Bolivia a destra, una sconfitta annunciataTra profonde tensioni interne, domenica 17 agosto più di 7,5 milioni di
cittadini-e boliviani-e (di cui circa 400.000 all’estero in 22 Paesi) sono stati
chiamati alle urne per scegliere tra sette candidature a Presidente e
Vice-presidente. Candidature tutte al maschile, dopo che l’unica candidata
donna, Eva Copa, aveva rinunciato a causa dello scarso appoggio nei sondaggi. Si
è votato anche per eleggere 36 senatori; 130 deputati, sette deputati dei popoli
originari e nove rappresentanti presso organismi parlamentari sovranazionali,
uno per ogni dipartimento.
Dato che nessun candidato ha raggiunto la maggioranza necessaria, il
ballottaggio ci sarà il 19 ottobre, mentre il vincitore si insedierà l’8
novembre.
In testa al primo turno c’è Rodrigo Paz Pereira, con la sigla del Partito
Democratico Cristiano (PDC) che ha ottenuto circa il 32% dei voti. Al secondo
posto, il sempiterno Jorge (Tuto) Quiroga dell’Alleanza Libre, di estrema
destra, con circa il 28%. Saranno loro due i contendenti al ballottaggio. Al
terzo posto con circa il 20%, si piazza Samuel Doria Medina (Alleanza Unidad) di
centro-destra, al suo quarto tentativo presidenziale.
A differenza dei sondaggi, che prevedevano un testa a testa tra Quiroga e Doria,
la vera sorpresa è stata la vittoria al primo turno di Rodrigo Paz Pereira. Ex
deputato, ex sindaco, economista di professione è nato in Spagna a causa
dell’esilio dei suoi genitori. E’ infatti figlio di Jaime Paz Zamora, ex
presidente del Paese andino, nonché nipote di un altro ex-Presidente, Victor Paz
Estenssoro. Da parte sua, lo sconfitto Doria Medina, ha fatto subito appello al
voto per Rodrigo Paz.
Quel che resta del MAS
Disastroso il risultato dei due candidati che facevano riferimento al Movimento
al Socialismo (MAS-IPSP), dato che il partito di governo non è riuscito a
trovare un candidato unitario.
Da una parte, il giovane Andrónico Rodríguez, proposto come candidato di
compromesso tra le due anime del MAS. La figura di Rodríguez faceva parte del
rinnovamento generazionale del movimento sindacale cocalero e aveva consolidato
il suo profilo istituzionale come presidente del Senato, ratificato in cinque
occasioni con ampio sostegno. Ma alla fine non c’è stato accordo e Rodríguez ha
raccolto circa l’8%, piazzandosi al quarto posto.
Dall’altra, Eduardo del Castillo, candidato “ufficiale” del partito di governo,
rimasto al palo con un deludente 3%. In questa situazione di frattura interna,
del Castillo ha dovuto affrontare la sfida più complessa. Il trentaseienne
avvocato è arrivato al Ministero dell’Interno nel 2020 ed è rimasto in carica
fino al maggio 2025, diventando una delle figure più visibili nel gabinetto di
Luis Arce. La sua candidatura era un tentativo di rinnovare i dirigenti dopo le
fratture interne del partito, ma di certo il risultato striminzito non favorisce
il processo di ricambio.
Il programma di Rodrigo Paz
Se non ci saranno ulteriori sorprese, Rodrigo Paz dovrebbe avere la strada
spianata alla Presidenza. Nel suo programma, ha fatto appello al ricambio
generazionale e ha proposto uno Stato facilitatore, agile e impegnato nei
confronti dei cittadini, lontano dal cosiddetto “Stato che ostacola”.
Provenendo dalla regione più importante del Paese per produzione di gas, la sua
campagna ha posto l’accento sul decentramento dello Stato, con l’obiettivo di
ridistribuire in parti uguali il bilancio nazionale tra il livello centrale e le
regioni, nell’ambito della sua “Agenda 50/50”, come parte di “un nuovo accordo
di convivenza”.
Tra le sue proposte spiccano l’idea di un “Capitalismo per tutti” (con crediti
accessibili, riduzione delle tariffe e delle tasse e l’eliminazione delle dogane
“corrotte”) la riforma della giustizia e la lotta alla corruzione. Paz Pereira
afferma che la Bolivia dispone di risorse proprie per rilanciare la propria
economia ed ha dichiarato la sua contrarietà a ricorrere ai prestiti degli
organismi internazionali.
Jorge (Tuto) Quiroga: il ritorno della destra
Il sessantacinquenne di Cochabamba rappresenta l’opzione dell’estrema destra
boliviana tradizionale. Ex presidente tra il 2001 e il 2002, Quiroga è stato
vicepresidente sotto il governo del militare golpista Hugo Banzer (1997-2001),
mentre durante l’amministrazione di Jaime Paz Zamora (1989-93) è stato
Sottosegretario del Ministero della Pianificazione (1989), Sottosegretario di
Investimenti pubblici (1990) e Ministro delle Finanze (1992).
I suoi legami con gli Stati Uniti lo posizionano come candidato dei settori
economici dominanti e transnazionali, anche se, in pubblico, insiste nel
mantenere una linea indipendente da Washington. “So come farlo. L’ho già fatto
in passato. Il mio vantaggio è l’esperienza“, ha recentemente dichiarato in
merito al suo piano di ottenere 12 miliardi di dollari dal Fondo Monetario
Internazionale (FMI) ed altri. Nel 2019, ha avuto un ruolo chiave nel colpo di
Stato contro Evo Morales ed è stato portavoce internazionale del governo
golpista di Jeanine Añez.
Samuel Doria Medina
Il candidato dell’Alleanza Unidad rappresentava l’aspirazione di un progetto
politico di centro-destra. A 66 anni, l’uomo d’affari di Paz era al suo quarto
tentativo presidenziale, dopo averci provato nel 2005, 2009 e 2014. Come secondo
imprenditore più influente della Bolivia, Doria Medina è tra i 500 imprenditori
più conosciuti dell’America Latina e dei Caraibi. Il suo curriculum include il
passaggio attraverso il Ministero della Pianificazione e la fondazione
de Unidad nel 2003, dopo il suo abbandono del Movimento Rivoluzionario di
Sinistra (MIR). Il suo bagaglio elettorale del 20% sarà decisivo per eleggere il
prossimo Presidente.
La crisi economica
Due sono stati i fattori principali della sconfitta a sinistra. Per entrambi, il
governo del MAS ha perso le elezioni a causa dei propri molteplici errori
politici.
Da una parte una dura crisi economica e sociale che il governo Arce non ha
saputo superare.
Per quanto riguarda la crisi economica, dopo aver disinnescato l’ennesimo
tentativo di golpe del 2019, la Bolivia aveva ripreso il cammino
anti-neoliberale con la presidenza di Luis Arce, ex Ministro di Economia durante
i mandati presidenziali di Evo Morales e del vice-presidente Alvaro García
Linera. Ma come afferma quest’ultimo, “…il MAS come strumento politico dei
sindacati e delle organizzazioni comunitarie contadine ha perso le elezioni a
causa della disastrosa gestione economica di Luis Arce. Con un’inflazione dei
generi alimentari di base che sfiora il 100%, la mancanza di carburante che
costringe a fare code di giorni per ottenerlo e un dollaro reale che ha
raddoppiato il suo prezzo rispetto alla moneta boliviana, non è strano che il
processo di trasformazione democratica più profondo del continente perda due
terzi dei voti popolari a favore di vecchi vendi-patria che promettono di
cacciare a calci gli indigeni dal potere, regalare le aziende pubbliche agli
stranieri e insediare, con la Bibbia in mano, le oligarchie mercenarie alla
guida dello Stato. Se a tutto ciò aggiungiamo il risentimento dei ceti medi
tradizionali, privati dei loro privilegi dall’ascesa sociale e
dall’emancipazione politica delle maggioranze indigene, è chiaro il tono
apertamente vendicativo e razzista che avvolge i discorsi della destra
boliviana” [i].
Evo e il voto nullo
Il secondo fattore decisivo per la sconfitta, è stata la divisione interna al
blocco sociale che ha espresso il governo negli ultimi 20 anni.
Purtroppo, la frattura interna al MAS viene da lontano. Da circa due anni è in
corso una dura lotta interna fratricida, che ha portato ad uno scontro aperto
tra Evo Morales e Luis Arce. Una frattura che si è estesa negativamente anche a
molte organizzazioni di massa, che erano state la colonna vertebrale dei governi
del MAS e che avevano pagato un alto prezzo di sangue per la resistenza
anti-golpista. Il lungo braccio di ferro per il controllo dello strumento
politico (movimento-partito, MAS-IPSP) aveva portato alla fuoriuscita dal MAS di
Morales e della sua base d’appoggio, alla spaccatura nel gruppo parlamentare con
gli “evisti” che votano contro le misure del governo e ad un forte
disorientamento nel blocco sociale del cambiamento.
Come si ricorderà, sulla base di una discussa decisione della Corte
costituzionale, Evo Morales non poteva ri-aspirare alla Presidenza, dopo aver
svolto tre mandati. Ma non ha voluto accettare la decisione giudiziaria e ha
mobilitato la sua base contadina, specialmente nella zona di Cochabamba, per
cercare di bloccare il Paese. Nel 2016, Evo perse un referendum per la quarta
candidatura, ma il Tribunale Costituzionale ribaltò il risultato. Alla fine,
dopo essersi salvato da un attentato nell’ottobre 2024 (smentito dal governo
Arce), in queste elezioni l’ex presidente Morales non ha potuto registrarsi come
candidato presidenziale in nessun partito con personalità giuridica in vigore.
Morales ha ritirato la sua candidatura e, dalla sua roccaforte nel Tropico di
Cochabamba, come forma di protesta politica per avergli impedito di partecipare
alle elezioni, ha promosso attivamente il voto nullo contro il governo di Luis
Arce e le candidature di opposizione.
C’è da dire che, in tutto questo periodo, a nulla sono valsi i molteplici
tentativi di mediazione tra i dirigenti boliviani fatti da alcuni dei governi e
dei partiti della sinistra latino-americana (e non solo) per provare a ricucire
i rapporti con spirito unitario.
Solo Andrónico Rodriguez avrebbe avuto qualche possibilità, se il suo ex mentore
Morales lo avesse appoggiato. Ma Evo lo ha bollato come traditore e ha fatto
appello al voto nullo. D’altra parte, il risultato del voto nullo (circa il 19%)
non preoccupa una destra che è vincente e, per il momento, si troverà una
opposizione frammentata socialmente e senza una presenza parlamentare di qualche
peso.
In altre parole, in termini elettorali, il peso del voto nullo è francamente
nullo.
E ora?
Con questi risultati, che impongono un accordo parlamentare, si vedrà se la
Bolivia riuscirà a costruire un consenso minimo per affrontare le sue sfide
strutturali. O se, al contrario, la crisi si approfondirà.
Il Paese è alle porte di un cambiamento radicale nell’orientamento politico, con
un ritorno alla decade neoliberista e privatizzatrice degli anni ’90. Per non
parlare della politica estera.
Con una gradazione di più o meno liberalismo, le destre (tutti uomini, per lo
più bianchi e di classe alta) propongono un ritorno alla riduzione dello Stato,
alla privatizzazione o chiusura di aziende pubbliche, alla promozione
dell’iniziativa privata, al probabile taglio dei bonus sociali, la riduzioni
delle tasse e un ritorno all’indebitamento ed alle condizioni del Fondo
Monetario Internazionale, della Banca Mondiale o della Banca Interamericana di
Sviluppo per uscire dalla difficile situazione economica attuale.
In una Bolivia così diversa e con un “razzismo” che continua a essere un
problema, già si parla di “farla finita con il socialismo”, dell’eliminazione
dello status Plurinazionale dello Stato e della wiphala (bandiera dei popoli
originari) come simbolo nazionale, del ritorno al sistema educativo precedente
“che non indottrini”, etc.. Al centro non ci sarà la questione sociale, né
quella dei popoli originari o della “Madre terra”, ma l’economia aziendale.
In ogni caso, il popolo boliviano ha una lunga tradizione di resistenza e il
prossimo Presidente non avrà la vita facile.
[i] https://www.jornada.com.mx/noticia/2025/08/16/mundo/por-que-la-izquierda-y-el-progresismo-pierden-elecciones
Redazione Italia