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Nuove Indicazioni Nazionali, perché e come rifiutarle
Tra giugno e luglio 2024, la Commissione incaricata della revisione delle Indicazioni nazionali (IN) ha organizzato incontri con associazioni professionali, sindacali e di genitori e studenti. Il CESP ha partecipato il 18 giugno, constatando che la revisione era già avviata e procedeva rapidamente, come sottolineato dalla stessa coordinatrice della Commissione, Loredana Perla. Come altre associazioni, abbiamo sottolineato l’inopportunità di modificare le Indicazioni 2012, ancora attuali e basate sulla complessità educativa e sull’intercultura, suggerendo al massimo un loro aggiornamento su temi emergenti. La percezione di incontri formali e di un percorso già deciso, rafforzata dalle dichiarazioni di Valditara, è stata confermata l’11 marzo dalla pubblicazione della prima bozza delle IN, presentata come “materiale per il dibattito pubblico”. Quest’ultimo ha mostrato subito i suoi limiti: le audizioni, avviate una settimana dopo la pubblicazione della bozza, sono state rapide e hanno concesso alle associazioni pochi minuti per commentare un testo di 154 pagine, mentre i contributi scritti sono rimasti senza risposta. Il CESP ha partecipato a quella del 21 marzo, sottolineando la netta discontinuità  delle IN rispetto alle vigenti, soprattutto per l’insegnamento della Storia, contrariamente a quanto emerso e richiesto nelle precedenti audizioni. Queste le criticità evidenziate: eccesso di enfasi sui “talenti”, visione occidentale del concetto di “persona”, mancanza di prospettiva interculturale e inclusiva, educazione di genere ridotta a “educazione del cuore” e libertà presentata come valore esclusivo dell’Occidente. Durante le audizioni, il Ministero ha lanciato una consultazione tramite questionario rivolto a gruppi di insegnanti o dirigenti, con 22 domande a risposta chiusa tutte orientate a confermare l’impianto delle IN o suggerire piccoli aggiustamenti, senza spazio per un dissenso significativo, e un unico campo aperto di soli mille caratteri. Le critiche alle IN hanno acceso un vivace dibattito, evidenziando l’impostazione culturale di destra e classista del documento. Il “popolo della scuola” ha iniziato a riunirsi, sono nate realtà come la Rete per la scuola pubblica, di carattere territoriale e dal basso, e il Tavolo interassociativo, attivo a livello nazionale, moltiplicando incontri, appelli e mozioni di rifiuto delle IN e del questionario ministeriale. Il Ministero ha risposto solo con un atto simbolico, una casella email per eventuali commenti. Non è mai stato reso noto quanti messaggi siano arrivati, chi li abbia letti e con quali criteri. Loredana Perla ha invece difeso con orgoglio le IN, definendo le critiche come tentativi di strumentalizzare il documento per lotta politica, un fenomeno di radicali rimasti al “piccolo mondo antico” degli anni Settanta. La bozza dell’11 giugno, inviata al CSPI, pur attenuando alcuni degli aspetti più contestati, non ha recepito i contributi di associazioni e società scientifiche. Del resto, le critiche più sostanziali non potevano essere accolte: farlo avrebbe spezzato quel filo rosso ideologico che assicura coerenza alle politiche di un governo di destra e che, per sua natura, non può recepire istanze di segno pedagogico egualitario, attivo e partecipativo. Lo stesso rito partecipativo di facciata del sondaggio rivolto a 1.200 genitori pubblicato assieme alla nuova bozza e presentato come consenso ampio, era parziale, non trasparente e formulato in modo da orientare le risposte favorevoli. Con lo slogan ad effetto di una “svolta culturale” che unisce “la storia e la cultura del nostro passato con l’innovazione”, Valditara ha accompagnato la pubblicazione del testo definitivo delle IN, il 7 luglio, in cui i rilievi del CSPI sono stati accolti solo parzialmente, a favore della conservazione dell’intero impianto culturale, pedagogico e didattico in cui la disciplina storia resta strumento di identità nazionale. Le Premesse culturali delineano l’orizzonte valoriale del documento. A fondamento della scuola non è posta la cultura, ma la centralità della persona , secondo una concezione radicata nella tradizione giuridico-filosofica occidentale: dal diritto romano alla Dichiarazione universale del 1948, fino alla Costituzione.  È una lettura lineare e distorta del concetto di persona, che nel tempo si è trasformato in modo discontinuo, ridefinendo di volta in volta chi fosse riconosciuto come “persona” e quali diritti potesse esercitare, e non può quindi essere ricondotto a una categoria data e indiscutibile riproducendo un paradigma etnocentrico. Anche nell’affermare che “a scuola l’allievo scopre la propria identità personale e la propria appartenenza a una comunità in costante evoluzione” si ignorano le evidenze delle scienze sociali su identità e appartenenze plurali e mutevoli. Ne deriva una visione rigida, che genera pratiche educative escludenti e uniformanti anziché valorizzare le differenze. Anche l’idea che la relazione non limiti la persona ma la costituisca rimane contraddetta da una descrizione in realtà molto individualistica, centrata sulla realizzazione della persona come destino ultimo. La comunità, ridotta a scuola, famiglia e, dopo il parere del CSPI, al terzo settore, resta intesa come modello ristretto, racchiuso entro i confini istituzionali del “patto educativo di corresponsabilità” e fondato su relazioni sociali di facile controllo.  Esistono condizioni sociali che rendono difficile l’alleanza con la scuola; affermare che senza di essa sia impossibile “raggiungere obiettivi educativi efficaci”  costituisce una visione classista che contempla solo contesti collaborativi. Nonostante il parere del CSPI, Il successo scolastico resta affidato all’insegnante magis e alla sua presunta “autorevolezza ritrovata”. Rimane perseguibile tramite la valorizzazione dei talenti, nucleo del pensiero di Valditara e connessa all’ideale di scuola meritocratica, evidente nella connessione del talento alla “capacità di mobilitare risorse cognitive, affettive e creative”, anche se, vestito da inclusione, viene descritto come “possibilità trasformativa per ciascuno”, anche in “situazioni di fragilità o svantaggio”. L’impostazione iniqua ed escludente emerge anche dall’enfasi posta sulla personalizzazione dell’apprendimento a scapito dell’insegnamento individualizzato che mira ad assicurare a  tutte/i il raggiungimento degli stessi obiettivi di competenza. Tra le finalità dell’educazione alla libertà, concetto ancora definito come “il valore caratteristico più importante dell’Occidente e della sua civiltà sin dalla sua nascita, avvenuta fra Atene, Roma e Gerusalemme”, si conferma la “comprensione del principio di autorità”. Nessuno spazio per i valori della convivenza acquisiti tramite il dialogo, in cui anche il dissenso è occasione educativa di crescita, ma un “lungo allenamento all’autogoverno” e l’osservanza di regole per acquisire senso del limite e l’etica del rispetto. Norme e bona fides costituiscono gli ingredienti fondamentali di un’“educazione del cuore” capace di suscitare sentimenti come fiducia, empatia, tenerezza, incanto e gentilezza. L’enfasi sui valori morali della pedagogia romantica ottocentesca esclude lo sviluppo di competenze relazionali, emotive e di autonomia critica riducendo l’educazione a indottrinamento e controllo sociale. In tema di inclusione, il testo richiama diverse norme e strumenti già in atto: BES, ICF, patti di collaborazione tra scuole ed enti, mediatori linguistico-culturali, insegnamento dell’Italiano L2, docenti aggiuntivi della classe di concorso 23/A e Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati. Ad eccezione del riferimento al modello dell’Universal Design for Learning per la partecipazione attiva degli studenti nelle scelte relative al proprio percorso scolastico, rimane una concezione di inclusione come risposta rivolta ad alunne/i in difficoltà. Il centro dell’attenzione resta l’inserimento del singolo all’interno del sistema, piuttosto che la trasformazione dei contesti educativi. L’educazione interculturale viene ridotta a competenze linguistiche e civiche, trascurandone la finalità autentica: favorire la convivenza costruttiva in contesti culturali diversificati, rivolta a tutte e tutti. Su richiesta del CSPI viene introdotta, nella secondaria di primo grado, la valorizzazione delle figure del tutor e dell’orientatore: una scelta considerata impropria e dannosa, poiché introduce gerarchie tra docenti, indebolisce l’unità collegiale, limita la libertà di insegnamento e delegittima i Consigli di classe. Inoltre, sono stati inseriti due nuovi paragrafi: il primo dedicato all’educazione finanziaria, assicurativa e previdenziale, già presente nelle Linee guida di Educazione civica; il secondo sull’internazionalizzazione, incentrato sulle competenze multilinguistiche e sugli scambi, ma privo di riferimenti all’intercultura. È stato ignorato il parere contrario del CSPI sulla disciplina di Storia, che criticava l’eliminazione dell’ambito delle fonti, il tono polarizzante dell’incipit e l’enfasi sull’identità nazionale a scapito dell’approccio disciplinare. Il testo rimane invariato, segnato da carenze concettuali e incoerenza e inscritto in un impianto ideologico italocentrico e occidentalista.  Permangono tutti gli elementi problematici: l’idea del bambino e della bambina, del ragazzo e della ragazza come incapaci di leggere e interpretare le fonti, a cui la storia viene quindi proposta soltanto nella sua dimensione narrativa; la concezione lineare della storia, intesa come processo evolutivo incentrato su personaggi eminenti; l’elenco di conoscenze (contenuti manualistici) in cui spiccano figure eroiche del Risorgimento insieme a personaggi e vicende tratti dalla Bibbia e dai poemi epici occidentali, proposti già nei primi anni della scuola primaria; la rappresentazione della “comparsa” dell’uomo sulla terra come evento improvviso, in chiave creazionista, che ignora il processo di ominazione; i diversi errori o espressioni superate che vari storici avevano segnalato: il feudalesimo presentato come legato a Carlo Magno e non al tardo Medioevo, la superata definizione “Repubbliche marinare” anziché ad esempio “città-stato mercantili”,  il Mediterraneo unificato da Alessandro Magno, la semplificazione delle “tre Italie”, le rivoluzioni moderne come espressione di libertà, la decolonizzazione ridotta al solo scenario asiatico. Le IN saranno adottate dall’a.s. 2026-2027 dalle classi prime di primaria e secondaria di primo grado, le classi già attive nel 2025/2026 continueranno a far riferimento alle Indicazioni del 2012. In questo lasso di tempo saranno necessarie azioni di rifiuto alle IN. La richiesta rielaborazione del curricolo d’istituto dovrà prevede un’attenta analisi collegiale del documento affinché gli obiettivi siano declinati, contestualizzati e arricchiti (come previsto dal DPR 275/1999) tenendo conto della dimensione interculturale, promuovendo equità e pari opportunità di apprendimento, e riconoscendo ogni bambina/o come soggetto competente. Inoltre, si potrà rifiutare l’adozione dei testi scolastici revisionati avvalendosi di strumenti alternativi: testi (narrativi, esplicativi, documentari …), materiali digitali, o qualsiasi altro strumento coerente con il PTOF. È un’opzione riconfermata in tutte le normative per la quale è necessaria solo una breve relazione che motivi la scelta. Bruna Sferra
Docenti – Scelta 150 preferenze
con la nota n. 157048 del 9 luglio 2025 avente per oggetto: Anno scolastico 2025/2026 – Istruzioni e indicazioni operative in materia di supplenze al personale docente, educativo ed A.T.A. il MIM comunica la modalità e la tempistica per la scelta delle 150 preferenze (scuole, distretti, comuni, provincia): * per le supplenze annuali finalizzate alla nomina in ruolo (GPS I fascia sostegno o elenchi aggiuntivi ). Possono partecipare i docenti inseriti a pieno titolo nella GPS I fascia sostegno o elenchi aggiuntivi; i docenti  già di ruolo (che abbiano superato il periodo di prova al 01/09/2024 o prima). Ai sensi dell’articolo 2, comma 2, punto 3-quater, del decreto-legge 7 aprile 2025, n. 45, convertito con modificazione dalla legge 5 giugno 2025, n. 79, l’assegnazione di una delle sedi indicate nella domanda comporta l’obbligo di accettazione espressa entro 5 giorni o, comunque, entro il 1° settembre qualora l’assegnazione intervenga a decorrere dal 28 agosto. La mancata accettazione della sede entro il suddetto termine è considerata d’ufficio come rinuncia alla nomina e determina la decadenza dall’incarico conferito. * per le supplenze annuali o fino al termine delle attività didattiche (GAE e GPS posto comune e/o sostegno). La domanda deve essere presentata in modalità telematica dalle ore 10,00 del 17 luglio alle ore 14,00 del 30 luglio 2025 tramite Istanze on Line.
Sensazionale scoperta INVALSI: il numero di studenti per classe non conta
Meglio una classe da 30 studenti o da 10? Quale situazione preferirebbe Mark Zuckerberg per l’istruzione di suo figlio? La dimensione della classe non conta: è questa la recente, sensazionale scoperta dell’INVALSI. Ciò che conta è “la dimensione della persona”, la personalizzazione. Perciò, quando il Ministro dell’Economia dichiara che bisognerà “ripensare strutture, personale e spesa” per l’istruzione, non dobbiamo preoccuparci. Non servono soldi per aumentare il numero di insegnanti o stabilizzarli, basta dirottare risorse sulle nuove tecnologie di intelligenza artificiale e personalizzare la didattica. Fatalità, la scoperta dell’INVALSI lo conferma. -------------------------------------------------------------------------------- Meglio una classe da 30 studenti o da 10? Proviamo a chiederci: quale situazione preferirebbe Mark Zuckerberg per l’istruzione di suo figlio? La dimensione della classe non conta: è questa la recente e sensazionale scoperta dell’INVALSI: ciò che conta è “la dimensione della persona”, la personalizzazione. Che fortuna: in effetti non abbiamo i soldi per aumentare il numero di insegnanti (vedi recenti dichiarazioni del Ministro Giorgetti sui tagli alla scuola, qui) ma possiamo dirottare risorse sulle nuove tecnologie di intelligenza artificiale per personalizzare la didattica (vedi dichiarazione del Ministro Valditara sull’utilità dell’IA in classe, qui). Nell’attesa dell’ultima puntata della soap opera più longeva della storia della valutazione scolastica italiana, ovvero l’uscita del Rapporto annuale sui test INVALSI edizione 2025, prevista per il prossimo 9 Luglio, l’Istituto prova ad alimentare la suspence elencando percentuali e correlazioni tra la taglia delle classi delle nostre scuole e il numero di studenti “low performer”. I “low performer” sono sempre loro, ormai li conosciamo: gli studenti fragili, i dispersi impliciti, i ragazzi “bollinati” INVALSI livello 1 e 2 . L’INVALSI ci dice che la numerosità delle classi non influisce sulla loro percentuale. Ad esempio per gli studenti di terza media: > “LE CLASSI DI DIMENSIONI INTERMEDIE (21-25 STUDENTI) MOSTRANO UNA PERCENTUALE > INFERIORE DI STUDENTI CON BASSO RENDIMENTO (1,01%), MENTRE QUELLE PIÙ NUMEROSE > (OLTRE 26 STUDENTI) PRESENTANO UN’INCIDENZA LIEVEMENTE SUPERIORE (1.09%)”. La contabilità INVALSI dovrebbe rassicurarci. In effetti anche se non sappiamo bene cosa significhi “basso rendimento”  per l’Istituto di valutazione, anche se non possiamo accedere ai contenuti dei test per farci un’idea di cosa effettivamente si stia misurando e per controllarne i risultati, anche se non conosciamo l’incertezza statistica dei dati, se ignoriamo i metodi e di correzione, oggi automatizzati, e la loro accuratezza, la scoperta dell’INVALSI può risultare consolante. In fondo i dati INVALSI sono un po’ come la fede: uno o ce l’ha o non ce l’ha. Ma se ce l’ha, che gran conforto. La scoperta dell’INVALSI però è tutt’altro che originale: sono almeno 30 anni che gli economisti dell’educazione made in USA  (vedi Hanuscheck) e l’OCSE tentano di convincerci che insegnare e apprendere in una classe di 30 o 10 studenti non fa differenza. L’uso politico del  “class size effect” è evidente e non necessita di commenti. Da parte nostra, in un Paese dove il dibattito sulla scuola è inesistente, perché affidato al principio di Autorità e all’assenza sistematica di qualsiasi contraddittorio, ci limitiamo a qualche piccolo contributo, non allineato al catechismo dell’INVALSI. 1.  Il libro “Rethinking class size” di Peter Blatchford ed Anthony Russell del 2020, UCL Press,  liberamente scaricabile qui.   > “IL DIBATTITO SULL’IMPORTANZA DELLE DIMENSIONI DELLE CLASSI PER L’INSEGNAMENTO > E L’APPRENDIMENTO È UNO DEI PIÙ DURATURI E ACCESI NELLA RICERCA EDUCATIVA. GLI > INSEGNANTI SPESSO INSISTONO SUL FATTO CHE LE CLASSI PICCOLE FAVORISCANO IL > LORO LAVORO. MA MOLTI ESPERTI SOSTENGONO CHE I DATI DELLA RICERCA DIMOSTRANO > CHE LE DIMENSIONI DELLE CLASSI HANNO SCARSO IMPATTO SUI RISULTATI DEGLI > STUDENTI, QUINDI NON SONO RILEVANTI, E QUESTA VISIONE DOMINANTE HA INFLUENZATO > LE POLITICHE A LIVELLO INTERNAZIONALE. > >  IN QUESTO LAVORO, I RICERCATORI DEL PIÙ GRANDE STUDIO AL MONDO SUGLI EFFETTI > DELLE DIMENSIONI DELLE CLASSI PRESENTANO UNA CONTROARGOMENTAZIONE. ATTRAVERSO > UN’ANALISI DETTAGLIATA DELLE COMPLESSE RELAZIONI IN GIOCO IN CLASSE, RIVELANO > I MECCANISMI CHE SUPPORTANO L’ESPERIENZA DEGLI INSEGNANTI E CONCLUDONO CHE LE > DIMENSIONI DELLE CLASSI SONO DAVVERO IMPORTANTI.” 2. Lo studio “L’impact de la taille des classes sur la réussite scolaire dans les écoles, collèges et lycées français” di Thomas Piketty e Mathieu Valdenaire, del 2006, accessibile qui > “IL NOSTRO METODO CONSENTE DI INDIVIDUARE EFFETTI STATISTICAMENTE > SIGNIFICATIVI DELLA DIMENSIONE DELLE CLASSI NEI TRE LIVELLI DI ISTRUZIONE. > TALI EFFETTI RISULTANO QUANTITATIVAMENTE MOLTO PIÙ RILEVANTI NELLA SCUOLA > PRIMARIA RISPETTO ALLA SCUOLA MEDIA, E ANCOR PIÙ RISPETTO ALLA SCUOLA > SUPERIORE. PER QUANTO RIGUARDA LA SCUOLA PRIMARIA, METTIAMO IN EVIDENZA UN > IMPATTO POSITIVO SIGNIFICATIVO DELLE CLASSI MENO NUMEROSE SUL SUCCESSO > SCOLASTICO DEGLI ALUNNI.” 3. La meta analisi dell’istituto delle Politiche Pubbliche francesi (IPP) “La taille des classes influence-t-elle la reussite scolaire?” del 2017, scaricabile qui. le cui conclusioni potrebbero essere così riassunte: a) Ridurre le dimensioni delle classi è una politica costosa ma efficace per combattere le disuguaglianze, se mirata e significativa. b) Questa politica avvantaggia principalmente gli studenti con il più basso status socio-economico. 4. E per finire, l’analisi, attualissima (30 giugno 2025) dello stesso Istituto delle Politiche Pubbliche francesi, che in vista della futura legge di bilancio esprime una serie di raccomandazioni sulla spesa pubblica per l’istruzione. Il titolo è “Taille des classes et inegalités territoriales: quelle stratégie face à la baisse démographique?”, di cui riportiamo questo piccolo estratto: > “RIDURRE IL NUMERO DI INSEGNANTI PER MANTENERE INALTERATA LA DIMENSIONE DELLE > CLASSI > > [IN PREVISIONE DEL CALO DEMOGRAFICO] > > GENEREREBBE ECONOMIE A CORTO E MEDIO TERMINE, MA PRIVEREBBE GLI STUDENTI DEI > VANTAGGI ASSOCIATI ALLA DIMINUZIONE DEL NUMERO DI ALUNNI PER CLASSE: > > –EFFETTI POSITIVI SUGLI APPRENDIMENTI, BEN DOCUMENTATI DALLA LETTERATURA > SCIENTIFICA > > -CHE SI TRADURREBBERO, A LUNGO TERMINE IN SALARI E CONTRIBUZIONI PIÙ ELEVATE > PER LA SOCIETÀ. > > [SENZA CONSIDERARE] I BENEFICI ANNESSI: MIGLIORI CONDIZIONI DI LAVORO PER GLI > INSEGNANTI, ESTERNALITÀ POSITIVE DAL PUNTO DI VISTA SOCIALE (SALUTE, > DELINQUENZA ETC).”
Sull’attenti e competenti! Arriva l’Unione delle competenze
La Commissione europea ha appena pubblicato un nuovo documento destinato anche al mondo della formazione: l’Unione delle competenze.  Eravamo rimasti al “patto per un’Europa del lavoro, nel sodalizio perverso fra l’educazione, l’istruzione e il mercato del lavoro”, testimoniato dalla crescente sovrapposizione tra competenze trasversali da assimilare a scuola e qualifiche professionali da utilizzare nel mondo del lavoro – una fra tutte la competenza chiave dell’imprenditorialità, possibilmente fin dai banchi della scuola primaria – un patto che proprio attraverso il dispositivo delle competenze imponeva il nuovo modello di governamentalità neoliberale: diritti precari solo nella miseria del lavoro precario.  Oggi nasce il nuovo patto per un’Europa della guerra che, ancora una volta, si fonda sulla formazione dei giovani, attraverso il “piano inclinato di politiche educative che hanno trasformato progressivamente la cultura scolastica in cultura d’impresa”. Civile o militare, poco importa: business is business. Competenti e sull’attenti, incalza dunque l’Unione europea: dal welfare al workfare e oggi al warfare, a scuola il passo si configura brevissimo.     --------------------------------------------------------------------------------   Nei giorni scorsi, mentre ci baloccavamo con il video semiserio di Haidja Labib – commissaria Ue per la cooperazione internazionale, gli aiuti umanitari e la risposta alle crisi – in cui ci si propone un kit di sopravvivenza per resistere 72 ore con opportuno necessaire ad ogni tipo di emergenza, dalla presidente Ursula von der Leyen arrivava il documento serissimo “Preparedness Union Strategy: reinforcing Europe’s resilience in a changing world”, che prevede una serie di misure, strategie e piani tesi a “rafforzare la preparazione e la prontezza civile e militare dell’Europa per affrontare le crescenti sfide alla sicurezza odierne, in materia di salute, migrazione, sicurezza tecnologica, clima, difesa o economia”[1] e che chiama in causa il mondo della formazione. Una pianificazione globale che, accanto al riarmo europeo da 800 miliardi di euro, impone tutta una serie di azioni unitarie e comuni di immediato utilizzo per fronteggiare una crisi, in primis militare: protezione e preparazione delle persone, con un approccio che coinvolge l’intera società, compreso il mondo accademico; rafforzamento della partnership con la Nato per contribuire agli impegni condivisi per proteggere la sicurezza globale; aumento della cooperazione pubblico-privato e civile-militare nel settore della sicurezza e della difesa. Questa strategia di preparazione agli eventi verrà realizzata attraverso 30 azioni pianificate collegate agli obiettivi indicati, allineandosi ad altre iniziative dell’Ue già esistenti in tema di sicurezza. Tra queste, oltre al Libro Bianco sulla difesa europea e la strategia dell’Ue per l’adattamento ai cambiamenti climatici, troviamo l’Unione delle competenze, proposta dalla Commissione europea per incrementare la prosperità, la competitività, la resilienza economica e la sicurezza dell’Ue, come indicato nel rapporto Draghi[2] e nella relazione “Safer together” di Sauli Niinisto[3] (già presidente della repubblica finlandese) sulla preparazione militare e civile dell’Unione europea. Alla nuova ossessione securitaria e bellicista dei decisori europei, debitamente amplificata dal pensiero unico mainstream che avviluppa in Italia informazione e opinione pubblica in una folle glorificazione del militarismo, del patriottismo, della guerra, “sola igiene del mondo”[4], si accompagna dunque la vecchia ossessione delle competenze chiave standardizzate, omologate, adattabili, misurabili ma gestite – in questa nuova fase storica di preparazione, prontezza o riarmo che dir si voglia – attraverso la creazione di una governance europea poiché, scrive la Commissione in grassetto, “sebbene gli sforzi degli Stati membri in materia di istruzione e competenze siano aumentati, le sfide sono troppo grandi e urgenti per essere affrontate dai soli Stati membri”[5]. Occorre dunque una struttura solida, centralizzata e unitaria, capace di sviluppare capitale umano e competitività, essenziali “per promuovere la preparazione e la sicurezza nell’attuale situazione geopolitica”[6]: un Consiglio europeo di alto livello per le competenze, che informerà le decisioni in materia di investimenti e di riforme a livello nazionale e della Ue, fermo restando la “responsabilità collettiva e l’impegno che Stati membri, parti sociali, comunità imprenditoriale, università e scuole”[7] sono espressamente chiamati ad assumersi. Tra le principali direzioni di sviluppo indicate nel documento, accanto alle ben note ‘innovazione’, ‘digitalizzazione’ e  ‘decarbonizzazione’ spicca la nuova parola d’ordine ‘preparazione’ che, oltre a prevedere un aumento della consapevolezza dei rischi e delle minacce nella popolazione e a sviluppare linee guida per raggiungere un’autosufficienza della popolazione di almeno 72 ore” (sic), include “la ‘preparazione’ nei programmi di istruzione scolastica e nell’aggiornamento del personale educativo”[8] con appositi curricoli formativi, come espressamente indicato nel set delle 30 azioni chiave da implementare a livello europeo. In una scuola in cui già da tempo i dettami performativi e competitivi dell’Ue hanno imposto la visione funzionalista e economicista delle competenze trasversali, della valutazione standardizzata, dell’orientamento al lavoro, del tutoring e del customer care[9], da oggi si impongono le nuove competenze di resilienza, di preparazione, di pronta risposta alle crisi e ai conflitti, considerate come “condizione abilitante” per gli sventurati abitanti di questa nuova Europa guerrafondaia in cui “l’Unione delle competenze propone un nuovo approccio, che combina le politiche dell’istruzione, della formazione e dell’occupazione, unite intorno a una visione comune della competitività”[10]. Civile o militare[11], poco importa: business is business. Eravamo rimasti al “patto per un’Europa del lavoro, nel sodalizio perverso fra l’educazione, l’istruzione e il mercato del lavoro”[12], testimoniato dalla crescente sovrapposizione tra competenze trasversali da assimilare a scuola e qualifiche professionali da utilizzare nel mondo del lavoro – una fra tutte la competenza chiave dell’imprenditorialità, possibilmente trasmissibile fin dalla scuola primaria[13] – un patto che proprio attraverso il dispositivo delle competenze imponeva il nuovo modello di governamentalità neoliberale: diritti precari solo nella miseria del lavoro precario. Oggi nasce il nuovo patto per un’Europa della guerra che, ancora una volta, si fonda sulla formazione dei giovani, attraverso il “piano inclinato di politiche educative che hanno trasformato progressivamente la cultura scolastica in cultura d’impresa”[14] e che si fonda su un’ulteriore torsione educativa della scuola, dove non solo una volontà politica nazionale e sovranazionale impone da tempo che le conoscenze storiche, artistiche, letterarie e scientifiche vengano sostituite da competenze pratiche, immediate e operative – tutte orientate al lavoro oggi nei settori produttivi bellici e securitari, soprattutto in quelli strategici “come la sicurezza informatica, l’areospazio e la difesa”[15] – ma dove d’ora in poi si dovranno insegnare, imparare ed esercitare, con i curricoli formativi in preparazione a Bruxelles, precise competenze di guerra: preparazione, prontezza, resilienza, sopravvivenza. Competenti e sull’attenti, incalza dunque l’Unione europea. Dal welfare al workfare e oggi al warfare, a scuola il passo si configura brevissimo.     --------------------------------------------------------------------------------   [1] Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Strategia dell’Unione per la preparazione. Rafforzare la resilienza dell’Europa in un mondo in cambiamento, marzo 2025 [2] M. Draghi, The future of European Competitiveness, settembre 2024 [3] S. Niinisto, Safer together: Stengthening Europe’s Civilian and Military Preparedness and Readiness. [4] F. T. Marinetti, Manifesto del Futurismo, 1909. [5] Commissione europea, L’Unione delle competenze, marzo 2025, p. 4. [6] Ibidem, p. 1. [7] Ibidem, p. 20. [8] Strategia dell’Unione per la preparazione, marzo 2025, p. 10. [9] A. Angelucci e G. Aragno, Le mani sulla scuola. La crisi della libertà di insegnare e di imparare, Castelvecchi, Roma 2020. [10] Commissione europea, L’Unione delle competenze, marzo 2025, p. 20. [11] Sotto questo profilo, si segnala l’importantissimo lavoro dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole. [12] R. Puleo, Invalsi fra Big Data e Data Despota, laletteraturaenoi.it, 31 marzo 2025. [13] R. Latempa, Piccoli imprenditori crescono: i modelli MIUR per le scuole elementari e medie, ROARS, 12 aprile 2018. [14] R. Latempa e D. Borrelli, Leggere “La nuova scuola capitalistica oggi”, Le parole e le cose, 10 marzo 2025. [15] Commissione europea, L’Unione delle competenze, marzo 2025, p. 15.  
La FLC CGIL contro INVALSI: viola il diritto al controllo del punteggio dei test
Pubblichiamo il testo del comunicato della FLC CGIL sul recente reclamo inviato al Garante per la Protezione dei Dati Personali.  Il reclamo contesta all’INVALSI la mancanza di trasparenza e la negazione del diritto al controllo dell’esito della prova svolta. Oggi, qualsiasi studente abbia svolto una prova INVALSI su piattaforma digitale non ha modo di accedere ai contenuti del test, per poterne verificare  l’esito e la logica di correzione.  E’ ciò che hanno constatato i genitori di due studenti tredicenni, i quali hanno chiesto conto all’INVALSI del punteggio acquisito dai propri figli nei test del 2024, che rappresenta la loro certificazione individuale di competenze.  Impossibile fornire spiegazioni, dice sostanzialmente l’INVALSI, perché si tratta di una procedura “parzialmente automatizzata”, e quindi deve essere accettata senza alcuna possibilità di controllo. Negare alle famiglie ricorrenti l’accesso ai dati dei propri figli lede il diritto di ciascuno studente ad una valutazione chiara e contestabile. Lesione tanto più grave visto che alcuni studenti sono classificati come “fragili” dall’INVALSI, quando il punteggio acquisito risulta al di sotto di una soglia di adeguatezza stabilita a monte. Attendiamo ora l’intervento dell’Autorità per la protezione dei dati personali. Entro tre mesi conosceremo lo stato del provvedimento. -------------------------------------------------------------------------------- Roma, 20 marzo 2025 – Il 3 marzo scorso è stato depositato un reclamo al Garante della Privacy portato avanti dal sindacato FLC CGIL nazionale assieme a Cattive Ragazze Ets, Alas, Roars perché intervenga sulle modalità operative delle prove INVALSI. FLC CGIL denuncia da sempre la trasformazione delle prove in strumento valutazione individuale e di profilazione delle condizioni sociali degli studenti e in uno strumento di misurazione della prestazione dei docenti e dei dirigenti scolastici. Il reclamo presentato a titolo individuale da due genitori afferenti l’associazione Cattive Ragazze ETS denuncia all’autorità Garante della Privacy l’assoluta mancanza di trasparenza da parte di INVALSI e la negazione del diritto al controllo e quindi alla revisione dell’esito dei test, con la motivazione che le prove non hanno “finalità didattiche” e che l’attribuzione del punteggio individuale avviene sulla base di un processo “parzialmente automatizzato”. Inoltre nel delicatissimo contesto di protezione dei dati personali degli studenti, INVALSI raccoglie dati di contesto (familiari, culturali, sociali) mediante questionari digitalizzati proposti contestualmente allo svolgimento dei test. Questo vale per studenti minorenni, anche nel caso di negazione del consenso da parte dei genitori. Soprattutto quello che emerge è l’impossibilità di conoscere contenuti, metodologia e responsabilità della codifica delle domande, di controllare ed eventualmente contestare il punteggio standardizzato acquisito, da cui origina la certificazione personale delle competenze. Ciò è tanto più rilevante per quegli allievi considerati dall’INVALSI come “fragili”, perché il livello acquisito è al di sotto della soglia di adeguatezza statistica. In questo contesto risulta violato il diritto di ciascuno studente e ciascun genitore a ricevere una valutazione trasparente e tempestiva, come stabilito dallo Statuto delle Studentesse e degli Studenti, oltre che dal GDPR. Auspichiamo un intervento regolatore da parte del Garante che produca effetti in favore di tutti gli studenti della scuola pubblica italiana, ripristinando i diritti violati a partire dalla modifica delle procedure e dalla piena accessibilità del controllo delle prove INVALSI. Ci si attende un cambio di passo anche da tutte le istituzioni, a partire dal Ministero dell’Istruzione, che devono mettere in campo interventi e risorse per il contrasto alla cosiddetta povertà educativa che va affrontata e superata nei processi di apprendimento e non attraverso una massiva rilevazione standardizzata.