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Paolo Virno. Il linguaggio della moltitudine – di Nadia Cavalera
C’è un punto, in ogni pensiero che conti davvero, in cui la vita e la teoria smettono di essere due linee parallele e si curvano l’una dentro l’altra. Paolo Virno ha vissuto esattamente in quella piega. Filosofo napoletano, militante del ’68 e del ’77, detenuto politico, docente e scrittore ironico, Virno non ha mai [...]
Il Fatto Quotidiano: “Non coerente con la formazione professionale”: il ministero boicotta il convegno anti riarmo dei prof. La protesta: “Limitata la nostra libertà”
DI ALEX CORLAZZOLI SU IL FATTO QUOTIDIANO DEL 2 NOVEMBRE 2025 Ospitiamo sul nostro sito l’articolo scritto da Alex Corlazzoli pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 2 novembre 2025 in cui viene commentato l’annullamento del corso di formazione e aggiornamento “La scuola non si arruola” organizzato dal CESTES in collaborazione con l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. «L’evento online era previsto per il 4 novembre: era stato organizzato dal Cestes (Centro studi trasformazioni economiche sociali, accreditato da viale Trastevere) in collaborazione con l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. Più di mille insegnanti si erano già iscritti…continua a leggere su www.ilfattoquotidiano.it.
Arte contro le pene capitali – Nel giorno dei morti, l’arte per la vita.
Quando la creatività diventa impegno sociale.   Torna a Napoli Arte contro le pene capitali . Giunta alla sua quarta edizione, la manifestazione è in programma sabato 2 novembre negli spazi dell’ex OPG “Je so’ pazzo” di Materdei, dalle 15:30 fino a notte inoltrata. L’iniziativa, promossa e portata avanti dall’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario insieme alla cooperativa editoriale e di ricerca sociale Sensibili alle Foglie , curata da Nicola Valentino e attiva nelle indagini sul mondo delle istituzioni totali come carceri e ospedali psichiatrici giudiziari, è organizzata in collaborazione con Napoli Monitor , testata web che si occupa di giustizia, partecipazione e povertà. L’evento intreccia arte, memoria, giustizia e diritti umani, trasformando un luogo simbolico della reclusione in un laboratorio di riflessione collettiva. È un appuntamento artistico, ma anche politico e partecipazione, per ripensare la giustizia e immaginare alternative alla logica del castigo. C’è il desiderio di riflettere, attraverso l’arte e la cultura, sul significato della pena di morte e dell’ergastolo come strumenti di punizione sociale. In Italia la pena di morte è formalmente abolita, ma l’ergastolo non rappresenta un’alternativa: esso stesso costituisce una pena “fino alla morte”. Il luogo che ospita l’evento, l’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario, si trasforma da spazio di sofferenza a centro pulsante di vita, solidarietà e cultura, riconosciuto come simbolo cittadino di resistenza civile e di costruzione dal basso di politiche alternative. Ambulatori popolari, doposcuola, scuola di italiano, attività artistiche e sportive formano qui una rete di solidarietà concreta, un argine di resistenza e di speranza. È l’esempio di come la società civile possa generare soluzioni alternative. In questo luogo carico di storia e di significati, attraverso l’arte, si apre uno spazio per riflettere, agire e sentire. Non è solo un momento culturale, ma un richiamo concreto all’impegno civile per la giustizia, la dignità e l’umanità. L’arte, in tutte le sue espressioni, diventa veicolo per dare voce a chi è escluso e per stimolare una riflessione collettiva su carcere e diritti civili. UN’ARTE CHE DENUNCIA LA “MORTE SOCIALE” Il filo conduttore di questa edizione è la condanna e l’abolizione della pena di morte e dell’ergastolo, considerato come pena “fino alla morte”. L’approccio multidisciplinare dell’evento pone l’accento sulla sofferenza individuale, sul silenzio collettivo e sulla “morte sociale” a cui l’ergastolo condanna: una morte lenta e silenziosa che priva l’individuo della propria umanità. Attraverso performance, teatro, musica, poesia e arti visive si vuole dare voce a ciò che spesso resta nell’ombra del sistema penale: sofferenza, isolamento e marginalità. L’obiettivo è rendere visibile ciò che il carcere tende a nascondere, restituendo dignità e parola a chi vive la condanna. ERGASTOLO BIANCO E GIUSTIZIA COME CURA L’edizione 2025 apre inoltre una riflessione sul cosiddetto “ergastolo bianco”, espressione che indica la trasformazione della diagnosi psichiatrica in una pena senza fine, una condanna mascherata da cura. È un tema delicato che interroga il rapporto tra malattia mentale, istituzioni e libertà individuale, e che l’arte affronta come strumento di consapevolezza e critica sociale. LA SCELTA SIMBOLICA DEL 2 NOVEMBRE La data del 2 novembre, giorno della commemorazione dei defunti, non è casuale: assume un valore fortemente simbolico. Nel giorno dedicato alla memoria dei morti, l’iniziativa denuncia la pena perpetua come una forma di lutto sociale, riaffermando il diritto alla vita, alla dignità e alla possibilità di rinascita. PROGRAMMA E PARTECIPAZIONI Oltre cinquanta artisti saranno coinvolti tra performance dal vivo e opere in esposizione: letture, mostre, momenti di musica e danza, performance teatrali, tutti incentrati sul tema della pena, della detenzione e della vita condannata. L’apertura è prevista alle ore 15:30, quando si aprirà il cancello dell’ex OPG di Materdei, oggi centro di cultura, promozione sociale e accoglienza. Comincerà così un cammino fisico e simbolico che si snoderà tra le stanze dell’ex manicomio, le celle ei cortili. Dalle 16 alle 19:30 il pubblico potrà partecipare a un percorso guidato all’interno dell’ex area detentiva, attraversando spazi angusti che evocano in modo potente la condizione di reclusione e la “morte sociale” cui si ispira la manifestazione. Nelle vendite saranno esposte opere pittoriche e sculture realizzate da persone detenute all’ergastolo, insieme a lavori di altri artisti sul tema della pena di morte e della detenzione. Nel chiostro si terranno performance artistiche, musicali, reading, proiezioni e installazioni. Numerosi contributi resteranno visitabili per tutta la serata. Alle 17:00 due momenti di performance teatrale sui temi della pena e della detenzione: Gli Arrevuot’ — Chi Rom e chi no , gruppo misto di artisti di strada, con Muort che parla , e il Teatro dell’Oppresso con lo spettacolo Le voci di fuori . Alle 18:30 Portateci nel cuore , letture di lettere di condannate a morte nella Resistenza europea, a cura della Kalamos APS. Alle 19:00, con un pensiero al genocidio e alle sofferenze della Palestina, il Teatro Popolare dell’ex OPG rappresenterà Stanotte morirò a Gaza di Andrea Carnovale, un potente urlo contro la morte. Dalle 19:30 fino a mezzanotte si animerà l’area del secondo chiostro con Parole capitali : spazi di lettura, musica e poesie, con la testimonianza di Giovanni Farina, interno dell’OPG quando era attivo, e di Michele Fragna. Alle 20:00 è previsto un momento gastronomico con la cena sociale organizzata dalla Casa dei Popoli di Marano. Il ricavato sarà destinato a sostenere le attività sociali quotidianamente svolte nel centro. Dopo la cena, musica struggente con la fisarmonica di Dolores Melodia — canzoni e musiche dal carcere — e l’esibizione del gruppo popolare Terra e Lavoro . A chiudere il programma, Nicola Valentino proporrà Lament di MacPherson , melodia composta da un condannato a morte alla fine del XVIII secolo. Per tutta la durata dell’evento saranno presenti i banchetti informativi di Amnesty International, Antigone Campania, Associazione Yairaiha Onlus, Centro Culturale Handala Ali, Sanabel, Sensibili alle Foglie, U Buntu e A Capo. MEMORIA E RESISTENZA Arte contro le pene capitali vuole essere memoria e resistenza: contribuisce a mantenere vivo il dibattito pubblico su temi spesso rimossi come la pena, la morte legale e la dignità umana. È un modello virtuoso di come cultura, memoria e impegno sociale possono intrecciarsi, offrendo al pubblico uno spazio di riflessione sul significato della libertà e della giustizia. Rappresenta un’occasione per vivere l’arte non come semplice espressione estetica, ma come strumento di partecipazione civile. Restano interrogativi aperti che alimentano il confronto: In che misura l’arte può davvero modificare le percezioni sociali sulla pena di morte, sull’ergastolo e sul carcere? Quali risultati concreti si possono auspicare? Qual è l’impatto che rimarrà dopo l’evento? Come affrontare la continuità tra pena di morte ed ergastolo? Il dibattito è spesso trascurato. L’Italia ha formalmente abolito la pena di morte, ma mantenendo l’ergastolo lo trasforma di fatto in una “morte a vita”. Sono domande che restano aperte, ma l’evento ha già dimostrato in passato come l’arte possa diventare strumento di denuncia, empatia e riflessione collettiva. Attraverso linguaggi come pittura, fotografia, teatro, poesia e musica, artisti e cittadini possono avviare un dialogo profondo sul valore della vita e sulla necessità di difendere i diritti in ogni contesto. Se nel mondo, purtroppo, continua a esistere la pena di morte, iniziative come Arte contro le pene capitali ricordano che la cultura è un potente veicolo di cambiamento, capace di trasformare la sensibilità individuale in coscienza civile e collettiva. Un appello a non restare indifferenti. Gina Esposito
Aprire sentieri con la poesia, anche quando tutto sembra perduto
-------------------------------------------------------------------------------- Perugia-Assisi 2025. Foto di Carovana dei pacifici -------------------------------------------------------------------------------- Ci sono poeti che camminano nello spazio delle parole come se aprissero sentieri dentro la vita. Così John Berger parla di Nazim Hikmet: le sue poesie, dice, contenevano più spazio di tutta la poesia che aveva letto fino ad allora. Non lo descrivevano: lo attraversavano, scavalcavano le montagne. Lo spazio, in Hikmet, non è un luogo da abitare ma da varcare. La poesia non osserva da lontano: agisce, si muove, accompagna la vita. Anche quando parla di lutto o di solitudine, non resta immobile nel dolore: i sentimenti seguono l’azione invece di prenderne il posto. È una poesia che fa, che apre, che resiste. Eppure Hikmet scrive in prigione. Dieci anni nel carcere che i turchi chiamavano “l’aeroplano di pietra” per via della sua forma irregolare. Un luogo sospeso tra Europa e Asia, pensato per seppellire le persone nella dimenticanza. Ma la sua poesia non accetta di essere sepolta: supera continuamente i limiti della reclusione. Non sogna la fuga, non evade, colloca la prigione come un punto minuscolo sulla mappa del mondo e da lì traccia cerchi sempre più ampi, che abbracciano la terra, gli uomini, l’amore, la speranza. Scrivere, per lui, è un modo di restare vivi. La libertà non è un luogo, ma un respiro: un gesto che si rinnova ogni volta che la parola apre lo spazio del possibile. In questo, Hikmet incontra Mahmoud Darwish, poeta palestinese dell’esilio. Anche lui scrive da una condizione di chiusura, eppure la sua voce non si lascia imprigionare. “Sopravviveremo. E la bellezza ci salverà”, dice in un verso che sembra una risposta fraterna a Hikmet. Come lui, Darwish conosce l’ingiustizia e la perdita, ma continua a credere che la poesia sia un atto di resistenza e di fiducia, il modo umano di tenere aperto il mondo. John Berger, che di Hikmet ha scritto parole luminose, riconosce in questa tensione una verità profonda: la poesia è azione. È un modo di attraversare la realtà, non di fuggirla. È un camminare nella libertà anche quando il corpo è chiuso, anche quando tutto sembra perduto. E così arriviamo ai versi più noti di Hikmet, che sono forse la sua dichiarazione più alta di speranza: Il più bello dei mari è quello che non navigammo. Il più bello dei nostri figli non è ancora cresciuto. I più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti. E quello che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto. Sono parole che guardano avanti, non indietro. Non celebrano ciò che è stato, ma ciò che ancora può essere. Dentro di esse la speranza non è illusione, ma promessa: la fiducia che il futuro, nonostante tutto, esiste. Nessuna prigione, nessun confine, nessuna occupazione può impedire questa libertà interiore. La poesia — per Hikmet, per Darwish, per Berger — è la forma più umana del camminare: continua anche quando il mondo si chiude, e traccia con il respiro una geografia invisibile di resistenza e amore. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Aprire sentieri con la poesia, anche quando tutto sembra perduto proviene da Comune-info.
È sempre più difficile criticare e criticarci
-------------------------------------------------------------------------------- Bologna, 3 ottobre -------------------------------------------------------------------------------- Libertà e democrazia è poter dire a Michele Santoro, agli organizzatori ed ai partecipanti del corteo che chi esalta, con striscioni e manifestazioni il 7 ottobre, sbaglia e insiste a compiere lo stesso errore che ha portato Hamas a compiere quell’assalto e a rendere legittimo – agli occhi di Israele e di buona parte del mondo – quell’orrore che è avvenuto dopo. Se resistenza è contro-violenza della vittima, il cerchio si chiude sempre e soltanto nella guerra. Libertà e democrazia è poter dire a Liliana Segre che sbaglia quando non ammette il genocidio e prosegue a dare più valore a quel che accade o è accaduto agli ebrei piuttosto che ad altri o continua a minimizzare quel che il governo israeliano sta perpetrando da sempre contro tutti i popoli arabi, proseguendo sulla strada già tracciata dalla Bibbia e dal sionismo, che è sempre stato un movimento di colonizzazione forzata di territori abitati da altri. Libertà e democrazia è poter dire a Francesca Albanese che sbaglia quando non accetta le parole del sindaco di Reggio Emilia, che mette sullo stesso piano il conseguimento del cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi. Il valore della vita e della morte hanno lo stesso peso per ciascun essere umano, che sia amico o nemico, che si sia in uno o in mille. Essere politicamente non equidistanti non può vuol dire essere umanamente discriminanti, e fare graduatorie tra chi vale di più o di meno (a meno che non si voglia fare come il governo Netanyahu o gli israeliani che manifestano solo per i loro familiari). Libertà e democrazia è poter dire ai coraggiosi attivisti delle Flotille che sarebbe stato più coerente ed efficace stare in cella qualche giorno di più, farsi processare, proseguire a dar disturbo, e non accettare di farsi espellere così rapidamente. Visto quel che sono stati capaci di fare e di rischiare (e tanto di cappello a loro, e grazie di cuore), avrei provato ad insistere ancora. Oggi invece è sempre più difficile criticare e criticarci; proseguiamo a confondere rifiuto e disconferma, ammonizione e squalifica, riconciliazione e buonismo. Ognuno deve stare rintanato nel suo schieramento, come dei tifosi di calcio che vedono solo i rigori a favore e non quelli per gli avversari. Sono un tifoso di calcio, ma solo allo stadio. E se la mia squadra gioca male e merita di perdere, di solito, lo riconosco. Libertà e democrazia vivono soprattutto di questo e se questo non c’è più libertà e democrazia restano solo parole vuote e agonizzanti. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > L’autocritica zapatista -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo È sempre più difficile criticare e criticarci proviene da Comune-info.
“Blocchiamo tutto”: era la parola d’ordine di tutte e tutti – Paolo Punx
Blocchiamo tutto è stata la colonna sonora che ha attraversato tutte le iniziative dello sciopero generalizzato del 22 settembre. Blocchiamo tutto contro il silenzio complice del genocidio in palestina. Blocchiamo tutto per contrastare dal basso la vendita d’armi e gli scambi commerciali e finanziari che alimentano il genocidio. Blocchiamo tutto perché siamo l’equipaggio di [...]
Aboliamo la depredazione
LANCIARE ANATEMI SU UNA CIVILTÀ ABIETTA NON LE IMPEDISCE DI PERPETUARSI MENTRE NOI PERMETTIAMO ALLE LEGGI DELLA RAPACITÀ FINANZIARIA E ALL’AGGRESSIVITÀ PREDATORIA DI ORCHESTRARE IL NOSTRO SNATURAMENTO. E ALLORA? QUELLA DI RAOUL VANEIGEM È UNA CHIAMATA ALLA CREAZIONE DI COLLETTIVITÀ IN LOTTA PER UNA VITA UMANA LIBERA E AUTENTICA. UNA CREAZIONE CON LA QUALE SMETTERE DI PRENDERE IN CONSIDERAZIONE QUALSIASI FORMA DI POTERE, IL MONDO NON SI CAMBIA IN PROFONDITÀ DALL’ALTO; RIPUDIARE LA GUERRA CONTRO LA PALESTINA IN QUANTO GUERRA CONTRO I POPOLI DI TUTTE LE REGIONI DELLA TERRA; DARE SPAZIO ALL’AIUTO RECIPROCO; RISCOPRIRE LA FACOLTÀ UNICA CHE LEGA TUTTE LE DONNE E TUTTI GLI UOMINI, SAPER CREARE E RICREARE IL MONDO CHE CI CIRCONDA. “È ARRIVATO IL MOMENTO DI RIPRENDERE IL CORSO DEL NOSTRO DESTINO. È ARRIVATO IL MOMENTO DI CAMBIARE IL MONDO E DI DIVENTARE QUELLO CHE VOGLIAMO ESSERE: NON I PROPRIETARI DI UN UNIVERSO STERILE, MA GLI ABITANTI DI UNA TERRA IN CUI COLTIVARE L’ABBONDANZA PERMETTEREBBE DI GODERE IN LIBERTÀ…” Traduzione dell’articolo in spagnolo e in greco Campagna Acqua per Gaza di Un ponte per -------------------------------------------------------------------------------- Abbiamo fatto dell’Essere umano la vergogna dell’umanità. Dall’epoca più lontana della Storia fino ai nostri giorni, nessuna società ha mai raggiunto il livello di indegnità e abiezione dimostrato dalla civiltà agro-mercantile. Quella che da diecimila anni si considera la Civiltà per eccellenza. È innegabile che abbiamo ereditato sia un istinto di depredazione sia uno di aiuto reciproco. Costituiscono entrambi la nostra parte di animalità residua. Però, mentre la coscienza di una solidarietà unificatrice favoriva la nostra progressiva umanizzazione, l’aggressività predatoria sviluppava dentro di noi una tendenza all’autodistruzione. È tanto difficile da capire? L’apparizione di un’economia che sacrifica la vita al lavoro, al Potere e al Guadagno segnò una rottura con l’egualitarismo e l’evoluzione simbiotica delle civiltà pre-agricole. L’agricoltura e l’allevamento hanno privilegiato l’istinto predatorio a spese di una pulsione di vita che non ha mai rinunciato a ristabilire la sua usurpata sovranità. L’appropriazione, la concorrenza e la rivalità si divertono a esaltare la “bestia civilizzata”, la cui sublimazione spirituale serve a legittimare le loro imprese. Nella sua forma emblematica, il leone suggerisce, in questo modo, che è naturale dargli la caccia e opprimere le bestie. In questa maniera, ciò che in realtà si impone è lo snaturamento dell’essere umano. Cercheremmo invano fra i carnivori più spietati una crudeltà tanto determinata e una ferocia così ingegnosa come quelle che esercitano la Giustizia, la Religione, l’Ideologia, il Dominio, lo Stato e la Burocrazia. Bisogna vederlo il ghigno dei mercanti di armi quando i loro prodotti di marca fanno a pezzi donne, bambini, uomini, bestie, boschi e paesaggi. “À la guerre comme à la guerre”, non si dice così? La Germania ha il cinismo del fatto compiuto. Non ci nasconde niente di quei ristoranti senza cuore1dove dame-e-cavalieri si riempono la pancia mentre le loro scarpe di lusso grondano sangue ed escrementi. Perché preoccuparsi quando un’opinione pubblica già inquadrata si schiera a fianco di uno o un altro belligerante, come se si trattasse di un incontro di calcio dove si affrontano Russia e Ucraina, Israele e Palestina? Le scommesse sono aperte e gli applausi degli spettatori coprono le grida delle moltitudini massacrate. Accontentarci di lanciare anatemi su una civiltà abietta non le impedirà di perpetuarsi mentre noi permettiamo alle leggi della rapacità finanziaria di orchestrare il nostro snaturamento, scandire le nostre apatie e mettere in evidenza le nostre frustrazioni scatenando esplosioni di un odio cieco e assassino. Aggiungere il rimprovero all’errore? A che scopo? Servirebbe solo a rafforzare un sentimento di colpa personale che si esorcizza accusando gli altri. Il riflesso predatorio ne trarrebbe, di nuovo, un vantaggio. Le esortazioni dirette alla maggioranza cadono sotto i colpi di un doppio discredito: da una parte, le consegne e le esortazioni militanti mettono in moto il vecchio motore del Potere, in cui il radicalismo ostacola rapidamente la radicalità dell’esperienza vissuta; dall’altra, ciò che si decide di diffondere sul podio dei concetti generali si diluisce rapidamente nell’intruglio delle idee separate dalla vita, a meno che una lettrice o un lettore vi scopra l’opportunità di intavolare un dialogo intimo con se stessa o se stesso. In altre parole, a meno che entrambi bevano alla fonte della coscienza umana che sta dentro di loro. Per questo preferisco parlare direttamente all’individuo autonomo e non alle masse. Perché quello sa molto bene che la mia unica intenzione è di affidargli la mia maniera di vedere le cose, in una discussione fraterna in cui non è necessario conoscersi per riconoscersi. Non è l’aiuto reciproco la migliore garanzia del risveglio delle coscienze? Non è un caso che la solidarietà rinasca spontaneamente man mano che la depredazione smette di nascondere come divori se stessa e tragga guadagno dalla sua autodistruzione. La rovina dell’avere diffonde una stanchezza peggiore di quella morte il cui spettro ci minaccia senza soste. E allora il soffio della vita ripristina l’essere. Il soggetto si emancipa dall’oggetto, si libera della cosa a cui lo riduceva la mercificazione. Non è per caso questo che è implicito nell’adagio “l’uomo e la donna non sono merci?” Che gli uomini e le donne rivendichino, rispettivamente, la loro parte di femminilità e di mascolinità non cambia per niente la lotta comune che portano al sistema che li riduce in questo stato. Basterà risparmiare ai bambini i danni dell’educazione predatoria perché la loro spontanea radicalità si incarichi di risvegliarli alla loro destinée2 di esseri umani. Non c’è bisogno di profeti per rendersi conto che quel che si avvicina sarà, o il trionfo del bruto a cui la clava serve da intelligenza, o l’irruzione di una vita che ritrova la coscienza della sovranità che la sua umanità ha diritto di esercitare. L’utilità di fascismo e antifascimo consiste nel nascondere la vera lotta finale, quella, al tempo stesso esistenziale e sociale, che implica lo sradicamento della depredazione, la sparizione del Potere gerarchico e la fine di chi latra ordini. Il cinismo e l’assurdità lucrativa delle guerre, istigate dalle mafie statali e globali, hanno finito per stancare anche il più ottuso dei loro tifosi. La successione di contrapposizioni praticamente intercambiabili spinge l’opinione “pubblica” ad abbandonare a poco a poco la scacchiera dei maneggi geopolitici. È qui e ora che l’apparizione di movimenti come il maggio 1968, gli zapatisti, i gilet gialli e i combattenti e le combattenti del Rojava apre alla vita e alla coscienza un cammino che il deragliamento storico della Civilità agro-mercantile aveva ostruito e condotto verso la morte. Non sperare in niente non significa disperare di tutto. Il ritorno alla vita è una reazione violenta, naturale e spontanea. Contiene in sé la capacità di fermare la desertificazione della Terra da cui il profitto trae le sue ultime risorse. Il ritorno alla vita, alla sua autenticità e alla sua coscienza è la nostra vera forma di autodifesa immunitaria. Visto che lo snaturamento ostacola questo processo in nome del Guadagno, perché non contare sulla natura che esiste in noi e nel nostro ambiente per porre fine a una civiltà odiosa? Come? Non fatela a me la domanda, fatevela a voi stessi, che in ogni momento navigate fra il letargo e la rivolta! I segnali di inquietudine e di giubilo si mescolano e moltiplicano dappertutto. Ma non ingannatevi! Il rifiuto rabbioso di una guerra diretta specificamente contro una determinata nazione – in questo caso la Palestina – va molto al di là di un semplice ripudio. Esprime ogni volta con maggior chiarezza l’esecrazione verso una guerra rivolta non solo contro la popolazione di una regione, ma contro il popolo di tutte le regioni del pianeta Terra. Popolo che ha capito che per l’avidità totalitaria vivere è un crimine. È per questo che le nuove insurrezioni globali fanno parte dell’autodifesa del vivente. In esse si incarnano tanto la volontà di abolire un universo di psicopatici che guadagnano dalla morte, quanto la messa in opera di una nuova alleanza con madre natura. È in questo che la guerra è stata di troppo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non per le cricche delle armi, statali o soprastatali che siano, non per i produttori di narco-neurolettici, ma per chiunque non sia disposto a morire prematuramente unendosi al partito della servitù volontaria e del “viva la morte!”3 Il problema discende soprattutto dal dubbio, dalla disperazione, dalle disillusioni a cui vanno incontro, di generazione in generazione, i sostenitori della vita. Non è forse un’aberrazione aspettarsi qualcosa dalle istanze governative che decidono a nome nostro e ci tormentano con i loro decreti, giocando a quale di essi è più ridicolmente ingannevole del precedente? In mezzo alla desolazione della nostra epoca, abbiamo almeno il piacere di veder marcire davanti ai nostri occhi gli Dei, quegli impostori che da diecimila anni hanno usurpato quella facoltà di creare e crearsi che la vita, nella sua folle fecondità, aveva concepito proprio per la specie umana. È arrivato il momento di riprendere il corso del nostro destino. È arrivato il momento di cambiare il mondo e di diventare quello che vogliamo essere: non i proprietari di un universo sterile, ma gli abitanti di una Terra in cui coltivare l’abbondanza permetterebbe di godere in libertà. Basta con questo mondo alla rovescia dove il guadagno si impoverisce impoverendo le sue risorse! Che la disparizione delle energie nocive decontamini l’acqua, l’aria, il suolo e la terra, in modo che il nostro ingegno creatore cancelli persino il ricordo di una sfortunata deviazione della nostra evoluzione! Nell’intensità di un desiderio il presente si risveglia in presenza di una vita che non si preoccupa né di essere misurata né di essere programmata. L’allegria di vivere ci inizia all’arte dell’armonia, poiché porta con sé la facoltà specificamente umana di creare e crearsi. La proprietà terriera e l’allevamento avevano introdotto nei costumi della gente un gregarismo grazie al quale l’individuo vedeva la sua intelligenza abbassata a quella del bestiame che doveva nutrire col suo lavoro. Quel che oggi si profila è una rinascita dell’individuo autonomo che si libera dell’individualismo e della sua coscienza alienata. Ci troviamo in un punto di inflessione della Storia, in cui l’elaborazione di uno stile di vita sostituirà una sopravvivenza condannata al lavoro, un’esistenza dedicata a un confort frutto di cure palliative. La presa di coscienza che emana dalle nostre pulsioni vitali mette in evidenza un conflitto incessante tra una prospettiva di vita e una prospettiva di morte, tra l’attrazione dei nostri desideri, illuminati dalla nostra intelligenza sensibile, e il controllo esercitato contro di lei dll’intelligenza intellettuale. Questo perché il blocco delle nostre emozioni da parte di ciò che Wilhelm Reich chiama corazza caratteriologica obbedisce ai comandi dell’efficienza meccanica a cui è soggetto il corpo durante il lavoro. Pertanto, se il piacere che viene fuori dalla gratuità della vita non trova posto nell’avidità totalitaria, è allora evidente che restaurare la gioia di vivere, sviluppare la combattività festiva, rafforzare l’innocenza del vivente, che ignora tanto i padroni quanto gli schiavi, sono armi che per loro natura possono precipitare la rovina del Guadagno. Stiamo nel vortice di un combattimento appassionante. Segnala la rinascita della nostra coscienza umana ed esprime il risorgere di una dignità che è sempre stata nel cuore dei nostri tentativi di liberazione, specialmente nel progetto proletario di una società senza classi. Abbiamo visto come il proletariato sia stato spogliato del suo progetto da quegli stessi che si proclamavano suoi difensori. Sarebbe meglio prendere in considerazione fin dall’inizio lo sradicamento di ogni forma di potere, che sia quella del sindaco, del funzionario dello Stato o del militante funzionario dell’ideologia e della burocrazia contestataria. Fra quelli che si autoproclamano rappresentanti del popolo è facile riconoscere i manipolatori che ambiscono sostituire la burocrazia dello Stato con la loro. Non è forse una decisione salutare desiderare tutto senza aspettarsi niente? Qui mi riferisco all’affidarci alle nostre pulsioni vitali come se fossero non una fatalità ma una presenza creatrice che abbiamo la libertà di sperimentare impedendo che quelle si blocchino, così da evitar loro un’inversione mortale che generi piaghe emozionali. Abbiamo sottostimato l’importanza di raffinare la collera per evitare la trappola dell’urgenza, per non lasciarci trascinare sul terreno del nemico, per non soccombere alla militarizzazione della militanza. Però, soprattutto, la distanza che implica il raffinamento delle emozioni si configura come un luogo propizio per la maturazione della creatività. Favorisce la messa in moto di una guerriglia che evita di ricorrere ad altre armi che non siano quelle che non uccidono e sono inesauribili. Con la prospettiva dei secoli si percepirà come il risveglio della coscienza abbia rianimato la lotta, come il rinnovamento dell’aiuto reciproco liberi poco a poco dalle nebbie della confusione. Alle generazioni future risulterà inconcepibile che noi si sia tardato tanto a renderci conto che la vita aveva dotato l’uomo e la donna di una facoltà eccezionale, senza la quale non avrebbero superato lo stadio dell’animalità. Nella sua cecità pratica, ci ha offerto il privilegio di creare e ricreare il mondo che ci circonda. Le comunità pre-agricole si sono evolute in simbiosi con l’ambiente da cui traevano il loro sostentamento. L’apparizione della Civiltà mercantile e delle sue Città-Stato segnò una rottura con la natura che da soggetto vivo passò a convertirsi in oggetto di sfruttamento. Si utilizzò un sistema di governo autoritario per occultare l’aiuto reciproco e creativo che aveva guidato, “da Lucy fino a Lascaux”, un’evoluzione che oggi gli adulatori della civiltà mercantile sono molto restii a scoprire. Prevalse la nozione di Destino. Diffuse uno spirito di sottomissione, inculcò un’ontologia della maledizione, estese il mito di una Caduta irrimediabile a cui dobbiamo rassegnarci, così come obbediamo all’arbitrarietà di un padrone divinizzato. Ciò che rinasce ora in quelli che ancora aspirano a vivere è la sensazione di essere stati ingannati. Il collasso del patriarcato, man mano che finisce di seppellire gli Dei nelle latrine del passato, ci insegna a scoprire la differenza fondamentale fra Destino e destinée. Il disprezzo della vita, programmato dalla civiltà mercantile, ha nascosto sotto il termine Destino, il principio attivo che io chiamo destinée, che non è altro che la capacità di crearsi ricreando il mondo. Il Destino appartiene alla Provvidenza, non si discute e invoca quella Fatalità che aggiunge al servilismo un apprezzabile confort. Il Destino si soffre, la destinée si costruisce. In questo non c’è nulla di metafisico. L’atroce barbarie della nostra storia non è mai riuscita a soffocare la lotta viscerale che mostra, di generazione in generazione, una volontà di emancipazione intemporale che viene, nello stesso tempo, modellata dai flussi economici, politici, psicologici e sociali. Destino e destinée pongono un problema perché sono diventati sinonimi. Così suggerisco di mantenere le radici francesi di destinée per maggior chiarezza. La radicalità delle lotte per la vita esige che la destinée umana rimpiazzi il Destino, il Caso, la Provvidenza. Rifiorisce nel mezzo di una no man’s land4 dove una civiltà incontinente si svuota della sua sostanza esistenziale, mentre una nuova civiltà lotta con i dolori del parto. Tra i balbettìi dell’autonomia, la potenza creatrice della donna e dell’uomo – per quanto incerta sia – rivela di colpo che siamo capaci di crescere senza padroni, guru e tutele. Se abbiamo avuto l’opportunità di comprendere che niente attraeva la disgrazia con più certezza dell’abitudine di esser contenti in sua compagnia, allora dobbiamo essere d’accordo sul fatto che, al contrario, il piacere della gioia di vivere risulta ugualmente contagioso e lo fa in una maniera più gradevole. L’indistruttibile determinazione a coltivare nello stesso tempo la nostra vita e quel giardino che è la nostra madre terra offre un aiuto infallibile contro la paura, il senso di colpa, il sacrificio, il puritanesimo, il lavoro, il potere e il denaro. Alimenta la lotta contro lo spirito mercantile che garantisce dappertutto la promozione di valori “antifisici”, ostili alla natura. Nella lotta per l’emancipazione dell’io, la volontà di autonomia individuale è allo stesso tempo unica e plurale. Le domande a proposito della salute, l’equilibrio, l’immunità, l’amicizia, l’amore, i piaceri e la creatività stanno nel cuore di quell’emancipazione della Terra che le nuove insurrezioni globali hanno illuminato. La posta in gioco è uguale dappertutto: raggiungere la libertà dei desideri creando una società che si sforzi di armonizzarli. Nella mia vita quotidiana, l’autenticità del vissuto è la garanzia naturale dei miei desideri. La sua libertà esclude quelle mercantili; la libertà di sfruttare, opprimere e uccidere. La libertà e l’autenticità costituiscono per l’individuo in cerca di autonomia il paradosso di una clandestinità apertamente rivendicata. La predica delle buone intenzioni non è mai stata tanto insopportabile come nel XXI secolo, in cui la coscienza alienata ora non indossa i guanti di velluto per mettere le parole al lavoro. Col nome di terrorista, assassino, psicopatico o delinquente indica quella che, per disgrazia, non è altro che una condizione di disumanità che la frenesia del Guadagno a breve termine aggrava e accelera al ritmo delle sue grandi opere, profittevoli e inutili. Ho sempre difeso questo principio: libertà assoluta per tutte le opinioni, proibizione assoluta di qualsiasi forma di inumanità. Secondo me, questa è l’unica maniera di affrontare la questione delle religioni e delle ideologie. Una tale opzione ci libera dell’ipocrisia umanitaria con qui si abbelliscono in maniera ridicola tante idee e credenze. Non dobbiamo neppure ripetere che la libertà di pensiero non è mai stata altro che una libertà mercantile. Non vogliamo giudicare la disumanità, vogliamo condannarla ed esiliarla. Non ci servono spiegazioni, né giustificazioni, né circostanze attenuanti. Che venga dai quartieri ricchi o da quelli poveri, dal conservatorismo o dal progressismo, nessuna disumanità è tollerabile. Che rimanga chiaro e senza ambiguità! Faremo tutto il possibile per sradicare dai nostri costumi la propensione ad uccidere, ferire, violentare e maltrattare, senza tener conto delle ragioni utilizzate per spiegare le sue apparizioni e riapparizioni. Ora basta col tribunale universale, dove soppesare, giudicare, scusare, condannare, castigare e amnistiare perpetua le proteste dell’indignazione impotente. La giusta collera continuerà ad essere impotente mentre si radica in ognuno di noi quel “togliti di mezzo che sto arrivando!” che condanna alla giungla sociale e al riflesso predatorio. Ora basta con questa caricatura di esistenza volgarizzata su scala globale dall’evangelismo narco-americano! Il self-made man5costruisce e diffonde solo la propria morte. Quello è il suo prezzo ed è esibito con orgoglio! Non è nell’individuo autonomo che si basa il piacere di non dover rendere conto a nessuno, di stare soli a investigare, discutere e, prima o poi, realizzare una trasformazione alchemica della monotona sopravvivenza che in lui si impantana? Di causare la trasformazione della materia prima – condannata a putrefarsi – nella vita piena e completa a cui abbiamo sempre aspirato come esseri umani? L’arte di vivere disimpara il morire. Questa è l’unica lezione a cui desidero afferrarmi. Godere della mia autenticità vissuta, per quanto disordinata sia, mi libera dell’obbligo di giocare un ruolo, un obbligo che impongono l’individualismo e il gregge – il conglomerato dei gregari – che ignora l’individuo e ne riconosce solo la forma alienata. Mi fa prendere coscienza del ridicolo e patetico dovere di apparire, mi libera della dittatura dell’esteriorità, dello spettacolo e della paura di essere costantemente valutato e giudicato. La vera felicità non consiste forse nel tornare a incontrare l’innocenza di essere se stessi, di non doversi giustificare, di desiderare secondo il cuore senza sperare niente dalla mente? Ci incamminiamo verso un nuovo Rinascimento verso un ritorno dell’Illuminismo. La nostra strada laterale sarà quella di una clandestinità rivendicata apertamente. Il pugno del guadagno ci colpisce dappertutto, colpiamo noi da tutte le parti per disintegrarlo! La clandestinità comincia dentro di noi, nella “stanza buia” dove rimaniamo soli a discutere senza fine di quello che non vogliamo e di quel che desideriamo. Ci sveglia perché prendiamo coscienza delle nostre pulsioni di vita, dei piaceri che la stimolano, delle contrarietà che la rovesciano e la trasformano in pulsioni di morte. Il paradosso di una clandestinità apertamente rivendicata è affermato tanto dall’anonimato dei gilet gialli quanto dall’anonimato che ogni individuo reclama quando si rifugia nella stanza buia dei suoi desideri segreti. Là dove si ritrova solo a decidere se unirsi al sistema di depredazione e al calcolo egoista dell’individualismo, oppure se scegliere di dedicarsi, meglio, alla trasformazione della sua sopravvivenza in una vita piena e completa. In un suo lavoro, Fuenteovejuna, il drammaturgo Lope de Vega mette in scena gli abitanti di un villaggio che, stanchi della crudeltà di un iniquo governatore, lo ammazzano. I giudici e i boia incaricati di scoprire il colpevole, per quanto interroghino gli abitanti e le abitanti del villaggio, ricevono in risposta solo il suo nome, Fuenteovejuna. Poiché la guerra stanca, viene concessa un’amnistia generale. L’anonimato che rivendicano gli individui in lotta per la loro autonomia solidale offre l’esempio di un’arma di vita, di una federazione di resistenze all’oppressione. Così come l’ostinazione dei gilet gialli ormai non ha bisogno di gilet per diffondersi, noi assistiamo alla presenza crescente di una vita che aspira a essere libera e non si preoccupa né di religioni, né di politica, né di strutture gerarchiche, statali e globali. La vita è innanzi tutto il fucile rotto che distrugge la reificazione e insegna a sabotare la trasformazione dell’essere nell’avere. Radicalizza il riformismo militante dissuadendolo dal permettere che il Potere che dice di combattere si incrosti in lui. Ciò che è vivo porta in sé la fertilità del desiderio. Nessun deserto resisterà alla sua fecondità. Nella nostra intimità si configura la decisione di cancellare l’istante che appartiene al tempo della distruzione, del lavoro e della morte, per privilegiare il momento e il desiderio della vita che si manifesta nei piaceri dell’autenticità vissuta. Volete una prova alla rovescia? Osservate, mentre scrivo queste parole, la formidabile onda di nichilismo autodistruttivo che sommerge le società corrose dal cancro della rendita. Do meno importanza all’adesione di una grande maggioranza che all’intelligenza degli individui autonomi, che è, grazie alla sua voglia di autenticità, l’antidoto all’intellettualismo intellettuale. Lenta ma ineluttabile, la trasformazione della prospettiva illumina il rinnovamento e il luogo dove di compie la riunificazione dell’esistenziale e del sociale. La battaglia individuale e quella per una società autenticamente umana sono una stessa cosa. La vita non ha bisogno né di padroni, né di culti religiosi, né di partiti. Il piacere è la violenza pacifica del vivente che prolifera in noi e intorno a noi. Il piacere è la gratuità che ci ha conferito una coscienza capace di umanizzare quella violenza. Ricostruiamo la Terra, facciamo dei nostri paesi, dei nostri quartieri e delle nostre regioni altrettante oasi che il vivente faccia tornare inespugnabili! -------------------------------------------------------------------------------- Questo articolo fa parte del libro Aprire l’impossibile, di Raoul Vaneigem, pubblicato da Comunizar (fratello di Comune). Nel numero 3/2025 della Revista Critica anticapitalista di Comunizar è apparso con il titolo completo Aboliamo la depredazione, torniamo alla nostra umanità. Chiamata alla creazione mondiale di collettività in lotta per una vita umana libera e autentica. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione per Comune di Marco Codebo. -------------------------------------------------------------------------------- 1 Riferimento a Restos de Cœur o Restaurants du Cœur, traducibile come “Ristoranti del cuore”. Si tratta di un’organizzazione caritativa fondata in Francia, nel 1985, su iniziativa del comico Coluche per distribuire cibo e piatti pronti ai più poveri della società. È ancora in attività. 2 Come è discusso più avanti nel testo, nel significato del francese destinée è compreso un principio attivo, la capacità di creare se stessi ricreando il mondo. 3 “Viva la morte, muoia l’intelligenza!” fu il grido delle truppe fasciste di Franco durante l’assedio di Madrid. Si tratta di uno slogan coniato da José Millán Astray, primo tenente colonnello della Legione spagnola, durante un discorso di Miguel de Unamuno, rettore dell’università di Salamanca, in occasione della celebrazione del Día de la Hispanidad, nel 1936. Unamuno rispose al grido di Millán: “Vincerete ma non convincerete”. 4 “Terra di nessuno”, in inglese nell’originale. 5 “Uomo che si è fatto da sé”, in inglese nell’originale. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Aboliamo la depredazione proviene da Comune-info.
Questa rapina è chiamata libertà
HA GUIDATO GALILEO NEL DIFENDERE L’IDEA CHE LA TERRA GIRA. È STATA LA PAROLA D’ORDINE DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE, DEI POPOLI CHE CERCAVANO DI LIBERARSI DA SECOLI DI FEROCE COLONIALISMO E L’IDEALE DELLA LOTTA CONTRO FASCISMO E NAZISMO. CHE TRISTEZZA OGGI VEDERE LA PAROLA LIBERTÀ USATA “COME BANDIERA DAI PRIVILEGIATI PER GIUSTIFICARE IL DIRITTO DI OPPRIMERE – SCRIVE CARLO ROVELLI – LIBERTÀ DI PORTARE ARMI, LIBERTÀ DI ARRICCHIRSI SULLE SPALLE DEGLI ALTRI. LIBERTÀ DI FARE AFFARI CHE CREANO MISERIA O DEVASTANO IL PIANETA… QUANDO GLI OPPRESSI PARLANO DI LIBERTÀ, IL MIO CUORE È CON LORO. QUANDO I RICCHI E I POTENTI DEL MONDO PARLANO DI LIBERTÀ, HANNO TUTTO IL MIO DISPREZZO…”. ABBIAMO BISOGNO DI RIAPRIRE IL CONCETTO DI LIBERTÀ “Mondo”: acrilico e tempera su tela di Daniele Guadalupi -------------------------------------------------------------------------------- Nel corso della mia vita, ho visto la parola “libertà” subire una spettacolare traiettoria discendente. È passata da luminoso ideale universale, a ipocrita copertura della difesa di privilegi. “Libertà” è stata la parola d’ordine della Rivoluzione Francese per liberarsi dal dominio dell’aristocrazia. Della Rivoluzione Americana per liberarsi dal dominio della corona inglese. Delle comunità religiose che volevano liberarsi dal potere corrotto delle gerarchie cattoliche. Delle polis greche che non volevano cadere nelle mani dell’impero persiano. Dei popoli che cercavano di liberarsi da secoli di feroce sfruttamento coloniale. È stata l’ideale della lotta contro fascismo e nazismo che avevano scatenato un’immensa aggressività distruttiva. Libertà è stata la parola magica che aleggiava sulla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sulla dichiarazione d’indipendenza, sulla Rivoluzione Russa e su quella Cinese. Era Galileo libero di difendere l’idea che la Terra gira. Era libertà dai dogmi, era l’idea che il pensiero non debba essere costretti in limiti. Gli esseri umani non debbano essere schiavi, non debbano essere in catene. Libertà è stata la parola d’ordine della mia generazione, che rifiutava ipocrisie e imposizioni di un mondo dominato da minoranze, e voleva cercare la sua strada. Da ragazzo, percepivo attorno a me un mondo pieno di regole che volevano impormi modi di essere che mi sembravano ingiusti. Volevo essere libero. Libero di seguire i miei sogni, libero di essere me stesso. Libero di amare chi volevo e come volevo. Libero di viaggiare ovunque nel mondo. Libero dai condizionamenti sociali. Dall’autoritarismo della mia scuola. Dai diktat della mia famiglia. Libero di sognare. Libero di pensare con la mia testa. Libero di sperimentare con i miei amici modi nuovi di vivere insieme e di condividere il mondo. Era la più bella delle parole, libertà. Che tristezza, mezzo secolo più tardi, vedere questa parola luminosa usata come bandiera dai privilegiati per giustificare il diritto di opprimere. Libertà di portare armi, libertà di arricchirsi sulle spalle degli altri. Libertà di fare affari che creano miseria o devastano il pianeta. Libertà di tenersi i propri soldi e non pagare le tasse. Libertà di dominare il mondo, iniziare guerre, sentirsi padroni del mondo. Libertà di mettere basi militari ovunque nel mondo. Oggi la parola “libertà” svolge una funziona perversa. Serve da giustificazione ideologica per la rapacità: “noi siamo liberi, e quindi dobbiamo dominare quelli che non sono liberi come noi”. A questo si è ridotta, oggi, la parola libertà. Copertura ideologica per giustificare il predominio. Dalla “Casa delle libertà” di Berlusconi in Italia, alla devozione religiosa degli Stati Uniti per questa parola, “libertà” è usata come una clava contro chiunque abbia a cuore il bene comune più dell’arbitrio dei singoli. Siano questi, stati, individui, multinazionali, o classi sociali. Gli Stati Uniti pretendono di essere liberi e quindi non dover sottostare al giudizio delle corti internazionali o alle raccomandazioni dell’Assemblea di tutti gli Stati del mondo. Le multinazionali prendono di essere libere da regole e limiti che la politica vorrebbe imporre per il bene di tutti. I super ricchi pretendono di essere liberi da tasse sulle loro fantasmagoriche ricchezze. Le classi abbienti pretendono di essere libere dalla tassazione progressiva o dalle tasse sul patrimonio che qualche decennio fa ridistribuivano il reddito. I paesi della Nato pretendono di essere liberi di bombardare la Serbia, devastare la Libia, invadere l’Iraq, invadere l’Afghanistan, usando come scusa che quei paesi “non sono liberi”. E in cosa si riduce la libertà dei paesi che si considerano liberi? La “libertà di stampa” significa che i grandi gruppi di potere controllano le catene televisive, i grandi giornali, i social online, manipolano facilmente masse di lettori sostenengono narrazioni che giustificano le scelte di dei poteri. La libertà di votare si riduce al fatto che siccome le elezioni non si vincono se non con ingenti quantità di denaro, il potere è nelle mani di pochi super ricchi, o delle grandi corporazioni che dispongono di queste somme. La libertà di votare e la libertà di stampa, che nell’Ottocento hanno rappresentato un potente strumento di liberazione dall’oppressione dei regimi antichi, oggi si sono ridotte a strumenti di manipolazione. La libertà di parola nei paesi occidentali, come ha chiarito Herbert Marcuse sessant’anni fa, è diventata una strategia del potere: per depotenziare la critica, è più efficace lasciare parlare tutti, in una vasta cacofonia, e imporre punti di vista avendo in mano le narrazioni dei media e dei social, piuttosto che reprimere le voci del dissenso. Un magazine clandestino ciclostilato nella Russia Sovietica aveva un potere dirompente: nessuno poteva parlare e chi osava aveva una voce possente. Una rivista pacifista nell’Occidente liberale non ha alcun peso: tutti possono parlare; il potere non ha bisogno di opprimere voci dissenzienti, tanto ha il controllo delle narrazioni che dominano. Quando oggi nelle democrazie liberali assistiamo a grandi divergenze interne, come accade in questi ultimi anni, quello a cui stiamo assistendo è in gran parte solo uno scontro di potere interno in una plutocrazia poco compatta. Dietro a Johnson e Trump ci sono i potenti media di destra, e ora i social nelle mani di colossali poteri finanziari. L’ipocrita religione occidentale della libertà si giustifica con il ridicolo l’argomento che “in Occidente su sta meglio, perché c’è la libertà”. Poche affermazioni sono altrettanto ipocrite. In Occidente si sta meglio perché l’Occidente è ricco; e l’Occidente è ricco perché ha raccolto l’eredità dello strapotere dell’Europa coloniale ottocentesca sul mondo intero. Uno strapotere che non è certo stata costruito sulla libertà. È stata costruito sulla soppressione della libertà dei popoli colonizzati, sulla razzie delle loro risorse, sulla riduzione in schiavitù di milioni di africani. Questa rapina è chiamata libertà. Ogni libertà è sempre libertà da qualcosa. Un prigioniero riacquista la libertà uscendo dalla prigionia, uno schiavo dalla schiavitù, un popolo oppresso liberandosi dai suoi oppressori, un giovane si libera dal peso di una famiglia opprimente. Un intellettuale si libera da un’idea errata. Quando libertà significa liberarsi da un’ingiustizia, da un’oppressione, da un dogma, dalla fame, dall’ignoranza, dai vincoli che impediscono di essere se stessi, dalle diseguaglianze, la libertà è il più bello degli ideali. Ma quando libertà significa, come significa oggi, sentirsi liberi di ignorare il bene comune, i bisogni degli altri, le sofferenze degli altri, sentirsi liberi di competere e vincere calpestando gli altri, allora la libertà è la più sporca delle parole. Oggi è a questo che serve la parola libertà: a ignorare il bene comune. Un giorno in cui guidavo in una città dove la gente è poco ligia al codice della strada, un’amica mi disse “ci sono persone che si sentono libere di passare quando il semaforo è rosso; considerano il semaforo il loro nemico perché limita la loro libertà. Che sceme, il semaforo è lì per aiutare tutti. È un amico, non un nemico.” Questa è la libertà dell’Occidente. La libertà di inquinare ci sta portando alla catastrofe ecologica. La libertà di armarsi alla catastrofe nucleare. Il libero mercato ci ha già portato disuguaglianze economiche mai viste nella storia. Le libertà politiche ci stanno portando al dominio mondiale dei super ricchi interessati solo a competere fra loro per diventare ancora più ricchi. La libertà di votare ci ha portato una classe politica che invece di occuparsi del bene pubblico si occupa solo di come farsi rieleggere fra qualche mese e non è capace di guardare al futuro lontano. Per salvare il mondo dalle catastrofi che si avvicinano e da quelle presenti, dal riscaldamento climatico, dalla guerra nucleare sempre più vicina, dalle devastanti guerre in corso, dalla miseria in cui vive ancora gran parte dell’umanità, dalle pandemie che certo troveranno presto, dall’oppressione in cui sono ancora tanti popoli, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è più libertà per l’arroganza dei poteri che ci hanno portato a questo. Abbiamo bisogno, al contrario, di riconoscere che il bene comune, il bene di tutti noi, deve essere più importante dell’arroganza dei singoli. Abbiamo bisogno di accordarci su regole condivise. Di lavorare insieme, non gli uni contro gli altri. Quando gli oppressi parlano di libertà, il mio cuore è con loro. Quando i ricchi e i potenti del mondo parlano di libertà, hanno tutto il mio disprezzo. -------------------------------------------------------------------------------- Carlo Rovelli, fisico, saggista e divulgatore scientifico è stato docente universitario in Italia, Francia e Usa. Il suo ultimo libro, scritto con Giorgia Marzano e Massimo Tirelli, è Il volo di Francesca (Feltrinelli). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Questa rapina è chiamata libertà proviene da Comune-info.
Afghanistan, torna in libertà il regista Sayed Rahim Saidi
Sayed Rahim Saidi, 57 anni, regista, direttore e produttore del canale YouTube Anar Media, è tornato in libertà dopo 11 dei 36 mesi a cui era stato condannato per aver “diffuso propaganda” contro i talebani. Prima del ritorno al potere di questi ultimi, Saidi aveva lavorato per oltre 20 anni alla tv nazionale dell’Afghanistan e, dal 2005, per Ariana Tv. In precedenza aveva diretto documentari e cortometraggi aventi per tema la discriminazione e la necessità di un cambiamento sociale.  Su YouTube pubblicava programmi culturali, sociali e religiosi. Arrestato il 14 luglio 2024 dai servizi di sicurezza afgani, dopo oltre cinque mesi di detenzione in isolamento e di interrogatori sotto tortura era stato condannato a tre anni di carcere a partire dal giorno dell’arresto, al termine di un processo svoltosi in assenza di un avvocato difensore. Amnesty International aveva lanciato un’azione urgente in suo favore, lamentando l’illegalità dell’arresto e della condanna di Saidi e sottolineando le sue gravi condizioni di salute – a causa di un’ernia del disco e di una prostatite – e l’assenza di cure mediche adeguate.   Riccardo Noury