resistenza in Palestina
Un ennesimo, meritatissimo Premio ai Combattenti per la Pace per l’impegno che ogni giorno sono in grado di rinnovare sui vari fronti del conflitto: e in questi giorni eccoli impegnati in particolare su quella guerra strisciante, che giorno dopo giorno sta distruggendo economie, speranze, progetti di vita e territori in Cisgiordania. Si tratta del Premio ResPublica che il Comune di Mondovì conferirà sabato pomeriggio, 25 ottobre, alle due co-direttrici di questo movimento, Eszter Koranyi e Rana Salman, che i nostri lettori dovrebbero ormai ben conoscere grazie alle interviste e ai pubblici incontri di cui sono state protagoniste un annetto fa (tra Milano, Torino, Firenze, Roma e Napoli), puntualmente riportati su questa testata. E sulla via per Mondovì, eccole domani sera ospiti di una serata che avrà come tema proprio la guerra così poco raccontata in Cisgiordania: incontro già da tempo nel calendario di Assopace Palestina Milano, per documentare le esperienze di interposizione che in più occasioni hanno visto protagoniste Elena Castellani e Sara Emara – e che con l’occasione di questo rapido passaggio per Milano, ha coinvolto anche Eszter e Rana, naturalmente felicissime di esserci! “Ne sapete più noi di voi” mi dice Eszter Koranyi, che raggiungo su Zoom a Cipro, dove è stata in questi giorni per una conferenza insieme alla collega Rana Salman. “A parte alcune eccezioni come le testate Local Call o + 972, è raro che sui nostri media escano notizie su ciò che succede in Cisgiordania.” “Una ragione di più per continuare a fare quello che facciamo” aggiunge Rana Salman, che partecipa alla stessa chiamata su Zoom. “Da anni organizziamo spedizioni in sostegno agli agricoltori, ai pastori, alle abitazioni, ai villaggi che ahimè vivono sulla propria pelle questa continua aggressione da parte dei coloni, con crescenti livelli di violenza; la situazione sta diventando davvero seria. E quel che è peggio è la presenza dei militari, che invece di garantire almeno un minimo di ‘ordine pubblico’, intervengono in sostegno degli aggressori: inaccettabile! E infatti noi non ci arrendiamo, e siamo sempre di più, con sempre più giovani da Tel Aviv e altre città israeliane che partecipano alle nostre proposte di interposizione.” In questi giorni il confronto più duro è sul fronte degli ulivi, o quel che resta degli uliveti dopo le decine di migliaia di piante distrutte, sradicate, spiantate con la forza dal 7 ottobre a oggi (cfr OCHA, Ufficio delle Nazioni Unite per gli Aiuti Umanitari). Sulle pagine social dei CfPeace (che trovate tradotte in Italiano su Facebook alla pagina Combattenti per la Pace Italia) è possibile seguire le cronache degli ultimi giorni, nell’uliveto che apparterebbe di diritto alla famiglia di un membro fondatore dei CfPeace, il palestinese Jamil Qassas. Come ogni anno la sua famiglia si stava preparando alla raccolta delle olive, quando è arrivata l’ordinanza che vieta l’accesso ai terreni data la prossimità con l’ennesimo insediamento dei coloni in località Gush Etzion, poco lontano da Betlemme. L’azione di interposizione dei CfPeace è cominciata venerdì scorso: “Eravamo una trentina di persone” specifica il post su Facebook “nonostante le piante fossero in uno stato pietoso siamo riusciti a raccogliere un po’ di olive, ma abbiamo potuto lavorare soltanto un’ora, perché i militari ci hanno ingiunto di lasciare l’area in quanto zona militare! Ecco l’ingiustizia quotidiana dell’occupazione in Palestina. Ecco ciò cui stiamo attivamente co-resistendo con le nostre azioni nonviolente.” La situazione è proseguita con crescente tensione nei giorni successivi fino a che ieri non è arrivata una sonora multa per Jamil e tutto il gruppo che era con lui: “Ennesimo abuso di potere della milizia agli ordini di Ben Gvir nei territori occupati della Palestina.” Se ne parlerà domani sera, 23 ottobre, ore 20.30 allo Spazio ‘Il Cielo Sotto Milano’ di Stazione Porta Vittoria, su Viale Molise: con ricco corredo di foto e video-riprese raccolte da Elena Castellani e Sara Emara nelle loro varie spedizioni, con le testimonianze di Eszter Koranyi e Rana Salman e con l’intervento di Antonio Scordia per Amnesty International. Da NON Mancare!   Daniela Bezzi