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Questionari di guerra dall’AGIA, ma il 68% dei giovani non si arruolerebbe
L’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza (AGIA) ha lanciato una consultazione pubblica dal titolo “Guerra e conflitti”. Un questionario di 32 domande rivolto ai giovani tra i 14 e i 18 anni, che vuole indagare attraverso quali canali passa l’informazione sui conflitti nel mondo, quali sensazioni suscitano e come ragazze […] L'articolo Questionari di guerra dall’AGIA, ma il 68% dei giovani non si arruolerebbe su Contropiano.
“Anatomia di un fascismo” in scena a Roma dal 25 al 30 novembre, e poi in tour
“Che cos’è il fascismo? È un camuffamento, si nutre di paura, risponde alla paura con la violenza”: la voce e l’intensa interpretazione di Ottavia Piccolo ripercorre la vicenda esistenziale e politica di Giacomo Matteotti e l’ascesa di un fenomeno che non cessa di essere attuale. Quello di Ottavia Piccolo non è un monologo, ma un dialogo costante con I Solisti dell’Orchestra Multietnica di Arezzo, che intorno all’attrice si muovono, l’accompagnano, l’abbracciano. E ancora i video realizzati da Raffaella Rivi, che danno luce e consistenza alle frasi più significative. Un abile intreccio di musica (firmata da Enrico Fink) e parole, costruito e guidato dalla regia di Sandra Mangini, scritto da Stefano Massini, Matteotti – Anatomia di un fascismo è uno spettacolo che guarda al passato per meglio comprendere il presente, non solo attraverso le lenti della storia, ma con un appassionato ritratto di un uomo dal sangue caldo che qualcuno aveva soprannominato ‘Tempesta’. Ripercorre l’ascesa e l’affermazione di quel fenomeno eversivo che Matteotti seppe comprendere, fin dall’inizio, in tutta la sua estrema gravità, a differenza di molti che non videro o non vollero vedere. Il pericolo più grande, la malattia che fa morire un uomo è quella che non senti crescere. Matteotti li riconobbe: quelli che al caffè dietro il Duomo, a Ferrara, ordinavano il “celibano” perché non lo sapevano che “cherry-brandy” è inglese; quelli che dicevano di riportare ordine nel disordine, perché il fascismo ha assoluto bisogno di sentirsi in pericolo, di attaccare per non essere attaccato; quelli che, d’un tratto, sfilarono in migliaia dietro al Contessino Italo Balbo e si presero l’Italia intera. Giacomo Matteotti – l’oppositore, il pacifista, lo studioso, l’amministratore, il riformista, il visionario – prese la parola, pubblicamente e instancabilmente, nei suoi molti scritti e nei suoi moltissimi discorsi: una parola chiara, veritiera, fondata sui fatti, indiscutibile. Una parola che smaschera. Per questo fu ucciso all’età di 39 anni. La persistenza di questo stesso fenomeno, nel tempo e nello spazio, in forme vecchie e nuove, ci porta a considerare quanto sia indispensabile, oggi più che mai, occuparsi della cosa pubblica, del bene pubblico, guidati da un pensiero costruttivo, legalitario, partecipativo, paritario, realistico, competente, attraverso atti e parole chiare, come quelle di Giacomo Matteotti e di sua moglie Velia: sono le parole della regista Sandra Mangini. Lo spettacolo è prodotto da Argot Produzioni e Officine della Cultura in coproduzione con Fondazione Sipario Toscana Onlus – La città del Teatro, Teatro delle Briciole – Solares Fondazione delle Arti e Teatro Stabile dell’Umbria con il contributo del Ministero della Cultura e della Regione Toscana. Nasce da un testo di Stefano Massini, per la regia di Sandra Mangini, con i video di Raffaella Rivi e le musiche di Enrico Fink. I Solisti dell’Orchestra Multietnica di Arezzo sul palco sono: Massimiliano Dragoni (hammer dulcimer, percussioni), Luca Roccia Baldini (basso), Massimo Ferri (chitarra), Gianni Micheli (clarinetto e basso), Mariel Tahiraj (violino), Enrico Fink flauto (ewi). La scena è di Federico Pian, le luci di Paolo Pollo Rodighiero, i costumi sono a cura di Lauretta Salvagnin. Il vestito di Ottavia Piccolo è realizzato da La sartoria – Castelmonte onlus, il tecnico delle luci è Emilio Bucci. Il coordinamento tecnico è di Paolo Bracciali, l’organizzazione di Stefania Sandroni e in amministrazione c’è Rossana Zurli. Il fonico è Vanni Bartolini e il macchinista Lucia Baricci. Lo spettacolo debutta a Roma nel Teatro Vittoria, dove è in scena da martedì 25 a domenica 30 novembre (ogni sera alle ore 21 tranne mercoledì 26 novembre alle ore 17 e domenica 30 novembre alle ore 17,30 – biglietti). Un lungo tour attraversa le principali città italiane – tra cui Parma, Ivrea, Udine, Firenze – e prosegue fino ad aprile. La durata dello spettacolo è di 70 minuti.   MATTEOTTI – ANATOMIA DI UN FASCISMO A Roma – Teatro Vittoria: * Martedì 25 novembre: ore 21 * Mercoledì 26 novembre: ore 17 * Giovedì 27 novembre: ore 21 * Venerdì 28 novembre: ore 21 * Sabato 29 novembre: ore 21 * Domenica 30 novembre: ore 17,30 prossime date del TOUR 2025-2026 * 3 dicembre : Gallarate – Centro Culturale del Teatro delle Arti * 4 dicembre : Varzo – Teatro Alveare * 5 dicembre : Concordia – Teatro del Popolo * 6 dicembre : Modigliana – Teatro dei Sozofili * 8 dicembre : Parma – Teatro del Cerchio * 9 dicembre : Mondovì – Teatro Baretti * 10 dicembre : Ciriè – Teatro Magnetti * 13 gennaio  : Tortona – Teatro Civico * 14 gennaio : Omegna – Teatro Sociale * 15 gennaio : Ivrea – Teatro G. Giacosa * 16 gennaio : Savigliano – Teatro Milanollo * 27 gennaio : Ferrara – Teatro Comunale * 28 gennaio : Stradella – Teatro Sociale * 29 gennaio : Pinerolo – Teatro Sociale * 4 febbraio : Alghero – Teatro Civico * 5 febbraio : Tempio Pausania – Teatro del Carmine * 4 marzo Udine : Teatro Nuovo Giovanni da Udine * 5 marzo : Camponogara (Venezia) – Teatro Comunale Dario Fo * 6 marzo : Mercato Saraceno – Teatro Dolcini * 21 marzo : Polistena – Auditorium Comunale * 22 marzo : Filadelfia – Auditorium Comunale Filadelfia * 25 marzo : Livorno – Teatro Goldoni * dal 26 al 29 marzo : Ravenna – Teatro di Tradizione Dante Alighieri * 15 aprile : Rosignano – Teatro Solvay * dal 16 al 18 aprile : Firenze – Teatro della Pergola * 19 aprile : Narni – Teatro Comunale Giuseppe Manini * 23 aprile : San Stino di Livenza – Teatro R. Pascutto     Redazione Italia
La ‘pace dal basso’ nella conferenza a Briga Novarese: reportage e riflessioni di un partecipante
Vivace per contenuti e nutrita nella partecipazione che l’ha accompagnata, la presentazione di “Le porte dell’arte. I musei come luoghi della cultura tra educazione basata negli spazi e costruzione della pace” è stata una vera e propria conferenza sul tema “Per la pace. Pratiche dal basso contro la guerra, per la tutela dei diritti umani e la costruzione della pace” che, a partire dalle voci e dal racconto di alcuni dei suoi principali protagonisti, ha saputo declinare il tema annunciato nel titolo del libro. Organizzata dal gruppo di Borgomanero del MIR / Movimento Internazionale della Riconciliazione – Italia, l’iniziativa ha visto il concorso di una vasta rete associativa, composta in particolare da Acli, Altro Vergante, Associazione per la Pace Novara, Donne e Diritti Arci, Laboratorio per la Pace di Galliate, Local March for Gaza, Pace e Convivenza Sesto Calende, nonché la partecipazione di Mediterranea Saving Humans, Global Sumud Flotilla, Ipri-Ccp (Istituto Italiano di Ricerca per la Pace – Corpi Civili di Pace) e l’associazione editoriale Multimage, editrice del libro al centro di questo dialogo (Le porte dell’arte.  – 2024), oltre che, ovviamente, l’amministrazione comunale di Briga Novarese, presso la cui Biblioteca civica “Peppino Impastato” ha avuto luogo nel pomeriggio di sabato 15 novembre 2025. Cosa significa, dunque, nell’impostazione del tema e nella declinazione che la conferenza ha inteso sviluppare, agire “per la pace”, attivare “pratiche dal basso” – e quali – per la prevenzione della violenza, la tutela dei diritti umani, la costruzione della pace? Come segnalato nella presentazione dell’iniziativa, a cura del MIR di Borgomanero, si tratta, come punto di partenza, di mettere al centro non «ciò che è utile», bensì «ciò che è giusto»: in tempi difficili per la giustizia, per i diritti e per la verità stessa che viene oscurata, manipolata o sacrificata all’altare degli interessi economici, politici, finanziari e, soprattutto, del potere, tempi di guerra e di assenza di pace, insieme con le tante, spesso non conosciute e non raccontate, realtà in Italia che resistono, lottano, si impegnano, è necessario offrire un’altra narrazione, conoscere la storia e le storie dei volontari e delle volontarie, degli operatori e delle operatrici che rappresentano l’azione civile dal basso che sostiene cause buone, i diritti e la dignità umana in primo luogo. La conferenza ha concretamente rappresentato proprio questo tentativo di raccontare pratiche di azioni di pace dal basso, di interventi civili di pace in contesti di crisi, conflitto e gravi violazioni dei diritti umani, attraverso la voce di alcuni tra i protagonisti di queste attivazioni e progetti, quali Maria Elena Delia, portavoce italiana della Sumud Flotilla, la missione internazionale umanitaria e politica a sostegno della resistenza del popolo palestinese, Laura Marmorale, presidentessa di Mediterranea Saving Humans, organizzazione nata nel 2018 dall’indignazione dinanzi alle migliaia di morti nel Mediterraneo e alla politica dei porti chiusi, e che ha messo in mare la prima e tuttora unica nave del soccorso civile battente bandiera italiana, e [lo scrivente] Gianmarco Pisa, segretario dell’Istituto Italiano di Ricerca per la Pace – Corpi Civili di Pace, che coordina un progetto di Corpi Civili di Pace in Kosovo nella forma di una ricerca-azione per il superamento delle divisioni post-conflitto, la ricomposizione sociale a partire dalla cultura, e la costruzione della pace, con diritti e giustizia sociale. Come si vede, il contesto di riferimento è lo spazio (geografico, politico, storico, sociale, culturale) “di prossimità”, vale a dire il Mediterraneo, teatro, al tempo stesso, di conflitti e impressionanti violazioni dei diritti umani (pensiamo solo al caso, recente e sconvolgente, del genocidio della popolazione palestinese a Gaza), ma anche di esperienze e pratiche assai vitali di lotta contro la guerra e per la pace e di risorse e potenzialità di società civile particolarmente significative e coinvolgenti. Un mare che connette, oggi, ventidue Paesi di tre diversi continenti, a cavallo tra Europa, Africa e Asia; che ha dato origine ad alcune tra le grandi civiltà della storia, ognuna delle quali ha offerto il suo contributo decisivo alle arti e alle scienze, alle lingue e alle culture, alla letteratura e al pensiero. Il suo spazio marittimo è servito, nei secoli, come ponte tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud, tra le culture occidentali e la cultura araba, tra le civiltà europee e quelle orientali, tra la Cristianità e l’Islam. Oltre cinquecento milioni di persone di diverse nazionalità, provenienze, costumi, lingue e religioni compongono lo spettacolare mosaico, sociale e culturale, dei «popoli del Mediterraneo»; di questi, quasi duecento milioni vivono proprio nel suo bacino costiero, nella zona costiera del Mare di Mezzo. È uno scenario, dunque, irripetibile, per le forme delle proprie convivenze e i suoi diffusi conflitti, per la sua storia e le istanze che i suoi popoli esprimono per la libertà e l’autodeterminazione, i diritti e la giustizia. Ed è, al tempo stesso, il contesto in cui si sono espresse e si esprimono alcuni grandi potenzialità di attivazioni autonome di società civile per la pace, soprattutto a partire dagli anni Novanta, dalla Marcia dei Cinquecento a Sarajevo (1992) alle esperienze delle Ambasciate di Pace in zona di conflitto, prima in Iraq al tempo della guerra del Golfo (1990), quindi in Kosovo (1995) sino all’aggressione occidentale alla Jugoslavia (1999) che ha rappresentato un vero e proprio spartiacque, oltre a segnare anche una sorta di cambio di paradigma (si pensi al nuovo Concetto Strategico della Nato, varato a Washington, non a caso, proprio il 23-24 aprile 1999). Di fronte a un panorama, ieri come oggi, sempre più segnato da guerre e violazioni, al punto che il Sipri, l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, e il Global Peace Index documentano oggi ben 56 conflitti armati, vale a dire guerre, il numero più alto mai registrato dalla fine della Seconda guerra mondiale, un panorama apparentemente soverchiante e paralizzante, sorge naturalmente la domanda: «e io cosa posso fare?». Per quanto possa sembrare (o venga spesso rappresentato come) un percorso lontano e irrealizzabile, velleitario o, nella migliore delle ipotesi, utopistico, tanto è possibile fare e variegato è il contributo che, nel proprio piccolo e con le proprie risorse, ciascuno e ciascuna può dare per costruire pace, a partire dalla costruzione di una narrazione contraria alla guerra e alla definizione di un’autentica cultura di pace nella società. Iniziative di conoscenza, informazione e sensibilizzazione; presentazioni di libri e proiezioni di film; incontri, anche informali, per dialogare e riflettere sui diversi contesti di guerra e le ipotesi per la pace; sostegno alle campagne della società civile organizzata per la tutela dei diritti e la costruzione della pace; partecipazione, come operatori o come volontari, ai progetti delle organizzazioni che intendono promuovere diritti e dignità, azione contro la guerra e impegno per la pace; iniziativa, nelle scuole di ogni ordine e grado, per fare educazione alla pace e, come si diceva sino a pochi anni fa, alla mondialità; indirizzi, da parte degli enti locali, le amministrazioni di prossimità, attraverso delibere, mozioni, ordini del giorno, a sostegno del superamento dei conflitti, della tutela dei diritti umani, della promozione degli sforzi per la pace. Non per obiettivi, allo stato, velleitari, del tipo “fermare tutte le guerre e portare la pace nel mondo”, ma per agire nel concreto, con creatività, portando alla luce, sensibilizzando le opinioni pubbliche, dando un contributo concreto e positivo. È a questo livello che agiscono, infatti, gli interventi civili di pace e, in particolare, i corpi civili di pace, una «azione civile, non armata e nonviolenta, di operatori professionali e volontari che, come terze parti, sostengono gli attori locali nella prevenzione e trasformazione dei conflitti … Essi intervengono … in territori di conflitto o dove si prevede possano scoppiare conflitti determinati da violenza diretta, culturale o strutturale … Il loro intervento avviene solo su richiesta leggibile della società civile locale, interessata dal conflitto, e deve essere progettato con la partecipazione di partner locali … Sul campo possono attivare relazioni di collaborazione con altre Ong, agenzie di organizzazioni internazionali, istituzioni pubbliche, solo se tali rapporti non minano l’indipendenza e l’imparzialità della missione. Con attori armati – regolari e non regolari – non sono ammesse forme di collaborazione o sinergia né scorta armata; può esserci dialogo finalizzato alla gestione nonviolenta del conflitto o scambio di informazioni sulla sicurezza, ove questo non pregiudichi la “legittimità nonviolenta” della missione, in termini di modalità d’azione e di ricezione presso le parti». Dunque, non strutture inquadrate nella politica di sicurezza delle istituzioni promotrici del riarmo e della guerra, bensì strumenti della società civile, istanze dell’impegno dei popoli contro la guerra e per la pace, con dignità, diritti e giustizia sociale. Un compito strategico e un mandato operativo più chiari e, nel tempo difficile del nostro presente, più urgenti che mai. La registrazione della conferenza è temporaneamente disponibile online sul profilo Facebook di MIR Borgomanero RIFERIMENTI INFORMATIVI Alberto L’Abate: Origini, critiche e ragioni del progetto delle ambasciate di pace / BERRETTO BIANCHI Gianmarco Pisa: Cosa sono i Corpi Civili di Pace? / PRESSENZA – 2023 Il Nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza Atlantica / STUDI PER LA PACE – 1999 UNESCO : * Dichiarazione sulla Cultura di Pace – 1999 * La nuova Raccomandazione sull’Educazione alla Pace – 2023 Gianmarco Pisa
Abolire la guerra, costruire la pace: un convegno sui conflitti contemporanei
La Società Italiana delle Storiche, in collaborazione con diverse istituzioni culturali e universitarie, promuove un convegno dal titolo Abolire la guerra, costruire la pace. Genere, giustizia internazionale, pratiche nonviolente nei conflitti contemporanei, che si svolgerà a Roma il 6 e 7 novembre presso la Biblioteca di storia moderna e contemporanea. L’evento si propone di mettere al centro temi cruciali come la giustizia internazionale, la crisi degli organismi sovranazionali, le sfide della diplomazia e la revisione dell’ordine mondiale ereditato dal Novecento. > I significati, gli usi e le intersezioni delle categorie di pace, guerra, > giustizia e diritti dei popoli saranno posti al centro del convegno che ha una > struttura significativamente multidisciplinare. I conflitti che stanno tragicamente segnando il tempo presente sono infatti affrontati sotto il profilo storico, giuridico, politologico e diplomatico. Questi temi saranno interrogati attraverso la lente della categoria di genere e dei Peace Feminist Studies che illumineranno aspetti diversi e meno presenti nel dibattito pubblico. C’è, infatti, un filo rosso che unisce l’oppressione storicamente esercitata sulle donne alla violenza dei conflitti bellici: a tenerle insieme è la struttura più intima del sistema di dominio storicamente edificato da un chiaro modello di potere maschile, oggi fortemente in auge con una sua specifica e aggiornata declinazione. STRUTTURA DEL CONVEGNO Come Spiega Vinzia Fiorino, presidente della SIS, il convengo, articolato in tre panel, inaugurerà i lavori con un focus sui temi della giustizia internazionale (e della sua crisi) e sulle diverse concezioni di giustizia, per poi concentrarsi sulla categoria di umanitarismo e sulla storia del femminismo pacifista, quindi sulle pratiche di resistenza nonviolenta e sulle attività diplomatiche. Irriso dai potenti leader internazionali, ormai comunemente chiamati autocrati, il diritto internazionale attraversa una crisi senza precedenti restando del tutto impotente e inefficace nel contenimento dei conflitti e persino verso ciò che è indicato come doppio standard, ossia, spiega Fiorino, «comportamenti opposti, assolutori o di condanna, a seconda dello stato responsabile di atti violenti e di aggressione». Le decisioni della Corte internazionale di giustizia, come quelle della Corte penale internazionale restano del tutto inevase, private di una domanda politica che ne consentirebbe la giusta applicazione. Accanto alla formulazione classica di giustizia, sono emerse importanti richieste di verità e si è affermata un’idea di giustizia riparativa per la quale l’apporto dei gruppi più o meno organizzati di donne è stato storicamente determinante. La restorative justice, pur non sostituendosi a quella tradizionale, propone un superamento del paradigma punitivo, va oltre la pena da infliggere, volge lo sguardo (anche) verso l’altro alla ricerca di modalità di intervento differenti; promuove un dialogo con i responsabili impegnandosi nel coinvolgimento dell’intera comunità in un rito collettivo di superamento del trauma. In un contesto dominato dalla perdita di senso di categorie un tempo più nitide quali pace, conflitti armati, guerra di aggressione, per chi ha organizzato l’evento «sarà anche importante interrogarsi su come sia cambiata nel tempo l’organizzazione degli aiuti e dei soccorsi alle popolazioni colpite dalle guerre”. Dunque, per quanto sfuggente e dai contorni non ben definiti, “l’umanitarismo internazionale, che ha conosciuto momenti importanti di consolidamento e di intervento operativo all’indomani del secondo conflitto mondiale, costituirà un giusto punto di osservazione per cogliere importanti cambiamenti nella sensibilità collettiva, nelle relazioni internazionali e nelle pratiche sociali rese operative da diversi organismi sovranazionali». FEMMINISMO E PACIFISMO La storia dei movimenti femministi internazionali si intreccia intimamente con quelli pacifisti: «riannodare i fili della memoria, per tornare agli interventi di taglio più storiografico, sarà importante anche per dare ai movimenti di oggi uno spessore che non hanno ancora ricevuto. La rivendicazione di un diverso equilibrio mondiale, il ripudio della violenza nelle relazioni private, sociali e politiche hanno strutturato gli stessi movimenti. Sarà importante approfondire il pensiero di importanti teoriche, come l’intellettuale antinterventista inglese Vernon Lee vissuta tra Otto e Novecento – così come confrontarsi con quello che risuona come un originale contributo alla riflessione teorica offerto dai diversi movimenti: l’aver legato in modo inscindibile i temi della politica internazionale e le ragioni del pacifismo con quelli del pieno riconoscimento dei diritti soggettivi delle donne». > Proseguendo su questa linea, le storiche e numerose esperienze di > interposizione nonviolenta e di resistenza alle sistematiche occupazioni > saranno al centro di specifici approfondimenti. Sotto questo profilo, il caso palestinese è quanto mai paradigmatico: «precisando, in primo luogo, che tutto non è iniziato con il deprecabile e orrendo attacco del 7 ottobre nei confronti dei civili israeliani e che questa semplificazione di una parte del giornalismo italiano appare scorretta e subdola, si darà spazio alla storia dei movimenti femministi che almeno dalla fine degli anni Settanta si oppongono a quello che è il nodo vero di tutto il conflitto cioè l’occupazione israeliana dei territori. Attraversati ovviamente da importanti mutamenti nel tempo, i movimenti femministi palestinesi per un verso hanno agito intersecando il contrasto alle occupazioni territoriali con la lotta a una cultura tradizionalista e patriarcale, per un altro hanno promosso originali pratiche di resistenza nonviolenta, di mutualismo sociale, di mantenimento della vita. A dispetto di una prevalente rappresentazione mediatica, molte e di rilievo sono state e sono le figure femminili protagoniste nel vivace e raffinato mondo intellettuale palestinese, pienamente consapevoli altresì dei processi di soggettivazione e di liberazione». Le esperienze storiche che hanno fortemente interconnesso il femminismo con il pacifismo suggeriscono di respingere radicalmente le logiche dei conflitti armati e dunque l’accettazione della guerra, oggi a tutti gli effetti divenuta e percepita come una comune condizione di normalità. Questo seminario, al contrario, «vuole ribadire l’inaccettabilità delle pratiche di sterminio per fame come mezzo di guerra divenuto legittimo; così come ripudia l’antica logica per cui i mezzi sono giustificati dai fini allorché i mezzi sono rappresentati dall’uccisione di civili e il fine dall’imposizione di una supremazia occidentale e dalla difesa dei suoi presunti e cosiddetti valori; ancora più inaccettabile risulta la logica per cui i massacri perpetrati contro gruppi di religione musulmana sarebbero giustificati da un fine nobilissimo, quale la liberazione delle donne; le quali al contrario – come è ben noto – sanno come fare per liberarsi autonomamente». Da sempre la Società italiana delle Storiche ha inteso la ricerca storica come attività scientifica e di promozione della didattica, ma anche come impegno civile e presenza attiva nel tessuto sociale. In passato in prima fila nel sostegno ai diritti civili, politici e sociali di tutti e segnatamente di quelli delle donne, la SIS conferma ora il suo impegno nel sostenere le ragioni del superamento dei conflitti armati, delle logiche di sopraffazione, in favore del dialogo e della costruzione di processi di pacificazione. > Sotto questo profilo, la riflessione proposta, evidenzia chiaramente Fiorino, > «vuole rimettere in discussione la logica manichea basata sulla coppia > amico/nemico, condannare qualsiasi forma di discriminazione e di stereotipo > culturale, respingere l’idea di sicurezza posta, su scala planetaria, in > termini di mero riarmo e militarizzazione. Ma soprattutto sarà importante avviare la discussione almeno su due punti chiave: in primo luogo, il rifiuto della semplicistica logica amico/nemico porta con sé, per usare le parole di Carla Lonzi, spostarsi su un altro piano, quindi cogliere le ragioni ultime della riattualizzazione delle guerre per combatterle dalla radice; rifiutare la sollecitazione di stare in favore di uno schieramento o di un altro ma respingere in toto la logica bellicista e gli interessi economici che spingono alla guerra prima e alla ricostruzione degli spazi distrutti poi. In secondo luogo, contrastare l’idea secondo cui la riproposizione delle ragioni dei processi di pacificazione e il rifiuto delle logiche di guerra siano necessariamente da derubricare come buone aspirazioni ma, ahinoi, del tutto irrealistiche; non si tratta di fare esercizio di buoni sentimenti, ma di sperimentare e sostenere che le alternative alla guerra e alla distruzione ci sono e sono possibili; che opporsi alla guerra non significa negare la conflittualità sociale ma elaborare sistemi nonviolenti per affrontarla; che l’opzione per la pace è prioritaria e alla portata di qualsiasi scelta politica lungimirante». La copertina è di Alioscia Castronovo SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Abolire la guerra, costruire la pace: un convegno sui conflitti contemporanei proviene da DINAMOpress.
Catherine Connolly: la nuova presidente irlandese è sinonimo di giustizia e pace
> Il 25 ottobre 2025 Catherine Connolly è stata eletta presidente della > Repubblica d’Irlanda con circa il 63% dei voti. Questa vittoria elettorale non > solo segna un cambiamento alla presidenza, ma rappresenta anche un notevole > cambiamento politico nel piccolo paese dell’Europa nord-occidentale. La > politica indipendente, che si definisce socialista e pacifista, ha assunto una > carica che finora aveva soprattutto un significato simbolico, ma il cui > carisma morale non è affatto da sottovalutare. La campagna elettorale è stata caratterizzata da un netto contrasto. L’unica concorrente di Connolly, Heather Humphreys, rappresentava l’establishment conservatore. Dopo aver fatto parte per dieci anni di diverse coalizioni di governo, si è presentata come “filoeuropea”, senza spiegare cosa intendesse con questo termine. La sua campagna si è concentrata meno sulle proprie visioni e più sull’indebolimento della sua avversaria, il che alla fine ha giocato a favore di Connolly. COSA C’È DIETRO QUESTO RISULTATO? Diversi fattori hanno contribuito alla netta vittoria di Connolly e, allo stesso tempo, il suo successo offre lo spunto per esaminare criticamente le dinamiche dei cambiamenti politici in Irlanda. Una candidata con un profilo locale: Connolly è originaria di Galway, è cresciuta in una famiglia cattolica di operai con molti figli e parla irlandese. Le sue origini hanno un peso simbolico: incarnano una forma di “patriottismo soft”, in cui l’identità nazionale non è contrapposta in modo aggressivo alle altre, ma è radicata nella società e nella comunità. Alleanze e sostegno dalla sinistra: sebbene Connolly si sia candidata come indipendente, ha ricevuto il sostegno dei partiti e dei movimenti di sinistra, tra cui Sinn Féin, People Before Profit, i Verdi e i Socialdemocratici. Questo ampio sostegno ha reso possibile il suo successo, proprio perché i grandi partiti tradizionali del Paese, Fine Gael e Fianna Fáil, si sono indeboliti. Temi che riscuotono successo: Connolly ha posto in primo piano temi che stanno acquisendo sempre più rilevanza in Irlanda: politica di neutralità, questioni di pace, critica al riarmo, cambiamento climatico, disuguaglianza sociale. La sua posizione sui conflitti internazionali – in particolare il suo impegno contro la guerra e le esportazioni di armi – ha trovato riscontro positivo. Ha definito la guerra a Gaza un genocidio e ha accusato il governo degli Stati Uniti di favorirlo. Ha criticato il massiccio riarmo militare dell’UE e lo ha paragonato alla Germania degli anni ’30. Debolezza della concorrenza tradizionale: i partiti di governo hanno presentato candidate le cui campagne elettorali non sono apparse particolarmente dinamiche e i cui temi non hanno toccato le corde sensibili di gran parte della popolazione. Allo stesso tempo, molte elettrici hanno espresso un voto nullo: durante la campagna elettorale, l’affluenza alle urne ha registrato un aumento dei voti nulli pari a circa il 13% nelle regioni socialmente svantaggiate. SIGNIFICATO OLTRE I CONFINI DELL’IRLANDA La vittoria elettorale di Connolly ha un significato che va oltre i confini dell’isola: in un momento in cui in molti Stati europei le forze di destra o di destra liberale sono affermate, l’Irlanda mostra una tendenza opposta. L’elezione di una presidente di sinistra con circa due terzi dei voti invia un segnale: anche in un contesto di liberalizzazione dell’economia di mercato è possibile eleggere una politica che metta in primo piano la giustizia sociale, l’antimilitarismo e la partecipazione democratica. Allo stesso tempo, il voto evidenzia alcuni limiti: la carica di presidente in Irlanda è quasi puramente rappresentativa e non ha praticamente alcun potere esecutivo. Resta da vedere se la presidenza di Connolly influenzerà effettivamente il corso delle decisioni politiche importanti, ma la sua elezione aumenta la pressione sul governo e sui partiti tradizionali affinché affrontino in modo concreto, e non solo simbolico, le preoccupazioni di gran parte della popolazione. La vittoria elettorale di Catherine Connolly è più di un trionfo personale. Essa riflette gli stati d’animo della popolazione, in cui la giustizia sociale, la politica di pace e la partecipazione democratica contano sempre di più. Allo stesso tempo, mostra la trasformazione di un sistema politico che finora era stato largamente dominato da due grandi partiti. Affinché questo risultato abbia un effetto, è tuttavia necessario colmare il divario tra simbolo e sostanza in un Paese che sta cambiando rapidamente dal punto di vista economico e le cui contraddizioni sociali sono diventate evidenti. Per la sinistra, non solo in Irlanda ma a livello internazionale, questa vittoria elettorale è fonte di coraggio, ma comporta anche un compito: più che lanciare un segnale, significa cambiare concretamente. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid con l’ausilio di traduttore automatico. Reto Thumiger
Un incontro per riprendere il cammino con a fianco Marco
 Il gruppo Organizzatori “In cammino per la pace e il disarmo” si è ritrovato il 26 ottobre 2025 a Pracchia per ricordare Marco Frigerio, mente e importante riferimento del gruppo, che se ne è andato il 7 agosto u.s. lungo il sentiero della seconda tappa del percorso partito da Monte Sole e che avrebbe dovuto portare il gruppo a Sant’Anna di Stazzema per la ricorrenza del 12 agosto. L’incontro è partito proprio dalle parole di Marco che ricordavano l’emozione dell’incontro con i ragazzi del “campo della pace”, dei 54 conflitti che affliggono questo momento e delle pesanti responsabilità / interessi del mondo occidentale, del suo neo colonialismo mai terminato, della necessità del ripudio della guerra come soluzione dei conflitti, dello stretto collegamento fra antifascismo e pacifismo, ma anche con la parità dei diritti / femminismo intersezionale. Il gruppo ha condiviso di partire dalla volontà di coltivare l’idea di “un’altra memoria”, a partire dalla necessità di rinnovare la cerimonia per il ricordo dell’eccidio a Sant’Anna di Stazzema e recuperarne il vero senso, lontano dalle attuali parate, di aprire lo sguardo non solo a tutti gli eccidi in cui gli italiani sono stati vittime, ma anche dove sono stati invece i carnefici, come in Jugoslavia, Grecia, Albania… Riportiamo un estratto delle parole di Marco Frigerio all’alba del 12 agosto 2023 alla Vacchereccia (Sant’Anna di Stazzema) che sono ancora pienamente attuali alla luce del percorso della guerra in Ucraina e di quanto sta succedendo in Medio Oriente e in particolare a Gaza e in Cisgiordania. “Io faccio come sempre il primo intervento, supero la pausa del silenzio. Parto da me: per me è stato un cammino bellissimo. Mi emoziono a pensarci. È stato bellissima la giornata di ieri, quando sono venute qui le ragazze del campo della pace. Probabilmente l’emozione più forte. Vedere dei giovani e delle giovani che sono capaci di fare questa scelta, che è una scelta politica, per la pace. Oggi in Europa, dire “io sono da parte della pace”, pronunciare la parola utopia, è una scelta politica bellissima, che prescinde ovviamente dai partiti, che prescinde dagli schieramenti, che diventa quello che si vuole essere per la comunità. In qualche modo è veramente un puntello che aiuta noi, che tutto sommato un partner purtroppo ce l’abbiamo. Questi ragazzi che ho incontrato la prima volta nel 2019 qui, a volte hanno, soprattutto i ragazzi tedeschi, un dubbio: quello di essere qua in qualche modo “fuori posto”. Di essere gli eredi veramente di quello che è successo là, qui e in tutto il distretto. E noi siamo i primi a dirgli che non sono stati tedeschi, sono stati nazisti. Ma è un ragionamento che si allarga perché sono stati tedeschi come sono stati gli italiani in Croazia, i francesi in Algeria. Si può continuare in tutto il mondo a trovare questa voglia e questo desiderio permanente di sovrapporsi agli altri, di “sovradeterminarli”, di decidere quello che loro devono scegliere come giusto e come sbagliato. Tra parentesi, è una cosa mia personale, io lo chiamo anche patriarcato, ma ve lo dico dopo. E’ la guerra che va negata. Non è questo episodio, questo popolo, questo periodo storico. È la guerra che deve essere veramente disertata. Siamo partiti il 6 agosto ed è l’anniversario della bomba atomica su Hiroshima. Noi, almeno la mia generazione, l’ha sempre vissuto come il “momento della vittoria”: 150.000 civili bruciati vivi in un attimo, vissuti come il momento della vittoria, non sono un bel viatico per capire cos’è la pace. Oggi, diciamo che nelle stanze del potere non lontano da qui, in Francia, si sta decidendo se in Niger ci sarà una guerra e probabilmente se questa guerra si allargherà a Burkina Faso, Mali, Benin, Costa d’Avorio. Stiamo creando le basi per una guerra semicontinentale in Africa che è ancora una guerra di dominio, ancora una guerra per avere ciò che hanno loro, però spacciandola per democrazia. C’è stato un colpo di Stato e ci dicono che per riportare la democrazia bisogna fare la guerra. C’è stata un’invasione in Ucraina e ci dicono che per riportare lo Stato normale delle cose bisogna fare una guerra. La guerra è ancora la soluzione come 5.000 anni fa, come probabilmente 10.000, 100.000 anni fa. Sovrapporsi all’altro con la violenza e con la forza. Dire “pace” oggi vuol dire anche porsi il problema di chi, ad esempio, dal Niger arriverà sfuggendo agli stupri, sfuggendo alla distruzione, sfuggendo alla morte, attraverserà un deserto per arrivare fino a qui e troverà le nostre guardie di confine che sono la Tunisia e la Libia adesso che li rimanderanno indietro, li metteranno in lager, specialità libica. Non torneranno perché non hanno nulla a cui tornare. Hanno solo la miseria ma la miseria più nera a cui tornare. Quindi attraverseranno il Mediterraneo e anche lì sappiamo come va a finire. Ci si mette in un altro modo l’Europa a determinare di chi può venire e chi no. Ma non lo fa in un modo che spaccia per civile. Lo fa semplicemente lasciandoli in mare a morire. Secondo me c’è un problema da porci, grosso, visto che poi l’anno prossimo si voterà per l’Europa, su cosa sta facendo l’Europa. Io penso che l’Europa stia facendo la guerra in Ucraina mandando armi e sostenendo solo una parte e rifiutando tutte le proposte di pace che arrivano dal Vaticano come dalla Cina. Nessuno ha ancora detto in Europa in modo insistente “sediamoci a un tavolo”, “fate tacere le armi”, “parliamo finché non troviamo un accordo”. L’Europa questa cosa neanche la prende in considerazione. D’altra parte sta combattendo ancora per i suoi ex interessi coloniali in Africa e non solo in Africa. Ci sono 54 conflitti attivi nel mondo e sono tutti, tutti, tutti determinati dall’Europa, dagli Stati Uniti, dal mondo occidentale ricco, bianco e pieno di privilegi. Un’altra cosa che dobbiamo chiederci è se non stia facendo purtroppo da tantissimi anni la guerra ai migranti: (…) l’anno scorso per portare qui tutti i migranti che sono arrivati in un anno sarebbe bastato un traghetto alla settimana che partisse dalla Tunisia e li avrebbe portati qua tutti vivi, sani, in salute, in sicurezza. Quei bambini che poi fingiamo di piangere perché muoiono annegati a due passi da Lampedusa, sarebbero arrivati qui tranquillamente e avrebbero trovato in Europa parenti, concittadini, vicini di casa, persone disposte ad aiutarli e trovargli un lavoro e inserirli. Cioè, stiamo facendo la guerra a persone che potrebbero arrivare serenamente qua come arrivavano gli italiani nelle stesse condizioni di miseria e di dopoguerra nel Sud America o in America meno di un secolo fa. È una cosa indecente ed è una guerra che l’Europa sta facendo a povera gente, senza averla nemmeno dichiarata, ma spacciandola spesso come virtù e avendone dei benefici elettorali a destra come a sinistra, mi dispiace dirlo. È un momentaccio e, personalmente, riparto da me: io credo che antifascismo e pacifismo, non possono che andare a braccetto, siano le due chiavi sicuramente per superare la logica di guerra o quantomeno per continuare a diffondere questa malattia che cerchiamo di diffondere in tutti i modi con le bandiere, con la partecipazione a manifestazioni con i post su Facebook. La pace è ancora possibile. Io ci aggiungo sempre un pezzettino che è quello mio personale, che è frutto del mio percorso sul femminismo intersezionale e vi leggo una frase di una signora che poi è morta due anni fa si chiamava “bell hooks”, era una signora afroamericana e si può dire proprio una signora qualunque che ha cominciato a porsi il problema del femminismo, ha studiato, si è laureata, poi ha scoperto che una parte delle femministe bianche che erano con lei volevano soltanto avere una parità di diritti con i loro mariti per poter sfruttare ancora i neri e quelli che non avevano abbastanza soldi per difendersi. E allora ha detto no, il femminismo è un’altra cosa, è intersezionalità: se vi risolvete il problema come donna ma non come nera e non come povera, non avete risolto i miei problemi, mi avete soltanto cambiato il colore del gioco e questa signora si è specializzata è diventata una femminista meravigliosa e ha scritto questa cosa che è rivolta ovviamente soprattutto ai maschi del gruppo, che non me ne vorranno, in parte anche alle donne perché sono figli della stessa cultura patriarcale: “Ciò di cui c’era, e continua a esserci bisogno, è una visione della maschilità in cui l’autostima e l’amore di sé come esseri unici formino la base dell’identità. Le culture del dominio ledono l’autostima sostituendola con l’idea che il proprio senso di sé provenga dal dominio sull’altro. La maschilità patriarcale insegna agli uomini che il loro senso di sé e la loro identità, la loro ragione d’essere consistono nella loro capacità di dominare gli altri. Affinché ciò cambi i maschi devono criticare e mettere in discussione il dominio maschile sul pianeta, sugli uomini meno potenti, sulle donne e sui bambini”. Quello della pace è un lavoro che comincia da noi: a volte, è sempre esperienza personale, decostruendo il maschile che c’è in noi e cercando di renderlo più umano e più di cura per tutta l’umanità. Paolo Mazzinghi
Gocce di Pace, una manualetto per gli attivisti nonviolenti
Riceviamo e volentieri diffondiamo Gocce di pace di Pino Scorciapino e Silvio Rotondo sarà presentato da Giuseppe Rizzuto e Franco Nicastro al Circolo della stampa di Palermo il 9 ottobre alle 18, nel salone Orlando Scarlata di via Crispi 286. Un libro più che mai attuale quello firmato da Pino Scorciapino che dialogherà in questo appuntamento con Giuseppe Rizzuto, segretario regionale di Assostampa Sicilia, e con il giornalista Franco Nicastro. Un manualetto pratico per aiutarci ad essere costruttori di pace, scritto a quattro mani da Scorciapino con don Silvio Rotondo in cui echeggia una domanda “Cosa fare – disarmati, niente siamo, nulla contiamo – per difendere la pace?” Il mondo sembra precipitare nel bellicismo. Il riarmo (2.443 miliardi di dollari nel 2024) acuisce l’insicurezza, sottrae immense risorse allo sviluppo. Chi è lontano dalla geopolitica, ora la segue con apprensione, consapevole di incidere zero. Il libro con le sue due visioni – laica di Scorciapino, religiosa di Rotondo – propone invece un protagonismo per ognuno. Non solo manifestare. Osiamo: usciamo dal contesto locale, facciamoci sentire in ambiti decisionali anche lontani. Indirizzandoci a destinatari impensabili: cancellerie, ambasciate, consessi internazionali, università, scienziati, produttori di armi. “Gocce di pace” è un progetto e un metodo. Se tutti, da 8 a 100 anni, possiamo diventare attivisti, proponenti di “Gocce di pace”, non siamo solo bersagli senza voce della guerra ineluttabile. Prossimo appuntamento con il Circolo della stampa in via Crispi, n. 286, il 16 ottobre alle 18 con Marco Brando ed il suo Medi@evo. L’età di mezzo nei media italiani. A dialogare con l’autore, Roberto Leone, vicesegretario vicario di Assostampa Sicilia, e Pietro Corrao, già ordinario di Storia medioevale dell’università di Palermo. Tutte le iniziative del Circolo della stampa si svolgono con l’Associazione Donne del vino che prosegue la sua collaborazione con l’Associazione siciliana della stampa, dando la possibilità di offrire un calice di vino sia durante che alla fine degli incontri, rendendo il clima conviviale più aperto alla discussione tra gli autori e i partecipanti.   Redazione Palermo
Marco, il cammino e la Giornata della Pace
Oggi il gruppo “In Cammino per la Pace e il Disarmo” ha ripercorso il percorso da Montesole a Monte Salvaro, fino al luogo dove Marco  ci ha lasciato il 7 agosto, assieme a un grande lascito ed un grande messaggio di pace: è stata l’occasione per lasciare una targa in suo ricordo assieme alla bandiera della pace che lo accompagnava in tutte le sue iniziative. Il 21 settembre il mondo celebra la Giornata della Pace,  ma è difficile parlare di pace quando, nello stesso momento, il rumore che prevale è quello delle bombe, dei fucili, delle grida dei bambini e delle lacrime che scendono. È difficile parlare di pace quando i conflitti non vengono nemmeno più dichiarati, ma condotti silenziosamente con droni, embarghi, fame programmata. È difficile parlare di pace quando migliaia di bambini vengono uccisi come se fossero terroristi, nemici da abbattere, privati della vita, del gioco, della scuola, delle cure. È difficile parlare di pace quando le norme del diritto internazionale vengono calpestate e ridotte a carta straccia, quando chi si impegna a difendere la giustizia viene trattato come un avversario e spogliato delle stesse tutele fondamentali, come è avvenuto a Francesca Albanese. È come se si fosse perso il senso stesso di umanità: un’umanità sopraffatta dalla logica dell’odio e del profitto. Eppure, la pace non è solo la firma di un trattato o una tregua temporanea. La pace comincia da dentro di noi, da quella consapevolezza di ciò che siamo e di ciò che non siamo, da quello spazio interiore che troppo spesso lasciamo inaridire, convinti che conti più l’avere che l’essere. Comincia dalle nostre interazioni, interiori e con gli altri, da quel ‘cerchio sonoro’ che troppo spesso tace o sa solo urlare. Accumuliamo cose, potere, denaro, riconoscimenti, ma più che strumenti della nostra felicità, diventano essi stessi il fine.  Siamo formati alla competizione e ci lasciano stritolare dal suo ingranaggio, dall’illusione di “possedere” la vita degli altri e la nostra e così dimentichiamo la cosa più semplice: la felicità di un cammino fatto assieme, legata alla solidarietà, alla capacità di prendersi cura, al gusto di un abbraccio sincero, al silenzio della natura che ci ricorda chi siamo. La mancanza di pace riflette la mancanza di pace dentro ciascuno di noi. Finché non sapremo disarmare i nostri cuori dall’odio, dalla paura, dall’indifferenza, finché non sapremo “disubbidire” al sistema di profitto e sfruttamento, sarà come continuare a investire sulla guerra, in tutte le sue forme, anche quelle più quotidiane e invisibili. Oggi, in questa giornata, siamo chiamati non solo a denunciare la violenza, ma a scegliere di essere testimoni di un’altra possibilità: la possibilità di costruire comunità che non si fondano sulla logica del nemico, ma sulla fraternità, che non si alimentano della paura, ma della fiducia. Forse la pace è un traguardo lontano, forse è alla nostra portata, ma è un seme che possiamo e dobbiamo piantare già ora: nell’ascolto di chi soffre, nella cura per chi è fragile, nella gratitudine per un’emozione, nella capacità di stupirci per la bellezza di un sorriso, di una carezza o di un abbraccio. È lì che ricomincia l’umanità, è lì che possiamo ricominciare a sognare un mondo diverso. Questi crediamo siano i semi che Marco ci ha lasciato e che abbiamo già visto crescere attorno a lui: a noi il compito e l’impegno di prendercene cura. Foto di gruppo in cammino per la pace e il disarmo In cammino sul percorso per Monte Salvaro Targa con dedica a Marco e bandiera della pace Targa con dedica a Marco e bandiera della pace Targa con dedica a Marco e bandiera della pace Targa con dedica a Marco e bandiera della pace Foto di gruppo in cammino per la pace e il disarmo con striscione della pace Foto di gruppo in cammino per la pace e il disarmo con striscione della pace Tramonto Parco Montesole Statua parco Montesole In cammino sul percorso per Monte Salvaro In cammino sul percorso per Monte Salvaro Foto di gruppo in cammino per la pace e il disarmo Paolo Mazzinghi
Perché vado per la terza volta in Ucraina
Un’amica mi ha chiesto tempo fa: “Si può sapere cosa cavolo vai a fare in Ucraina? Vuoi farti ammazzare?” Iniziamo dalla seconda questione: mi piace vivere e non mi sono votato al martirio, anche perché, essendo sostanzialmente agnostico/ateo (pur di cultura cristiana) non avrei paradisi, Valhalla, Valchirie o Vergini ad aspettarmi in un’ipotetica vita eterna in cui, con tutta la buona volontà possibile, non credo né ho mai creduto. Morire per un missile russo a Leopoli, a Kiev o a Odessa?  È possibile tanto quanto morire in un incidente stradale sulla Pontina o sul Grande Raccordo Anulare di Roma, facendo escursioni in montagna o nuotando in uno dei mari italiani. Potrebbe paradossalmente essere maggiore e più “mirata” la possibilità di essere fatto fuori dai servizi segreti ucraini o alleati vari. E’ già successo. Qui confido nel buon senso: perché creare un casino internazionale quando basta non farmi entrare o al limite espellermi? Inoltre confido nella mia irrilevanza: posso scrivere ciò che voglio, ma la potenza di fuoco dei menestrelli di corte, della scorta mediatica dei signori della guerra, del fatto che in “tempo de guera: più bugie che tera” rendono per loro assolutamente irrilevante qualsiasi cosa io possa scrivere. Allora perché vado? Perché le nostre innumerevoli irrilevanze sono semi gettati al vento, brace che sotto la cenere potrebbe tornare a essere fuoco, umile goccia che scava la pietra o meglio ancora goccia che costruisce colonne quando una stalattite si salda con una stalagmite. Ho la stessa ambizione del colibrì che vuole spegnere l’incendio della foresta gettando la sua gocciolina d’acqua o della “piccola pietra” che Emilio Guarnaschelli, comunista torinese vittima del terrore staliniano, decise di portare a Mosca, rifugiandosi là come perseguitato politico italiano durante il regime fascista. Voleva contribuire all’edificazione della città di quella “futura umanità” cantata nelle centinaia di lingue in cui è tradotta l’Internazionale. Io faccio la mia parte, meglio di piangersi addosso o di spargere depressione. Del resto, già ora, centinaia e centinaia di migliaia di persone, se non milioni, in Italia, in Europa e nel mondo, e tra le quali tante e tanti giovanissimi, la loro parte la fanno tutti i giorni, in mille modi diversi e senza il bisogno di scrivere lettere aperte. Questi meritevoli sforzi mi paiono tuttavia poco coordinati per non dire disarticolati o polverizzati, rendendoli poco efficaci politicamente. Perché io vado proprio in Ucraina, quando abbiamo decine di guerre dimenticate e un genocidio ostentato e addirittura rivendicato in diretta? Torno per la terza volta in Ucraina perché lì c’è una guerra tra potenze nucleari, anche se la Nato non invia truppe ma armi, tecnologia e addestratori militari. Una guerra in cui è in corso lo sterminio sistematico di un’intera generazione di giovani maschi ucraini e di altrettanti giovani russi (uguali per numero, ma non certo in termini proporzionali rispetto alle rispettive popolazioni). Una guerra che è sostanzialmente rimossa proprio dalla mia parte politica, perché per mobilitarsi sente l’istintivo bisogno di schierarsi con una delle parti in conflitto secondo l’infantile logica binaria e manichea che ci vuole a fianco dei buoni contro i cattivi. Eppure sembrerebbe tanto facile dire che siamo contro la guerra e contro chi l’ha promossa, non ha voluto impedirla e ora la alimenta. Siamo contro una delle guerre più pericolose per i destini del genere umano. Se Kiev venisse bombardata a tappeto, trasformandola in una sorta di Gaza, allora sì che la mia vita sarebbe in grave pericolo, ma tanto quanto quella degli abitanti di Pietroburgo e Mosca, e di conseguenza Roma, Parigi, Berlino e Londra. (Madrid sarebbe risparmiata insieme a Dublino, a Bratislava e a chi pur tra mille esitazioni ha provato a non farsi trascinare nel bellicismo suicida). In quanto a me i nazionalisti russi (cioè i tre o quattro che mi hanno letto) mi hanno accusato di essere filo ucraino, che per loro significa sostanzialmente essere filonazista, per aver definito “truppe di invasione” i soldati della Federazione Russa che dalla Bielorussia tentarono di arrivare a Kiev (attraversando peraltro la foresta chiusa in quanto iper-contaminata dal plutonio di Chernobyl). Attenzione, non reputo necessariamente invasori i soldati russi entrati in Crimea e nel Donbass! Mentre i nazionalisti ucraini (sempre i tre o quattro che mi hanno letto) si sono stracciati le vesti perché, davanti alla Casa dei Sindacati di Odessa, città da sempre cosmopolita, imponente edificio oramai chiuso, abbandonato e addirittura cancellato da Google Maps, ho definito quella orrenda strage, pianificata dai neonazisti ucraini, il punto di non ritorno che portò alla guerra civile iniziata nel 2014. Sarei quindi filo Putin e giacché Putin sarebbe il nuovo Hitler, sarei di nuovo filonazista. Una guerra civile che ha distrutto uno stato binazionale. Una guerra civile in cui dopo otto anni di sostanziale indifferenza della comunità internazionale, bloccata dai veti incrociati espressi nelle risoluzioni presentate al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, si è inserita con le sue truppe d’invasione la Federazione Russa, che, per quanto provocata dalla Nato, ha anch’essa violato il diritto internazionale (lo dice anche Francesca Albanese). Altri tre o quattro lettori di entrambi gli schieramenti mi hanno detto, bontà loro, che, benché in buona fede, dovrei studiare la Storia (scritta suppongo dagli storici degli opposti schieramenti). Replico rivendicando di essere pacifista, internazionalista e quindi comunista poiché il capitalismo sta alla guerra come i nuvoloni neri stanno alla pioggia. Replico che sto dalla parte dei renitenti alla leva e dei disertori di entrambi gli schieramenti, che ormai sono d’accordo soltanto sul fatto che l’obiezione di coscienza sia il più grave dei delitti… Replico, come sostenne con la sua vita il socialista riformista Giacomo Matteotti, che il nazionalismo porta alla guerra e la guerra porta al fascismo. Infine, come mi ha insegnato il redattore umanista di Pressenza Olivier Turquet, è inutile disperarsi: “Signori della Guerra, vi spazzeremo via con Pace, con Forza, con Allegria!” Mauro Carlo Zanella
Noa riprogramma “Re Imagine Peace” per maggio 2026 a Firenze
In un post diffuso su Facebook Noa, la cantante pacifista israeliana, ha annunciato che l’evento “Re Imagine Peace” che  doveva inizialmente chiudere l’”Estate Fiorentina”, la stagione culturale estiva di Firenze, 2025, ha ora ha una nuova data: l’apertura della stagione culturale del 2026, il 9 e 10 maggio! Il programma del festival verrà presentato a settembre, a Palazzo Vecchio, a Firenze. Nel post Noa sottolinea: “Alla luce della catastrofe a Gaza, della guerra in corso, dei rapiti, delle vite innocenti perdute, delle terribili sofferenze di così tante persone vittime dell’estremismo e dell’ondata di violenza e odio che ha invaso il discorso pubblico riguardo a questo tragico conflitto, sentiamo che alzare la VOCE DELLA PACE è più importante che mai!!!” “Mentre i media tradizionali e social, insieme a chi semina paura e guerra, vogliono convincere il mondo che si tratta di un gioco a somma zero e che la pace tra i nostri due popoli sia impossibile, noi vogliamo fare esattamente il contrario!” “Il nostro festival sarà un GENERATORE DI SPERANZA! Vogliamo mettere in luce collaborazioni tra palestinesi e israeliani in tanti ambiti della vita… relatori, scrittori, artisti, organizzazioni e persino chef (!!), perché “deve esserci un altro modo” di affrontare questa dolorosa realtà — e in effetti, esiste!” “Non possiamo arrenderci all’oscurità e alla disperazione! Le prove che tutto è possibile sono davanti a noi, in tutta la loro luminosa evidenza. La città di Firenze, culla del Rinascimento, luogo dove la coesistenza, la tolleranza, la creatività e la cultura sono coltivate e celebrate, è il luogo ideale per iniziare a “Re-immaginare” il mondo in cui viviamo. Siamo profondamente grati alla sindaca Sara Funaro, al suo staff e a tutti i membri del Comune di Firenze per il loro sostegno e per averci accolto con tanto amore!”. Redazione Italia