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Cremona: celebrazione guerra d’Etiopia con Carabinieri e scolaresche, ma era un’impresa fascista!
Come Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università riteniamo opportuno fare qualche precisazione in merito all’articolo pubblicato su CremonaOggi il 21 novembre 2025, riferito alla celebrazione in Cattedrale dei Carabinieri in occasione della Patrona Virgo Fidelis, che ha visto anche la partecipazione di studenti e studentesse di un Istituto cittadino, l’IIS Stradivari di Cremona (clicca qui per la notizia). Nell’articolo, al di là di quanto si possa essere d’accordo sugli eventi che mettono in risalto le forze armate, e mettendo per un attimo da parte il doveroso riconoscimento a persone che, nell’adempimento del loro dovere, svolto in nome dello Stato e della collettività, hanno perso la vita, preme soffermarsi sulla questione della celebrazione, contestuale alla suddetta  cerimonia, “dell’eroica difesa del caposaldo di Culqualber, un episodio della Guerra d’Etiopia del 21 novembre 1941, da parte del 1° Battaglione Carabinieri e Zaptie, nel quale si consumò il sacrificio in una delle ultime battaglie dell’esercito italiano” (il virgolettato è preso testualmente dall’articolo pubblicato). Se si volesse approfondire, si troverebbe tanto materiale che descrive nel dettaglio le azioni militari volte a difendere il territorio di Etiopia dall’attacco degli inglesi; lasciamo questa possibilità a chi voglia approfondirne il contenuto. Si parla di guerra, armi, combattimenti, prigionieri, morti ed, infine, di capitolazione. Le fonti dicono che, dopo mesi di resistenza e di attacco, durante l’ultima, disperata difesa, si distinsero in molti, militari del Regio Esercito, Camicie Nere, Ascari dei reparti coloniali, Carabinieri e Zaptiè, che sacrificarono la loro vita in nome dell’Italia. II Maggiore Carlo Garbieri, il Carabiniere Poliuto Penzo ed il Maggiore Alfredo Serranti, furono decorati di medaglia d’oro al valore militare alla memoria. Questa doverosa premessa è per conoscere i termini degli eventi di cui si parla nell’articolo. Riflettiamo quindi sui molti sottintesi storici di tale evento. Siamo nella Seconda Guerra Mondiale, a fianco dei nazisti, cioè dalla parte sbagliata della storia di quel periodo. Siamo su un territorio occupato con un’azione imperialista e colonialista: l’invasione e l’attacco ad uno Stato sovrano come l’Etiopia valse al Regno d’Italia, che ambiva ad avere il suo Impero, le sanzioni previste dall’allora Società delle Nazioni, che vietava azioni del genere, e che contribuirono al precipitare dello Stato Italiano nel baratro che porterà a quell’obbrobrio che fu la Seconda Guerra Mondiale. In Etiopia il nostro Regno, diventato malauguratamente Impero su base razzista, “francamente razzista”, per dirla con le parole del Duce, fu protagonista di atti terribili nei confronti della popolazione civile, con massacri, costruzione di campi di concentramento, rappresaglie, stupri e violenze nei confronti dei “mori”. Solo per citare qualche evento, si ricorda che tra il 19 e il 21 febbraio 1937 le truppe italiane, con il supporto dei civili e delle squadre fasciste, massacrarono circa ventimila abitanti di Addis Abeba, una feroce repressione a seguito del fallito attentato contro il maresciallo Rodolfo Graziani, allora viceré d’Etiopia, a opera di due giovani resistenti eritrei. Le violenze degli italiani durarono per mesi e si estesero ad altre parti del Paese, fino all’eccidio di chierici e fedeli nella cittadina monastica di Debre Libanos a maggio dello stesso anno. In tale circostanza le truppe italiane massacrarono più di duemila monaci e pellegrini al monastero etiope. Una strage che, come altri crimini di guerra commessi nelle colonie, trova spazio a fatica nel discorso pubblico, nonostante i passi fatti da storiografia e letteratura. Con quel passato il nostro Paese non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale   Graziani è conosciuto come un crudele e violento, vendicativo e dispotico, che utilizza il proprio potere come mezzo di affermazione personale. L’eccidio messo in atto come rappresaglia è stato definito il più grande avvenuto nei confronti dei cristiani in Africa.  Il messaggio con cui dà ordine di massacrare i monaci è il seguente: “Questo avvocato militare mi ha comunicato proprio in questo momento che habet raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego farmi assicurazione comunicandomi il numero di essi”. Si è trattato di un vero e proprio crimine di guerra, poiché l’eccidio è stato qualcosa che è andato al di là della logica militare, andando a colpire dei religiosi, peraltro cristiani e inermi”.  In Italia manca una memoria consapevole sulle responsabilità per gli eccidi e le violenze commesse dagli italiani nel corso della loro “avventura” coloniale per andare alla ricerca di un “posto al sole” in Libia, in Eritrea, Somalia ed Etiopia al pari delle altre nazioni europee, vengono ancora oggi occultate dalla coscienza pubblica. Il colonialismo non è stato semplicemente un periodo storico, ma è anche una pratica economica che prevede occupazioni e stermini, con disumanizzazione della popolazione indigena. Vennero costruiti campi di concentramento, come a Danane, situato a quaranta chilometri da Mоgadiscio, in riva all’Oceano Indiano, ordinato sempre dal generale Graziani, per accogliere i prigionieri di guerra, resistenti, funzionari, partigiani, monaci copti scampati alla drastica liquidazione dei conventi, indovini e cantastorie, rei soltanto di aver predetto l’imminente tramonto del dominio italiano in Etiopia, di somali che hanno manifestato, in diverse maniere, la loro opposizione all’Italia. Sin dal momento in cui comincia a funzionare, il campo di Danane, come l’altro lager di Nocra in Eritrea, gode di una sinistra reputazione. Noi tutti, inoltre, siamo a conoscenza di come gli Italiani trattassero le popolazioni locali, ammantandosi di una funzione “civilizzatrice” nei confronti di persone che non potevano avere la stessa dignità umana né gli stessi diritti. La conclusione è che spesso gli italiani tendono a ricordare solo quelle pagine della loro storia funzionali alla costruzione di un’immagine positiva di sé come popolo e Nazione ma serve maturare una consapevolezza nuova che metta l’accento anche su una discrasia pericolosa: da un lato la giusta memoria delle stragi nazi-fasciste commesse ‘in Italia’ e dall’altro la pubblica amnesia sulle violenze commesse ‘dall’Italia’ nelle sue colonie in Africa. Questo distacco dalla storia è molto preoccupante perché lascia la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti, aprendo vuoti insidiosi e facilmente colmabili da slogan e da letture semplificate del passato. La partecipazione a eventi come questo da parte delle scuole non si può quindi ritenere neutra: la conoscenza approfondita dei fatti storici e del contesto è necessaria per educare gli studenti al pensiero critico (critico proprio perché informato e consapevole), fuori dagli stereotipi dello stato forte se armato. Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Dinknesh, una storia etiope
Ieri mi è arrivato un pacchetto a casa: conteneva “Dinknesh, una storia etiope”, un libro scritto da Carlo Presciuttini, un carissimo amico che per le nostre storie personali considero come un fratello maggiore. Carlo infatti ha 70 anni ed è nato nel 1955, esattamente 10 anni più di me e come me ha fatto il servizio civile e l’insegnante. Certo quando lui fece obiezione di coscienza al servizio militare non erano molti a fare questa scelta. Bisognava sottoporsi al giudizio di una commissione esaminatrice, che aveva il compito di verificare l’autenticità della propria dichiarazione di contrarietà all’uso individuale e collettivo delle armi, ovviamente partendo dal presupposto che essere invece favorevoli all’uso delle armi sia la normalità che non ha bisogno di essere indagata e sottoposta a giudizio.  Inoltre, con una forma punitiva abrogata molti anni più tardi dalla Corte Costituzionale, vi era l’obbligo di prestare un Servizio Civile alternativo a quello militare di 20 mesi invece di 12. Carlo svolse quindi il suo servizio civile a Roma, tra la fine del 1977 e la metà del 1979, con il Movimento Internazionale per la Riconciliazione e aderì alla Lega Obiettori di Coscienza.  Si occupò in particolare della produzione e del commercio delle armi, che già allora l’Italia forniva con disinvoltura a feroci dittature e a Paesi in guerra, talvolta, con una buona dose di cinismo, addirittura ad entrambe le parti contrapposte (all’Iran e all’Iraq giusto per fare un esempio).  Carlo si occupava soprattutto allo studio di progetti di fattibilità finalizzati alla riconversione della produzione industriale, dal settore bellico a quello civile, collaborando con la Federazione Lavoratori Metalmeccanici, potente organizzazione sindacale che allora univa gli operai e gli impiegati metallurgici di Cgil, Cisl e Uil. Il principale interlocutore era il sindacalista Alberto Tridente, che in seguito sarebbe diventato europarlamentare per Democrazia Proletaria, partito della nuova sinistra rosso-verde affine alle opinioni politiche di Carlo e alle mie. Tra la fine del 1979 fino al termine del 1980, Carlo venne assunto come responsabile del Centro di Formazione di Trappeto da Danilo Dolci, uno dei maestri del pensiero nonviolento, che fondò e fu per molti anni responsabile del Centro Studi e Iniziative di Partinico; le due località si trovano a pochi chilometri di distanza in provincia di Palermo. I principali interlocutori di Carlo furono la Chiesa Valdese, le scuole elementari e medie del territorio e le realtà politiche e sindacali più sensibili ai temi del disarmo e della difesa dell’ambiente. Carlo seguì inoltre con interesse l’avviarsi dell’esperienza della scuola comunitaria di Mirto, fortemente voluta da Danilo Dolci. Rientrato a Roma fu tra i promotori di Archivio Disarmo, esperienza nata nel 1982 su sollecitazione del senatore Anderlini della Sinistra indipendente (composta da intellettuali eletti come indipendenti nelle liste del Partito Comunista Italiano). I primi anni Ottanta del secolo scorso (nonostante il crescente riflusso politico successivo al lungo Sessantotto italiano, che percorre tutti gli anni Settanta, fino alla sconfitta degli operai della Fiat di Torino del 1980) furono gli anni di un vasto movimento pacifista italiano ed europeo contro l’istallazione dei missili dotati di testate nucleari Pershing e Cruise da parte della Nato e SS20 da parte dell’Unione Sovietica. Il dispiegamento degli euromissili, in un periodo di forte tensione tra la Nato ed il Patto di Varsavia, aumentava esponenzialmente i rischi di una guerra atomica combattuta sul teatro europeo. Soltanto l’avvento di Michail Gorbaciov come Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica portò a una politica di distensione e di disarmo, purtroppo abbandonata in questi ultimi anni, riesumando toni bellicisti finalizzati a far accettare le politiche di riarmo europeo a scapito della difesa delle conquiste dello stato sociale. Nel 1983 anche Carlo partecipò alle lotte per tentare di fermare la conversione dell’Aeroporto “Magliocco” di Comiso in una base militare statunitense dove posizionare i missili Cruise, che peraltro erano montati su veicoli in grado di disperderli nel territorio siciliano, come infatti accadeva durante le esercitazioni. In questa occasione tuttavia possiamo  registrare un vittoria postuma del movimento pacifista poiché l’Aeroporto di Comiso è ora civile e la base militare statunitense è stata smantellata. A quel tempo io e Carlo non ci conoscevamo, ma in qualche modo le nostre vite si intrecciarono: nel 1982 a Varese, mentre frequentavo l’istituto magistrale, ascoltai Danilo Dolci raccontare la storia delle lotte nonviolente in Sicilia, anch’io partecipai a Comiso al movimento pacifista e feci il Servizio Civile tra il 1984 e il 1985 per Pax Christi a Napoli, nel quartiere popolare Ina Casa di Secondigliano.  Infine collaborai a Roma con il Centro Interconfessionale per la Pace, diretto allora da Padre Gianni Novelli, che negli anni Settanta era stato giornalista della rivista COM/Nuovi Tempi (edita dalle Comunità Cristiane di Base e dai Valdesi). Successivamente, nel 1984, Carlo vinse il concorso come insegnante di Italiano, Storia, Geografia ed Educazione Civica di Scuola Media, diventò quindi Preside nel 1993 e, dopo un incarico presso il Ministero degli Affari Esteri alla Farnesina, andò a lavorare, a partire dal 2002, ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia come Direttore della Scuola Italiana. La Scuola Italiana di Addis Abeba è tuttora una delle numerose istituzioni scolastiche statali che operano all’estero per i dipendenti delle ambasciate e per i figli degli italiani che vogliono mantenere un più stretto contatto con la madrepatria. La Scuola Elementare e la Scuola Media di Addis Abeba avevano tuttavia la caratteristica di essere frequentate da un buon numero di bambine e bambini etiopi. Durante questa sua esperienza Carlo fece il possibile e l’impossibile per favorire l’inserimento di questi alunni etiopi e soprattutto per impedirne l’allontanamento per cause economiche, arrivando a pagare di tasca propria la retta alle famiglie più povere, con le quali strinse rapporti di sincera ed intensa amicizia. A circa 1 km dall'Università statale di Addis Abeba: moschea in costruzione (nel 2015). Sui lati sinistro e destro del corso d'acqua (maleodorante) vi sono abitazioni simili a quella di Shiromeda, dove Dinknesh, la protagonista del racconto e narratrice, ha vissuto per diversi anni. Foto di Carlo Presciuttini Un mercato etiope molto distante da Addis Abeba (2011), Foto Carlo Presciuttini Addis Abeba - Palazzina primo Novecento in legno e muratura nei pressi della scuola statale italiana. In basso: vecchie Lada (Fiat 124 prodotte in Russia) adibite a taxi. Foto Carlo Presciuttini Donne manovali in zona agricola. Foto di Carlo Presciuttini. Addis Abeba, Shiromeda, verso la chiesa, di domenica. Foto di Carlo Presciuttini Rientrato quindi a Roma nel 2010, sempre come Dirigente Scolastico, negli ultimi tre anni del suo lavoro approdò  alla mia scuola di allora, la Lola di Stefano, dell’Istituto Comprensivo Crivelli a Monteverde Nuovo. Io ero stato eletto come RSU della FLC CGIL, condividevamo principi di massima trasparenza ed equità nell’assegnazione del Fondo di Istituto (spesso invece utilizzato con grande disinvoltura a beneficio della ristretta corte di zelanti e fedeli collaboratori di Dirigenti Scolastici autoritari). Soprattutto ricordo l’impegno di Carlo (mio e di alcune altre insegnanti) per favorire l’inserimento nella nostra scuola delle bambine e dei bambini rom di origine rumena e bosniaca del Campo di Via Candoni, peraltro assai distante dalla nostra scuola, come atto di solidarietà nei confronti delle scuole più limitrofe (come quella in cui insegno attualmente al Trullo) che non potevano assumersi da sole questo compito gravoso ma fondamentale. Ricordo una visita che facemmo io e Carlo al campo di via Candoni per incontrare le famiglie di alcuni nostri alunni: non è facile trovare dirigenti scolastici così aperti e disponibili. Dopo essere andato in pensione nel 2016, Carlo è tornato per un anno nella sua amata Etiopia. Da anni divorziato e padre di tre figli ormai grandi (curiosamente due dei suoi quattro figli hanno lo stesso nome di due dei miei quattro figli: Irene e Francesco), si sposò con Alem, una donna etiope, anzi più precisamente tigrina, ma per ragioni di salute della moglie che necessita di cure specialistiche, è rientrato in Italia e vive ora a Terni, con la moglie e la sua quarta figlia Betty (a questo punto, per non farle un torto scrivo che l’altra figlia si chiama Chiara).  Betty frequenta l’Università di Terni, dove ha ritrovato due studentesse etiopi della Scuola Italia, e dove collabora in particolare, come sempre con paziente spirito unitario, con i giovani di Potere al Popolo. Nel suo libro, con grande affetto Carlo mi ringrazia di averlo spinto a scrivere la sua straordinaria storia di educatore, militante nonviolento e dirigente di un’istituzione scolastica della Repubblica Italiana fedele ai valori della Costituzione più che ai desiderata dei vari governi. Una persona estremamente gentile e pacata nei modi, capace di dialogo, ma al tempo stesso di idee radicali. Un uomo sensibile e capace di empatia, di ascolto e di condivisione con le famiglie povere ed emarginate della capitale etiope per aiutarle a dare un futuro alle loro bambine ed ai loro bambini. . Dal fiume al villaggio, portatrici d’acqua, Foto Carlo Presciuttini Il suo libro è sicuramente uno strumento utilissimo per avvicinarsi alla cultura e alla vita quotidiana di un popolo, quello etiope, verso il quale peraltro l’Italia ha un debito storico per gli efferati crimini contro l’umanità commessi durante l’occupazione fascista. Soprattutto ci aiuta a capire perché molte donne e uomini rischiano di essere imprigionate, torturate e violentate e sfidano la morte attraversando il deserto ed il Mar Mediterraneo per sfuggire alla guerra e alla fame, pur restando intimamente legate alla propria terra e alla propria cultura. Buona lettura dunque. Dalla prefazione: Una giovane donna etiope racconta la propria vita e quella della sua famiglia a un amico italiano, dando voce a chi solitamente è costretto al silenzio. Emergono scene di un’infanzia difficile, lotte quotidiane per sopravvivere, speranze riposte nel futuro dei figli. E’ un racconto di precarietà endemica, ma anche di coraggio, solidarietà familiare e dignità. E’ il ritratto di un popolo che resiste e sogna, che non teme di guardarsi in uno specchio ove anche noi, lettori d’Occidente, possiamo osservarci, accorgendoci dell’indifferenza e superficialità che dimostriamo nel giudicare chi vive ai margini senza conoscerne la storia. “Laddove è sofferenza, non voltiamoci dall’altra parte: ciascuno di noi ha momenti difficili da affrontare e necessita del conforto di una persona amica.” Carlo Presciuttini Il libro può essere acquistato contattando ILMIOLIBRO seguendo questo link: > Dinknesh, una storia etiope Etiopia villaggio rurale. Foto di Carlo Presciuttini Capanna Barche di pescatori a Wenchi (2004), Foto ddi Carlo Presciuttini Chiesa Tewahedo (cristiano-ortodossa di rito etiope) a Wenchi. Foto di Carlo Presciuttini Mauro Carlo Zanella
Il formaggio di Agitu torna in Africa
Nel 2020 fece clamore il femminicidio di Agitu Ideo Gudeta, imprenditrice agricola e ambientalista di origini etiopi, che in Trentino aveva trovato il luogo per realizzare un’economia sostenibile. Oggi il suo sogno è rinato in Burundi grazie a un’associazione che ha recuperato le attrezzature della pastora per avviare un caseificio gestito da donne. Un’eredità di resistenza che continua oltre i confini. Agitu Ideo Gudeta, una donna originaria dell’Etiopia, è una vittima di femminicidio. Fu assassinata il 29 dicembre 2020 a Frassilongo, un paesino del Trentino, da un pastore ghanese che lei aveva aiutato accogliendolo come collaboratore nella sua azienda agricola. Arrivata in Italia a 18 anni, conseguita la laurea in Sociologia a Trento, era tornata in Etiopia per dedicarsi a progetti di economia sostenibile contro l’inquinamento e la devastazione ambientale. Ma il suo impegno di attivista per i diritti degli allevatori e contro le speculazioni la rese invisa al governo. A rischio di arresto e minacciata di morte, fu costretta a lasciare il Paese natale. Tornò a Trento, e dopo un lungo peregrinare trovò nella Valle dei Mòcheni il luogo ideale per realizzare la sua visione: un’economia agricola sostenibile, in armonia con la natura, basata sull’allevamento della capra pezzata mòchena, razza autoctona dalle elevate capacità produttive. Grazie alle conoscenze apprese dalla nonna e dai pastori a fianco dei quali aveva combattuto in Etiopia, recuperò terreni abbandonati e li trasformò in risorse. Nel suo maso produceva formaggi con metodi tradizionali e li vendeva direttamente, diventando una figura nota nelle valli e nei borghi trentini. Tra questi, Brentonico, tra il Monte Baldo e il Lago di Garda, gemellato con Muyinga in Burundi. Dal Trentino al Burundi Mauro Dossi è stato il sindaco di questo Comune. «Nel 1994 facemmo una scelta famigliare e decidemmo di prendere in affido una ragazzina burundese di 13 anni, Josiane, che stava vivendo l’esperienza drammatica dello scontro fra gli Hutu e i Tutsi», racconta. «Nel 1997 venne ucciso suo padre e decidemmo di accompagnarla in Burundi al suo funerale». Là Doss irimase impressionato dalla situazione sociale che si viveva nel Paese e decise di fare qualcosa. Fondò l’associazione “Il Melograno” (https://www.associazionemelograno.com/, che negli anni costruì orfanotrofi, falegnamerie, officine e laboratori di cucito, con un modello economico in cui il 50% degli utili delle attività commerciali veniva destinato alle scuole materne e agli orfanotrofi. Nel 2007, Il Melograno avviò una cooperativa agricola con dieci donne burundesi, oggi cresciute fino a settanta. Una scelta volutamente femminile in un contesto in cui sono le donne a sostenere la vita quotidiana: lavorano la terra, raccolgono l’acqua, cucinano, crescono i figli e mantengono le abitazioni. Oggi, le socie lavoratrici stanno coinvolgendo i figli, educandoli a non ripetere gli errori dei padri. Grazie al microcredito interno, la cooperativa ha raggiunto l’autosufficienza alimentare, lavorando 6 ettari di terreno, un dato impressionante se si tiene conto che il Burundi è un Paese con una delle più alte densità abitative al mondo (è grande come il Piemonte, ma ci vivono 12 milioni di persone) e la terra è un bene preziosissimo. Casari senza frontiere Il Melograno aiutò la cooperativa con un allevamento di mucche, capre e maiali, e favorì l’adesione a un consorzio per la raccolta e la vendita del latte. Tuttavia, il limitato mercato locale non permetteva di sostenere i costi di produzione, e il trasporto fino alla capitale, distante 170 chilometri, era insostenibile. La soluzione fu la produzione di formaggio, un prodotto più facilmente trasportabile. Molti allevatori burundesi nemmeno sapevano cosa fosse il formaggio, ma accettarono l’idea e avviarono la costruzione di un caseificio. A quel punto sorse però il problema che in Burundi non ci sono attrezzature per i caseifici, anche perché in tutto il Paese ce ne sono solo tre. È allora che Dossi si ricordò di Agitu. «L’avevo conosciuta perché compravo i suoi formaggi», ricorda l’ex sindaco. «Mi venne l’idea di andare a vedere che fine avessero fatto le sue attrezzature. Nel retro del suo laboratorio a Frassilongo trovammo una situazione non idilliaca: l’attrezzatura era su un prato fuori dal caseificio. La esaminammo con un nostro esperto e decidemmo che tutto ciò che era recuperabile lo avremmo recuperato. Con un container la portammo tutta in Burundi. Avremmo potuto prenderla anche da un’altra parte, però aveva un significato prendere proprio quella». Pagina Facebook La capra felice In Trentino si era tentato più volte di riavviare l’attività di Agitu, senza successo. «Abbiamo fatto la proposta all’avvocato Molinari, curatore dei beni della pastora. La proposta fu accettata e quindi abbiamo portato tutto in Burundi. Abbiamo invitato ad andarvi dei nostri casari e abbiamo formato i casari loro. Fra l’altro abbiamo scelto e individuato anche una ragazza, che assomiglia tantissimo ad Agitu. Abbiamo formato lei e un ragazzo. Oggi il caseificio di Muyinga produce formaggio e funziona a pieno regime. Noi sistematicamente andiamo giù ogni sei mesi con dei casari e li aiutiamo a crescere, però loro intanto sono già diventati autonomi: producono il formaggio e lo portano nella capitale. Li abbiamo aiutati a trovare dei canali che consentano loro di venderlo in ristoranti e negozi. Il formaggio ovviamente si chiama “Agitu”». E il sogno non si ferma qui. «Vorremmo portare in Burundi anche il gregge di Agitu, o almeno gli animali sopravvissuti: quattro capre e un caprone», racconta Dossi. L’idea è quella di consolidare la capra mòchena, la razza che Agitu contribuì a salvare dall’estinzione, e far nascere un allevamento gestito dalla cooperativa femminile. Un progetto che chiuderebbe il cerchio, riportando idealmente Agitu nella sua terra. Le difficoltà burocratiche e sanitarie per il trasferimento degli animali rendono questa fase ancora incerta, ma quel che è certo è che, se Agitu avesse avuto la possibilità di ricostruire in Etiopia ciò che aveva realizzato in Trentino, lo avrebbe fatto senza esitazione. Oggi, nel caseificio di Muyinga, una targa in sua memoria sembra dire: “Guarda, tu sei qui. Ti abbiamo riportata in Africa attraverso la tua attrezzatura, in un contesto che avresti di sicuro amato”.   Africa Rivista
150 naufraghi al largo dello Yemen. OIM: i rischi aumentano, eppure il flusso migratorio incrementa
LA NAVE AFFONDATA DOMENICA 3 AGOSTO TRASPORTAVA PIÙ DI 150 MIGRANTI. NOVE DEI DIECI SOPRAVVISSUTI SONO ETIOPI. SALVO ANCHE UNO YEMENITA. LO YEMEN, UNO DEI PIÙ PERICOLOSI EPPURE INTENSAMENTE TRAFFICATI APPRODI DEL FLUSSO DI MIGRANTI AFRICANI DIRETTI VERSO I PAESI ARABI, AVVERTE: INSTABILITÀ E DIFFICOLTÀ ECONOMICHE GLI IMPEDISCONO DI AFFRONTARE LA SITUAZIONE.   AFRICA RIVISTA / 4 agosto 2025 – Decine di migranti hanno perso la vita e molti risultano ancora dispersi, dopo il naufragio di un’imbarcazione nel mar Arabico al largo delle coste dello Yemen. Secondo il sito di notizie panarabo al-Araby al-Jadeed, con sede a Londra, il direttore sanitario del distretto di Zinjibar, governatorato di Abyan, Abdul Qader Bajamil, ha dichiarato che i corpi di 54 migranti, uomini e donne, sono stati recuperati e che altri 10 sono stati tratti in salvo: nove etiopi e uno yemenita. Bajamil ha confermato che le operazioni di ricerca e soccorso sono ancora in corso per recuperare i corpi rimanenti. MARINE LINK © lesniewski / Adobe Stock Fonti di sicurezza avevano precedentemente riferito a REUTERS che l’imbarcazione, che si ritiene trasportasse decine di migranti africani, per lo più etiopi, si è capovolta domenica mattina a causa del maltempo e dei forti venti al largo della costa del distretto di Ahwar, nella provincia di Abyan, nello Yemen meridionale, sul Mar Arabico. Il Dipartimento di Sicurezza di Abyan ha dichiarato domenica in un comunicato stampa di aver condotto “un’operazione umanitaria su larga scala per recuperare i corpi di un gran numero di migranti irregolari di nazionalità etiope (Oromo), annegati in mare al largo delle coste del governatorato di Abyan mentre cercavano di infiltrarsi nel territorio yemenita a bordo di imbarcazioni di trafficanti provenienti dal Corno d’Africa”. L’ente ha spiegato che i servizi di sicurezza hanno trasferito i corpi negli ospedali della città di Zinjibar (la capitale del governatorato) nell’ambito di intensi sforzi umanitari e di soccorso, nonostante le risorse limitate. Ha indicato che molti di questi casi sono stati trovati su diverse spiagge, il che suggerisce che ci siano ancora molti dispersi in mare. I servizi di sicurezza del governatorato di Abyan hanno invitato tutte le parti interessate, a livello locale e internazionale, a intervenire con urgenza e ad adottare misure deterrenti “per fermare questo flusso illegale attraverso le acque territoriali yemenite, che è diventato una crescente minaccia umanitaria e per la sicurezza”. Hanno sottolineato la necessità di rafforzare il coordinamento tra le autorità marittime, le organizzazioni per l’immigrazione e le organizzazioni internazionali competenti per impedire alle reti di trafficanti di sfruttare la costa yemenita come punto di transito per i migranti. Hanno affermato: “Il governatorato non è più in grado di sopportare il peso di queste ripetute ondate, alla luce delle difficili condizioni di sicurezza ed economiche che il Paese sta attraversando”. Migliaia di migranti africani si recano regolarmente in Yemen con l’obiettivo di raggiungere gli stati del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, in cerca di opportunità di lavoro e una vita migliore. Molti sono annegati in mare. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM / IOM – International Organization for Migration) afferma che lo Yemen continua a registrare un aumento significativo del flusso di migranti irregolari dall’Africa. Ha riferito di aver registrato l’arrivo di oltre 37.000 migranti in Yemen durante il primo trimestre di quest’anno, rispetto agli oltre 60.000 di tutto il 2024. * Naufraga una barca nel mar Arabico con decine di migranti africani, vittime e dispersi / AFRICA RIVISTA – 4 agosto 2025 > ALTRE FONTI : > > Secondo l’OIM la rotta dal Corno d’Africa allo Yemen è “una delle rotte > migratorie più trafficate e pericolose al mondo” / MARINE LINK, 3.8.2025 > > Al largo dello Yemen. Si ribalta una barca: 68 i migranti morti – Erano 157, > soprattutto etiopi. Avevano tentato una delle rotte più pericolose: quella di > tanti che sperano di raggiungere gli Stati del Golfo. Anche lo Yemen, pur > devastato dalla guerra… / AVVENIRE, 4.8.2025 Africa Rivista
Anch’io canto l’Italia – l’attualità delle poesie di Rahma Nur
Nata a Mogadiscio nel 1963 e arrivata in Italia a soli cinque anni, Rahma è diventata cittadina italiana dopo vent’anni di attesa e dal 1992 è maestra in una scuola primaria statale italiana di Pomezia, attivista e pensatrice. Pubblicato da Astarte Edizioni, “I, too, sing Italia” è una raccolta poetica che intreccia l’esperienza personale dell’autrice – donna nera in Italia, figlia della diaspora somala, (dis-)abile – con temi universali di identità, memoria e resistenza. Con voce intensa e profondamente radicata, il libro invita a riflettere sul significato dell’appartenere e su come possiamo ripensare i territori come spazi capaci di celebrare le soggettività plurali che li abitano. Come spiega l’autrice nell’Introduzione, questa raccolta parla di cosa significa essere italian3 oggi, di come la lingua e la narrazione possano diventare strumenti per affermare se stess3 e partecipare a un’esperienza di lotta condivisa: “Non si può rimanere inattivi, non si può rimanere in silenzio, bisogna agire e manifestare – anche il proprio dissenso, se necessario – davanti alle ingiustizie e alle discriminazioni, e lottare. Nel mio piccolo cerco di raccontare questo tempo, questa nazione in cui mi sono formata e sono diventata la persona di oggi.” Spiegando il titolo, prosegue: “I, too, sing Italia è più di un titolo – è un’affermazione. Canto quest’Italia con tutte le sue contraddizioni, con la sua bellezza e le sue sfide, con la mia pelle scura e i miei capelli ricci. La canto attraverso le mie esperienze di donna, madre, insegnante e poeta” che si legano tra di loro in “labirintiche intersezioni.” È un’affermazione che risuona con forza a pochi giorni dal referendum sulla cittadinanza – ignorato sistematicamente dal servizio pubblico, dalla televisione e dai mass media – in cui siamo chiamat3 a decidere se vogliamo allineare l’Italia agli standard europei, riducendo da 10 a 5 gli anni di residenza legale necessari per richiedere la cittadinanza. Un referendum che riguarda migliaia di persone che abitano, lavorano e studiano nel nostro Paese, ma che, paradossalmente, non hanno diritto a esprimere il proprio voto. Non si tratta solo di una questione tecnica: questo referendum è uno specchio che riflette – per usare le parole di Rahma – quale Paese vogliamo cantare e affermare insieme nel futuro. Carmen della Porta Redazione Toscana
Testimoni
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Mediterranea -------------------------------------------------------------------------------- Martedì sera 6 maggio ricevo un messaggio da David, mio compagno e fratello della rete RefugeesinLibya. “Bro, guarda”. È un video. Una donna con in braccio un bimbo, accovacciata in un androne lurido, la luce scarsa. Sussurra quasi, in una lingua che non conosco. Si vede un’altra ragazza vicino a lei, distesa a terra. David mi scrive. “È chiusa nel lager di Almasri, con lei tante altre mamme con i bambini. Le hanno catturate in mare, hanno fatto dei morti. Adesso le chiedono il riscatto”. Il 2 maggio, di mattina presto, Fatima con il suo bambino, insieme alla sorella Rakuya, più giovane di lei, sale sul barcone di legno ancorato a cento metri dal bagnasciuga della spiaggia di Sabratha. Provo a immaginare quello che nel messaggio non è scritto. Ha dovuto tenere il bambino in alto, sollevarlo con le braccia sopra l’acqua del mare, mentre i miliziani che gestiscono il business dei viaggi, spingevano la gente avanti, ordinando di fare in fretta. 130, 140 persone per un vecchio peschereccio di legno, a due ponti, dove alla fine, dalla stiva al tetto della plancia, non c’è più posto nemmeno per uno spillo. Quelli in stiva devono premersi sulla faccia dei panni bagnati: il fumo del vecchio motore diesel fa soffocare. È un paradosso quel motore: se i suoi pistoni continuano a martellare, il fumo ti fa morire lì dentro. Se si ferma, e l’aria può finalmente entrarti nei polmoni senza ucciderti, si ferma anche la pompa di sentina, che è quella che butta fuori l’acqua altrimenti, pieno così, il barcone affonda. David dice che loro, Fatima e sua sorella, sono profughe etiopi. Guardo il bimbo nel video: avrà un anno. È nato in Libia. La traduzione delle parole di Fatima la fanno tre persone diverse, che parlano altrettante varianti dell’amarico, la lingua ufficiale. Ma magari è tigrino o oromiffa. In Etiopia si parlano ottanta lingue e duecento dialetti diversi. “Aiutateci, siamo all’inferno”. Appena dopo un’ora dalla partenza, i miliziani stavolta in versione “guardia costiera”, hanno assaltato il barcone pieno di gente. Hanno sparato raffiche di mitra. Qualcuno è morto subito, colpito direttamente. Quando sei ammassato in quella maniera, dove scappi? Dove ti ripari? Solo dietro ad altri corpi, se sei fortunato e quello davanti a te è sfortunato. I colpi di mitra passano lo scafo, e incendiano il motore. “Una ragazza è morta bruciata davanti a noi”, dice Fatima nel video. Ritorno a immaginare. Un’ora di navigazione, con un barcone come quello che massimo fa sei nodi, significa che li hanno catturati a sei miglia dalla costa. Acque libiche. Gli stessi che si sono fatti dare i soldi per il viaggio, li hanno venduti ai loro compari. Un sistema criminale come quello del “controllo delle frontiere” ben congegnato. Questi banditi hanno ben compreso il concetto di “massimizzazione dei profitti e minimizzazione del rischio”. Grazie ai finanziamenti del memorandum Italia-Libia, e ai tanti viaggi del Falcon dei servizi segreti carico appunto di “servizi” da rendere ai signorotti della guerra libici, in otto anni gli “scafisti del globo terraqueo” si sono presi il governo libico. Hanno puntato agli apparati di sicurezza: ministero degli interni, polizia, marina militare e guardia costiera. Organizzano le partenze forti del fatto che non esistono vie legali per un profugo, per una madre con suo figlio, di lasciare la Libia verso l’Europa. I corridoi umanitari, che per fortuna esistono ma solo grazie all’impegno della Chiesa, dei Valdesi e dell’Arci, equivalgono a svuotare il mare con un cucchiaio. L’Unione Europea, codarda in questo come in tutto il resto, è solo passacarte di chi ha preso l’iniziativa, e cioè la premier dell’Italia. Che nonostante l’Onu, nonostante la Corte Penale internazionale e nonostante quello che tutti sanno, ha deciso di caratterizzare il suo “impegno” a dare la caccia agli “scafisti del globo terraqueo”, riempiendo di milioni di euro i loro capi. D’altronde, a chi importano le vite di quelle madri, di quei bambini? Come dice Piantedosi, l’importante è che non partano. Fatima e Rakuya sono registrate da UNHCR. Da anni. Come la stragrande maggioranza. Hanno la certificazione da asilo immediato, venendo dall’Etiopia. Eppure niente. Con David riusciamo, dopo molti tentativi, a prendere di nuovo la linea. Parliamo con Rakuya, che ci spiega nel dettaglio. Quella che vediamo nel video distesa a terra, è una ragazza che è morta. Il giorno dopo, ci dice Rakuya, è morto anche un bimbo piccolo, che aveva bevuto molta acqua in mare. Li hanno assaltati sparando, hanno catturato i sopravvissuti e li hanno portati nel lager di “Osama”. Osama è il nome con il quale è conosciuto Almasri, il protetto del governo italiano, che è “capo della polizia giudiziaria libica” e “direttore del Al-Nasr Detention Center”, il lager di Zawhija, cinquanta chilometri a nordovest di Tripoli. Ci facciamo mandare la posizione. Risulta da Google maps, è quello. Il telefono con il quale ci hanno chiamato da quella prigione, è l’unico che sono riusciti a tenersi, nascondendolo. I miliziani è la prima cosa che fanno: spogliano tutti e tutte nudi, e sequestrano i telefoni: l’addestramento gli ha insegnato che non devono rimanere tracce dei loro crimini. A volte sono distratti, qualcuno gli sfugge. Hanno comunicato agli internati che vogliono 6.000 dinari a testa per farli uscire da lì. Ora non immagino più niente. La mia mente si rifiuta di pensare cosa faranno alle donne adesso. Cosa faranno agli uomini. Cosa faranno ai bambini. Mandiamo tutto alla Corte Penale Internazionale. È questo il motivo per cui, per il governo italiano, siamo un “pericolo per la sicurezza nazionale”. Per questo i servizi segreti ci spiano. In Libia non vogliono testimoni. E nemmeno qui. Hanno ricevuto lo stesso addestramento si vede. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTA NOTIZIA DI MEDITERRANEA S.H.: Uccisioni in mare ad opera della cosiddetta guardia costiera libica e gli orrori nel lager di Almasri, protetto dal governo italiano -------------------------------------------------------------------------------- Luca Casarini, Mediterranea Saving Humans -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Testimoni proviene da Comune-info.