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Serge Latouche / L’arte perduta di vedere la bellezza, l’arte di vivere
Serge Latouche, filosofo, economista e obiettore di decrescita, condensa in un centinaio di pagine una riflessione sul fallimento dell’urbanistica e sull’insignificanza dell’arte nel mondo contemporaneo. Il paradigma di uno sviluppo continuo e inarrestabile divora ogni cosa, anche l’idea del bello. La società mercificata produce continuamente consumo, immondizia e bisogni. Non mancano architetti e urbanisti di valore che progettano singoli edifici ecologici e perfettamente vivibili, ma sul piano globale l’architettura non ha arginato la cementificazione, la devastazione del territorio, e soprattutto non ha plasmato degli spazi di condivisione per la collettività e una nuova estetica condivisa. Alla base di questo pensiero c’è l’idea sottintesa che l’architettura sia la disciplina che forma la società e nello stesso tempo ne è il riflesso, e che l’estetica dell’architettura sia in qualche modo conforme all’educazione delle persone e alla loro moralità. Il pensiero che l’architettura sia sopra e dentro tutto; la sua valutazione critica – con un po’ di esercizio – alla portata di ciascuno; e che da essa si possa desumere lo spirito di una civiltà, molto di più che dall’arte, perché dalle opere d’arte presumiamo di desumere lo spirito di un determinato artista piuttosto che quello della collettività di appartenenza. Non stonerebbe, tra le pagine di Latouche, il pensiero del viaggiatore e critico d’architettura Robert Byron, che nei primi anni Trenta del XX secolo scriveva: «L’architettura è la più universale delle arti. […] I dipinti si trovano nelle gallerie, la letteratura nei libri. Le gallerie devono essere visitate, i libri devono essere aperti. Gli edifici invece sono sempre con noi. La democrazia è un fatto urbano, l’architettura è la sua arte» (R. Byron, Il giudizio sull’architettura, Umberto Allemandi & C., Torino 2006). Parole che riecheggiano Cornelius Castoriadis, più volte richiamato da Latouche: «Si può affermare, senza rischio di essere contraddetti, che gli individui sono soggetti a una paideia diversa per effetto del solo contesto urbano, se per esempio vivono a Siena o a La Courneuve». Così per Latouche la crisi dell’abitare, nelle nostre città senza mura cinte da periferie rivestite di manifesti pubblicitari, è una crisi politica e sociale. Il progetto della decrescita, che è funzionale alla costruzione di una società (e quindi di una architettura) diversa, porta con sé valori etici ed estetici e la speranza di re-incantare il mondo, riplasmando un’idea del sacro legata ai luoghi. Ma per restituire senso e pienezza alla bellezza – e al sostantivo tanto abusato – l’arte deve recuperare un significato attivo. Il concetto di arte priva di funzione, distaccata dall’artigianato, è nato nella modernità, con l’ascesa della borghesia, insieme all’immagine dell’artista come figura geniale che segue la propria fiamma interiore (ed è quindi legittimato a disinteressarsi, se lo desidera, della collettività di cui è parte). L’arte è oggi, nella visione di Latouche come in quella di Jean Baudrillard negli anni Settanta del XX secolo, un universo autoportate dominato dall’economia. I nuovi artisti sono inventati dal giornalismo e dalla critica, con l’obiettivo di far funzionare il mercato. Essi, come scrive Castoriadis, creano, più che opere, prodotti “che condividono con tutti gli altri prodotti della loro epoca il medesimo cambiamento nella determinazione della propria temporalità: studiati non per durare, ma per non durare”. L’arte è esibizionista, fine a sé stessa, ed è arte perché dichiarata tale (ben oltre i ready-made di Duchamp) anche perché – se non venisse dichiarata – nessuno la riconoscerebbe. Finché persiste questa impasse, la bellezza non è alla portata di tutti e l’arte non può essere uno strumento di cambiamento del mondo. Nella critica alla società dei consumi di Latouche alcuni punti soprattutto meritano ulteriori riflessioni che – mi rendo conto – tracimano da una semplice recensione. Il disinteresse, tutto e solo moderno, per la durata delle architetture e dei manufatti distingue profondamente il paesaggio antico e premoderno da quello contemporaneo. La nostra società e l’architettura sono caratterizzate, inoltre, dall’assenza di reimpiego, nei materiali, nelle forme architettoniche, molto spesso anche negli spazi. Le necessità di tutela impongono ristrutturazioni filologiche degli edifici storici che, se da un lato sono comprensibili ed evitano le devastazioni dei decenni passati, dall’altro tolgono una possibilità di rinascita agli edifici antichi. La funzione abitativa di molti centri storici si va perdendo, non soltanto in aree urbane ma in tantissimi piccoli paesi delle campagne italiane. Si costruiscono villette ai margini del paese invece che ristrutturare le case nel centro, dotate di stanze piccole e condizioni di luce e di visibilità dell’esterno che non riteniamo più adatte all’abitare a cui aspiriamo. Si torna a vivere nei piccoli centri per sfuggire al caldo, all’inquinamento, al traffico e ai costi delle grandi città, ma questo non comporta la ricostruzione di un tessuto di collettività condivisa. La casa è più spesso nuova e libera sui quattro lati. I vecchi spazi di condivisione persistono formalmente, con poche sacche di resilienza. L’assenza di una nuova estetica rimarcata dal filosofo francese è evidente anche nel fatto che, nonostante quanto detto poc’anzi, continuiamo a considerare belli i centri storici antichi, eredi di culture differenti da quella attuale. Jeff Bezos sceglie di sposarsi a Venezia, non alla periferia di Mestre. Quella stessa Venezia che Marinetti nel Manifesto del Futurismo del 1909 avrebbe voluto distruggere; un’ipotesi che ci inorridisce ma che non ci impedisce di fare di quel centro storico un oggetto di mercificazione colonizzato dall’economia. In questa fase di museificazione e gentrificazione dei nuclei storici, che va di pari passo con la costruzione di una bellezza statica e innocua, il dilemma e l’ambiguità della conservazione si pongono più che in altri periodi storici. Dovremmo domandarci come mai l’eredità materiale del passato sembri portare da sola il peso della bellezza. Perché continuiamo a trovare belli i centri storici delle città europee, palinsesti medievali e post medievali? Siamo davvero noi i produttori di questa estetica, noi ad aver deciso che quelle forme sono di nostro gusto, nello stesso tempo condannandole, di fatto, a non servire più a niente se non a colmare le memorie delle nostre fotocamere durante le vacanze? Non sembriamo del tutto consapevoli del paradosso che in molti contesti la conservazione e la tutela sono le uniche forme di reimpiego delle architetture antiche che mettiamo in atto, un sistema di protezione da parte di uno sviluppo che si dice sostenibile (Latouche in una vecchia intervista aveva definito lo sviluppo sostenibile una invenzione linguistica, un “ossimoro grazioso”: S. Latouche, Decrescita o barbarie, Castelvecchi, 2018). Scrive il filosofo nell’introduzione che decrescita significa «arte di vivere bene, in sintonia con il mondo», e «abbandonare il culto insensato dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita». Non è un programma ma un orizzonte di senso, che si nutre di altri pensieri destinati al ri-abitare e alla ri-sacralizzazione degli spazi esistenti per interrompere la produzione continua di nuovi luoghi. Tra le otto R indicate già altrove dal filosofo per re-incantare il mondo (“rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare”) devono trovare spazio anche una riabilitazione del gusto; la riscrittura dell’arte come componente fondamentale dell’esistere, sulla scia di Castoriadis, per il quale le grandi opere d’arte erano finestre sul caos che svelavano e inventavano un cosmo; la ridefinizione dello spazio urbano con edifici di altezza media (non grattacieli né villette) autoefficienti da un punto di vista energetico e tra i quali sia possibile passeggiare. Ma si tratterebbe soprattutto di prendere atto dell’esistenza delle numerose persone che aspirano all’arte o ne sentono il bisogno. Tra i resilienti Latouche iscrive i writers che «si ribellano contro la pubblicità, quindi contro l’estetica della società di mercato e contro il monopolio pubblicitario della bellezza» (e infatti la tendenza è quella di trasformare la loro arte in valore estetico, v. Banksy). Il compito è molto arduo, anche solo limitandosi all’arte. Come riconoscere le finestre sul caos, distinguendo la grande opera da quella dozzinale? I produttori di gusto e di estetica sono esistiti anche nell’era pre-globalizzazione e la tendenza è sempre stata, anche sul piano dell’architettura, di utilizzare le resistenze (anche un centro storico lo è, se inteso come luogo con una anima) per mantenere il mito dell’arte e della cultura, distruggendolo poi nel reale. Uno degli obiettivi principali potrebbe allora consistere – è la mia personale forma di comprensione di quell’orizzonte di senso, per nulla immediato, che si chiama decrescita – proprio nel togliere l’arte, e la materialità passata che interseca i nostri spazi dell’abitare, dalla sfera del futile, del diletto e del bello. Una strada difficile, non ortodossa e non tracciata.     L'articolo Serge Latouche / L’arte perduta di vedere la bellezza, l’arte di vivere proviene da Pulp Magazine.
Abitare un pianeta al collasso
IL 2024 È STATO L’ANNO PIÙ CALDO MAI REGISTRATO. E COME POTREBBE ESSERE DIVERSAMENTE SE IL CONSUMO DI CARBONE E PETROLIO CONTINUA AD AUMENTARE? INVECE DI METTERE IN DISCUSSIONE I MOTIVI CHE SONO ALLA BASE DELLA CRISI ECOLOGICA, I GRANDI POTERI ECONOMICI HANNO SCELTO VARI MODI DI “ADATTARE” I LORO BUSINESS ALLE DIVERSE CONDIZIONI AMBIENTALI: IL CASO PIÙ SPETTACOLARE È LA COSTRUZIONE DELLA NUOVA CAPITALE DELL’INDONESIA, NUSANTARA, CHE DOVREBBE SOSTITUIRE JAKARTA (28 MILIONI DI ABITANTI), ORAMAI SPROFONDATA SOTTO IL PESO DEI SUOI GRATTACIELI E SOMMERSA DALL’INNALZAMENTO DEL LIVELLO DEI MARI. IL PROBLEMA RESTA IL COMPORTAMENTO SEMPRE PIÙ PREDATORI DEGLI UMANI, A CUI CORRISPONDE UN POTERE COLONIALE SULLE SOCIETÀ. “DIFFICILE IMMAGINARE UNA RELAZIONE ARMONIOSA E SIMBIOTICA MULTISPECIE DELLE COMUNITÀ UMANE ALL’INTERNO DEI PROPRI ECOSISTEMI DI RIFERIMENTO – SCRIVE PAOLO CACCIARI – CHE NON SI REGGA SU RELAZIONI TRA GLI INDIVIDUI DELLA PROPRIA SPECIE BASATE SULLA CONVIVENZA PACIFICA E SOLIDALE, SULLA CONDIVISIONE E LA COOPERAZIONE, SULL’EQUITÀ SOCIALE, SU PACE E GIUSTIZIA…” Studenti e studentesse della scuola primaria e secondaria dell’IC di Civate (LC), insieme ai loro genitori, durante un’iniziativa della cooperativa Liberi sogni. Dal 31 maggio al 2 giugno, Liberi sogni promuove Transizioni Fest. Sentire Conosce Agire: qui il programma completo e le informazioni per partecipare -------------------------------------------------------------------------------- Il convegno “Abitare la Terra” promosso dall’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori di Roma (curatori: Daniela Gualdi e Flavio Trinca) il 29 aprile 2025 presso la Casa dell’Architettura si è aperto ponendo una domanda: “Avrebbe potuto andare diversamente?”. Certamente! È da più di mezzo secolo (dalla istituzione della prima giornata mondiale della Terra, dalla pubblicazione del Rapporto del Club di Roma su I limiti della crescita, dalla prima conferenza dell’Onu di Stoccolma sull’ambiente, dalla costituzione dei pannel scientifici sul riscaldamento globale e sulla biodiversità… per arrivare, in questo secolo, all’Accordo di Parigi e agli Obiettivi dello sviluppo sostenibile) che sappiamo con dettagliata precisione dove ci avrebbe portato il “business as usual” e cosa si sarebbe dovuto fare per evitarlo. Ora, quindi, la domanda giusta da porci è un’altra: potrà andare diversamente? Adattarsi? Sul numero di novembre del 2024 di Limes, dedicato alle questioni climatiche, Lucio Caracciolo scrive: «La battaglia per la decarbonizzazione è persa». I dati gli danno ragione: il 2024 si conferma l’anno più caldo mai registrato, così come il contenuto di anidride carbonica d’origine antropica in atmosfera (a gennaio la Noaa ha registrato il record di 426,03 parti per milione). E come potrebbe essere diversamente se il consumo di carbone e petrolio continua ad aumentare? L’obiettivo del contenimento dell’aumento di 1,5°C entro il 2050 è già stato superato. Il più recente rapporto dell’Ipcc (AR6) prevede che se la temperatura dovesse arrivare a +2°C si verificherebbero dei tipping point (punti di non ritorno) quali: la fusione della calotta glaciale della Groenlandia con un innalzamento del livello medio marino di 6-7 metri; la fusione di una porzione della calotta glaciale dell’Antartide con effetti improvvisi non prevedibili; un indebolimento della corrente oceanica meridionale atlantica (AMOC) con un raffreddamento del clima nel Nord Europa; lo scongelamento del permafrost artico; un collasso dei sistemi corallini tropicali; lo stress da calore e da incendi delle foreste amazzoniche e boreali. Tutti eventi stranoti e inoppugnabili a fronte dei quali Caracciolo dice che non ci rimane che «ecoadattarci». Un realismo che appare come una resa – non si sa quanto cinica o fatalistica – all’inazione, all’«inattivismo» dei governi (concetto usato dal climatologo Michael Mann nel libro La nuova guerra del clima, Edizioni Ambiente, 2021). Questo è infatti ciò che sta avvenendo. Piuttosto di mettere in discussione i motivi che sono alla base della crisi ecologica, i poteri economici che determinano la sorte della civilizzazione hanno scelto vari modi di “adattare” i loro business alle diverse condizioni ambientali. È ciò che Noemi Klain chiamava «il capitalismo dei disastri», ovvero: approfittare delle distruzioni invece di prevenirle. Il più delle volte si tratta di interventi eclatanti, faraonici progettati in chiave “tecno-modernista”, la cui funzione fondamentale è mobilitare molti soldi. Vediamo alcuni casi tipici pensati nel tentativo di rispondere alla sfida del surriscaldamento del pianeta. Essi spaziano dall’approccio immobiliarista, a quello geo-ingegneristico a quello fantascientifico hollywoodiano. Il caso più spettacolare è certamente la costruzione della nuova capitale dell’Indonesia, battezzata Nusantara, che dovrà sostituire Jakarta, oramai sprofondata sotto il peso dei suoi grattacieli (subsidenza) e sommersa dall’innalzamento del livello dei mari (eustatismo). Definisco questa una soluzione di «translazione delle contraddizioni» – per usare una categoria di Kohei Saito -: se un territorio diventa inabitabile lo si abbandona e se ne colonizza (distrugge) un altro. Inutile dire che non tutti gli attuali 28 milioni di abitanti di Jakarta troveranno posto nelle nuove abitazioni che il governo sta cercando di far costruire alle società immobiliari di tutto il mondo offrendo loro terreni e facilitazioni – ma con scarso successo, sembra. Zone di sacrificio e popolazioni di scarto fanno parte del corredo dell’approccio immobiliarista. Il secondo caso è quello della laguna di Venezia. Non potendo spostare altrove la città storica di Venezia, gli ingegneri idraulici hanno pensato di isolarla dal resto del pianeta contornandola con impegnative opere di contenimento delle acque. Al centro del sistema vi sono quattro teorie di barriere mobili, Mose (Moduli elettromeccanici a spinta di sollevamento) che separano il mare dalla laguna in caso di maree superiori ad 1 metro e 20 centimetri sul livello medio del mare. Un’impresa costata più di dieci miliardi di euro tra opere a mare e “complementari” e un costo di manutenzione previsto di un milione e mezzo di euro all’anno. Un’opera, ovviamente, non replicabile per la difesa delle altre zone costiere meno famose dove l’ingressione marina dell’Adriatico lungo il fiume Po raggiungerà la periferia di Milano (vedi le cartine di Pievani e Varotto nel Viaggio nell’Italia dell’Antropocene, Aboca 2021). Peccato che con le tendenze attuali nemmeno il Mose riuscirà ad impedire le “acque alte” di Venezia. Con 50 centimetri di aumento del livello del mare le ore di chiusura del Mose possono raggiungere le 4.500 ore all’anno (più o meno sei mesi!). Ma le ultime stime dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e del Cnr prevedono un aumento del livello medio del mare di 3 metri a fine secolo (leggi Multi-Temporal Relative Sea Level Rise Scenarios up to 2150 for the Venice Lagoon (Italy), Published 26 February 2025). La terza tipologia di sistemi di “difesa” dai cambiamenti geo-bio-fisici in atto è sicuramente la più fantasiosa perché inverte radicalmente l’approccio al problema: invece di pensare a come adattare la vita degli esseri umani ai mutamenti, si propone di cambiare il modo di funzionare del sistema naturale terrestre. Qui il tecno-ottimismo si spinge oltre il confine della realtà conosciuta e sperimentata. La geoingegneria, un po’ come la bioingegneria, si propone di manipolare il corso dell’evoluzione della vita. Si compie così il sogno prometeico dell’uomo che si crede (gioca a fare) dio. Nel caso specifico del surriscaldamento climatico la scommessa è quella di modificare la irradiazione solare (SRM, gestione della radiazione solare) per ridurre il calore intrappolato nell’atmosfera. I progetti di geoingegneria variano dall’immissione nella stratosfera di aerosol con biossido di zolfo, allo sbiancamento delle nubi spruzzando particelle di sale marino, alla collocazione nello spazio di spechi riflettenti, alla fertilizzazione degli oceani per aumentare la cattura della CO2… e altro ancora. Gli allarmi scientifici ed etici lanciati da più parti nel tentativo di bloccare le sperimentazioni in questo campo (vedi il portale nogeoingegneria.com), sembrano destinati a rimanere voci nel deserto considerando che grandi università come la University of Pennsylvania e Harvard e “magnati” come Bill Gate e Elon Musk, venerati e celebrati come “visionari”, stanno spendendo miliardi in ricerche di geoingegneria spaziale. Con Tramp è sicuro che otterranno le autorizzazioni necessarie. Infine, vi è un quarto approccio all’“adattamento”, molto più pragmatico e casereccio, alla portata anche dei governi meno ambiziosi, come il nostro: la decretazione dell’obbligo di stipula di una polizza assicurativa a copertura dei danni provocati da eventi estremi metereologici e conseguenti “calamità naturali”. Si chiamano Cat Nat: “polizze catastrofiche”. Come dire: ognuno si arrangi da sé, evitando di andare a chiedere rimborsi dallo Stato. L’economista Luigino Bruni chiama questa strategia «ipertrofia assicurativa», cioè, la privatizzazione dei rischi che le persone incorrono (come sta già avvenendo in sanità con lo smantellamento del welfare) vivendo in una società sempre più fragile, squilibrata, ammalorata. Inutile dire che per le società finanziarie si apre un colossale flusso di denaro da gestire a loro piacimento. Da tempo circolano nei mercati finanziari titoli e obbligazioni dette Cat Bond (Catastrophe Bond) e loro derivati con cui si può scommettere (tanto al rialzo, quanto al ribasso) sull’eventualità che si verifichino determinati eventi catastrofici (per un inquadramento della questione vedi di Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia, Ombre corte, 2019). Od opporsi? Se queste sono le strategie di adattamento ai mutamenti climatici che tecnocrati e finanzieri ci propongono, conviene allora pensare a soluzioni alternative, meno rischiose e meno costose: rispettare i cicli e i tempi biologici dei sistemi naturali; fare in modo che la natura riacquisti la capacità di rigenerarsi; lasciare che la natura si riprenda gli spazi necessari alla evoluzione della biodiversità (varietà e numerosità delle specie viventi) e ricolonizzi gli habitat attaccati dagli interventi antropici: boschi e foreste, zone umide e corsi d’acqua, barriere coralline e fondali marini, praterie e savane. È la strada indicata dal biologo Edward Wilson nel libro Half-Earth: Our Planet’s Fight for Life, (Wilson, Edward O., Metà della Terra: salvare il futuro della vita, Codice, 2016) in cui propone che metà della superficie terrestre venga designata come riserva naturale priva di presenze umane. Si potrà obiettare che si tratta di un approccio meramente difensivo, conservazionista, forse inefficace di fronte agli effetti ubiquitari delle aggressioni antropiche in atto; pensiamo alle radiazioni nucleari, alle microplastiche, ai composti chimici artificiali non metabolizzabili, alle polveri sottili inalabili… prima ancora che al biossido di carbonio, ma certo non sarebbe inutile come segnale di “Alt!” e di inversione di tendenza. Gli ecosistemi non sono “risorse”, “capitali” e “servizi” utili all’economia di mercato monetizzata (per un’analisi dettagliata vedi: Quaderni della decrescita, parte monografia “Capitale naturale”. L’assalto finale, a cura di Paolo Cacciari e Aldo Femia). Il regolamento europeo Nature Restoration Law (agosto 2024) va in una giusta direzione. L’obiettivo è coprire almeno il 20% delle aree terrestri e marine dell’UE entro il 2030 con misure di ripristino della natura, estendendo poi tali sforzi a tutti gli ecosistemi che necessitano di ripristino entro il 2050. Ogni iniziativa volta a denunciare e fermare il “consumo di suolo” è una precondizione per iniziare un’opera di risanamento dei processi vitali. Le ferite non si curano se prima non si ferma l’emorragia. Inoltre, anche i rimedi e le tecniche da usare per il risanamento degli ecosistemi possono essere di tipo passivo, spontaneo, “basati sulla natura”, piuttosto che di tipo ingegneristico. È quanto sostengono molti naturalisti ed ecologi, vedi, da ultimo, Roberto Danovaro, Restaurare la natura. Come affrontare la più grande sfida del secolo, Edizioni Ambiente, 2025. Decisamente interessante uno studio di qualche tempo fa, ma poco diffuso, del Fondo Monetario internazionale sugli effetti benefici delle balene: «Una strategia sorprendentemente semplice e sostanzialmente “no-tech” per catturare più carbonio dall’atmosfera: aumentare le popolazioni globali di balene» (link Imf). I biologi marini hanno infatti scoperto che il movimento nell’acqua e il metabolismo delle balene accresce il fitoplancton e di conseguenza la fissazione della CO2 negli oceani. Sembra che le balene oggi assorbano il 40% della CO2 prodotta nel pianeta (come 1.700 miliardi di alberi, pari a quattro foreste amazzoniche). Anche questa, però, può essere una strada rischiosa se gestita in un’ottica mercantile, con strumenti contabili (“partita doppia”; inquinare/disinquinare) e da agenti economici che hanno finalità di lucro. La natura come asset finanziario, cui attribuire un prezzo per poter scambiare in appositi mercati servirà solo a fornire nuove occasioni di business alle imprese, ad avviare nuovi cicli di accumulazione di capitali da investire in nuove attività economiche profittevoli. La giostra prelievi-produzione-consumo-scarti continuerà a girare sempre più velocemente. Quanto tutto ciò possa migliorare la salute del sistema Terra è davvero difficile da immaginare. Adrienne Buller, ricercatrice presso il think tank inglese Common wealth, in Quanto vale una balena. Le illusioni del capitalismo verde (add, 2024), dimostra l’inganno della “crescita verde”, poiché la natura non può essere ridotta e trattata come un bene economico. Dichiarazione di dipendenza dalla natura I sistemi vitali naturali, nella fisiologia terrestre, sono costituiti da flussi di energia e di materia che interagiscono rispondendo a leggi della biologia, della fisica e della termodinamica; rispettano vincoli biologici e condizioni fisiche; si evolvono su diversi livelli trofici e catene alimentari. Nella rete della vita tutto è legato da interconnessioni infinite, dinamiche, interdipendenti. Gli stessi “regimi naturali” classificati da Linneo in sfere distinte – litosfera, vegetali, animali – sono attraversati da flussi e relazioni complesse. Il “pensiero sistemico” di Odum (E. P. Odum e Gary W. Barrett, Fondamenti di Ecologia, nuova edizione Piccin-Nuova Libraria, 2006) dovrebbe guidare anche i nostri comportamenti sociali, economici e politici. Per non dimenticare l’abc della vita vale la pena ricordare che gli animali – noi con loro – inspirano ossigeno ed espirano anidride carbonica, mentre le piante fanno il contrario. Questo delicato, infinitesimale equilibrio nel bilancio metabolico del carbonio (cosa sono 400 parti per milione di Co2 in atmosfera!) fa la differenza tra la Terra e tutti gli altri pianeti fin qui conosciuti. La specie umana ha via via maggiormente interferito con le dinamiche spontanee dei cicli vitali terrestri. Grazie al crescente ricorso a energia e materiali “esterni” (esosomatici) gli esseri umani hanno assunto comportamenti sempre più predatori, parassitari, distruttivi delle basi biologiche ecosistemiche che supportano ogni tipo di organizzazione sociale. Fino al punto da pensarsi al vertice della piramide evolutiva e ritenersi legittimati a sottomettere e dominare ogni ente “inferiore”. Certo è che la cultura occidentale di derivazione ebraica ha contribuito non poco a un antropocentrismo estremo: «Dio disse loro: riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Genesi, 1-28). Queste terribili parole equivalgono a una dichiarazione di guerra del genere umano alla natura. La modernità occidentale eurocentrica si è quindi spinta fino a concepire l’umanità bianca, maschile, benestante come entità separata dalla «natura bruta» – per dirla con Francis Bacone. Corpo e spirito, sentimenti e razionalità, natura e cultura si sono separati seguendo una logica binaria oppositiva in cui i secondi valori hanno preso il sopravvento. Nella sua Ecopedagogia, la storica Bruna Bianchi riporta uno splendido passo della sociologa pacifista quacchera Elise Boulding: «Noi viviamo in un guscio, uno scudo tecnologico che ci isola non solo dai capricci del vento, dal clima, dalla temperatura, ma dai ritmi dell’ecosistema. In una bella e ordinata città, chi sa quando le api escono per il miele? Quando la luna è piena? Quando viene il tempo di danzare e piedi nudi? Chi sta piangendo da solo nella notte? Chi non riesce a dormire per la fame? Noi ci muoviamo nella vita senza conoscere queste cose». (Bruna Bianchi, Ecopedagogia. Il senso della meraviglia nella riflessione femminile, Marotta & Cafiero, 2021). Sottolineo una curiosità, forse non banale: Elise, in realtà nasce Biorn-Hansen a Oslo, Norvegia (1920 – 2010) e sposa negli Stati Uniti Kenneth Boulding (1910–1993), economista inglese, anch’egli quacchero, pioniere dell’ecologia economica, noto a tutti gli ambientalisti per aver dissacrato il modello economico della crescita, definito del “cowboy”, contrapposto a quello dell’astronauta che orbita nello spazio in una navicella dalle risorse limitate. A fronte della crisi ecosistemica, multifattoriale e multidimensionale in atto sarebbe necessario che quella parte del genere umano che ha superato ogni limite di sicurezza nella capacità di carico dei sistemi naturali (accumulando un debito ecologico e intaccando il “patrimonio” non rinnovabile) – diciamo, per essere meno generici, quel 10% della popolazione mondiale che usa l’80% delle risorse della Terra – prendesse coscienza dei danni irreversibili che sta provocando nei confronti della stragrande maggioranza degli individui della propria specie e della natura in generale. Come bene dimostrano le famose rappresentazioni grafiche del gruppo di ricerca dell’ecologo svedese Johan Rockström (Planetary Boundaries – defining a safe operating space for humanity, Rockström, et al. 2009. “A Safe Operating Space for Humanity”. Nature 461 (7263): 472–75) e dell’economista Kate Raworth (Doughnut Economics, University of Oxford; L’Economia Della Ciambella, Edizioni Ambiente, 2020), gli squilibri ecologici e quelli sociali sono due facce della stessa medaglia. A un uso predatorio delle “risorse naturali” corrisponde un potere coloniale sulle società ancestrali, e viceversa. La base ecologica e la base ordinamentale sociale degli insediamenti umani procedono in parallelo, coerentemente. Difficile immaginare una relazione armoniosa e simbiotica multispecie delle comunità umane all’interno dei propri ecosistemi di riferimento che non si regga su relazioni tra gli individui della propria specie basate sulla convivenza pacifica e solidale, sulla condivisione e la cooperazione, sull’equità sociale, su pace e giustizia. Una biforcazione di fronte a noi Sarebbe quindi necessario che gli esseri umani prendessero coscienza della loro condizione di internalità nel macrorganismo vivente del Sistema Terra, di Gaia, di Pachamama, di Madre Terra, del creato, della biosfera… a dir si voglia, riconoscendo e rispettando le “connessioni ecologiche” planetarie. Questa è, in buona sostanza, la sfida di civiltà che sta dinnanzi a tutti coloro che desiderano sinceramente invertire la rotta del sistema socioeconomico dominante: produrre beni e servizi utili al benessere di tutte le persone mantenendo in equilibrio i cicli naturali. In altri termini «integrare i principi di ecosistema e biodiversità nei progetti nazionali e locali, nei processi di sviluppo e nelle strategie e nei resoconti per la riduzione della povertà» (Onu, Sustainable Development Goals, Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, Goal n.15.9, 2015). Dove per “integrare”, si dovrebbe intendere ricollocare l’economia in una scala di valori che abbia al centro la biorigenerazione come scelta strategica vincolante. Ed è qui – come abbiamo visto – che le strade si biforcano. Da una parte gli ecomodernisti, i tecno-ottimisti, i fautori dello “sviluppo sostenibile”, della green economy e del capitalismo “green” che pensano sia possibile “riassettare” il sistema economico di mercato introducendo dosi ponderate di regolamentazioni orientate alla sostenibilità (tipo criteri ESG per le imprese, tassonomie verdi per gli investimenti, compensazioni dei danni ambientali, pianificazione territoriale, fino alla introduzione nei Consigli di amministrazione delle società di capitale di codici di comportamento etici – proposta dell’Economy of Francesco), dall’altra parte c’è chi pensa che solo una cambiamento profondo del paradigma della crescita economica potrà evitare una catastrofe ecologica e sociale senza pari. Su questo secondo versante si sono posizionati i movimenti ecologisti e sociali più radicali, muovendo però sempre in formazioni ben separate, se non persino contrapposte. I “verdi” e i “rossi” si sono storicamente trovati d’accordo nell’individuare le cause della crisi della società occidentale nel neoliberismo economico e nella globalizzazione selvaggia, ma non nelle responsabilità politiche dei rappresentanti delle diverse classi sociali. Tutti e due considerano che la tendenza ad aumentare costantemente il valore dei beni e dei servizi, nel minor tempo possibile, conduce inevitabilmente al sovrasfruttamento selle risorse naturali e del lavoro umano. La spinta al profitto e alla accumulazione delle imprese capitaliste alimenta una crescita infinita delle merci immesse sul mercato. Le innovazioni tecnologiche, se da un lato riescono a migliorare l’efficienza anche energetica e materiale dei singoli cicli produttivi, d’altra parte, a scala macroeconomica, moltiplicano le possibilità produttive oltre ogni limite (Paradosso di Jevons). Ha scritto un padre dell’ecosocialismo, Bellamy Foster: «Il capitalismo è rimasto essenzialmente (se non di più) quello che era fin dall’inizio: un enorme motore per l’incessante accumulazione di capitale, mosso dalla spinta competitiva di individui e gruppi che cercano il proprio interesse personale sotto forma di guadagno privato» (John Bellamy Foster Capitalism in the Anthropocene: Ecological Ruin or Ecological Revolution, Monthly Review Press, Agosto 2022). Del resto, già Friedrich Engels, nel 1882, avvertiva, con straordinaria preveggenza: «Non aduliamoci troppo per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnazione; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze» (F. Engels, Dialettica della natura, Editori Riuniti, 1967). Fin qui le critiche che accumunano sia i movimenti ecologisti sia quelli sociali di ispirazione marxista. Dove invece si sono distinti e separati – anche tra le componenti al loro interno – è sulla linea da seguire per cambiare lo stato delle cose (per un approfondimento vedi la monografia dei Quaderni della decrescita, “Decrescita e marxismo. Dialogo possibile e necessario”). Per i “verdi” il mutamento deve avvenire a partire dalla modifica dei valori etici-ideali e dei comportamenti individuali delle persone sensibilizzate alle sorti del pianeta; per i “rossi”, invece, sono le strutture istituzionali di potere, a partire dagli assetti proprietari, quelle che possono far cambiare i modi di produzione storicamente determinati. Ma le verifiche della storia ci hanno consegnato due sconfitte parallele: l’immaginario delle persone è stato colonizzato dal benessere hollywoodiano, tanto che nemmeno la “socializzazione dei mezzi di produzione” (dove è stata intentata) è riuscita a scalzare lo “spirito del capitalismo” (per scomodare Max Weber). Fin troppo facile, guardando il modello di sviluppo economico della Cina comunista di oggi, constatare che non è la struttura del sistema di potere statale quello che fa la differenza dall’Occidente liberale. Così come non sono le libertà formali di scelta delle persone individualmente considerate (le “preferenze”, come le chiamano gli economisti) quelle che possono liberarle le società dal giogo produttivista e consumista. Il comunismo della decrescita Finalmente una novità si è recentemente affacciata sulla scena politica internazionale: il “comunismo della decrescita”, il cui “manifesto” è stato proposto da un giovane giapponese, storico del pensiero economico, Kohei Saito (Saitō Kōhei) nel libro Il capitale nell’Antropocene, Mondadori, 2024. Qui alcune istanze meno note e fino a oggi poco valorizzate del pensiero marxiano e quelle ambientaliste più radicali (l’idea di una società orientata alla decrescita dei flussi di materia e di energia impiegati nei cicli produttivi, distributivi e di consumo) si intrecciano e provano a chiudere il cerchio di un progetto di “buona vita”. Saito, recuperando un Marx aperto al comunitarismo dei “commons” (gestione condivisa dei beni comuni intesi come mezzi di produzione, risorse naturali e lavoro umano) e a un ecologismo integrale (inteso come “integrato” anche al sistema sociale), compie un’operazione politica di indubbio interesse sia teorico che pratico-politico. Provo a sintetizzare al massimo il pensiero di Saito in quattro passaggi: i) il capitalismo è accrescimento indefinito del valore di scambio delle merci e accumulazione di capitali; ii) il comunismo ribalta gli scopi della produzione, il suo obiettivo è soddisfare i bisogni autentici delle persone; iii) umanità e natura sono collegate dal lavoro come medium; quindi, la trasformazione ha come scopo il contenuto e le modalità del lavo inteso come attività di presa in cura dei beni comuni; iv) l’azione politica-pratica per la sostenibilità ecologica e l’eguaglianza si integrano e si completano a vicenda. Il risultato sarà un nuovo patto sociale all’insegna della cooperazione tra produttori e l’unione empatica e amorevole con la natura. Si prospetta un nuovo ordine bio-culturale, biopolitico, socio-biocentrico, bio-umanista… che comunque supera la concezione della natura utilitaristica (propria anche delle correnti ecosocialiste), patrimonialista (propria del diritto liberale), antropocentrica (propria dell’universalismo giudaico-cristiano e illuminista). Il quadro istituzione-giuridico dentro cui si iscrive questa rivoluzione è molto vicino all’idea delle comunità territoriali confederate (vedi l’ecofilosofo Murray Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera, 1989;) capaci di autogestirsi democraticamente, gestire i propri bisogni e desideri e pianificare l’utilizzo delle risorse naturali in ambiti neomunicipali e bio-regionali. -------------------------------------------------------------------------------- Paolo Cacciari ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Transizioni fest -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Abitare un pianeta al collasso proviene da Comune-info.