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I nomi che ancora non abbiamo
I POTERI POLITICI, ECONOMICI, FINANZIARI E INFORMATIVI SONO SEMPRE PIÙ INTERCONNESSI E CAPACI DI SCONVOLGERE LA VITA DI MILIONI DI PERSONE. IL TERMINE MUTAZIONE ANTROPOLOGICA NON È ESAGERATO: IL CAPITALISMO DELLE PIATTAFORME STA PLASMANDO L’ESSERE UMANO IN FORME SCONOSCIUTE FINO VENT’ANNI FA. OPPORSI, APRIRE CREPE, CREARE MONDI DIVERSI IN QUESTO SCENARIO RICHIEDE PRIMA DI TUTTO UN IMMAGINARIO NUOVO, IL PENSIERO CRITICO HA BISOGNO DI RINNOVARSI, DOBBIAMO IMPARARE, AD ESEMPIO, AD ABBANDONARE ALCUNI NOMI CON CUI SIAMO ABITUATI A CONFRONTARCI. UNO DEI TERRENI IN CUI VIVERE CONTRO, DENTRO E OLTRE RESTA LA RETE unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- La fotografia scattata in settembre durante una cena alla Casa Bianca, dove furono invitati tutti – o quasi tutti – i CEO delle Big Tech statunitensi rappresenta, in modo inequivocabile, ciò che stiamo vivendo da più o meno due decenni: i poteri politico, economico, finanziario e informativo sono sempre più interconnessi, in una maniera senza precedenti nella lunga storia del capitalismo. Quegli uomini della foto sono tra i più potenti del mondo. Le ricchezze che detengono superano i PIL combinati di varie nazioni di quello spazio chiamato “tricontinentale”1. E non smettono di crescere, tutt’altro. Allo stesso modo, non smette di crescere l’influenza che esercitano, direttamente o indirettamente, sui governi e sulle popolazioni di una vasta parte del mondo. Gli strumenti materiali e immateriali che detengono agiscono all’interno della vita di una parte molto ampia della popolazione mondiale. L’interconnessione che quei poteri producono vigila su ogni aspetto delle nostre vite, dalle micro-relazioni quotidiane tra individui, a quelle che si sviluppano tra le molteplici componenti di ciascuno di noi, inclusi i sogni. Non è una novità, ovviamente. Esiste una letteratura vastissima sul nuovo corso del capitalismo nell’era digitale. Un’era che – come suggeriscono alcuni studiosi2 – va già oltre ciò che, almeno da quattro decenni, viene definito neoliberalismo. Come tutto ciò sia diventato possibile – e come si sia giunti a ciò che assume i tratti di una mutazione antropologica, che riguarda tutti noi e che sembra non esserci modo di essere invertita – è stato analizzato dettagliatamente da approcci differenti. Il termine mutazione antropologica non sembra esagerato. Il capitalismo delle piattaforme sta plasmando l’essere umano in forme sconosciute fino vent’anni fa. Le connessioni costanti con macchine produttrici di informazione – elaborate tramite lo “scavo” nei nostri corpi –, a cui tutti noi apparteniamo, producono un nuovo ente, la cui soggettività e identità non possono prescindere dal legame stretto tra uomo e macchina3. Le peculiarità dell’ente uomo-macchina, per quanto riguarda le funzioni relazionali primarie, risultano significativamente mutate. La produzione e funzione del linguaggio, l’approccio ai saperi, la formazione e gestione delle relazioni e dell’affettività, il senso della creazione artistica, passano per canali e strumenti che operano all’interno di una “colonizzazione epistemica”. Le loro conseguenze sono inscritte in ciò che Donna Haraway ha definito il processo di costituzione della soggettività nel cyborg4. Il predominio assoluto del digitale nella configurazione delle “forme di vita” ha cambiato, in modo irreversibile, la velocità imposta ai tempi delle relazioni e allo sviluppo dei processi, di qualsiasi natura essi siano. Tutto collassa in un eterno presente. È lì che si formano le identità – sempre multiple e in trasformazione – e con esse le relazioni e le sovrapposizioni tra le sfere online e offline dei soggetti normati dal “macchinario di ordinalizzazione”5. La combinazione di tecnologie, conoscenze, organizzazione e informazione si traduce in una pianificazione minuziosa delle nostre vite, come mai era stata sperimentata prima. Il terreno per l’estrazione, produzione e gestione delle informazioni – la loro trasformazione in informazione “astratta” – è la vita stessa, in tutti i suoi aspetti. In questo scenario – che non ha nulla di distopico, poiché è già il nostro quotidiano – ciò che abbiamo davanti è la questione che segna la storia del capitalismo e delle sue strutture di governo fin dall’inizio: di quali strumenti abbiamo bisogno per cogliere i dettagli, i punti di debolezza e le crepe che – dal punto di vista di chi si oppone alle attuali condizioni di vita – permettano di portare la lotta all’interno della “scatola nera”? Come è sempre stato in passato, si tratta di una sfida molto complessa. Una sfida che può essere affrontata solo attraverso una ricerca attivista, che deve avere come punto centrale dell’analisi la costituzione di nuove soggettività. Questo perché – come sempre è stato – la soggettività è la conseguenza delle relazioni tra le forze che definiscono un determinato contesto6. Dobbiamo quindi indagare come costruiamo noi stessi nello scenario della piattaformizzazione della società, tra “tecniche di dominio” e “tecniche del sé”. Una ricerca di questa natura raggiunge il suo obiettivo se si basa, teoricamente e praticamente, sulla conricerca. Romano Alquati coniò questo termine negli anni Sessanta7, durante le sue indagini sull’“operaio-massa” – gli operai della fabbrica fordista – della Fiat, a Torino. L’idea centrale era produrre conoscenza non su di loro, ma con loro e per loro. Ogni partecipante smetteva di essere un “oggetto di studio” per diventare un co-ricercatore. Il lavoro restava lì, non veniva consegnato all’accademia. Continuava il suo percorso di valorizzazione di conoscenze, che si trasformavano immediatamente in strumenti di lotta quotidiana. Alquati e gli altri operaisti compresero che lo scenario era drasticamente cambiato rispetto ai primi anni del dopoguerra. Era necessario aggiornare teoria, pratica politica, relazioni e linguaggio, in accordo con la nuova soggettività che l’“operaio-massa” – immigrato del Sud Italia – esprimeva. Questo, per poter sfidare il capitale sul suo stesso terreno, e anticiparlo. Questa è stata la grande lezione e l’eredità che l’operaismo ci ha lasciato. Tocca a noi dare continuità a questo lavoro. Si tratta – come già detto – di un lavoro minuzioso. Ciò implica, per noi, una ricerca focalizzata sulle caratteristiche più rilevanti delle connessioni situate alla base del funzionamento delle piattaforme, da queste – a loro volta – riprodotte e moltiplicate. Sono le relazioni tra individui e collettività, nei domini del corpo sociale, economico e politico. Sono anche relazioni che riguardano il rapporto dell’individuo con se stesso, la percezione del suo essere, le molteplici identità che costruisce quotidianamente, gli obiettivi e le priorità che sceglie. Una ricerca di questo tipo non è semplice, né rapida. La difficoltà maggiore sarà, forse, abbandonare i nomi con cui siamo abituati a confrontarci. Lasciarli significa distaccarsi dai legami che ci univano a un’epoca in cui quei nomi rappresentavano significati utili, vivi e ampi. Lasciarli significa uscire da una comfort zone dove tutto era collocato in luoghi noti, pronti a essere interrogati dagli strumenti ideologici e semantici consueti ed efficaci che a quel tempo servivano. Lasciare quei nomi significa, in sintesi, non prestare ascolto alle sirene storiciste che ci suggeriscono di partire dai significati dei nomi e osservare come la storia li modula e li mette in relazione tra loro. Ciò di cui abbiamo bisogno, quindi, sono nomi nuovi, che ancora non abbiamo. Nomi che ci facilitino la comprensione dei processi di costituzione delle soggettività nell’era digitale. Solo partendo da lì sarà possibile ricostruire un’articolazione di micro-strategie che ci permettano di riconquistare spazi di azione sul terreno che la nuova forma del capitalismo ci impone. Ad esempio, nomi come lavoro precario – contrapposto a una stabilità sempre più anacronistica e poco desiderata – o futuro – come proiezione di un presente che permetta di intravedere un percorso basato sulla fiducia in un ciclo che coinvolge le diverse sfere personali – ci consentono ancora di cogliere le specificità che, soprattutto tra i più giovani, definiscono alcuni degli elementi della produzione di soggettività? Qual è, oggi, lo spazio fisico e mentale per termini come solidarietà, comune, prossimità, in un contesto dominato dalla centralità dell’individuo, delle relazioni virtuali e dall’impoverimento dei contatti fisici? Cogliere i “come” e i “dove” da cui si sviluppano le forme di valorizzazione, a cui i soggetti attribuiscono rilevanza, rappresenta il ruolo fondamentale che abbiamo davanti. È la condizione di possibilità per tornare a esercitare una forza di rivendicazione e produzione di spazi di vita sottratti al “macchinario di ordinalizzazione” del capitale. In questo senso, consideriamo la metropoli – più che il luogo di lavoro – il contesto di riferimento prioritario per avviare un’analisi di lungo termine. Ciò non significa che interessi solo ciò che accade o appare in quello spazio, al contrario. La metropoli è, infatti, il luogo dove le contraddizioni insite nell’ordine globale di valorizzazione e nelle sue catene si mostrano con maggiore chiarezza; cioè ben oltre il suo perimetro socio-territoriale. Seguendo la linea tracciata, dodici anni fa, da Mezzadra e Neilson in Border as a Method8, il riferimento alla metropoli nella sua interconnessione – e sovrapposizione – con i territori “periferici” evidenzia la relazione tra digitalizzazione e moltiplicazione del lavoro. È importante sottolineare che divisione e moltiplicazione del lavoro non si oppongono – sebbene possano sembrare antitetici. Sono due facce della stessa medaglia: il processo di valorizzazione del capitale. Tutte le innovazioni tecnologiche – dall’epoca di Babbage fino a oggi – sono sempre state focalizzate sulla divisione del lavoro, in funzione della ricerca di una crescente razionalizzazione dei processi produttivi.9 La digitalizzazione e la piattaformizzazione dell’economia seguono lo stesso percorso, portandolo a livelli prima impensabili. Ciò avviene in due direzioni. La prima riguarda il lavoro in sé: i processi produttivi vedono una moltiplicazione delle funzioni e dei dispositivi che li regolano. Estendendosi all’intera superficie globale, tali processi creano, in funzione delle “frontiere” che le costituiscono, diverse forme di “cittadinanze lavorative”, diversi livelli di inclusione. Vengono così prodotte aree che attraversano continenti e paesi, creando continuità tra spazi geograficamente lontani. Si tratta anche aree immateriali, corrispondenti a mercati del lavoro adiacenti tra loro, talvolta nelle stesse aziende, senza possibilità di interazione reciproca. Tali mercati, basati su distinzioni di etnia, età e genere, producono gerarchie e costruzioni identitarie gestite da politiche specifiche. La seconda direzione riguarda le vite in sé. Il lavoro si moltiplica mentre la vita intera diventa tempo e spazio di produzione. Qualsiasi attività che ci connetta alle reti è produttiva di valore: i dati che tutti noi generiamo senza interruzione. Il soggetto piattaformizzato, dunque, non è altro che un produttore totale. La sua “isola di edizione” lo obbliga a una connessione continua, dove entrano in gioco tecniche di divisione per livelli e stratificazione di contatti, nonché di moltiplicazione tramite “maschere” e “messe in scena”10. Queste – nella misura in cui richiedono condivisioni e like costanti – hanno la funzione di riprodurre all’infinito la catena di gusti, atteggiamenti e preferenze. In sintesi, nella misura in cui le nostre vite e il nostro lavoro diventano oggetto di divisione, si produce una moltiplicazione dei compiti attraverso i quali produciamo quote variabili del valore complessivamente estratto dalla totalità dei processi che ci includono. Due esempi, raccolti da ricerche svolte negli ultimi due anni, ci permettono di evidenziare alcuni punti utili per una migliore spiegazione. Bhavin è un autista TVDE, l’entità operativa su cui Uber si appoggia per operare a Lisbona. La sua storia di migrazione si sviluppa attraverso diversi paesi, prima dall’India alla Penisola Arabica, e infine all’Europa. L’esperienza raccontata nella nostra conversazione corrisponde a un modello di vita – comune a molti migranti, soprattutto a quelli di recente ingresso – definibile come sfruttamento e auto-sfruttamento. Un lavoro senza orari, giorni e notti di seguito, votato unicamente alla massimizzazione dei guadagni, con condizioni abitative accettabili solo per la necessità di ridurre al minimo indispensabile le spese. Non parla portoghese, perché non ne ha bisogno; l’app gestisce tutto ciò che Bhavin necessita per svolgere le mansioni di autista. Le sue preoccupazioni e i suoi progetti non hanno nulla a che fare con Lisbona: sono a migliaia di chilometri di distanza – nel sud dell’India, da dove proviene. La sua vita è legata alla sua abilità – molto alta – di interagire con le app, che gli permettono di lavorare ora in un ambito, ora in un altro. In India lavorava – per circa un dollaro all’ora – per un’agenzia internazionale di “pulizia” di uno dei siti più comuni delle Big Tech. Arrivato a Lisbona, Bhavin è riuscito a portarsi dietro lo stesso lavoro, utilizzando la lingua Hindi (un esempio del fenomeno chiamato infrastrutture delle migrazioni secondo Xiang e Lindquist)11. Nonostante una retribuzione oraria più dignitosa, quel lavoro non gli permetteva di realizzare il suo progetto, visto il maggior costo della vita a Lisbona. Da qui, la scelta, insieme a un amico, di noleggiare un’auto TVDE e iniziare la vita da autista. Nei periodi di alta presenza turistica, l’auto non si ferma mai. Bhavin si alterna alla guida con l’amico giorno e notte. Alla domanda se riteneva sostenibile quella condizione lavorativa – e, in generale, di vita – a medio-lungo termine, la risposta fu senza esitazione: “no”. Allo stesso tempo, però, non riusciva a vedere come avrebbe potuto cambiare qualcosa in quel tipo di lavoro. La ragione che ha fornito era molto chiara e non lasciava spazio a contestazioni: ognuno guarda a se stesso. “Siamo stimolati a credere di non essere lavoratori, ma imprenditori. Dobbiamo spingere tutto al massimo”. Il trasporto di persone tramite app appartiene a quanto l’ILO classifica come lavoro su piattaforme basate localmente (Location-based platforms)12. La stessa tipologia include i rider che consegnano cibo e altri beni in bicicletta. Per questi lavoratori, tuttavia, la situazione è in evoluzione, con cambiamenti che variano da paese a paese e da azienda a azienda. Questa differenza ha, per Bhavin, una ragione semplice: “si incontrano frequentemente; conversano, scambiano esperienze, consigli, trucchi, che rendono il lavoro più condiviso. È più facile essere contattati da sindacalisti o da qualcuno che spieghi loro i diritti. Noi no: oltre a qualche amico, non è facile stabilire contatti con altri autisti durante la giornata lavorativa. Non ci sono luoghi di incontro tra noi. Questa è la mia esperienza, ma sono straniero e non parlo portoghese; non so com’è la situazione per i portoghesi”. Al momento della nostra conversazione, Bhavin aveva preso la decisione di provare a entrare in Inghilterra, dove già vivono familiari e amici, con l’ipotesi di trovare lavoro in un’azienda che presta servizi a Facebook. “Oltre al lavoro, la cosa più importante è che lì avrò un vero ambiente di riferimento, ciò che qui manca di più”. Ciò che è importante sottolineare dalla testimonianza del co-ricercatore è la chiarezza con cui presenta i diversi problemi e ostacoli che ha affrontato. Di questi, Bhavin evidenzia le cause, generate sia da scelte imposte, sia da elementi che appartengono interamente alla sfera della soggettivazione. In altre parole, ciò che appartiene alle tecniche di dominio, da una parte, e alle tecniche del sé, dall’altra. Da qui emerge una soggettività che si costituisce in quello spazio che, in un altro articolo13, è stato definito come Quarto mondo. È lo spazio in cui l’economia delle piattaforme esercita il suo immenso potere di “condurre le vite”, in un movimento infinito tra lavori, paesi e app. Dove, infine, la moltiplicazione del lavoro è il riferimento diretto del soggetto delle piattaforme. Possono questi lavoratori possono essere definiti precari? O forse la loro condizione è più correttamente descritta come nomade? Quando le trasformazioni riguardano non solo la vita lavorativa, ma la vita stessa – in un continuum che prevede migrazioni multiple14, accompagnate da app uguali in tutto il mondo – il nomadismo sembra il termine più adeguato. Il secondo esempio che si vuole presentare riguarda un’altra grande area di lavoro svolta sulle piattaforme. Il già menzionato rapporto dell’ILO lo definisce come “lavoro in modalità remota su piattaforme online”. Angelo lavora nell’ambito della BPO (Business Process Outsourcing). Laureato in Geografia Umana, ha scelto di lasciare il suo paese di origine, arrivando a Lisbona nel 2018. Pesce pulitore dell’acquario: così ha descritto, con ironia, il suo lavoro: pulisce l’acquario in cui tutti noi – naviganti della rete – nuotiamo, sporcandolo. La BPO è un servizio esternalizzato dalle Big Tech. Queste necessitano di attività (servizi ai clienti, sviluppo tecnologico, controllo della violenza in rete, cybersecurity, ecc.) indispensabili al loro funzionamento15. Le aziende a cui il progetto/servizio viene esternalizzato – tutte di grandi dimensioni, operanti a livello internazionale – lo acquisiscono e lo gestiscono tramite filiali sparse in paesi europei ed extraeuropei, soprattutto dove il costo del lavoro è più basso. I lavoratori delle BPO sono una moltitudine di mille nazionalità diverse, assunti per lavorare nella loro lingua madre, qualunque sia il paese in cui si trovano. Angelo, di fatto, lavorava in Portogallo utilizzando l’italiano. “I contratti sono o temporanei, da due mesi a un anno, o permanenti. In realtà, il termine permanente indica che i contratti non hanno un termine prestabilito, come quelli precedenti, ma sono legati alla durata del progetto”. Le attività lavorative svolte in questo ambito sono numerose e coprono l’intero spettro del supporto tecnico di cui le Big Tech e le piattaforme da loro gestite hanno bisogno. Tra queste, il content moderator controlla tutto ciò che accade sulla rete, il rater analizza quantitativamente e qualitativamente i prodotti commerciali, così come sono presentati nelle ricerche, ad esempio su Google Search. Al di sopra di questo livello operativo si collocano il team leader, il quality analyst e il supervisor. Al vertice di questa piramide si trova il project coordinator: è il soggetto che coordina più progetti e che si relaziona direttamente con il top management. Le mansioni basilari, in particolare il content moderator e il rater, servono principalmente a valutare le risposte che l’IA fornisce agli utenti che richiedono informazioni, relativamente alla loro applicazione in tutte le attività di ricerca in rete. “La relazione tra lavoratore e azienda è piuttosto povera: tutto ciò che riguarda le condizioni lavorative è delegato al Team Leader, che funge da interfaccia con la direzione delle Risorse Umane. Le assunzioni sono sempre a livello individuale: non esiste un’assunzione collettiva, che riguardi, ad esempio, le condizioni generali di un Paese”. Il lavoro stesso ha ritmi intensi: “È necessario cliccare sullo schermo ogni due minuti, per non incorrere in penalità di quindici minuti di lavoro perso. Questo produce grande stress e ansia nel lavoratore. In caso di prestazioni scarse, sono frequenti azioni di mobbing, che inducono il lavoratore a lasciare l’impiego di propria iniziativa. Le aziende, in genere, non licenziano, ma ‘accompagnano’ il lavoratore a prendere la decisione di andarsene”. L’aumento del costo della casa ha reso Lisbona una città insostenibile per chi lavora in condizioni poco favorevoli e, soprattutto, per chi non possiede un’abitazione. Per questo Angelo ha deciso di “migrare” verso un paese in cui i suoi guadagni fossero più compatibili con il costo della vita. Proprio come per Bhavin, l’impiego – insieme ai suoi strumenti materiali e immateriali – è migrato con Angelo. Torna, qui, ancora una volta, la domanda su quale sarebbe la definizione più adeguata – ammettendo, senza concedere, che sia necessario trovarla – per consentire a decine di migliaia di Angelo di descrivere il rapporto che hanno con la loro vita di lavoratori. Nella misura in cui passano da un compito all’altro – content moderator, rater, quality analyst – a seconda del paese in cui si trovano, sembra confermato quanto detto più sopra sulla moltiplicazione del lavoro indotta dalle tecnologie – e, quindi, sull’organizzazione del lavoro e della società – che sostiene le reti digitali. Per concludere – provvisoriamente – questo articolo, è importante evidenziare alcuni punti che ci sembrano piuttosto significativi, per i quali sono necessari approfondimenti che vanno oltre le nostre possibilità. Siamo sempre più convinti che il terreno in cui dobbiamo portare il conflitto sia la rete. Fortunatamente, non è e non sarà l’unico possibile terreno di conflitto, anzi. Le lotte che attraversano il mondo indicano che piazze, porti, magazzini e foreste continuano a essere luoghi di confronto tra due visioni opposte della vita. Portare il conflitto nella rete, tuttavia, ha un senso complementare e valorizzante rispetto a quelle lotte. Attaccare il potere dove ha la maggiore capacità di produzione e gestione di “informazioni astratte” non può essere un’opzione. Per questo è essenziale la partecipazione di co-ricercatori, come i nostri due amici. Sono state fatte esperienze per rendere Internet più “democratica”, o pubblica – come racconta Tarnoff – tramite progetti come Mastodon o Fediverso16. Allo stesso modo, si sta sperimentando la promozione di una gestione cooperativa delle piattaforme, che favorisca un lavoro più dignitoso per “co-dipendenti” supportati nelle loro attività da servizi condivisi17. Nick Srnicek, a sua volta, aveva già presentato queste opportunità nel 2017. Nel suo libro Platform Capitalism, aveva però sottolineato alcuni limiti: “Se anche tutto il suo software fosse open source, una piattaforma come Facebook manterrebbe il peso dei dati attuali in suo possesso, gli effetti di rete e le risorse finanziarie per sconfiggere qualsiasi cooperativa rivale”. La fiducia che Srnicek ripone, d’altro canto, nel ruolo dello Stato per frenare le piattaforme pubbliche e regolamentare quelle delle grandi corporazioni, sembra però poco praticabile, soprattutto alla luce di quanto accade oggi. “In maniera più radicale – scrive Srnicek – si potrebbe spingere verso piattaforme post-capitaliste, che utilizzino i dati raccolti da queste piattaforme per condividere risorse, facilitare la partecipazione democratica e generare ulteriori sviluppi tecnologici”18. Anche Tim Berners-Lee, il creatore del World Wide Web, ha contribuito a questo dibattito, sottolineando la necessità di “un organismo senza scopo di lucro simile al CERN (Organisation Européenne pour la Recherche Nucléaire), per promuovere la ricerca internazionale in IA”. È necessario “salvare l’IA dalle mani delle Big Tech”, perché – scrive Berners-Lee – “su molte piattaforme non siamo più clienti, ma il prodotto”19. Sono tutti elementi che possono contribuire alla costruzione del quadro delle iniziative possibili, sebbene permangano dubbi sull’efficacia di queste ipotesi e sulla possibilità che rappresentino un’alternativa realistica. Inoltre, ci sembra che nel cuore della questione vi sia un tema più problematico, più complesso. Un tema difficile da definire chiaramente, almeno per quanto ci riguarda. Per questa ragione, ciò che si propone è solo il tentativo di formularlo sotto forma di quesito, o poco più. Il successo delle piattaforme si radica nella peculiare capacità che – in qualsiasi epoca – il sistema generale di funzionamento del capitalismo ha di appropriarsi del fondamento dei processi produttivi e riproduttivi: la cooperazione sociale. La caratteristica del capitalismo digitale, piattaformizzato, si basa sulla sussunzione della cooperazione sociale nel connettivismo, cioè nella pratica di estrarre informazioni – da trasformare in “auto-organizzazione” del sistema cibernetico20 – dall’uomo-macchina sociale, costantemente connesso e produttivo. L’“intelletto generale” si amplia, in conseguenza di una cooperazione sociale che ormai non ha più limiti; la sua sussunzione rende il macchinario di ordinalizzazione sempre più sofisticato. Questo rappresenta – ci sembra – le modalità con cui le relazioni sociali e le loro conseguenze entrano e animano la “scatola nera”. Ora, il problema principale che abbiamo davanti potrebbe essere formulato nei seguenti termini: come è possibile intervenire sul sistema del connettivismo? Come sottrarre alla macchina quote di cooperazione sociale, in modo che producano altre connessioni tra i molteplici soggetti che intervengono nella catena produttiva delle piattaforme? I crowdworkers, i “pesci pulitori”, i controllori, i rider e gli autisti possono trovare collegamenti digitali che permettano loro di agire in comune, per rivendicare migliori condizioni di lavoro, e non solo? Ma – spingendo un po’ più avanti le nostre aspettative – il problema potrebbe estendersi a un altro livello. Come promuovere forme di lotta che coinvolgano, oltre ai soggetti digitalizzati, tutti coloro che operano principalmente o unicamente nella sfera analogica, cioè nei domini in cui oggi è già possibile osservare un alto livello di conflittualità? In altre parole: come connettere la cooperazione sociale digitale con quella analogica, producendo saperi che non siano facilmente catturabili dal macchinario di ordinalizzazione e che si articolino – come forza antagonista – lungo l’intera catena di valorizzazione? Le esperienze sopra menzionate per rendere Internet più democratica, pubblica e libera potrebbero rappresentare un valore aggiunto in questa prospettiva. Il Turkopticon citato da Pasquinelli, creato per “interrompere l’invisibilità dei lavoratori”21, va nella stessa direzione. La certezza che abbiamo, al di là di questo, è che portare la lotta nella “scatola nera” sia sempre più la condizione per sottrarsi all’asfissia e iniziare a respirare di nuovo, dal momento che, oggi, “respirare è tanto difficile quanto cospirare”. -------------------------------------------------------------------------------- *Stefano Rota è ricercatore indipendente. Gestisce il blog “Transglobal”. La sua più recente pubblicazione collettiva è La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023). Collabora occasionalmente con riviste online italiane e lusofone. -------------------------------------------------------------------------------- 1 L’Istituto Tricontinentale di Ricerca Sociale promuove il pensiero critico, stimola dibattiti e ricerca in una prospettiva di emancipazione dei paesi dell’Africa, Asia e America Latina. https://thetricontinental.org/pt-pt/ 2 S. Chignola, S. Mezzadra, Neoliberismo: che cosa c’è in un nome?, Euronomade, 26 Maio 2025, https://www.euronomade.info/neoliberalismo-che-cosa-ce-in-un-nome/ , Neoliberalismo. “O que è que há, pois, num nome?” Le Monde Diplomatic Brasil 4 Junho 2025, https://diplomatique.org.br/neoliberalismo-o-que-e-que-ha-pois-num-nome/ 3 Tra i tanti contributi che trattano dell’ente uomo-macchina, S. Rota, Nós e o Cyborg Minorias e políticas da identidade, Outras Palavras, 29 março 2025, https://outraspalavras.net/descolonizacoes/nos-e-o-cyborg-minorias-e-politicas-da-identidade/, in italiano https://associazionetransglobal.jimdofree.com/2025/03/20/soggettivit%C3%A0-minori-desiderio-e-identit%C3%A0-nell-era-del-cyborg/, e l’eccellente articolo di J. A. Roza, A engegharia do eu na era das redes sociais, Revista Cult, 19 Setembro 2025, https://revistacult.uol.com.br/home/engenharia-do-eu-redes-sociais-e-construcao-da-subjetividade-contemporanea/ 4 D. Haraway, A Cyborg Manifesto, Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, em Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature (New York; Routledge, 1991), pp.149-181. 5 Questa efficace defizione (machinery of ordinalization)è data da M. Fourcade e K. Healy ao sistema de informatização das vidas, no artigo Authenticate thyself, publicado na revista online AEON, https://aeon.co/essays/the-sovereign-individual-and-the-paradox-of-the-digital-age 6 Mario Tronti e Toni Negri sono gli studiosi militanti operaisti che più approfondirono teoricamente questo legame. In Operai e Capitale, Einaudi, Torino, 1966, Tronti parla di fabbrica sociale, descrivendo come alla fine degli anni Sessanta cambia lo spazio produttivo e il senso di giornata di lavoro, in relazione a quello che fu un cambiamento del paradigma nel modello di sfruttamento del lavoro. In conseguenza di ciò, Negri elaborò ulteriormente questo passaggio negli anni Settanta, definendo il nuovo soggetto produttivo come operaio sociale, nel suo libro Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, Multhipla Edizioni, Milano, 1979. Per questo, ciò che si intende sostenere qui è che “la soggettivazione si presenta come la condizione di esistenza del capitale”, come sostenne Negri, in occasione di un seminario a Milano per i 50 anni di vita del citato libro di Tronti, nel 2016. https://www.euronomade.info/operai-capitale-50-anni/ 7 R. Alquati, Per fare conricerca, Calusca Edizioni, Padova, 1993 8 S. Mezzadra, B. Nielson, Border as a Method. Or the multiplication of Labor, Duke University Press, Duhram, 2013, trad. it. Confini e Frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna, 2014. 9 Matteo Pasquinelli chiarisce questo punto in modo brillante nel suo ultimo libro Nell’occhio dell’algoritmo, Storia e critica dell’intelligenza artificiale, Carocci, Roma, 2025. 10 J. A. Roza, A engegharia do eu na era das redes sociais, Revista Cult, 19 Setembro 2025, https://revistacult.uol.com.br/home/engenharia-do-eu-redes-sociais-e-construcao-da-subjetividade-contemporanea/ 11 B. Xiang, J. Landquist, Migration Infrastructure, International Migration Review, Volume 48, n. 1, 2014, p. 122-148. https://globaldecentre.org/wp-content/uploads/2020/07/Biao-Xiang-Johan-Lindquist-Migration-Infrastructure-2014.pdf 12 ILO, Realizing decent work in the platform economy, Report V (2), 113th Session, 2025, https://www.ilo.org/sites/default/files/2025-02/ILC113-V%282%29-%5BWORKQ-241129-001%5D-Web-EN.pdf 13 M. Codebò, S. Rota, As Fissuras na fortaleza do Ocidente, OutrasPalavras, 2025, https://outraspalavras.net/crise-civilizatoria/as-fissuras-na-fortaleza-do-ocidente/, in italiano, https://associazionetransglobal.jimdofree.com/2025/08/24/le-crepe-nel-blocco-dell-occidente 14 S. Rota, Cittadinanze postmigratorie nella crisi dell’Europa dei confini, Transglobal, 02-10-2016, https://associazionetransglobal.jimdofree.com/2016/04/26/cittadinanze-postmigratorie-nella-crisi-dell-europa-dei-confini/ 15 Il processo di esternalizzazione dei servizi da parte delle Big Tech non finisce qui. Più in basso – o a lato – di ciò che Angelo presenta, ci sono milioni di lavoratori localizzati nei paesi dell’Sud-Est asiatico e – con numeri inferiori – in Africa e in America Latina. Sono quelli che due giornaliste del Washington Post hanno analizzato nelle Filippine. Si tratta di lavoratori che utilizzano le apps, per compiere i cosiddetti microtasks. E’ nelle case, nei caffè, negli scantinati dove lavorano – che le due giornaliste chiamano, giustamente, sweatshops – che la AI viene alimentata con miliardi di immagini, testi, annotazioni e classificazioni. I lavoratori, eufemisticamente chiamati freelancer, guadagnano 2-4 dollari al giorno, nella migliore delle ipotesi. R. Tan, R. Cabato, Behind the AI boom, an army of overseas workers in ‘digital sweatshops’, Washington Post, 23 Agosto 2023, https://www.washingtonpost.com/world/2023/08/28/scale-ai-remotasks-philippines-artificial-intelligence/ 16 B. Tarnoff, O sonho duma internet pública não acabou, Outras Palavras, 23 dezembro 2022, https://outraspalavras.net/tecnologiaemdisputa/sonho-de-uma-internet-publica-nao-acabou/ 17 L. Bruno, Cooperativismo de plataforma e o trabalho digno, Outras Palavras, 22 dezembro 2023, https://outraspalavras.net/tecnologiaemdisputa/cooperativismo-de-plataforma-e-o-trabalho-digno/ 18 N. Srnicek, Platform Capitalism, Polity Press, Cambridge, 2017, p. 69-70 da edição online. https://mudancatecnologicaedinamicacapitalista.wordpress.com/wp-content/uploads/2019/02/platform-capitalism.pdf 19 T. Berners-Lee, Da Internet que nos prometeram à distopia em que vivemos, Outras Palavras, 01 Otubro 2025, https://outraspalavras.net/tecnologiaemdisputa/da-internet-que-nos-prometeram-a-distopia-em-que-vivemos/ 20 Pasquinelli, cit. pp. 129-155. 21 Pasquinelli, cit. p. 240 -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI CARLO MILANI: > Per un’informatica conviviale -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo I nomi che ancora non abbiamo proviene da Comune-info.
Il sessismo online e la “normalità” del dominio maschile
-------------------------------------------------------------------------------- Disegno di Giulia Crastolla -------------------------------------------------------------------------------- L’informazione sui siti online “Mia moglie” e “Phica.net” continua e permette di vedere, dietro l’attualità di eventi effettivamente sconcertanti – le foto rubate a donne senza il loro consenso e scambiate nel gruppo degli uomini attraverso i social – un fenomeno più esteso e legato solo in parte alle nuove tecnologie comunicative. L’insistenza sull’aspetto giudiziario e sull’effetto della visualizzazione online è sicuramente importante, così come l’invito che viene rivolto alle vittime perché denuncino la violenza subita. Ma c’è il rischio che venga così occultato il “sistema” che c’è dietro tutto questo, e cioè la “normalità” del dominio maschile, della cultura patriarcale che accompagna la nostra storia da sempre. Ciò che viene a mancare, se si continuano a mettere in evidenza solo questi aspetti, è un salto della coscienza politica. In altre parole, si rimanda ancora una volta la necessità di andare all’origine del rapporto tra i sessi, a quello spostamento o proiezione che l’uomo ha fatto sulla donna dell’animalità, di tutto ciò che a che fare col corpo, con l’appartenenza alla materia vivente e alla sua finitezza. Non è una novità, dal momento che ne parlano sia la cultura greco romana cristiana che il senso comune, il fatto di aver visto nella donna la sessualità, il corpo che genera e il corpo erotico, così come non dovrebbe stupire sapere che gli uomini vantano le loro conquiste femminili: “avere”, “possedere” una bella moglie. Parlare della “normalità” significa anche uscire dall’idea che il sessismo riguardi solo alcuni uomini, che sia un problema da rimandare alla patologia e alla illegalità, per cui la maggior parte dei loro simili può dire “io non sono così”. Un problema non secondario, quando si parla della relazione tra i sessi, è oggi la difficoltà degli uomini a pensarsi come “genere”, a vedere nella “virilità” un elemento identitario diventato anche per loro “destino naturale”, il marchio che assicura privilegi ma anche la mutilazione di tratti essenziali dell’umano. “Genere” sono state considerate storicamente solo le donne, anzi, la Donna, un tutto omogeneo, un ruolo, una funzione necessaria per “rendere buona la vita” all’altro sesso (Rousseau). Gli uomini, al contrario, si sono pensati come “individui”, persone prese nella loro singolarità, e come tali continuano a pensarsi, ragione per cui possono anche mettere distanza tra sé e quelli che considerano le devianze dei loro simili. Per un altro verso, si potrebbe dire che le donne rischiano a loro volta di restare legate a ruoli – madri, mogli, amanti, ecc. – che hanno dato loro un qualche potere, sostitutivo di altri da cui sono state escluse, un potere che non giova alla loro creatività e individuazione. Andare alla radice del sessismo vuole dire rendersi consapevoli che per lo sguardo maschile le donne sono ancora “essenzialmente corpi”. Quando si dice di una donna che ha subito violenza “se l’è cercata”, si va a toccare un pregiudizio di fondo della nostra cultura, e cioè l’identificazione delle donne con la sessualità. E il paradosso, come ha detto il femminismo degli anni Settanta con l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio, è che la sessualità femminile è stata cancellata e che dominante storicamente è stata solo quella maschile. Tra l’altro, come ha sottolineato Carla Lonzi, una sessualità generativa che ha procurato non poche sofferenze alle donne per gravidanze indesiderate. Dietro le infinite forme di sessismo, diventate la “normale” violenza quotidiana, interiorizzata purtroppo come tale dalle donne stesse, c’è dunque una profonda misoginia, che passa allo stesso modo attraverso i saperi, le discipline scolastiche, la cultura alta che abbiamo ereditato e che ancora trasmettiamo, e il senso comune. Oggi si parla molto più che in passato di “educazione di genere”, e questo è senza dubbio un cambiamento della coscienza storica, ma di fatto, stando alla situazione attuale della scuola, si fa molto poco per renderla operate nei processi educativi fin dalla prima infanzia. Le giovani insegnanti, per lo più precarie, sanno i rischi che corrono, da parte dell’autorità scolastica o delle famiglie, quando tentanto di portare “il corpo a scuola”, di vedere nell’alunno la persona nella sua interezza, dando ascolto alle vite e a ciò che di “impresentabile” passa ancora “sotto i banchi”. Il disagio, l’insicurezza, la fragilità e la violenza diffusa tra gli adolescenti, oltre al sessismo e alla pornografia online degli adulti, sono gli altri temi ricorrenti di una lamentazione collettiva che spinge quasi inevitabilmente, se non verso un inasprimento della carcerazione minorile, a una svolta dell’educazione in chiave patologica, con ricorso quasi esclusivo agli esperti, psicologi e sessuologi. I social hanno senza dubbio modificato l’idea, che è stata del movimento antiautoritario nella scuola e del femminismo, di portare allo scoperto la materia di esperienza, la più universale dell’umano, sepolta nel “privato”, considerata “non politica”, fuori dalla cultura e dalla storia. Lo hanno fatto purtroppo ricalcando modalità note di spettacolarizzazione e voyeurismo, enfasi narcisistica e competizione, e lasciando di nuovo in ombra le consapevolezze che sono emerse da mezzo secolo e oltre fino ad oggi. Se la scuola rimane il deserto di un’educazione capace di andare alle radici dell’umano, il luogo di quell’analfabetismo dei sentimenti che è alla radice della violenza, i social non avranno difficoltà e prendere il sopravvento. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su il manifesto del 6 settembre -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il sessismo online e la “normalità” del dominio maschile proviene da Comune-info.
Mia moglie: ritratto di fallocrazia di gruppo
Cosa succederebbe se per ipotesi, in risposta al gruppo Facebook Mia moglie, salito recentemente e tristemente alla cronaca nei giorni scorsi, venisse creato il gruppo Mio Marito, con le foto di quei consorti che avevano condiviso immagini intime, e nella maggior parte dei casi non consenzienti, delle proprie metà? Potremmo assistere al disvelamento delle grazie di questi signori, che verrebbero sottoposti al commento e al giudizio femminile, che spesso sa essere tagliente; ma non solo: finalmente si conoscerebbero i loro volti, tra i quali magari riconosceremmo quelli del nostro vicino di casa, di un nostro amico o peggio ancora, di mariti e compagni. Ma non sarebbe questa la giusta via da seguire per punire quanti hanno pubblicato foto di donne invitando a commentarne il corpo e l’appetibilità sessuale, in una sorta di rituale patriarcale, misogino e fallocentrico. Ci penserà la legge, almeno si spera. Se non si tratta di odio e violenza di genere, così come affermano alcuni signori, direttamente o indirettamente coinvolti nella questione, cercando di minimizzare la vicenda riconducendola a una goliardata, allora bisogna chiedersi a cosa stiamo assistendo. E’ facile adottare un atteggiamento di disimpegno morale, riducendo tutto allo scherzo: qui si tratta di altro, perché le mogli e le compagne in questione sono state oggettificate, mostrate come fossero proprietà personale, senza nessuno scrupolo, senza nessun rispetto non solo per la persona ma anche per la legge, accumulando reati che vanno dalla violazione dalla privacy alla violenza privata e oltre. Alcuni si sono difesi attaccando e dando la colpa alle ficcanaso e alle solite femministe represse, a quelle che parlano sempre di parità e di patriarcato, a quelle che non si fanno gli affari loro perché, in fin dei conti, gli scambi di fotografie esistevano già ai tempi delle caselle postali. Ma quello che questi individui non comprendono è che oggi la comunicazione è diventata capillare e globalizzata: qualsiasi parola, immagine, suono viene amplificato e rimbalzato dalla rete. Così, anche se esiste il diritto all’oblio, che si può esercitare per eliminare dati sensibili finiti sul web, può succedere che alcune tracce permangano. Anche le loro, compresi volti, nomi e cognomi. Nella società dell’interconnessione nulla si cancella mai definitivamente. Gruppi simili esistono, soprattutto in luoghi virtuali pressoché quasi inesplorabili come Telegram. Scoprirne uno significa scorgere la punta di un iceberg enorme e ramificato. L’unica difesa resta la denuncia . Non bisogna restare in silenzio, bensì pensare che ogni segnalazione è un atto di ribellione, di interruzione della catena di odio e violenza che inizia dal web e al web ritorna, in un eterno girone infernale. E stavolta, speriamo che siano gli uomini, a protestare. Stefania Catallo
La cura delle informazioni
Lo scorso 16 maggio a Bologna si è tenuta una discussione, in un evento di preparazione alla Bologna Anarchist Book Fair che si terrà il prossimo settembre, su alcuni progetti web nati e sviluppatisi negli ambienti dell’antagonismo e dei centri sociali. L’evento è stato descritto come Archivi digitali dei movimenti sociali: memoria collettiva e riappropriazione tecnologica. Alla discussione hanno partecipato Grafton9, il non più attivo NGVision, ed ECN Antifa. Tre progetti apertamente diversi nella forma, nei contenuti trattati e nell’organizzazione. Sintetizzando i tre progetti hanno in comune il desiderio di curare le informazioni: un processo di cura volto alla riorganizzazione, alla semplificazione, ed infine alla condivisione. Oggi, nell’uso quotidiano del web, i movimenti dimostrano una scarsa capacità di cura, che si riflette in una frammentazione e dispersione dei contenuti, spesso con limiti di accesso, e quindi con una conseguente difficoltà nella conservazione per il futuro. Questo bisogno di riprendersi cura del web oggi viene espresso da diversi fronti, spesso collocato sotto la definizione di “giardino digitale” Leggi l'articolo completo in cui trovi anche una serie di link sull'argomento.
Cloudflare: l'IA sta distruggendo il web
Il proliferare delle intelligenze artificiale non farebbe altro che danneggiare i creatori di contenuti e i siti indipendenti. Matthew Prince, CEO di Cloudflare (una delle CDN più grandi al mondo), ha lanciato un allarme sul futuro del web durante un'intervista al Council on Foreign Relations: l'intelligenza artificiale starebbe distruggendo il modello di business che ha sostenuto il web per oltre 15 anni. «L'AI cambierà radicalmente il modello di business del web» ha affermato. «Negli ultimi 15 anni, tutto è stato guidato dalla ricerca online» ma ora le cose stanno cambiando: se un tempo la ricerca su Google portava traffico ai siti tramite i famosi «10 link blu», oggi quella stessa ricerca è fatta per tenere gli utenti sulla piattaforma, fornendo risposte e contenuti tramite la IA. Dieci anni fa, per ogni due pagine indicizzate, Google rimandava un visitatore al sito; ora, secondo Prince, servono sei pagine per un solo visitatore, con un calo del 200% nel valore restituito ai creatori di contenuti. Leggi l'articolo su ZEUS News
Podcast RSI – 23 “no” per riprendersi Internet
È passato da pochi giorni il trentaduesimo anniversario della nascita formale del Web, ossia di Internet come la conosciamo oggi. Rispetto all’idea originale, però, sono cambiate tante cose, non tutte per il meglio. Questa è la storia di come è nato il Web, di cosa è andato storto e di come rimediare, con una lista di “No” da usare come strumento correttivo per ricordare a chi progetta siti, e a noi che li usiamo, quali sono i princìpi ispiratori di un servizio straordinario come l’Internet multimediale che ci avvolge e circonda oggi, e a volte ci soffoca un po’ troppo con il suo abbraccio commerciale. [...] Oggi siamo abituati a un’Internet commerciale, ma va ricordato che inizialmente Internet era un servizio dedicato alla comunicazione tra membri di istituzioni accademiche, basato su standard aperti, pensato per abbattere le barriere e le incompatibilità fra i computer e i sistemi operativi differenti e facilitare la condivisione del sapere. Adesso, invece, le barriere vengono costruite appositamente: per esempio, invece della mail, che è aperta a tutti, non è monopolio di nessuno e funziona senza obbligare nessuno a installare un unico, specifico programma, si usano sempre di più i sistemi di messaggistica commerciali, come per esempio WhatsApp, che appartengono a una singola azienda, funzionano soltanto con l’app gestita e aggiornata da quell’azienda e sono incompatibili tra loro. Ascolta il podcast o leggi il testo sul sito di Paolo Attivissimo