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Convegno CESP “Nuove Indicazioni Nazionali”: il 10 ottobre in 25 città collegate la Scuola si confronta.
Il 10 ottobre prossimo si terrà il Convegno “Nuove Indicazioni nazionali. Un conflitto dalle grandi implicazioni ideali, culturali e politiche” che vuole essere un’occasione importante per riflettere sulle Nuove Indicazioni Nazionali e sulle loro implicazioni non solo didattiche, ma anche culturali e politiche, per ogni disciplina e, in particolare, per l’insegnamento della Storia. Venticinque città collegate tra loro, si confrontano su quale idea di cittadinanza, memoria e società vogliamo costruire o “ricostruire” . L’incontro ha come obiettivo quello di coinvolgere i docenti e i dirigenti, non solo della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado, cui le Nuove Indicazioni Nazionali sono rivolte, ma le scuole di ogni ordine e grado, comprese le scuole per l’Istruzione degli Adulti, sia “ liberi” che “ristretti”, perché il modo in cui insegniamo parla direttamente di quale idea di cittadinanza, memoria e società vogliamo costruire o “ricostruire” . Viste le autorevoli analisi degli esperti del settore che hanno ravvisato forti criticità nelle procedure costitutive dello statuto epistemico, sono state invitate a partecipare attivamente a questo confronto, le Scuole di ogni ordine e grado, i Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti, i Percorsi di Istruzione di secondo livello realizzati dalle istituzioni scolastiche di secondo grado (esterni ed interni agli istituti penitenziari), con i dirigenti e i docenti di ogni disciplina, perché si  ritiene importante far emergere approcci plurali che aprano spazi per una didattica realmente  inclusiva. Diversi sono  i Dirigenti che hanno confermato e stanno confermando la propria presenza, perché i cambiamenti relativi ai contenuti di alcune discipline, tra cui la Storia, pongono difficoltà non da poco, relativamente alla visione italocentrica, eurocentrica e, più in generale, occidentalocentrica che emerge dal testo delle Nuove Indicazioni. Forte interesse per il Convegno hanno dimostrato, peraltro, anche i CPIA e le sezioni scolastiche con percorsi di istruzione per gli adulti in generale, vista la rilevante presenza di studenti stranieri cui si rivolge l’offerta formativa, i cui Dirigenti scolastici, non solo si sono iscritti al Convengo, ma si sono resi disponibili, dalle 12.30 in poi,  a rimanere in collegamento con i rappresentanti di tale tipo di istruzione, intervenuti al convegno, per fare il punto della  situazione su quanto sta accadendo nell’Istruzione degli Adulti, dentro e fuori dal carcere. Il Convegno, con un impianto innovativo che mira a coinvolgere il maggior  numero di territori e di dirigenti e docenti, senza rinunciare alla loro partecipazione diretta e concreta, si svolgerà in modalità blended. Così, in circa venticinque città/province , il personale delle scuole di ogni ordine e grado si ritroverà in presenza nelle sedi scelte e, contemporaneamente, sarà collegato online con la Sala Convegni del CESP, nella sede Nazionale di Roma (Viale Manzoni, 55),per seguire i lavori seminariali e intervenire secondo quanto predisposto. La giornata sarà aperta dalla Presidente del CESP, seguiranno, poi, gli interventi di tre relatrici e dei rappresentanti del CESP e della Rete delle scuole ristrette. Alle 12.30 il collegamento si chiuderà e su ogni territorio si trarranno, tra i presenti, le conclusioni della giornata che saranno successivamente inviate al CESP e da questo raccolte e messe a disposizione dei partecipanti come materiale utile per ulteriori  approfondimenti. I referenti dell’Istruzione Adulti, come anticipato, continueranno, invece,  ad interloquire in un collegamento online a loro riservato, per fare il punto della situazione sulle condizioni del proprio segmento di istruzione, dentro e fuori dal carcere. Ad oggi, le sedi di svolgimento del convegno sono le seguenti: Ø  Roma –  Sala Convegni CESP- Viale Manzoni,55- RM Ø  Alessandria – Due sedi: –          CPIA 1 Alessandria- Casale- Sede di Alessandria: Via Plana,42-AL –          CPIA 2 Alessandria, Novi Ligure – Via Paolo Giacometti, 22 -AL Ø  Caserta – “Sala Moscati” – Piazza Pitesti, 1 – CE Ø  Chieti – Pescara – Istituto omnicomprensivo 1 “R. Mattioli – Salvo D’Acquisto”- Aula Magna IPSIA Via Montegrappa, 69 – San Salvo- CH Ø  Firenze/Prato –  Piazza dei Ciompi 11 presso Arci ore 8.30 – FI Ø  Frosinone – Convitto Nazionale Anagni – Piazza Bonghi, 2 -FR Ø  Genova – CPIA Centro Levante, Vico Vegetti, 2- GE Ø  Grosseto – CPIA 1, via Papa Giovanni XXIII, 13/B-GR Ø  Latina- Sala Circolo Cittadino- Piazza del Popolo,2 – LT Ø  Livorno – Sala Convegni CESP, Via Maggi,41- LI Ø  Napoli – Liceo Classico “Vittorio Emanuele II- Garibaldi, Via San Sebastiano,51-NA Ø  Pavia – Sede CPIA Pavia, via Ponte Vecchio,59 oppure Voghera- frazione Oriolo, via Lombardia 97/99- PV Ø  Pisa –  Aula Magna – IC “Vincenzo Galilei”, Via di Padule 35-PI Ø  Pistoia –  Biblioteca San Giorgio, Via Pertini, s.n.c. Pistoia – PT Ø  Potenza – Aula Magna, CPIA Potenza, via Pietro Lacava, n.2 – PZ Ø  Reggio Calabria – Sede CPIA Stretto Tirreno – Ionio, via Pio XI n 337 RC Ø  Salerno – Casa del Volontariato, via Filippo Patella, 2/6- SA Ø  Siena – Sede CESP, via Mentana, 100/102-SI Ø  Spoleto – Sala Capitolare IIS Sansi-Leonardi-Volta- Sede Liceo Artistico –, Piazza XX Settembre- (PG) Ø  Torino – CPIA 4 “Adriano Olivetti” Via Blatta,26/C, Chivasso-TO Ø  Trieste/Gorizia Davide Zotti (CESP Trieste) sarà presente a Roma e interverrà a nome della sede provinciale- TS Ø  Verona – CPIA 3 Verona, Borgo Venezia, Via Guglielmo Saliceto – VR
I COBAS lanciano alla ripresa delle lezioni “Davanti alle scuole per la Palestina”
A fianco alle mozioni collegiali, i COBAS lanciano l’iniziativa “Davanti alle scuole per la Palestina”affinché siano coinvolti tutti gli ordini di scuola, dall’infanzia alla secondaria, tutte le componenti scolastiche, genitori, studentesse e studenti, docenti e personale ATA, e tutta la cittadinanza: ·       Primo giorno di scuola: le scuole in Italia non riaprono tutte nello stesso giorno, per questo l’iniziativa non si concentrerà in una sola data, ma si diffonderà come un’onda lungo tutto il territorio nazionale.  ·       15 minuti prima della campanella, fuori dai cancelli, genitori, alunne/i, docenti e personale ATA si ritroveranno per esprimere la propria indignazione per il genocidio in atto e la solidarietà al popolo palestinese. ·       Cartelli, bandiere palestinesi, slogan, discorsi e, laddove possibile, un minuto di silenzio, renderanno visibile la voce della comunità scolastica. Un gesto semplice, ma forte, che vuole diventare virale e replicabile in tutte le scuole del Paese. L’obiettivo è duplice: ribadire il rifiuto della logica di guerra e genocidio, e difendere al tempo stesso lo spazio della scuola come luogo di pensiero libero e partecipazione democratica. La sensibilità e l’indignazione per ciò che accade a Gaza crescono giorno dopo giorno, e la scuola non intende restare in silenzio. I COBAS sostengono le mozioni che Collegi dei Docenti e Consigli di Istituto stanno approvando: condanna della violenza contro i civili, delle violazioni dei diritti umani, della guerra e di ogni forma di intolleranza e discriminazione. Le mozioni ribadiscono il diritto dei minori a vivere in sicurezza, salute, istruzione e dignità; promuovono una coscienza critica e solidale attraverso attività educative inclusive; esprimono solidarietà alla Global Sumud Flotilla, iniziativa non violenta a sostegno dei bambini di Gaza; e invitano a osservare nelle classi un minuto di silenzio per Gaza e la Palestina. Queste prese di posizione arrivano in un clima di crescente tensione istituzionale. Il 3 settembre 2025, l’Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio ha inviato ai Dirigenti scolastici una comunicazione contrassegnata come “RISERVATO”. Nel testo si afferma che “gli organi collegiali devono occuparsi solo di questioni relative al buon funzionamento dell’istituzione scolastica“, escludendo ogni altra finalità. Dietro il linguaggio burocratico si legge il tentativo di limitare il dibattito democratico. Ma il personale scolastico non può essere complice restando in silenzio: deve rivendicare il suo ruolo educativo di trasmissione dei valori di solidarietà con i popoli sottomessi e vittime di oppressione, violenza e ingiustizia, insieme a tutta la comunità educante. Per questo invitiamo le diverse realtà associative, tutte le componenti scolastiche e la cittadinanza a unirsi all’iniziativa “Davanti alle scuole per la Palestina”, trasformando l’inizio dell’anno scolastico in un segnale collettivo di solidarietà, dignità e resistenza civile. Esecutivo Nazionale COBAS Scuola
Iniziativa Davanti alle scuole per la Palestina
Nonostante i tentativi di censura da parte del MIM, numerose mozioni collegiali sono state deliberate o rese note per esprimere l’indignazione per il genocidio in atto, la solidarietà al popolo palestinese e la vicinanza con la missione umanitaria della  Global Sumud Flotilla. Il primo giorno di scuola, nelle date previste dai calendari regionali, le comunità scolastiche hanno aderito all’iniziativa lanciata dai COBAS SCUOLA “Davanti alle scuole per la Palestina” per ribadire il rifiuto della logica di guerra e genocidio in atto, e difendere al tempo stesso lo spazio della scuola come luogo di pensiero libero e partecipazione democratica. Alla scuola “Principe di Piemonte” di Roma L’iniziativa è iniziata alle ore 8:00 e ha visto la partecipazione attiva di circa 200 persone, tra genitori, bambine/i e personale scolastico. Bambine/i hanno portato barchette di carta che sono state posizionate in vari punti, insieme a cartelloni e uno striscione con scritto “Buon vento Sumud”. Alle ore 8:15 è stato osservato un sentito e toccante minuto di silenzio da parte di tutti i partecipanti.
COBAS SCUOLA: il tentativo del MIM di impedire il dibattito su Gaza
Il 3 settembre 2025 l’Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio ha inviato ai Dirigenti scolastici una comunicazione contrassegnata dalla dicitura “RISERVATO”. Nella comunicazione si afferma: La rilevanza degli eventi geopolitici in corso è una tematica su cui si invitano le SS.LL. a garantire la massima serenità nell’organizzazione di occasioni di confronto e di dibattito nell’ambito delle occasioni didattiche. Tanto premesso, è necessario sottolineare l’esigenza di assicurare le specificità dei luoghi e dei momenti della vita scolastica, quali le riunioni degli organi collegiali, che devono essere esclusivamente finalizzate alla trattazione delle tematiche relative al buon funzionamento dell’istituzione scolastica e sottratte a qualunque altra finalità. Dietro un linguaggio apparentemente neutro e burocratico si intravede una precisa intenzione politica di ridurre al silenzio il personale scolastico, impedendo che il dibattito sugli eventi internazionali – e in particolare sul genocidio in corso a Gaza – trovi spazio nei luoghi deputati al confronto e alla partecipazione democratica. Già nello scorso anno scolastico, il personale di diverse scuole aveva approvato documenti di denuncia, organizzato assemblee, promosso iniziative di riflessione pubblica. Iniziative che davano voce all’indignazione civile di chi non accetta la logica della guerra e dello sterminio, rivendicando con forza lo slogan “Stop al genocidio” e chiedendo alla politica scelte concrete. La nuova comunicazione del MIM appare dunque come una reazione difensiva, un tentativo di chiudere gli spazi di libertà che la scuola, pur tra mille difficoltà, ancora riesce a preservare. L’aspetto più significativo – e inquietante – è la modalità con cui il messaggio è stato trasmesso. Non una circolare pubblica che poteva essere discussa, ma una documento riservato, indirizzato esclusivamente ai Dirigenti scolastici. Perché? La risposta è evidente, il Ministero teme il dissenso, consapevole che gran parte del personale scolastico, così come una larga fetta della società civile, non accetterebbe passivamente un’imposizione che limita la libertà di parola e di pensiero. Eppure la scuola, per sua natura, non può rinunciare alla dimensione critica. È luogo di formazione, di costruzione del pensiero libero, di educazione alla cittadinanza democratica. Pretendere che gli organi collegiali si occupino soltanto di orari, programmi e bilanci, senza possibilità di esprimersi su questioni così importanti che riguardano tutti, significa ridurre la scuola a un ufficio amministrativo, soffocando la sua missione più autentica. Il tono della nota, perentorio e intimidatorio, contrasta con l’essenza stessa della democrazia scolastica. Ogni comunità scolastica, infatti, ha il diritto – e anzi il dovere – di prendere posizione di fronte a eventi che interpellano la coscienza collettiva. L’orrore di Gaza non è una questione “esterna” o “altra” rispetto alla vita scolastica, riguarda direttamente il modo in cui formiamo i cittadini consapevoli e responsabili di domani, la capacità di leggere criticamente i fenomeni globali, l’educazione al rispetto dei diritti umani. C’è inoltre un paradosso che va sottolineato, mentre le stesse istituzioni invocano continuamente la necessità di contrastare le fake news si tenta di impedire al personale scolastico di discutere e di produrre documenti su un tema che occupa le prime pagine dei giornali e scuote le coscienze di tutto il mondo. Quale credibilità può avere un’istituzione che impedisce le voci critiche quando queste si esprimono collettivamente? La verità è che la scuola, anche quando si muove nel solco della legalità e del rispetto istituzionale, fa paura se diventa spazio di elaborazione critica. Per questo si tenta di imbrigliarla, confinandola in un ruolo tecnico-burocratico. È per questo che la comunicazione del MIM rischia di produrre l’effetto contrario a quello desiderato. Invece di spegnere il dissenso, potrebbe accrescerlo, stimolando la comunità scolastica a moltiplicare le occasioni di confronto e le iniziative.Non si può impedire a chi educa di restare in silenzio davanti a un genocidio. Zittire la scuola equivale a zittire la società civile, a impoverire il dibattito democratico, a rinunciare a un patrimonio di pensiero critico che costituisce il vero antidoto contro autoritarismi e derive illiberali. Il silenzio imposto è sempre un silenzio complice. Per questo oggi più che mai è necessario che il personale scolastico, i Collegi dei Docenti, i Consigli di Istituto si assumano l’impegno di parlare, di scrivere, di manifestare. E’ l’idea di scuola e di democrazia che vogliamo difendere. La comunicazione riservata del MIM non può restare confinata nei cassetti dei Dirigenti scolastici, va resa pubblica, discussa, contestata apertamente.
Un’analisi critica dell’assicurazione sanitaria integrativa per il personale scolastico
Il recente provvedimento introdotto con l’art. 14, comma 6, del Decreto-Legge n. 25 del 14 marzo 2025 ha previsto l’istituzione di un servizio di copertura assicurativa integrativa per le spese sanitarie del personale scolastico. Il Ministro dell’Istruzione e del Merito ha presentato la misura come un segnale concreto di riconoscimento del ruolo del personale scolastico, enfatizzando l’entità delle risorse stanziate e prospettando una copertura di 3.000 euro annui per ogni beneficiario. La norma prevede un investimento complessivo pari a 260 milioni di euro tra il 2026 e il 2029. La definizione dei criteri e  delle  modalità di accesso al sistema di assistenza integrativa per il  personale  di cui  al  primo  periodo  sono  definiti  in  sede  di  contrattazione collettiva integrativa a livello  nazionale. Il Contratto Collettivo Nazionale Integrativo (CCNI) è stato firmato l’11 agosto 2025 dal MIM e dai sindacati sottoscrittori del CCNL 2019/2021, mentre la Cgil ha rimandato la decisione ai propri organismi statutari. L’art. 3 individua i destinatari della misura. Il personale scolastico di ruolo a TI e a TD con incarico fino al 31 agosto. Vengono esclusi quelli con contratto fino al 30 giugno e i supplenti brevi. Il personale scolastico in Italia  conta circa 1.200.000 unità, tra docenti, ATA, educatori  e IRC. I 260 milioni di euro, corrispondono in media a circa 216 euro complessivi in quattro anni per ciascun dipendente. Una cifra ben lontana dalle dichiarazioni ufficiali. Per reperire le risorse necessarie il Governo ha deciso di ridurre il Fondo per il funzionamento amministrativo e didattico delle istituzioni scolastiche. Dal 2026 al 2029 il taglio previsto ammonta a 200 milioni di euro complessivi, incidendo direttamente e pesantemente sul bilancio delle scuole. Le istituzioni scolastiche statali funzionanti nell’anno scolastico 2024/2025 sono circa 7.600 (127 CPIA). In media, ogni scuola perderà circa 30.000 euro in quattro anni, una somma significativa per istituti che già oggi operano in condizioni di scarsità di risorse. Questi tagli rischiano di compromettere ulteriormente la qualità dell’istruzione, andando a incidere su attività didattiche, acquisto di materiali, manutenzione ordinaria degli edifici scolastici e organizzazione di progetti educativi. La copertura assicurativa, di fatto, favorisce il ricorso a strutture sanitarie private. Il provvedimento si inserisce in un quadro più ampio di progressiva privatizzazione della sanità. Un aspetto che suscita non poche perplessità è la partecipazione dei sindacati rappresentativi alla definizione del provvedimento. Può essere letta come una legittimazione piuttosto acritica di una misura propagandistica. La copertura assicurativa sottrae fondi preziosi al sistema scolastico e incentiva un modello sanitario sempre più privatizzato. La riduzione dei fondi destinati al funzionamento delle scuole produrrà con ogni probabilità un effetto immediato e già noto alle famiglie, l’aumento del cosiddetto contributo volontario. Quella quota che le istituzioni scolastiche, pur presentandola come non obbligatoria, finiscono spesso per richiedere con insistenza per poter garantire il funzionamento amministrativo e didattico. In diverse scuole secondarie di secondo grado, il contributo chiesto alle famiglie può raggiungere cifre anche superiori ai 150/200 euro l’anno per studente/ssa, destinate a coprire spese per laboratori, innovazione tecnologica, attività integrative, ampliamento dell’offerta formativa, acquisto di carta e toner per le fotocopiatrici, manutenzione ordinaria degli edifici, fino alla fornitura di beni essenziali come il sapone e la carta igienica. Da un lato si finanzia un’assicurazione sanitaria integrativa, presentata come misura di tutela della salute del personale scolastico, dall’altro, si riducono i fondi destinati all’istruzione, costringendo le famiglie a coprire spese che dovrebbero essere a carico dello Stato. In pratica, due diritti fondamentali come la salute e l’istruzione, entrambi riconosciuti e garantiti dalla Costituzione italiana, vengono messi in conflitto fra loro, come se la tutela dell’uno dovesse necessariamente avvenire a scapito dell’altro. Da un lato si mina il principio dell’accessouniversale e gratuito all’istruzione, sancito dall’articolo 34 della Costituzione, dall’altro si rischia di accentuare le disuguaglianze sociali, poiché il contributo delle famiglie, pur dichiarato volontario, diventa di fatto indispensabile per il funzionamento amministrativo e didattico delle Scuole. Le famiglie, economicamente sempre più fragili, si trovano così ulteriormente penalizzate, costrette a scegliere se versare o meno somme che, pur presentate come facoltative, diventano nella realtà condizioni di accesso alle attività scolastiche. La vera alternativa dovrebbe consistere in un rafforzamento della sanità pubblica, con investimenti strutturali che riducano le liste d’attesa e migliorino l’accessibilità ai servizi. In definitiva, l’istruzione pubblica si allontana progressivamente dal modello universalistico e gratuito disegnato dalla Costituzione, trasformandosi in un servizio condizionato dalle possibilità economiche delle famiglie. Una scelta che appare non solo discutibile, ma profondamente ingiusta in un Paese che dovrebbe fare dell’uguaglianza nell’accesso all’istruzione uno dei pilastri della democrazia. Domenico Montuori
Intorno al divieto degli smartphone in classe
La decisione del ministro Valditara di vietare a scuola l’uso degli smartphone in classe, in combinazione con la polemica sempre-verde sulla “nefasta” influenza degli smartphone/social sui giovani (ma anche sui meno giovani, sottolinerei nel caso), ha riacceso una vivace discussione nella parte di società attenta al ruolo della scuola nella formazione delle nuove generazioni, e in primo luogo tra i docenti e le famiglie con figli/e in età scolare. Di per sè il provvedimento sembra di elementare buonsenso: se devi seguire una lezione non puoi trastullarti con lo smart, se devi fare un compito in classe o rispondere a domande didattiche non puoi farlo usando Internet. E anzi, questa decisione arriva casomai tardi a livello internazionale , visto che (dati del Global Education Monitoring/UNESCO) a fine 2024 ben 79 paesi avevano già adottato il provvedimento.  Quello che stona è il fatto che il provvedimento è stato accompagnato dal plateale tentativo del ministro di caricare la decisione di un impatto educativo “epocale”, sostenendo che il provvedimento servirà a dimostrare ai/alle ragazzi/e in età scolare quanto sia dannoso l’abuso dello smart (e magari anche quello dei social), da una parte contribuendo a “risanarli” dagli effetti “droganti” del mezzo e dall’altra dando sfoggio di un presunto rigore didattico-educativo e di un ritorno alla “scuola seria e impegnativa” che Valditara e il governo in generale si piccano di ben predicare, razzolando poi male. Certo, vi è oramai un consenso diffuso sul fatto che un uso smodato degli smartphone (come dei social e della “vita in Rete”) provochi a tanti/e giovani ansia, deficit di apprendimento e cognitivo, carenze relazionali e difficoltà di conciliare la vita virtuale da smart/social con quella reale, nonchè una dipendenza dal “drogaggio informatico” spesso pesante e alienante. Ma sostenere che questa condizione possa essere esorcizzata con una “astinenza” forzata nelle 4-5 ore scolastiche giornaliere è pura retorica nonchè un tentativo smaccato di captatio benevolentiae nei confronti delle famiglie: soprattutto se non si considerano le varie e profonde ragioni della fascinazione che smart/social esercitano non solo sui giovani ma anche su individui che, rispetto ai “nativi digitali”, dovrebbero essere immuni nei confronti del “contagio”, avendo effettuato il percorso educativo quando di smart/social non vi era traccia. Un paio di anni fa, alla ripresa delle lezioni, scrissi un articolo, L’esercito del selfie, in cui cercavo di trattare la complessità dell’uso degli smart/social/selfie: uso che supera ogni barriera di generazione, collocazione sociale, etnia, nazione, livello economico, coprendo pressoché l’intero pianeta in maniera omogenea. Cercavo di dimostrare come fosse semplicistico fotografare il fenomeno epocale come se si trattasse di una sorta di ipnosi universale indotta dal “sistema” o di una dimostrazione di sudditanza globale e acefala alla potenza tecnologica dell’immagine e dell’informazione a flusso continuo: e soprattutto senza tener conto delle “gratificazioni” e delle emozioni/passioni che il fenomeno alimenta tra milioni (anzi, oramai miliardi) di individui di ogni età e collocazione sociale e territoriale. Richiamavo l’attenzione in particolare sull’enorme influenza che sul fenomeno planetario giocava il desiderio di protagonismo individuale, che i social/smart e la Rete telematica globale possono oggi, almeno sulla carta, garantire a chiunque, andando ben oltre il celebre motto di Andy Warhol sul “quarto d’ora di notorietà” che la società dello spettacolo e della comunicazione/informazione può promettere a chiunque. Per la verità, all’epoca il mio obiettivo era più limitato di una trattazione a tutto campo dell’argomento, perchè mi interessava affrontare il problema soprattutto per delinearne gli effetti negativi sul protagonismo collettivo, in particolare su quello politico/sindacale/sociale di base (e quindi anche sull’attivismo COBAS). La mia argomentazione utilizzava varie esperienze che ho fatto negli ultimi anni, in particolare in assemblee COBAS  e convegni CESP. Laddove sovente avevo provato a dare una spiegazione non convenzionale di un fenomeno descritto negli ultimi tempi da parecchi insegnanti: e cioè, appunto, l’ossessiva necessità della maggioranza degli studenti di avere con sè in consultazione continua lo smartphone, al punto da manifestare una “crisi di astinenza” se ne vengano separati durante le lezioni. Ricordo in particolare un docente che segnalava come, nel caso che vi siano stati chiusi gli smart, tanti studenti guardino gli armadietti come se ci fosse imprigionato un animaletto amato e sofferente per la “clausura”. In tali consessi, ho espresso l’opinione che non si trattasse di un rincoglionimento collettivo o di processi “decerebranti” degli smart/social, ma di qualcosa di più complesso e profondo, e cioé di un bisogno spasmodico di protagonismo individuale. E per spiegarmi, ho fatto un paragone con un’analoga necessità, seppur su livelli di protagonismo ben più motivati e “produttivi”, dei politici in carriera: quello di restare in permanenza collegati con i social e di dare in continuazione segnali della propria presenza nelle quotidiane polemiche politiche. Ho avanzato l’ipotesi che la stessa frenesia di protagonismo social del politico in carriera, o dell’intellettuale o del sindacalista celebre colpisca anche milioni di giovani che sentono un’analoga necessità di segnalare la propria presenza nell’agone sociale, amicale, familiare, con il conseguente bisogno di non staccarsi mai dal dialogo incessante con i propri follower o più semplicemente con i gruppi sociali e amicali con i quali siano in collegamento permanente. Si può obiettare che i due piani non siano paragonabili. Però, a controprova, segnalerei innanzitutto il successo cosmico di milioni di influencer, sia quelli/e dotati di abilità specifiche, ma sia anche di “giovani qualunque”. come quel Khaby Lame,  che dal suo lavoro precario perso nel 2020 a venti anni, ha  guadagnato in tre anni oltre cento milioni di followers in tutto il mondo sbeffeggiando su Tik Tok, senza parlare, la banalità dei video di altri frequentatori social, divenendo poi una star del mondo dello spettacolo. Possiamo sottovalutare l’effetto imitativo di questi casi, per quanto oramai dilaganti, di improvviso successo planetario di persone che, senza alcuna abilità professionale, riescono a raggiungere una notorietà globale. Ma non possiamo ignorare almeno il fatto che milioni di giovani e meno giovani si accontentano di una notorietà assai più limitata, magari in una cerchia di amici, familiari, colleghi di lavoro e “amicizie virtuali”accumulate nei social, al fine di uscire dall’oramai insopportabile anonimato che segnava, prima del trionfo dei social, miliardi di individui che non svolgevano attività politiche, economiche o sociali di una qualche rilevanza. Se si comprende quanto sia divenuta pressante tale esigenza, allora si capisce perchè, per guadagnarsi una seppur circoscritta notorietà, essi/e devono competere quotidianamente – con un impegno continuo che rende indispensabile aver sempre a portata di mano l'”attrezzo da lavoro” mediatico – con tutti/e gli altri/e che cercano una qualche visibilità. E la cosa va ben oltre le generazioni o i confini territoriali. Chiunque abbia la ventura di viaggiare nei luoghi più disparati e diversi verifica quotidianamente quanto sia dilagante – e superi barriere geografiche, di tradizioni, religioni, etnie, modelli culturali e stili di vita – il desiderio di emergere in qualche modo dall’appiattimento universale, di essere protagonisti almeno in alcune cerchie di vicinanza, di ottenere l’approvazione e la curiosita degli altri/e su se stessi almeno per qualche tempo. Insomma, qualcosa di più complesso del semplice narcisismo: un irresistibile desiderio di dare segno di sè, di lasciare una traccia , fosse pure nelle piccole conventicole delle proprie chat.  Se poi a tutto questo aggiungiamo l’effetto affascinante di ricevere notizie di ogni genere, immagini, video, musiche e quant’altro, da tutto il mondo e senza soste, l’idea di separare da questo flusso continuo, per tanti/e vivificante, milioni di giovani con la “sospensione” di alcune ore scolastiche, sia del tutto illusorio. Non si può negare però che una igiene didattica ed educativa il provvedimento, se ben gestito nelle scuole, la possa realizzare, senza che se ne debbano millantare epocali effetti positivi al di là della scuola. Perchè è davvero impensabile che un docente riesca a svolgere bene il proprio lavoro educativo e formativo nei confronti di alunni/e che nel contempo siano impegnati/e a seguire il fluire continuo delle chat del proprio gruppo di appartenenza o l’osservazione ininterrotta di quel che gira senza sosta sullo  smart. Ed è altrettanto impensabile che si possano svolgere verifiche serie delle conoscenze, se lo studente ha la possibilità di surrogare un sapere deficitario facendo ricorso all’immane competenza contenuta nella Rete e fruibile grazie allo smart. Anzi, credo che oramai i/le docenti dovrebbero aver realizzato che, con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale, sia il processo della trasmissione del sapere (neanche il/la più bravo/a docente al mondo può competere in qualsiasi materia con l’oceanica conoscenza immagazzinata in Rete che la IA sintetizza e offre in tempi fulminei), sia quello delle verifiche di competenze/conoscenze dell’alunno/a vadano rivisti alla radice. Piuttosto, a proposito di docenti, darei per scontato che il divieto  – che comunque andrà introdotto con duttilità e diplomazia nelle scuole e concordato/condiviso con gli studenti – valga anche per i docenti. Che dovrebbero assolutamente evitare di annullare gli effetti dei provvedimento cercando con artifici vari (e prevedibili richieste di esenzione) di scansarlo per sè. E, in più, estenderei tale divieto a tutta l’attività scolastca oltre le lezioni, e dunque anche ai Collegi, ai Consigli di classe e a tutte le attività in cui l’attenzione docente, come quella del discente in classe, non dovrebbe essere fuorviata dall’intervento del “fascinoso e conturbante” smartphone. Piero Bernocchi
Le Nuove Indicazioni Nazionali e l’ Istruzione degli Adulti.
I Centri Provinciali di Istruzione degli Adulti (CPIA) nelle Nuove Indicazioni Nazionali. Nelle Premesse culturali alle Indicazioni Nazionali per la Scuola dell’Infanzia e del primo ciclo d’istruzione, si fa riferimento in due occasioni ai CPIA. Una prima volta, a pag 11, nella sezione “Scuola che sa essere inclusiva”, si afferma che in Italia, a quasi cinquant’anni dalla L. 517/1977   (cha ha permesso di accogliere nelle nostre aule gli allievi con disabilità), la scuola è entrata in una nuova stagione, “esito di un processo di evoluzione culturale sul tema dell’approccio educativo ai Bisogni speciali”, grazie ai quali l’idea di inclusione scolastica si baserebbe sul riconoscimento della rilevanza della piena partecipazione alla vita scolastica da parte di tutti i soggetti, non solo delle persone con disabilità, “ fino ad abbracciare il diritto allo studio degli alunni adottati”  (per una visione critica dei BES si rimanda all’articolo presente in questo numero: La deriva medicalizzante della scuola: progettualità e relazione educativa). Il nostro Paese, si scrive nel testo, si colloca, infatti, all’avanguardia nel mondo per la promozione dell’educazione interculturale, l’assegnazione alle scuole del primo ciclo di docenti aggiuntivi della classe di concorso 23/A (insegnamento della lingua italiana per i discenti di lingua straniera) per l’insegnamento dell’italiano nelle sezioni con un numero di studenti stranieri, che si iscrivono per la prima volta al sistema nazionale di istruzione, superiore al 20 per cento degli alunni della classe, in precedenza assegnati solo ai CPIA. Si nominano, poi, una seconda volta i CPIA, a pag 13 “Finalità della scuola dell’infanzia e delle scuole del primo ciclo di istruzione”, quando si afferma che l’impegno a far conseguire le competenze-chiave per l’apprendimento permanente definite dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione europea ( 1.competenza alfabetica funzionale; 2. competenza multi linguistica; 3.competenza matematica e competenza in scienze, tecnologie e ingegneria; 4. competenza digitale; 5.competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare; 6. competenza in materia di cittadinanza; 7.competenza imprenditoriale; 8.competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali), non si esaurisce al termine del primo ciclo di istruzione, ma prosegue con l’estensione dell’obbligo di istruzione nel ciclo secondario e oltre, anche attraverso il ruolo strategico dei CPIA, in una prospettiva di educazione permanente, per tutto l’arco della vita. Peccato che nella premessa si cerchi di dare, dell’istruzione adulti e dell’impegno che i vari dicasteri succedutisi dal 2015 ad oggi, hanno assunto nei confronti di un segmento così importante dell’istruzione nel nostro Paese, un’immagine che non risponde alla realtà, dimenticando di dire che: a) il “suggestivo” incremento (930 docenti), per l’insegnamento della Lingua Italiana agli stranieri (classe di concorso A23), è il frutto di un taglio di 5.660 posti in organico di diritto per l’anno scolastico 2025-2026 (oltre al fatto che gli studenti stranieri saranno inseriti in una classe apposita “per approfondire l’Italiano”) e che l’organico della classe di concorso A23, come da anni sottolineano i docenti impegnati nei CPIA e nell’istruzione adulti del secondo livello, sia del tutto insufficiente a garantire una reale inclusione dei ragazzi e degli adulti con background migratorio; b) che i Centri di istruzione provinciale per gli Adulti (CPIA), per i limiti dei finanziamenti che ne impediscono l’estensione, e a causa di un limitato  organico docente dedicato alle attività di istruzione, non riescano per nulla ad assumere una prospettiva di educazione permanente. I CPIA, infatti, riescono a rivolgersi quasi esclusivamente agli adulti stranieri, escludendo, per i finanziamenti non adeguati e una programmazione che non prevede una sua più ampia diffusione, quegli  adulti italiani che avrebbero, invece, estremamente bisogno di esservi inseriti, visto che il 40% della popolazione, tra i 14 e i 64 anni, risulta in possesso della sola Licenzia di scuola media. Occorrerebbe, invece, per dar seguito alla richiamata educazione permanente, un intervento uniforme, per potenziare l’organico, al fine di sostenere gli adulti privi di titoli di studio o di conoscenze adeguate, in modo da rafforzare queste ultime e far acquisire loro le necessarie abilità di base. L’investimento avrebbe, peraltro, un importante ritorno economico per la crescita occupazionale e i costi di una povertà, economica ed educativa, fortemente diffusa nel nostro paese (si veda al proposito, Orazio Giancola e Luca Salmieri, in La povertà educativa in Italia, Carocci, 2023).   “Solo l’Occidente conosce la Storia”. Ma non sono solo questi riferimenti che preoccupano i docenti che sono impegnati a vario titolo nell’Istruzione degli Adulti, i quali, non a caso, stanno dimostrando un vivo interesse per il prossimo Convegno sulle Nuove Indicazioni Nazionali, organizzato dal CESP, che si terrà il 10 ottobre e vi si stanno iscrivendo numerosi. Pur tralasciando di entrare nel merito di altri aspetti delle Nuove Indicazioni nazionali (punti che sono ampiamente trattati negli altri articoli pubblicati in questo numero della Rivista Cobas), non si può, però, tacere su quanto scritto relativamente all’Organizzazione del curricolo per l’insegnamento della Storia che pone, proprio per chi insegna agli adulti (quasi sempre stranieri), seri problemi di interpretazione, a partire dal senso dell’emblematica affermazione posta proprio all’inizio della parte orientativa della Storia, nella quale si afferma, in tono perentorio “Solo l’Occidente conosce la Storia”. L’affermazione, sin dalle prime versioni del testo, ha destato numerosi interrogativi e prese di posizione, che hanno determinato altrettante repliche da parte degli stessi estensori del documento, come quella di Ernesto Galli della Loggia(Coordinatore del gruppo che ha scritto la parte relativa alla Storia nelle Indicazioni nazionali), pubblicata il 24 marzo scorso sul Corriere della Sera, il quale ha polemicamente affermato “ almeno per chi ha una qualche confidenza con la lingua italiana, l’espressione «solo l’Occidente conosce la Storia» («conosce», non «ha») lungi dal significare «solo l’Occidente ha avuto una storia e tutti gli altri no», significa che  […] solo in quell’area geo-storica che si chiama Occidente la conoscenza dei fatti storici e la riflessione su di essi — alimentata dal pensiero greco-romano e dal messaggio cristiano — ha dato vita a una dimensione culturale particolarissima nella quale il realismo analitico più crudo si è mischiato al profetismo sociale più estremo.” Ma, in verità, la risposta di Galli Della Loggia, gira solo intorno al problema posto dall’incipit, in quanto si ricorre all’autorità di uno storico dello spessore di Marc Bloch, citato strumentalmente nelle Indicazioni, il quale, nel famoso testo “Apologia della storia” scriveva, sì “anche altre civiltà, altre culture, hanno assistito a un inizio di scrittura che possedeva le caratteristiche della scrittura storica. Ma quell’inizio è ben presto rimasto tale, ripiegando su se stesso e non dando vita ad alcuno sviluppo; quindi non segnando in alcun modo la propria cultura così come invece la dimensione della Storia ha segnato la nostra”, non per sostenere che gli altri popoli sono senza storia, ma che l’Occidente ha elaborato nel corso del tempo un modo specifico di relazionarsi, di interpretare, trasmettere, studiare e raccontare i fatti accaduti, ovvero il passato, cioè la storia. Inserire tale frase in un testo come quello delle Indicazioni Nazionali, che non forniscono semplici “suggerimenti” per la costruzione del curricolo della Storia, ma costituiscono un preciso “orientamento”, significa, invece, surrettiziamente, affermare che bisogna insegnare la storia occidentale perché questa è l’unica depositaria di una visione analitica e critica della Storia. Istruzione degli Adulti, dialogo interculturale e inclusione. Ovviamente per i docenti impegnati nell’istruzione degli adulti, formata da classi in cui gli immigrati costituiscono percentuali importanti (quando non esclusive), questa impostazione mette in discussione ed annulla i presupposti  su cui si fondano i principi dell’inclusione, richiamata in funzione puramente demagogica nella premessa delle Indicazioni, come apparente fiore all’occhiello dell’Italia che, si scrive, “promuove la piena partecipazione alla vita scolastica da parte di tutti i soggetti”. Si chiedono, infatti, i docenti dei CPIA e del secondo livello di istruzione, in carcere e fuori, come si possa, di fronte ad una platea comprendente appartenenze culturali, religiose ed etniche, varie e multiformi, presentare una visione tanto unilaterale della Storia, alla quale manca qualunque riferimento multiculturale, quando occorrerebbe, invece, in una prospettiva realmente “inclusiva”, proporre curricoli laici e aperti alle diverse realtà presenti nelle nostre scuole. Ma nel documento non ci si ferma qui, si prosegue ulteriormente, rilevando la preminenza del pensiero italiano e riproponendo, proprio nell’attuale periodo storico, contrassegnato da un crescente fenomeno immigratorio, la centralità della storia nazionale, quale elemento fortemente identitario “Nella scuola primaria sembra poi necessario che l’insegnamento abbia al centro le origini della civiltà occidentale, su cui si fonda anche la nostra storia nazionale e la nostra identità, sia al fine di far maturare nell’alunno la consapevolezza della propria identità di persona e di cittadino, sia – vista la sempre maggiore presenza di giovani provenienti da altre culture – al fine di favorire l’integrazione di questi ultimi, integrazione che dipende anche, in modo determinante, dalla conoscenza dell’identità storico-culturale del paese in cui ci si trova a vivere.”  Nulla di più lontano da parte di chi, prendendo atto della trasformazione multietnica e multiculturale della nostra società, pur facendo riferimento alla dimensione italiana ed europea, proprio attraverso l’insegnamento della Storia forniscono agli studenti gli strumenti per riconoscere le diversità delle varie culture, permettendo la convivenza e promuovendo, attraverso il dialogo interculturale, l’inclusione, la tolleranza e il rispetto delle diversità. Anna Grazia Stammati
IL CONTROVERSO SCENARIO INTERNAZIONALE E IL NOSTRO DIBATTITO INTERNO
Dagli anni Novanta, il bipolarismo tra le due super-potenze USA-URSS è finito con l’implosione dell’URSS e del blocco ‘socialista’. Anziché la ‘fine della storia’, vaticinata da Fukuyama, la fine del conflitto ideologico-militare ha provocato la rinascita della “politica di potenza” da parte dell’imperialismo statunitense ed euro-atlantico – in particolare con l’allargarsi della NATO in Europa e le operazioni militari nella  regione del Golfo contro l’Iraq (‘90-‘91), in Yugoslavia (‘95), in  Afghanistan (2001), di nuovo Iraq (2003), Libia (2011) – e da parte del neo-zarismo imperiale russo con le guerre contro la Cecenia (’94-’96 e ’99-2009), Georgia (2008), Crimea (2014) e Ucraina (2022) con l’occupazione delle regioni orientali del Donbass e i tentativi di rovesciare Zelenski; infine, la Cina che punta all’annessione di Taiwan. A fronte di squilibri sempre più drammatici, compreso il rischio di disastro planetario – dovuto alla minaccia russa di ricorso alle armi nucleari – , si è aperto un confronto importante all’interno dei COBAS Scuola con differenti letture delle dinamiche in corso, le quali però possono essere ricomposte in un quadro condiviso di principi fondamentali che determinano la nostra collocazione sindacale, sociale e politica. DALLA GUERRA FREDDA AL RITORNO DELLE POLITICHE DI POTENZA NEL XXI SECOLO Con il crollo del blocco sovietico e la disgregazione dell’Unione Sovietica, è iniziata una campagna di “esportazione” del modello liberal-democratico, con interventi militari nelle regioni dove non si esercitava più il dominio o l’influenza dell’URSS e con risultati disastrosi per le popolazioni: dopo vent’anni di occupazione l’Afghanistan è tornato nelle mani dei talebani, l’Iraq è divenuto l’incubatrice di movimenti jihadisti-terroristi come Daesh/ISIS, la Libia divisa in tre zone controllate da “signori della guerra”; in Siria è infine caduto il criminale regime di Assad, ma sostituito da un governo dell’(ex?) jihadista Ahmed Al-Sharaa (Abu Mohammed al-Jolani) che non sembra intenzionato a (o non è in grado di) mantenere garanzie per i non musulmani (drusi e kurdi in primis). La Russia, dopo un periodo di grave difficoltà e corruzione seguito alla dissoluzione dell’URSS, con l’elezione alla Presidenza nel 1999 di Putin – ora al quarto mandato – ha rilanciato un progetto di potenza neoimperiale mescolando ideologia reazionaria neozarista, oscurantismo ortodosso, neostalinismo, in chiave iper-nazionalista, allo scopo di riconquistare uno spazio imperiale russo centrato sul dominio dei Paesi confinanti. Nello scenario mediorientale, il riacutizzarsi del conflitto intra-confessionale islamico (sciiti contro sunniti) ha provocato conflitti acutissimi, con l’emergere di progetti pan-islamisti che hanno sostituito i progetti pan-arabi: in tale contesto, Israele si è trovato fin dalla sua fondazione a fronteggiare una lotta per l’esistenza, sostenendo e vincendo la guerra scatenata dai Paesi Arabi all’indomani della proclamazione dello Stato di Israele, mentre i palestinesi ricordano la ‘pulizia etnica’ dei villaggi palestinesi tra il ’47 e il ’48, effettuato dalle milizie israeliane (al-Nakba, il ‘Disastro’ o la ‘Catastrofe’). Il governo di ultradestra di Netanyahu, sostenuto dalla destra messianica, ha scatenato una reazione feroce in risposta agli atti terroristici di Hamas, in particolare quello efferato del 7 ottobre 2023. Le interpretazioni su questi eventi si sono differenziate tra chi ritiene che la reazione di Israele, per quanto di fatto stragista e pesantissima per la popolazione palestinese, non si proponga un genocidio ma sia finalizzata a distruggere Hamas e a ridimensionare tutti coloro (Iran, in primo luogo) che hanno come obiettivo la distruzione dello Stato di Israele, definito con disprezzo ‘Entità Sionista’; e chi invece sostiene che siamo di fronte al rilancio del progetto sionista neocoloniale di Israele, attuato mediante una criminale guerra di aggressione genocida contro la popolazione palestinese, con l’obiettivo di impossessarsi di tutto il territorio dal Giordano al Mediterraneo, espellendo la gran parte dei palestinesi e creando zone “cuscinetto” in Libano e Siria. Una seconda differente lettura riguarda il ruolo di Hamas, per alcuni/e responsabile – oltre ad aver imposto con la forza il proprio regime a Gaza – di aver compiuto l’orrendo massacro del 7 ottobre proprio per provocare la più spietata reazione di Netanyahu e così delegittimare Israele agli occhi del mondo, cosa che sta effettivamente accadendo, ma a carissimo prezzo per la popolazione di Gaza che subisce una strage che Hamas avrebbe potuto interrompere rilasciando gli ostaggi; per altri/e Hamas, al di là del massacro del 7 ottobre, è comunque rappresentante dei palestinesi, in mancanza di alternative laiche come quelle egemoni negli anni ’70 e a causa della corruzione e impotenza dell’ANP. I PRINCIPI DELLA AUTO-ORGANIZZAZIONE SOCIALE, POLITICA, CULTURALE DELLA SOCIETÀ Tratteggiato sinteticamente il nuovo quadro geopolitico, evidenziamo ora succintamente i fondamentali principi etico-politici su cui si fonda la nostra organizzazione e il nostro agire collettivo: innanzitutto, l’auto-organizzazione di lavoratori/trici e cittadini/e, che comporta la riduzione al minimo della delega e di forme burocratiche (sindacali e/o politiche); in secondo luogo la reale partecipazione di ogni persona, sia per quanto riguarda il proprio ruolo lavorativo, sia per l’appartenenza in generale ad una comunità; in terzo luogo, la costituzione di organismi “di base” senza deleghe “in bianco” o prive di controllo. Perciò ci battiamo per il rispetto dei diritti civile e sociali che molti regimi non riconoscono (personali: libertà nella sessualità e nella vita affettiva; civili: parità di genere ed emancipazione delle donne, riconoscimento dei diritti per omosessuali e comunità transgender; sociali: diritti dei lavoratori/trici, equità salariale e trattamento paritario tra uomini e donne; politici: libertà di parola, di associazione e di dissenso).Non è pertanto casuale che la causa del popolo kurdo, culminata nell’abbandono della lotta armata del PKK e nell’affermazione del Confederalismo Democratico – proposto da Ocalan per la risoluzione del conflitto kurdo-turco e realizzatosi nella regione autonoma del Rojava con il protagonismo essenziale delle donne – rappresenti per noi la prospettiva condivisa e fraterna di società, di concezione libera dei rapporti personali e di reale uguaglianza tra donne e uomini. CONTRO OGNI FORMA DI AGGRESSIONE (ECONOMICA, POLITICA, MILITARE, DI GENERE), PER L’AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI E I DIRITTI UNIVERSALI DEI CITTADINI/E Nei conflitti che a partire dagli anni Novanta si sono succeduti fino ad oggi, i COBAS si sono schierati contro le aggressioni imperialiste alla sovranità degli Stati e alle popolazioni civili, rivendicando peraltro la legittimità alla resistenza armata da parte dei popoli aggrediti (distinguendoci dal pacifismo non-violento “di maniera”). Nel 2022, la Russia ha iniziato un’occupazione militare, chiamata eufemisticamente “Operazione Speciale”, su cui si è aperta un dibattito tra chi sostiene che questa guerra sia un’inaccettabile aggressione imperialista da parte della Russia e chi l’ha considerata, pur senza giustificarla, una reazione “eccessiva” all’accerchiamento da parte della NATO. In nessun caso, comunque, si possono giustificare azioni militari e bombardamenti contro i civili, da chiunque arrivino, anzi devono essere decisamente condannati. L’autodeterminazione dei popoli è il principio basilare per il superamento dei conflitti attraverso il reciproco riconoscimento del diritto a una esistenza pacifica per tutti/e, ed è il principio-guida condiviso dai COBAS, con il corollorario essenziale del riconoscimento dei diritti universali degli individui, non violabili da nessuna cultura e/o religione. Questo vale per il popolo kurdo, martoriato e sottoposto a repressione violenta dalla Turchia, quanto per il popolo palestinese. Se è fondamentale che sia riconosciuto il pieno diritto degli israeliani all’esistenza e alla sicurezza, è altrettanto necessario creare le condizioni per la sopravvivenza dei/delle palestinesi, restituendo le terre occupate, riconoscendone il diritto all’autodeterminazione. Come si possa realizzare uno scenario di pacificazione dell’area e di convivenza tra palestinesi e israeliani non è univoco: chi continua a sostenere la necessità di riconoscere lo Stato palestinese come stato sovrano nell’ottica dei “due popoli, due Stati”, chi invece sostiene che un unico Stato laico e non confessionale – che includa palestinesi ed ebrei con eguali diritti – è la sola soluzione equa. Ci potrebbe essere una soluzione intermedia che preveda la nascita dello Stato di Palestina e la costituzione di una Confederazione israelo-palestinese, ma ovviamente anche in questo caso entrambi gli Stati dovrebbero rinunciare alla natura confessionale delle proprie Leggi Fondamentali. Perciò i COBAS: a)      sono  contro qualsiasi politica di prevaricazione di uno Stato/popolo su altri, attraverso guerre di aggressione e occupazioni militari, o mediante strumenti economico-finanziari e commerciali che vadano a vantaggio esclusivo o prevalente di profitti e interessi di élite ristrette; b)    condannano fermamente ogni azione contro i civili, utilizzata come strumento terroristico contro le popolazioni che si oppongono a occupazioni del proprio territorio da parte di eserciti o milizie stranieri; c)      considerano fondamentale l’autodeterminazione dei popoli, la libera scelta dei propri governi e delle proprie istituzioni, difendere il diritto internazionale affinché si attuino autodeterminazione e applicazione dei diritti universali di ogni persona; d)     ritengono essenziale il rispetto di ogni espressione culturale e religiosa che non leda i diritti fondamentali e non sia imposta, ma che sia libera scelta di ognuno/a. NO A ECONOMIA DI GUERRA E  PROPAGANDA MILITARISTA, Sì A INVESTIMENTI NEL SOCIALE PUBBLICO Ci opponiamo alla logica dell’economia di guerra che si è andata diffondendo nelle nostre società con l’aumento delle spese militari in Occidente, nella Russia impegnata nell’invasione e occupazione delle regioni orientali e meridionali dell’Ucraina e in altre zone del mondo, e in Cina, nonché alle prospettive, pur indotte dall’aggressione russa all’Ucraina, di riarmo dei Paesi dell’UE (circa 800 mld di euro di Rearm Europe/Readiness 2030), attraverso la sospensione dei parametri di bilancio. Accanto alle rivendicazioni sindacali, dichiariamo la nostra opposizione, ad Ovest come ad Est, all’aumento delle spese militari, all’invio di armi negli scenari di guerra, alla costruzione/ampliamento delle basi militari nei territori. L’opposizione al riarmo deriva non da un irenico pacifismo “non-violento”, ma dall’evidenza che le spese militari sottraggono risorse alle spese sociali e agli investimenti necessari per sanità, istruzione, pensioni, trasporti.Il drastico ridimensionamento dell’intervento pubblico nei servizi sociali, già operato pesantemente negli ultimi anni, ha provocato l’aumento dei costi delle spese socio-sanitarie e dei trasporti per gli ‘utenti’, costretti a pagare prestazioni che nel pubblico sarebbero state gratuite; nella scuola vi sono tentativi sempre più invasivi di far aderire il personale a previdenza e assicurazioni private, nonché di trasferimento di risorse per le scuole verso l’ assistenza sanitaria privata. La battaglia è dunque quella di impedire lo smantellamento dell’impianto pubblico dei servizi sociali, fondamentali per i settori più deboli della società.  Infine,intendiamo contrastare la propaganda militarista che si sta diffondendo nella società e nelle scuole, in particolare opponendoci alle Nuove Indicazioni Nazionali, che dopo la Scuola dell’Infanzia e Primaria e la Secondaria di Primo grado a breve interesseranno anche le Secondarie di Secondo Grado, ove è chiarissimo l’intento del Ministro Valditara di dare una sterzata in chiave nazionalista al processo educativo, evidenziando come la migliore cultura e civiltà del mondo sia quella occidentale. In una scuola con numeri crescenti di figli di persone migranti, tale approccio finirebbe per contrapporre gli “italiani veraci” e gli “immigrati semi-cittadini”, erigendo muri tra culture e religioni, mentre la scuola deve rimanere palestra per la convivenza e l’accettazione reciproca: una scuola pubblica laica e tollerante, che educhi alla libertà e al pensiero critico, al riconoscimento dei propri e altrui diritti, è decisiva per il superamento delle contrapposizioni culturali e per una società democratica di eguali, libere e liberi.  Giovanni Bruno >
Nuove Indicazioni Nazionali: quale futuro per la scuola?
Nelle Indicazioni Nazionali del 2012,la premessa”Cultura,Scuola,Persona” sottolineava il ruolo della scuola quale strumento di emancipazione e realizzazione attraverso il sapere e l’istruzione. Nelle Nuove Indicazioni la formulazione “Persona,Scuola,Famiglia” sposta l’attenzione sulla centralità della persona e sulla promozione dei talenti. Parlare di talenti nella scuola dell’infanzia è improprio, in questa fascia di età non possiamo riferirci ad abilità o doti bensì a potenzialità emergenti. I bambini e le bambine vivono una fase di sviluppo caratterizzata da plasticità, curiosità, interessi, sperimentazione. In un contesto educativo ben strutturato, come quello della scuola dell’infanzia, tali potenzialità trovano le condizioni per esprimersi e sviluppare competenze cognitive,relazionali ed emotive. Sempre nella premessa” Scuola e Famiglia costituiscono le due colonne portanti del percorso di crescita e di apprendimento di bambini e adolescenti”. Questa affermazione rischia di semplificare una relazione molto più complessa. Non bastano incontri di dialogo e conoscenza a garantire il patto educativo. In questa relazione entrano in gioco dinamiche pedagogiche, psicologiche e giuridiche intrecciate a valori e bisogni spesso divergenti. Il cosiddetto patto di alleanza resta una formula retorica perché non considera la complessità delle condizioni familiari. Molte famiglie sono portatrici di fragilità economiche, sociali e relazionali e spesso tendono ad attribuire alla scuola compiti che vanno oltre il ruolo istituzionale;i conflitti e la reciproca delegittimazione ostacolano una autentica corresponsabilità. Perché l’alleanza sia costruttiva occorre riconoscere la complessità del rapporto per una convergenza e condivisione delle finalità educative e una maggiore consapevolezza del ruolo formativo della scuola. Le N.I.tendono a ridurre l’educazione alle relazioni,all’empatia e al rispetto della persona ad una dimensione esclusivamente individuale trascurando la valenza relazionale. “L’educazione del cuore” come viene suggerita nel documento, si traduce in modelli di comportamento predefiniti piuttosto che stimolare la consapevolezza emotiva e sociale. Ogni apprendimento si configura come un processo mediato dalle relazioni sociali, è attraverso l’interazione con i pari e con gli adulti che i bambini/ e sviluppano la capacità di comprendere e riconoscere l’altro, di negoziare significati e di cogliere la necessità di darsi e riferirsi a norme di comportamento e di relazione. La comunità educante  è il luogo privilegiato per promuovere  una educazione alle relazioni fondate sul riconoscimento reciproco, sul rispetto e sull’empatia. Sempre nelle premesse culturali del documento “Scuola che sa essere inclusiva”per l’educazione interculturale si prevede l’assegnazione dei docenti alle scuole del primo ciclo per valorizzare e potenziare le competenze linguistiche culturali e civiche degli alunni provenienti da contesti migratori. Il documento non tiene conto che l’11 % dei bambini e delle bambine che frequentano le nostre scuole hanno un background migratorio pertanto dovrebbe essere prioritario insegnare la lingua italiana sin dalla scuola dell’infanzia valorizzando la lingua e la cultura di origine degli alunni/e. L’educazione interculturale non può ridursi ad una mera assimilazione linguistica ma dovrebbe avere come obiettivo la conoscenza e la valorizzazione delle diverse culture. La dimensione interculturale dovrebbe essere parte integrante dell’educazione perché consente di coltivare interessi, curiosità verso l’altro esplorando così non solo aspetti della vita quotidiana ma anche espressioni letterarie, artistiche, musicali di altre culture. Inoltre l’educazione interculturale riveste un ruolo cruciale nel contrastare stereotipi e discriminazioni per una scuola inclusiva. Il digitale è introdotto nella scuola dell’infanzia dalle nuove indicazioni in forma ludica mediato dall’insegnante. Si valorizza come strumento creativo e di espressione ma si sottolineano i rischi di isolamento e passività. Questo approccio di apertura e prudenza lascia aperti molti punti interrogativi. È bene precisare che nella fascia di età 3-6  lo sviluppo delle bambine/e è profondamente legato a :gioco, corporeità, linguaggio e relazioni sociali che non possono assolutamente essere sostituiti tanto meno sacrificati. Nei campi di esperienza per la scuola dell’infanzia si registra una semplificazione rispetto a quelle del 2012 dove venivano articolati con una ampiezza pedagogica ed una forte flessibilità didattica. Nel testo del 2025 ,la presenza di finalità,competenze attese e obiettivi specifici per ogni campo di esperienza si caratterizza con una prescrittivita’ che rischia di svilire l’autonomia didattica con la conseguenza di una standardizzazione ed il timore che si affermi una cultura della performance. Inoltre il profilo della bambina/o oscilla da soggetto attivo,esploratore e costruttore di significati a destinatario passivo di saperi predefiniti e vincolato a traguardi standardizzati. Analogamente, la figura dell’insegnante appare descritta sia come regista dell’apprendimento sia come trasmettitore di contenuti facendo riemergere la figura tradizionale del docente depositario e divulgatore di conoscenze. La scuola delineata dalle Nuove Indicazioni desta molte perplessità, viene meno un modello di scuola laico, multiculturale e democratico privo di una visione pedagogica che tenga presente tutte le complessità della nostra società. Beatrice Corsetti
I COBAS per il superamento della piaga cronica del precariato scolastico
Il precariato è un fenomeno cronico e strutturale, frutto di decenni di gestione emergenziale della Scuola Pubblica. Nonostante i richiami dall’Unione Europea per l’abuso dei contratti a termine, circa un quarto del personale docente ed Ata è precario. Nello scorso anno scolastico si sono contati circa 250mila contratti a tempo determinato tra supplenze annuali e fino al termine delle attività didattiche e supplenze brevi: un numero in costante crescita. Si tratta di un problema che impatta direttamente sulla qualità dell’insegnamento e dei processi amministrativi, sulla vita di migliaia di lavoratori della scuola e sul funzionamento stesso del sistema educativo nazionale.  La storia del precariato scolastico in Italia affonda le sue radici nel boom della scolarizzazione del dopoguerra, in particolare tra gli anni ’60 e ’70, quando l’aumento massiccio di studenti mise in crisi il sistema di reclutamento basato esclusivamente sui concorsi ordinari. Per far fronte alla crescente domanda di insegnanti, lo Stato ricorse a soluzioni emergenziali. La Legge 477 nel 1973, in particolare, fu il primo grande intervento di stabilizzazione, che portò all’immissione in ruolo di circa 200.000 insegnanti. Seguirono altri provvedimenti, come le Leggi 463/1978 e 270/1982, quest’ultima approvata dopo che il 5 febbraio 1982, circa 25.000 insegnanti precari manifestarono a Roma al Ministero dell’Istruzione per chiedere una soluzione al precariato e per migliorare le condizioni di lavoro. Questa mobilitazione e la successiva legge segnarono un passaggio importante nella storia del precariato della scuola, ma non risolsero il problema.  In un decennio si passò dal “doppio canale” di reclutamento,  legge 417 del 1989: la metà dei posti a disposizione per le immissioni in ruolo al “concorso per titoli ed esami”, l’altra al concorso “per soli titoli” alle Graduatorie Permanenti introdotte dalla Legge 3 maggio 1999, n. 124.  Questo sistema di reclutamento era basato su un doppio canale, uno basato sul superamento di un concorso e l’altro sulle graduatorie permanenti, che venivano aggiornate annualmente. La legge 296/2006, trasformò, le graduatorie da permanenti ad esaurimento ma non eliminò il problema. Con l’esaurimento delle GaE, sono state introdotte con l’Ordinanza Ministeriale n. 60 del 10 luglio 2020 le Graduatorie Provinciali per le Supplenze (GPS), un sistema che avrebbe dovuto razionalizzare il conferimento degli incarichi annuali. Tuttavia, la loro introduzione non ha risolto il problema di fondo, anzi, in molti casi ha acuito l’incertezza e la confusione affidando ad un algoritmo l’assegnazione degli incarichi, costringendo i docenti, attraverso la procedura delle 150 scuole, ad una scelta al buio senza un quadro delle disponibilità, eliminando di fatto le convocazioni in presenza che sono state per anni i luoghi di aggregazione e di mobilitazione dei precari che portarono nel 2008/2010 “Riforma Gelmini”,  alle ultime forti mobilitazioni dei precari della scuola con occupazioni di Provveditorati, il 3 ottobre 2009 migliaia di precari con il supporto dei COBAS Scuola sfilarono a Roma fino al Ministero dell’Istruzione.  Oggi, il precariato nella scuola è  una vera emergenza sociale e l’attuale sistema di reclutamento che si basa su un complesso di graduatorie, rende il tutto confuso ed incerto: le Graduatorie di Merito (GM), derivanti dai concorsi pubblici; le Graduatorie ad Esaurimento (GAE), che sono chiuse a nuovi inserimenti dal 2008; e le Graduatorie Provinciali per le Supplenze (GPS), utilizzate per le supplenze annuali e fino al termine delle attività didattiche e solo sul sostegno, per il ruolo, procedura introdotta con il DL 73/2021, convertito nella Legge 106/2021, da ultimo la Riforma del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (con i concorsi PNRR1 e PNRR2). E’ evidente la natura fallimentare del sistema di reclutamento finora attuato con un profondo disallineamento tra i posti vacanti e le assunzioni effettivamente autorizzate, lasciando un deficit di organico che viene sistematicamente colmato con contratti a termine. I dati dimostrano che il sistema attuale genera più precari di quanti riesca a stabilizzarne, rendendo di fatto il contratto a tempo determinato la norma anziché l’eccezione.   Gli insegnanti precari, spesso costretti a spostarsi lontano dalla propria residenza, affrontano enormi difficoltà economiche e personali, con ricadute negative sul loro benessere psicologico e sulla loro motivazione, costretti negli ultimi anni ad affrontare spese folli per abilitarsi (30, 36 e 60 CFU), per frequentare il Tfa sostegno o per acquisire titoli (Clil, certificazioni linguistiche ed informatiche)  costretti dal sistema Gps ad una rincorsa ai punti che può arrivare anche ad una spesa di 6/7mila euro. Il mondo del precariato affronta tutto questo in una situazione di polverizzazione e di lotta intestina che rende difficile l’organizzazione di una risposta collettiva. Concentrati sul “proprio” personale problema, perdono il contatto con una realtà che erode, inesorabilmente, diritti per tutti. Nei prossimi mesi si dovrebbe lavorare ad una piattaforma che possa aggregare intorno a pochi punti, unificanti a partire dalla reintroduzione del “doppio canale” di reclutamento con immissioni in ruolo divise per il 50% degli insegnanti dalle GM e 50% dalle GPS trasformate in Graduatorie Permanenti ed alle quali si potrà accedere per soli titoli di studio e servizio, con l’immediata trasformazione dell’organico di fatto in organico di diritto e con la conseguente immissione in ruolo su tutti i posti vacanti e disponibili. Alessandro D’Auria
La deriva medicalizzante della scuola.
Scuola e salute mentale. In uno degli articoli pubblicati nel numero 20 della Rivista COBAS scuola (“Il paradosso della vulnerabilità”), si segnalava l’appello dei presidenti dell’associazione della Società Italiana di Neuro-Psico-Farmacologia (SINPF), per promuovere l’ingresso degli psichiatri nelle scuole “I medici psichiatri e la salute mentale devono tornare nelle scuole, nel periodo della vita in cui nel 50% dei casi iniziano a comparire i disturbi mentali” e di come il Collegio nazionale dei direttori dei Dipartimenti di Salute mentale (DSM), alla luce dell’indagine IPSOS dell’ottobre 2024, sul disagio mentale della popolazione, affermasse addirittura essere indispensabile “attuare interventi di prevenzione in tutte le fasce di età, fin dalla gravidanza, con particolare attenzione a stili di vita e contesto familiare […]”. Alla luce di tali affermazioni si paventava, nell’ articolo, la possibilità che le scuole venissero usate come luoghi per diagnosticare precocemente “malattie” mentali in direzione di una omologazione degli studenti, della standardizzazione degli apprendimenti e della normalizzazione dei “diversi” . Oggi, quel timore rischia di diventare realtà, visto che, nella legge di bilancio 2026, si prevede un aumento dei fondi per il sostegno psicologico nelle scuole, con un fondo di 10 milioni di euro per il 2025 e di 18,5 milioni di euro a partire dal 2026, per potenziare il servizio di supporto psicologico agli studenti. Questa misura, infatti, mira a rendere la figura dello psicologo scolastico una presenza strutturale nel sistema educativo italiano, superando l’approccio episodico e garantendo un accesso più uniforme al servizio, in modo da consentire, con l’aumento dei fondi, non solo di “migliorare” la qualità della vita degli studenti, le loro capacità relazionali e il rendimento scolastico ma, come si prevedeva, di andare oltre le lo sportello di ascolto, perché lo psicologo non solo si occuperà di sviluppare competenze cognitive, emotive e relazionali nei giovani, ma supporterà il personale scolastico e i docenti. Dunque, la scuola rischia di diventare una palestra di addestramento per la medicalizzazione della “diversità”, una medicalizzazione concettuale, perché sempre più si tenderà ad utilizzare anche in ambito scolastico il linguaggio medico per definire qualcosa che medico non è, e una medicalizzazione interazionale perchésidescriveranno e interpreteranno le relazioni tra le persone (studenti, docenti e personale scolastico) attraverso una lente medica, con il risultato di patologizzare comportamenti o emozioni che costituiscono la normalità della vita, non anomalie disfunzionali, contribuendo a definire con categorie mediche, aspetti che fino a quel momento non erano così categorizzati. In tal modo il sistema educativo, invece di promuovere l’apprendimento, creerà sempre più dipendenza e controllo, definendo la realtà e influenzando il comportamenti, più che risolvendo problemi, conflitti  e contraddizioni.  I dati ISTAT. I dati ISTAT, in effetti, indicano un aumento delle/degli alunne/i con disabilità che frequentano le scuole italiane di ogni ordine e grado: quasi 359 mila nell’anno scolastico 2023-2024, il 4,5% del totale degli iscritti (+6% rispetto al precedente anno scolastico), 75mila in più negli ultimi cinque anni (+26%).  Il problema più diffuso è la disabilità intellettiva, che riguarda il 40% degli studenti con disabilità, quota che cresce nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, attestandosi rispettivamente al 46% e al 52%; seguono i disturbi dello sviluppo psicologico (35% degli studenti), questi ultimi più frequenti nella scuola primaria (39%) e nella scuola dell’infanzia (63%). I disturbi dell’apprendimento e dell’attenzione riguardano quasi un quinto degli alunni con disabilità; entrambi sono più diffusi tra gli alunni delle scuole secondarie di primo grado (rispettivamente il 24% e il 20% degli alunni). Di fronte a tali dati, per rispondere alle diverse esigenze di alunni “complessi”, la scuola ritiene essenziale il ricorso a scienze mediche e sociali, quali psicologia e neuropsichiatria, e gli stessi docenti delegano a tali figure la gestione e  l’intervento nei confronti di studenti “difficili”, in quanto leggono la realtà sempre più con i soli occhi della diagnosi clinica, contribuendo, però, in tal modo, ad una complessiva svalutazione delle competenze specifiche della classe docente. Se per comprendere da quali fattori sono causate le crescenti difficoltà dei giovani alunni, può, infatti, essere importante il ricorso a competenze diverse, non si può demandare, però, in via esclusiva all’ambito medico l’elaborazione e la messa in atto di strategie educative e didattiche che rispondano ai bisogni degli studenti e delle studentesse, in quanto è proprio ciò che fa scivolare la scuola verso quella deriva medicalizzante che sempre più si sta diffondendo. Una contraddizione in termini, peraltro, per una scuola nella quale si afferma che le differenze sono importanti e che occorre rispettare le caratteristiche individuali, tanto da richiedere una personalizzazione dei percorsi didattici, salvo ricorrere, poi, alla medicalizzazione, per dare risposte a modalità di apprendimento che non rientrano in parametri standardizzati (contraddizione più volte messa in evidenza rispetto al ricorso alle prove INVALSI, quale valutazione standardizzata degli apprendimenti, a fronte della richiesta di individualizzazione e personalizzazione dei percorsi didattici). Psichiatria versus Pedagogia. Come sappiamo, vengono definiti studenti con bisogni educativi speciali (BES) tutte/i le/glialunne/i che hanno bisogno di una didattica personalizzata, anche in assenza di una diagnosi certificata. Infatti, rientrano nei BES: studenti con disabilità (certificata L.104/92); studenti con DSA; studenti con svantaggio socio-economico, linguistico o culturale; alunni stranieri di recente immigrazione; studenti con situazioni familiari difficili; studenti con problemi emotivi o relazionali, studenti che risultino figli adottivi. Dunque, vengono considerati BES, non solo studenti e studentesse con “disturbi” specifici, ma anche tutti quei bambini e ragazzi che evidenziano uno “svantaggio” sociale o semplici criticità proprie dell’età adolescenziale che possono interferire con il processo di apprendimento. A questo proposito basta  leggere la premessa alle  Nuove Indicazioni Nazionali, per comprendere come si stia seriamente rischiando di distorcere il senso dell’accoglienza degli allievi con disabilità, sancita dalla legge 517/1977, attraverso l’idea che ogni “difficoltà” che dovrebbe essere osservata e “letta” in base alle competenze educative dei docenti, viene circoscritta, osservata, monitorata e controllata più in base a competenze mediche che a quelle pedagogiche, mentre si relegano i docenti  a un ruolo esclusivamente esecutivo e subordinato, dannoso per la loro professionalità e pericoloso per l’esperienza scolastica e per la vita delle studentesse e degli studenti a loro affidate/i. Bisognerebbe riaffermare, invece, la centralità dei docenti, rivendicandone la competenza, riconsegnando credibilità e prestigio sociale alla scuola e rafforzando il sistema scolastico, assegnando a questo,innanzitutto più risorse. Per realizzare tale obiettivo occorrerebbe, però, un salto culturale, che creasse discontinuità rispetto ad una scuola indirizzata (e non da ora) esclusivamente al “merito” e a risultati “standardizzati” che coprono le capacità dei singoli, soffocano le diverse intelligenze, non permettono l’emergere di differenti passioni e abilità; bisognerebbe che neuropsichiatri, psicologi e assistenti sociali non fossero considerati i soggetti titolati nel fornire linee operative e progettuali per il lavoro scolastico; sarebbe necessario che proprio gli insegnanti difendessero e valorizzassero il proprio ruolo, la centralità della progettazione dei percorsi formativi, senza delegarla agli specialisti che si rivolgono al singolo con “tecniche” che esulano dal processo di apprendimento nel suo complesso; sarebbe necessario, in una parola, far ritrovare alla scuola uno sguardo pedagogico, in base al quale leggere le dinamiche e le direzioni che prendono piede nella scuola. Conclusioni. Per evitare il rischio della medicalizzazione dovrebbero essere, quindi, gli stessi docenti a intraprendere una diversa rotta, rivalutando il concetto stesso di insegnamento, in una dimensione progettuale che evidenzi la responsabilità dell’insegnante rispetto alla soggettività dello studente, perché sono solo gli insegnanti a poter invertire la tendenza in atto, attraverso la propria esperienza e l’elaborazione della stessa, la formazione e l’aggiornamento qualificato e qualificante, il coordinamento in rete con i docenti anche di altre realtà scolastiche, la programmazione e la realizzazione condivisadi attività per l’apprendimento scolastico, la richiesta di classi meno numerose, l’aumento dei docenti e del personale per riuscire a svolgere adeguatamente mente la propria professione. Ed è proprio questo l’obiettivo che il CESP intende perseguire, rivalutando il compito educativo delle/degli insegnanti, rimettendo nelle mani dei docenti gli strumenti per rivendicare il ruolo centrale della professione docente all’interno della società, in modo che si torni ad investire sugli insegnanti, perché appare assolutamente necessario che questi si riapproprino di un protagonismo docente e della relazione educativa, accettando e valorizzando la diversità degli studenti, non comprimendola in una visione standardizzata dell’apprendimento e delegandola in via esclusiva a scienze mediche e sociali. Questo è un atto di cui si avverte la piena urgenza, soprattutto quando si osservano le difficoltà e il disagio nei quali sono immersi i nostri studenti e le nostre studentesse.  Anna Grazia Stammati