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Il sessismo online e la “normalità” del dominio maschile
-------------------------------------------------------------------------------- Disegno di Giulia Crastolla -------------------------------------------------------------------------------- L’informazione sui siti online “Mia moglie” e “Phica.net” continua e permette di vedere, dietro l’attualità di eventi effettivamente sconcertanti – le foto rubate a donne senza il loro consenso e scambiate nel gruppo degli uomini attraverso i social – un fenomeno più esteso e legato solo in parte alle nuove tecnologie comunicative. L’insistenza sull’aspetto giudiziario e sull’effetto della visualizzazione online è sicuramente importante, così come l’invito che viene rivolto alle vittime perché denuncino la violenza subita. Ma c’è il rischio che venga così occultato il “sistema” che c’è dietro tutto questo, e cioè la “normalità” del dominio maschile, della cultura patriarcale che accompagna la nostra storia da sempre. Ciò che viene a mancare, se si continuano a mettere in evidenza solo questi aspetti, è un salto della coscienza politica. In altre parole, si rimanda ancora una volta la necessità di andare all’origine del rapporto tra i sessi, a quello spostamento o proiezione che l’uomo ha fatto sulla donna dell’animalità, di tutto ciò che a che fare col corpo, con l’appartenenza alla materia vivente e alla sua finitezza. Non è una novità, dal momento che ne parlano sia la cultura greco romana cristiana che il senso comune, il fatto di aver visto nella donna la sessualità, il corpo che genera e il corpo erotico, così come non dovrebbe stupire sapere che gli uomini vantano le loro conquiste femminili: “avere”, “possedere” una bella moglie. Parlare della “normalità” significa anche uscire dall’idea che il sessismo riguardi solo alcuni uomini, che sia un problema da rimandare alla patologia e alla illegalità, per cui la maggior parte dei loro simili può dire “io non sono così”. Un problema non secondario, quando si parla della relazione tra i sessi, è oggi la difficoltà degli uomini a pensarsi come “genere”, a vedere nella “virilità” un elemento identitario diventato anche per loro “destino naturale”, il marchio che assicura privilegi ma anche la mutilazione di tratti essenziali dell’umano. “Genere” sono state considerate storicamente solo le donne, anzi, la Donna, un tutto omogeneo, un ruolo, una funzione necessaria per “rendere buona la vita” all’altro sesso (Rousseau). Gli uomini, al contrario, si sono pensati come “individui”, persone prese nella loro singolarità, e come tali continuano a pensarsi, ragione per cui possono anche mettere distanza tra sé e quelli che considerano le devianze dei loro simili. Per un altro verso, si potrebbe dire che le donne rischiano a loro volta di restare legate a ruoli – madri, mogli, amanti, ecc. – che hanno dato loro un qualche potere, sostitutivo di altri da cui sono state escluse, un potere che non giova alla loro creatività e individuazione. Andare alla radice del sessismo vuole dire rendersi consapevoli che per lo sguardo maschile le donne sono ancora “essenzialmente corpi”. Quando si dice di una donna che ha subito violenza “se l’è cercata”, si va a toccare un pregiudizio di fondo della nostra cultura, e cioè l’identificazione delle donne con la sessualità. E il paradosso, come ha detto il femminismo degli anni Settanta con l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio, è che la sessualità femminile è stata cancellata e che dominante storicamente è stata solo quella maschile. Tra l’altro, come ha sottolineato Carla Lonzi, una sessualità generativa che ha procurato non poche sofferenze alle donne per gravidanze indesiderate. Dietro le infinite forme di sessismo, diventate la “normale” violenza quotidiana, interiorizzata purtroppo come tale dalle donne stesse, c’è dunque una profonda misoginia, che passa allo stesso modo attraverso i saperi, le discipline scolastiche, la cultura alta che abbiamo ereditato e che ancora trasmettiamo, e il senso comune. Oggi si parla molto più che in passato di “educazione di genere”, e questo è senza dubbio un cambiamento della coscienza storica, ma di fatto, stando alla situazione attuale della scuola, si fa molto poco per renderla operate nei processi educativi fin dalla prima infanzia. Le giovani insegnanti, per lo più precarie, sanno i rischi che corrono, da parte dell’autorità scolastica o delle famiglie, quando tentanto di portare “il corpo a scuola”, di vedere nell’alunno la persona nella sua interezza, dando ascolto alle vite e a ciò che di “impresentabile” passa ancora “sotto i banchi”. Il disagio, l’insicurezza, la fragilità e la violenza diffusa tra gli adolescenti, oltre al sessismo e alla pornografia online degli adulti, sono gli altri temi ricorrenti di una lamentazione collettiva che spinge quasi inevitabilmente, se non verso un inasprimento della carcerazione minorile, a una svolta dell’educazione in chiave patologica, con ricorso quasi esclusivo agli esperti, psicologi e sessuologi. I social hanno senza dubbio modificato l’idea, che è stata del movimento antiautoritario nella scuola e del femminismo, di portare allo scoperto la materia di esperienza, la più universale dell’umano, sepolta nel “privato”, considerata “non politica”, fuori dalla cultura e dalla storia. Lo hanno fatto purtroppo ricalcando modalità note di spettacolarizzazione e voyeurismo, enfasi narcisistica e competizione, e lasciando di nuovo in ombra le consapevolezze che sono emerse da mezzo secolo e oltre fino ad oggi. Se la scuola rimane il deserto di un’educazione capace di andare alle radici dell’umano, il luogo di quell’analfabetismo dei sentimenti che è alla radice della violenza, i social non avranno difficoltà e prendere il sopravvento. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su il manifesto del 6 settembre -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il sessismo online e la “normalità” del dominio maschile proviene da Comune-info.
Mia moglie: ritratto di fallocrazia di gruppo
Cosa succederebbe se per ipotesi, in risposta al gruppo Facebook Mia moglie, salito recentemente e tristemente alla cronaca nei giorni scorsi, venisse creato il gruppo Mio Marito, con le foto di quei consorti che avevano condiviso immagini intime, e nella maggior parte dei casi non consenzienti, delle proprie metà? Potremmo assistere al disvelamento delle grazie di questi signori, che verrebbero sottoposti al commento e al giudizio femminile, che spesso sa essere tagliente; ma non solo: finalmente si conoscerebbero i loro volti, tra i quali magari riconosceremmo quelli del nostro vicino di casa, di un nostro amico o peggio ancora, di mariti e compagni. Ma non sarebbe questa la giusta via da seguire per punire quanti hanno pubblicato foto di donne invitando a commentarne il corpo e l’appetibilità sessuale, in una sorta di rituale patriarcale, misogino e fallocentrico. Ci penserà la legge, almeno si spera. Se non si tratta di odio e violenza di genere, così come affermano alcuni signori, direttamente o indirettamente coinvolti nella questione, cercando di minimizzare la vicenda riconducendola a una goliardata, allora bisogna chiedersi a cosa stiamo assistendo. E’ facile adottare un atteggiamento di disimpegno morale, riducendo tutto allo scherzo: qui si tratta di altro, perché le mogli e le compagne in questione sono state oggettificate, mostrate come fossero proprietà personale, senza nessuno scrupolo, senza nessun rispetto non solo per la persona ma anche per la legge, accumulando reati che vanno dalla violazione dalla privacy alla violenza privata e oltre. Alcuni si sono difesi attaccando e dando la colpa alle ficcanaso e alle solite femministe represse, a quelle che parlano sempre di parità e di patriarcato, a quelle che non si fanno gli affari loro perché, in fin dei conti, gli scambi di fotografie esistevano già ai tempi delle caselle postali. Ma quello che questi individui non comprendono è che oggi la comunicazione è diventata capillare e globalizzata: qualsiasi parola, immagine, suono viene amplificato e rimbalzato dalla rete. Così, anche se esiste il diritto all’oblio, che si può esercitare per eliminare dati sensibili finiti sul web, può succedere che alcune tracce permangano. Anche le loro, compresi volti, nomi e cognomi. Nella società dell’interconnessione nulla si cancella mai definitivamente. Gruppi simili esistono, soprattutto in luoghi virtuali pressoché quasi inesplorabili come Telegram. Scoprirne uno significa scorgere la punta di un iceberg enorme e ramificato. L’unica difesa resta la denuncia . Non bisogna restare in silenzio, bensì pensare che ogni segnalazione è un atto di ribellione, di interruzione della catena di odio e violenza che inizia dal web e al web ritorna, in un eterno girone infernale. E stavolta, speriamo che siano gli uomini, a protestare. Stefania Catallo
La cura delle informazioni
Lo scorso 16 maggio a Bologna si è tenuta una discussione, in un evento di preparazione alla Bologna Anarchist Book Fair che si terrà il prossimo settembre, su alcuni progetti web nati e sviluppatisi negli ambienti dell’antagonismo e dei centri sociali. L’evento è stato descritto come Archivi digitali dei movimenti sociali: memoria collettiva e riappropriazione tecnologica. Alla discussione hanno partecipato Grafton9, il non più attivo NGVision, ed ECN Antifa. Tre progetti apertamente diversi nella forma, nei contenuti trattati e nell’organizzazione. Sintetizzando i tre progetti hanno in comune il desiderio di curare le informazioni: un processo di cura volto alla riorganizzazione, alla semplificazione, ed infine alla condivisione. Oggi, nell’uso quotidiano del web, i movimenti dimostrano una scarsa capacità di cura, che si riflette in una frammentazione e dispersione dei contenuti, spesso con limiti di accesso, e quindi con una conseguente difficoltà nella conservazione per il futuro. Questo bisogno di riprendersi cura del web oggi viene espresso da diversi fronti, spesso collocato sotto la definizione di “giardino digitale” Leggi l'articolo completo in cui trovi anche una serie di link sull'argomento.
Cloudflare: l'IA sta distruggendo il web
Il proliferare delle intelligenze artificiale non farebbe altro che danneggiare i creatori di contenuti e i siti indipendenti. Matthew Prince, CEO di Cloudflare (una delle CDN più grandi al mondo), ha lanciato un allarme sul futuro del web durante un'intervista al Council on Foreign Relations: l'intelligenza artificiale starebbe distruggendo il modello di business che ha sostenuto il web per oltre 15 anni. «L'AI cambierà radicalmente il modello di business del web» ha affermato. «Negli ultimi 15 anni, tutto è stato guidato dalla ricerca online» ma ora le cose stanno cambiando: se un tempo la ricerca su Google portava traffico ai siti tramite i famosi «10 link blu», oggi quella stessa ricerca è fatta per tenere gli utenti sulla piattaforma, fornendo risposte e contenuti tramite la IA. Dieci anni fa, per ogni due pagine indicizzate, Google rimandava un visitatore al sito; ora, secondo Prince, servono sei pagine per un solo visitatore, con un calo del 200% nel valore restituito ai creatori di contenuti. Leggi l'articolo su ZEUS News
Podcast RSI – 23 “no” per riprendersi Internet
È passato da pochi giorni il trentaduesimo anniversario della nascita formale del Web, ossia di Internet come la conosciamo oggi. Rispetto all’idea originale, però, sono cambiate tante cose, non tutte per il meglio. Questa è la storia di come è nato il Web, di cosa è andato storto e di come rimediare, con una lista di “No” da usare come strumento correttivo per ricordare a chi progetta siti, e a noi che li usiamo, quali sono i princìpi ispiratori di un servizio straordinario come l’Internet multimediale che ci avvolge e circonda oggi, e a volte ci soffoca un po’ troppo con il suo abbraccio commerciale. [...] Oggi siamo abituati a un’Internet commerciale, ma va ricordato che inizialmente Internet era un servizio dedicato alla comunicazione tra membri di istituzioni accademiche, basato su standard aperti, pensato per abbattere le barriere e le incompatibilità fra i computer e i sistemi operativi differenti e facilitare la condivisione del sapere. Adesso, invece, le barriere vengono costruite appositamente: per esempio, invece della mail, che è aperta a tutti, non è monopolio di nessuno e funziona senza obbligare nessuno a installare un unico, specifico programma, si usano sempre di più i sistemi di messaggistica commerciali, come per esempio WhatsApp, che appartengono a una singola azienda, funzionano soltanto con l’app gestita e aggiornata da quell’azienda e sono incompatibili tra loro. Ascolta il podcast o leggi il testo sul sito di Paolo Attivissimo