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Anch’io canto l’Italia – l’attualità delle poesie di Rahma Nur
Nata a Mogadiscio nel 1963 e arrivata in Italia a soli cinque anni, Rahma è diventata cittadina italiana dopo vent’anni di attesa e dal 1992 è maestra in una scuola primaria statale italiana di Pomezia, attivista e pensatrice. Pubblicato da Astarte Edizioni, “I, too, sing Italia” è una raccolta poetica che intreccia l’esperienza personale dell’autrice – donna nera in Italia, figlia della diaspora somala, (dis-)abile – con temi universali di identità, memoria e resistenza. Con voce intensa e profondamente radicata, il libro invita a riflettere sul significato dell’appartenere e su come possiamo ripensare i territori come spazi capaci di celebrare le soggettività plurali che li abitano. Come spiega l’autrice nell’Introduzione, questa raccolta parla di cosa significa essere italian3 oggi, di come la lingua e la narrazione possano diventare strumenti per affermare se stess3 e partecipare a un’esperienza di lotta condivisa: “Non si può rimanere inattivi, non si può rimanere in silenzio, bisogna agire e manifestare – anche il proprio dissenso, se necessario – davanti alle ingiustizie e alle discriminazioni, e lottare. Nel mio piccolo cerco di raccontare questo tempo, questa nazione in cui mi sono formata e sono diventata la persona di oggi.” Spiegando il titolo, prosegue: “I, too, sing Italia è più di un titolo – è un’affermazione. Canto quest’Italia con tutte le sue contraddizioni, con la sua bellezza e le sue sfide, con la mia pelle scura e i miei capelli ricci. La canto attraverso le mie esperienze di donna, madre, insegnante e poeta” che si legano tra di loro in “labirintiche intersezioni.” È un’affermazione che risuona con forza a pochi giorni dal referendum sulla cittadinanza – ignorato sistematicamente dal servizio pubblico, dalla televisione e dai mass media – in cui siamo chiamat3 a decidere se vogliamo allineare l’Italia agli standard europei, riducendo da 10 a 5 gli anni di residenza legale necessari per richiedere la cittadinanza. Un referendum che riguarda migliaia di persone che abitano, lavorano e studiano nel nostro Paese, ma che, paradossalmente, non hanno diritto a esprimere il proprio voto. Non si tratta solo di una questione tecnica: questo referendum è uno specchio che riflette – per usare le parole di Rahma – quale Paese vogliamo cantare e affermare insieme nel futuro. Carmen della Porta Redazione Toscana
Testimoni
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Mediterranea -------------------------------------------------------------------------------- Martedì sera 6 maggio ricevo un messaggio da David, mio compagno e fratello della rete RefugeesinLibya. “Bro, guarda”. È un video. Una donna con in braccio un bimbo, accovacciata in un androne lurido, la luce scarsa. Sussurra quasi, in una lingua che non conosco. Si vede un’altra ragazza vicino a lei, distesa a terra. David mi scrive. “È chiusa nel lager di Almasri, con lei tante altre mamme con i bambini. Le hanno catturate in mare, hanno fatto dei morti. Adesso le chiedono il riscatto”. Il 2 maggio, di mattina presto, Fatima con il suo bambino, insieme alla sorella Rakuya, più giovane di lei, sale sul barcone di legno ancorato a cento metri dal bagnasciuga della spiaggia di Sabratha. Provo a immaginare quello che nel messaggio non è scritto. Ha dovuto tenere il bambino in alto, sollevarlo con le braccia sopra l’acqua del mare, mentre i miliziani che gestiscono il business dei viaggi, spingevano la gente avanti, ordinando di fare in fretta. 130, 140 persone per un vecchio peschereccio di legno, a due ponti, dove alla fine, dalla stiva al tetto della plancia, non c’è più posto nemmeno per uno spillo. Quelli in stiva devono premersi sulla faccia dei panni bagnati: il fumo del vecchio motore diesel fa soffocare. È un paradosso quel motore: se i suoi pistoni continuano a martellare, il fumo ti fa morire lì dentro. Se si ferma, e l’aria può finalmente entrarti nei polmoni senza ucciderti, si ferma anche la pompa di sentina, che è quella che butta fuori l’acqua altrimenti, pieno così, il barcone affonda. David dice che loro, Fatima e sua sorella, sono profughe etiopi. Guardo il bimbo nel video: avrà un anno. È nato in Libia. La traduzione delle parole di Fatima la fanno tre persone diverse, che parlano altrettante varianti dell’amarico, la lingua ufficiale. Ma magari è tigrino o oromiffa. In Etiopia si parlano ottanta lingue e duecento dialetti diversi. “Aiutateci, siamo all’inferno”. Appena dopo un’ora dalla partenza, i miliziani stavolta in versione “guardia costiera”, hanno assaltato il barcone pieno di gente. Hanno sparato raffiche di mitra. Qualcuno è morto subito, colpito direttamente. Quando sei ammassato in quella maniera, dove scappi? Dove ti ripari? Solo dietro ad altri corpi, se sei fortunato e quello davanti a te è sfortunato. I colpi di mitra passano lo scafo, e incendiano il motore. “Una ragazza è morta bruciata davanti a noi”, dice Fatima nel video. Ritorno a immaginare. Un’ora di navigazione, con un barcone come quello che massimo fa sei nodi, significa che li hanno catturati a sei miglia dalla costa. Acque libiche. Gli stessi che si sono fatti dare i soldi per il viaggio, li hanno venduti ai loro compari. Un sistema criminale come quello del “controllo delle frontiere” ben congegnato. Questi banditi hanno ben compreso il concetto di “massimizzazione dei profitti e minimizzazione del rischio”. Grazie ai finanziamenti del memorandum Italia-Libia, e ai tanti viaggi del Falcon dei servizi segreti carico appunto di “servizi” da rendere ai signorotti della guerra libici, in otto anni gli “scafisti del globo terraqueo” si sono presi il governo libico. Hanno puntato agli apparati di sicurezza: ministero degli interni, polizia, marina militare e guardia costiera. Organizzano le partenze forti del fatto che non esistono vie legali per un profugo, per una madre con suo figlio, di lasciare la Libia verso l’Europa. I corridoi umanitari, che per fortuna esistono ma solo grazie all’impegno della Chiesa, dei Valdesi e dell’Arci, equivalgono a svuotare il mare con un cucchiaio. L’Unione Europea, codarda in questo come in tutto il resto, è solo passacarte di chi ha preso l’iniziativa, e cioè la premier dell’Italia. Che nonostante l’Onu, nonostante la Corte Penale internazionale e nonostante quello che tutti sanno, ha deciso di caratterizzare il suo “impegno” a dare la caccia agli “scafisti del globo terraqueo”, riempiendo di milioni di euro i loro capi. D’altronde, a chi importano le vite di quelle madri, di quei bambini? Come dice Piantedosi, l’importante è che non partano. Fatima e Rakuya sono registrate da UNHCR. Da anni. Come la stragrande maggioranza. Hanno la certificazione da asilo immediato, venendo dall’Etiopia. Eppure niente. Con David riusciamo, dopo molti tentativi, a prendere di nuovo la linea. Parliamo con Rakuya, che ci spiega nel dettaglio. Quella che vediamo nel video distesa a terra, è una ragazza che è morta. Il giorno dopo, ci dice Rakuya, è morto anche un bimbo piccolo, che aveva bevuto molta acqua in mare. Li hanno assaltati sparando, hanno catturato i sopravvissuti e li hanno portati nel lager di “Osama”. Osama è il nome con il quale è conosciuto Almasri, il protetto del governo italiano, che è “capo della polizia giudiziaria libica” e “direttore del Al-Nasr Detention Center”, il lager di Zawhija, cinquanta chilometri a nordovest di Tripoli. Ci facciamo mandare la posizione. Risulta da Google maps, è quello. Il telefono con il quale ci hanno chiamato da quella prigione, è l’unico che sono riusciti a tenersi, nascondendolo. I miliziani è la prima cosa che fanno: spogliano tutti e tutte nudi, e sequestrano i telefoni: l’addestramento gli ha insegnato che non devono rimanere tracce dei loro crimini. A volte sono distratti, qualcuno gli sfugge. Hanno comunicato agli internati che vogliono 6.000 dinari a testa per farli uscire da lì. Ora non immagino più niente. La mia mente si rifiuta di pensare cosa faranno alle donne adesso. Cosa faranno agli uomini. Cosa faranno ai bambini. Mandiamo tutto alla Corte Penale Internazionale. È questo il motivo per cui, per il governo italiano, siamo un “pericolo per la sicurezza nazionale”. Per questo i servizi segreti ci spiano. In Libia non vogliono testimoni. E nemmeno qui. Hanno ricevuto lo stesso addestramento si vede. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTA NOTIZIA DI MEDITERRANEA S.H.: Uccisioni in mare ad opera della cosiddetta guardia costiera libica e gli orrori nel lager di Almasri, protetto dal governo italiano -------------------------------------------------------------------------------- Luca Casarini, Mediterranea Saving Humans -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Testimoni proviene da Comune-info.