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Il candidato sindaco di New York Zohran Mamdani si unisce alla “Marcia su Wall Street” del reverendo Al Sharpton
Il reverendo Al Sharpton ha guidato giovedì centinaia di manifestanti nella “Marcia su Wall Street” per protestare contro l’attacco del presidente Trump ai programmi di diversità, equità e inclusione e contro i suoi tentativi di controllare le città guidate dai democratici e dai sindaci neri. Il membro dell’Assemblea dello Stato di New York e candidato sindaco Zohran Mamdani ha marciato al fianco del reverendo Sharpton e di Martin Luther King III. Gli altri candidati sindaco, il governatore Andrew Cuomo e l’attuale sindaco Eric Adams, non hanno partecipato alla marcia. “Mentre siamo qui, nella città più ricca del Paese più ricco della storia del mondo, mentre siamo qui a Wall Street, dove l’anno scorso sono stati distribuiti più di 40 miliardi di dollari in bonus, ci chiediamo: com’è possibile che un newyorkese su quattro viva ancora in povertà? Ci chiediamo: com’è possibile che non abbiamo ancora risposto alla domanda che il dottor King ha posto decenni fa? Perché quello che ha detto allora e a cui dobbiamo rispondere ora, è: a che serve avere il diritto di sedersi al bancone di una tavola calda se non ci si può permettere di comprare un hamburger?” Così Zohran Mamdani si è rivolto alla folla a Lower Manhattan.         Democracy Now!
Obbiettivi dello Sviluppo Sostenibile: un necrologio
-------------------------------------------------------------------------------- Ricorre un decennale che nessuno vuole ricordare. Il 25 settembre 2015 a New York l’Assemblea generale dell’Onu approvava solennemente l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. 169 stati ratificarono l’accordo e le figurine colorate dei 17 Sustainable Development Goals (SDGs) invasero il mondo, la stampa e le televisioni, i programmi scolastici e i siti governativi portando il loro messaggio di riscossa e di speranza: «Un futuro migliore e più sostenibile per tutti». In Italia il di lì a poco ministro Giovannini avviò persino una campagna per inserire in Costituzione lo “sviluppo sostenibile”. Le discriminazioni economiche, di genere, di luogo di nascita, di accesso alle risorse e le crisi ambientali sarebbero state finalmente affrontate con determinazione dagli stati e dalle imprese. Un mondo di pace e di cooperazione sembrava essere a portata dell’umanità. Due mesi prima era stata emanata la enciclica Laudato si’ e, poco dopo, il 12 dicembre, a Parigi fu firmato l’Accordo per la riduzione delle emissioni dei gas serra nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Poi sono arrivati: Tramp (il ritiro degli USA dall’Accordo di Parigi è avvenuto una prima volta nel 2020), la pandemia Covid del 2019, la guerra in Ucraina, l’avanzata delle destre “sovraniste” e il più generare disfacimento della cooperazione interstatale con la fine della “globalizzazione”. Si sono così perdute le tracce dei 17 obiettivi, dei 169 sotto-obbiettivi e dei 240 indicatori da raggiungere entro il 2030 (dalla lotta alla povertà e alla fame, all’istruzione di qualità, alla parità di genere, alla lotta al cambiamento climatico e al degrado delle risorse naturali). Non danno segni di vita nemmeno il Foro politico di Alto Livello (High Level Political Forum) previsto per monitorare, valutare e orientare l’attuazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, né la commissione dell’Inter Agency Expert Group on SDGs (IAEG-SDGs) con il compito di monitorare l’avanzamento. Le ultime informazioni pervenute dalle NU sono quelle di un disperato segretario generale, Antònio Guterres, dello scorso anno. Solo il 17% degli obiettivi degli SDG è in linea con le previsioni, mentre 23 milioni di persone in più sono in uno stato di estrema povertà; 100 milioni in più soffrono la fame; 120 milioni sono gli sfollati per le guerre. A tutto ciò aggiungiamoci Gaza. Nel Rapporto che il nostro Istituto di statistica redige ogni anno (Istat 2025) certifica che: «A distanza di dieci anni dal varo dell’Agenda 2030 e di cinque dalla scadenza temporale individuata per la sua realizzazione, i progressi verso gli SDGs, pur rilevanti in molti casi, non risultano nel complesso dei paesi avanzati e in via di sviluppo all’altezza delle aspettative (…) Lo scenario più probabile nei prossimi cinque anni è il fallimento su larga scala degli SDGs. Il percorso dell’ultimo decennio è stato infatti segnato da shock esogeni – la crisi pandemica, l’aumento delle tensioni geopolitiche, la spirale inflazionistica innescata dall’incremento dei prezzi dei prodotti energetici – che hanno condizionato negativamente i percorsi di avanzamento e recupero a livello globale, nazionale e territoriale, sottraendo rilevanti risorse alla promozione dello sviluppo sostenibile». Amen. Più circostanziato e preciso lo staff del professor Jeffrey D. Sachs, presidente del Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite (SDSN), che ha redatto il Sustainable Development Report 2025. Il Report rivela che nessuno dei 17 Obiettivi globali potrà essere raggiunto tra cinque anni, data di scadenza, e conferma che solo il 17% dei target specifici è sulla buona strada. Sulla crisi della cooperazione internazionale in capo all’Onu pesa il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sul clima, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), dall’Unesco e la loro dichiarata opposizione agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e all’Agenda 2030. Nemmeno da noi le cose vanno bene, rileva l’Istat. «L’andamento nel tempo verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile in Italia – analizzato a partire dalle 240 misure statistiche che presentano sufficienti informazioni in serie storica – restituisce un quadro variegato che sottolinea, nel complesso, l’esigenza di un’accelerazione. Nonostante una quota maggioritaria di misure risulti in miglioramento, sia nell’ultimo anno (oltre il 50%) sia nel decennio (oltre il 60%), oltre il 20% delle misure sono caratterizzate da stagnazione sia nel breve sia nel lungo periodo, e peggioramenti si evidenziano soprattutto nel breve periodo (più di una misura su quattro), ma anche nel lungo (oltre il 15% nell’arco del decennio)». Non potrebbe essere diversamente. Ora le priorità dei governi sono cambiate e l’interesse si è spostato sulla “sicurezza” da raggiungere con altri mezzi: la deterrenza e la “prontezza” dell’intervento militare (come stabilito dal piano ReArm di Ursula von der Leyen approvato dal Parlamento europeo). Abbiamo provato a fare uno schemino semplice per capire la dimensione del problema. Con i denari già spesi in armamenti e militari nel 2023 si sarebbero raggiunti i primi principali Obiettivi dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile dell’Onu. Secondo altre stime più aggiornate, il fabbisogno finanziario sarebbe superiore: 1.500 Mld all’anno per debellare la povertà; 300 Mld per la fame; 370 per la salute; 114 per l’acqua; 200 per l’istruzione; 1500 per il clima. Arriveremo così a 2.984 Mld per i 6 obiettivi considerati e un fabbisogno totale di circa 5-7 trilioni di dollari all’anno per raggiungere tutti gli OSS entro il 2030. Ma anche le spese militari lo scorso anno hanno già raggiunto 2.700 Mld. Cifra destinata a crescere ancora di molto se la Nato riuscirà a imporre agli stati membri una spesa militare pari al 5% del Pil. Sarebbe utile aprire un confronto pubblico sulle ragioni del fallimento dell’Agenda 2030. Temo che lo “sviluppo sostenibile” – con le sue varie declinazioni operative: green economy, smart city, clean tecnology … – nasconda un errore di fondo: pensare di poterlo realizzare facendo affidamento ai meccanismi di mercato e alla crescita economica. La falla che affonda tutta l’impalcatura dell’Agenda è nel 17° obiettivo in cui si confida nel «partenariato pubblico privato» per recuperare investimenti «reperibili in qualsiasi modo» per sviluppare «scambi commerciali aperti, incrementando l’esportazione dei paesi meno sviluppati e la realizzazione per questi di un mercato libero da dazi e restrizioni». Ci avevano visto proprio giusto! -------------------------------------------------------------------------------- Leopoldo Nascia e Paola Ungaro (a cura di), Rapporto SDGS 2025, Informazioni statistiche per l’Agenda 2030 in Italia, Istituto Nazionale di Statistica, 2025. European Think Tanks Group, Finanziare l’Agenda 2030: Un quadro di allineamento agli SDG per le banche pubbliche di sviluppo https://ettg.eu/financing-the-2030-agenda-an-sdg-alignment-framework-for-public-development-banks/ Jeffrey D. Sachs, Guillaume Lafortune, Grayson Fuller and Guilherme Iablonovski, Sustainable Development Report 2025. Financing Sustainable Development to 2030 and Mid-Century. https://www.socialimpactagenda.it/2025/07/01/lsdsn-presenta-il-sustainable-development-report-2025/ -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Obbiettivi dello Sviluppo Sostenibile: un necrologio proviene da Comune-info.
Droghe: “Troppo spesso, in nome della sicurezza, si è fatta e si fa la guerra ai poveri”
Nei giorni scorsi sul sito del Dipartimento per le Politiche Antidroga è stata pubblicata la Relazione 2025 sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, dalla quale, come si legge sul sito del Dipartimento, “emerge un quadro articolato delle droghe nel nostro Paese. Il consumo di sostanze psicotrope tra i giovani appare leggermente diminuito rispetto al 2023, tuttavia sembrano emergere nuove sfide per la salute pubblica e la sicurezza, legate a una trasformazione qualitativa del mercato degli stupefacenti, alla diversificazione dell’offerta e alla permanenza sul mercato italiano delle Nuove Sostanze Psicoattive (NPS)”: https://www.politicheantidroga.gov.it/it/notizie-e-approfondimenti/notizie/pubblicata-la-relazione-al-parlamento-2025-sul-fenomeno-delle-tossicodipendenze-in-italia/. “Se la Relazione fosse stata un compito per la maturità, ha affermato Marco Perduca, che per l’Associazione Luca Coscioni segue le leggi e politiche nazionali e internazionali sugli stupefacenti, il governo non l’avrebbe superata per insufficienze di merito e metodo”. Aggiungendo che “il documento del governo, con prefazione del sottosegretario Mantovano, non è purtroppo all’altezza del compito. Infatti, oltre a essere sempre più breve, la Relazione segnala una leggerissima flessione nell’uso degli stupefacenti a fronte dell’aumento delle operazioni ‘anti-droga’ ma, in entrambi i casi, si ragiona in termini percentuali e non assoluti. Altrove invece ci si intrattiene su campioni molto ristretti (39 città su oltre 8.000) magnificando l’efficacia rilevatrice della acque reflue, con metodologie non del tutto riconosciuti come attendibili dalla comunità scientifica internazionale e presentando la presenza di sostanze illecite ogni 100.000 persone. Una formulazione che se proposta in termini percentuali evidenzierebbe che si tratta, si e no, al massimo dello 0,7 grammi a persona!” È stata presentata nei giorni scorsi anche la sedicesima edizione del Libro Bianco sulle droghe, intitolato quest’anno “NON MOLLARE”. Il Libro Bianco è un rapporto indipendente sugli effetti del Testo Unico sugli stupefacenti (DPR 309/90) sul sistema penale, sui servizi, sulla salute delle persone che usano sostanze e sulla società. È promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, CGIL, CNCA, Associazione Luca Coscioni, ARCI, LILA con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica CGIL, Gruppo Abele, ITARDD, ITANPUD, Meglio Legale e EUMANS. A 35 anni dall’entrata in vigore del Testo Unico sulle droghe 309/90 e 16 di pubblicazione del Libro Bianco sulle droghe, i dati purtroppo  confermano una tendenza al peggioramento. Gli effetti penali, in particolare dell’art. 73, sono sempre più devastanti e creano sovraffollamento carcerario confermando che la Legge Jervolino-Vassalli resta il principale veicolo di ingresso nel circuito penale in Italia. Continuano a salire in termini assoluti, +4,9%, gli ingressi in carcere per reati connessi alle droghe: 11.220 delle 43.489 detenzione nel 2024 sono state causate dall’art. 73 del Testo unico, per detenzione a fini di spaccio, il 25,8% degli ingressi (nel 2023 era il 26,3%). Le presenze in carcere sono 62.715 a metà giugno. Di questi 13.354 a causa del solo art. 73 del Testo unico. Altre 6.732 in combinato con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), solo 997 esclusivamente per l’art. 74. Complessivamente il 34,1% del totale. Sostanzialmente il doppio della media europea (18%) e molto di più di quella mondiale (22%). Spropositati gli ingressi e le presenze di detenuti definiti “tossicodipendenti”: è dichiarato così il 38,8% di chi entra in carcere, mentre al 31/12/2024 erano presenti nelle carceri italiane 19.755 detenuti “certificati” il 31,9% del totale. Non erano mai stati così tanti dal 2006 (anno dell’entrata in vigore della legge Fini-Giovanardi) a oggi. E la repressione continua ad abbattersi sui minori: 3.722 adolescenti che entrano in un percorso sanzionatorio stigmatizzante (cioè desocializzante) e controproducente. Dal 1990 1.463.442 persone sono state segnalate per possesso di droghe per uso personale, 1.074.754 di queste per derivati della cannabis. Ha ragione Papa Leone XIV quando afferma che: “Troppo spesso, in nome della sicurezza, si è fatta e si fa la guerra ai poveri, riempiendo le carceri di coloro che sono soltanto l’ultimo anello di una catena di morte. Chi tiene la catena nelle sue mani, invece, riesce ad avere influenza e impunità. Le nostre città non devono essere liberate dagli emarginati, ma dall’emarginazione; non devono essere ripulite dai disperati, ma dalla disperazione“. Qui per approfondire e scaricare il Libro Bianco: https://www.fuoriluogo.it/mappamondo/non-mollare-xvi-libro-bianco-sulle-droghe/ Giovanni Caprio
Nel sobborgo di Dwel’a
LE BOMBE SU TEHERAN, L’ATTACCO ALLE BASI USA IN QATAR E I POST DI TRUMP COPRONO DI ODIOSO SILENZIO NON SOLO QUANTO ACCADE A GAZA MA ANCHE ALTRE NOTIZIE, COME L’ATTENTATO DI DOMENICA 22 GIUGNO CHE HA COLPITO LA PERIFERIA DI DAMASCO IN CUI SONO STATE UCCISE VENTI PERSONE. GIOVANNA CAVALLO HA VISITATO IN FEBBRAIO IL SOBBORGO DI DWEL’A PER LA MISSIONE “SIRIA CON GLI OCCHI DEI CIVILI” PROMOSSA DA YALLA STUDY. QUELLO DI DOMENICA, DICE, È STATO UN COLPO AL CUORE DI UNA COMUNITÀ GIÀ STREMATA DA QUINDICI ANNI DI GUERRA, SANZIONI (IMPOSTE DAGLI USA), E POVERTÀ ENDEMICA. SONO TANTI I RAGAZZINI CHE NON POSSONO PERMETTERSI DI STUDIARE E TRASCORRONO MOLTO TEMPO ROVISTANDO TRA I RIFIUTI ALLA RICERCA DI OGGETTI DA SCAMBIARE O VENDERE. “NON SI PUÒ PARLARE DI PACE E STABILITÀ IN SIRIA SENZA ASCOLTARE PRIMA DI TUTTO LA VOCE DELLE SUE COMUNITÀ PIÙ VULNERABILI…” Domenica 22 giugno un attentato ha colpito la chiesa cristiana di Sant’Elia di Dwel’a, nel cuore di una delle comunità più fragili della periferia di Damasco: una violenta esplosione ha devastato il luogo di culto, lasciando a terra almeno 20 morti e oltre 50 feriti. L’attentatore con la cintura esplosiva è stato identificato dalle autorità siriane come un affiliato all’Isis. Giovanna Cavallo ha visitato in febbraio quella chiesa per la missione “Siria con gli occhi dei civili” promossa da Yalla Study, progetto nato nel Forum nazionale “Per Cambiare l’ordine delle Cose” per favorire flussi di ingresso sicuri e garantire il diritto allo studio di giovani migranti. Quello di domenica, dice, è stato un colpo al cuore di una comunità già stremata da quindici anni di guerra, sanzioni (imposte dagli Usa), e povertà endemica. L’attentato non può essere compreso appieno senza conoscere il contesto nel quale è avvenuto. Questo racconto, scritto in febbraio, ricorda come non si può parlare di pace e stabilità in Siria senza ascoltare prima di tutto la voce delle sue comunità più vulnerabili. -------------------------------------------------------------------------------- La crisi umanitaria nel sobborgo di Dwel’a, Damasco Nel sud di Damasco, nel quartiere di Dwel’a, Sami Husmi, un parroco di periferia, lotta ogni giorno per sostenere la sua comunità a maggioranza cristiana. Con oltre 7,000 famiglie, Dwel’a è stato segnalato nei report internazionali come uno dei quartieri più poveri della capitale siriana. Le case, mal ridotte dal tempo e dalla guerra, fanno da sfondo alle espressioni di disperazione sui volti dei suoi abitanti. Ogni giorno, Padre Sami incontra persone che cercano aiuto presso la chiesa. Le loro storie sono simili: famiglie che lottano per trovare cibo e cure mediche, spaventate dall’incertezza e dall’instabilità del paese. La situazione economica devastante ha colpito tutti, e nessuno sembra essere risparmiato dalla morsa della povertà. Nella nostra chiacchierata, non è mancato il richiamo alle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti, che secondo lui devono essere allentate. Oltre al declino economico, le misure del Caesar Act hanno peggiorato la situazione della popolazione, impedendo qualsiasi possibilità di ripresa. Le ONG siriane hanno visto chiudersi l’accesso ai conti bancari e sono state spesso impedite nelle transazioni finanziarie, con conseguenze negative anche per i siriani all’estero. Al nostro arrivo nel quartiere a bordo di un vecchio taxi, abbiamo visto diverse scene di estrema fragilità e povertà. Ciò che ci ha colpito è stato vedere bambini seduti nella spazzatura, rovistando tra i rifiuti alla ricerca di oggetti che potevano essere scambiati o venduti. Una povertà confermata dalle statistiche disponibili che indicano come, all’inizio del 2022, metà della popolazione di Damasco necessita di assistenza umanitaria, con circa 40.000 persone in estremo bisogno. Oltre tre famiglie su quattro non riescono a soddisfare le esigenze di base e il reddito medio copriva solo il 51% delle spese. Più di due terzi delle famiglie avevano aumentato i debiti dall’inizio del 2020, e un terzo dei bambini aveva abbandonato la scuola per lavorare. Segmenti della popolazione che prima non avevano bisogno di assistenza ora ne necessitano a causa della svalutazione della valuta, dei prezzi elevati e della perdita di mezzi di sussistenza. Padre Sami precisa anche che la mancanza di controllo del territorio ha aumentato la criminalità comune, spingendo le persone nella paura. Ricorda il giorno in cui un giovane della parrocchia era stato rapinato mentre tornava a casa dal lavoro. La comunità era sconvolta, ma impotente di fronte a tali eventi. La caduta del regime ha portato speranze di cambiamento, ma purtroppo quei cambiamenti concreti non si erano ancora realizzati. La chiesa, un tempo un luogo di speranza e conforto, ora è piena di sguardi persi e mani tese. Ogni domenica, durante la messa, Padre Sami ci racconta che cerca di infondere un po’ di speranza nei cuori dei suoi parrocchiani. Tuttavia, sa bene che parole di conforto non bastano a riempire gli stomaci vuoti né a curare i malati. La situazione devastante dal punto di vista economico continua a peggiorare. Le famiglie sono costrette a fare scelte difficili: comprare cibo o medicine, pagare l’affitto o mandare i figli a scuola. Sami fa del suo meglio per distribuire le risorse limitate della chiesa, ma sente che non è mai abbastanza. A Dwel’a abbiamo trovato un triste quadro rappresentativo della situazione siriana e delle conseguenze devastanti della guerra civile. La testimonianza di Padre Sami e le realtà quotidiane che abbiamo osservato offrono un quadro chiaro delle sfide immense che la Siria deve affrontare. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Nel sobborgo di Dwel’a proviene da Comune-info.
Un mondo in fuga: il grido ignorato della Giornata Mondiale del Rifugiato
Nel 2024 si è toccato un nuovo record: più di 123 milioni di persone costrette ad abbandonare la propria casa. Conflitti vecchi e nuovi, dal Sudan a Gaza, alimentano una crisi umanitaria che i Paesi poveri sopportano quasi da soli. Oggi si celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato, ma come ogni anno non c’è nulla da festeggiare. Al contrario: mai come in questi mesi i numeri parlano una lingua drammatica e inascoltata. Secondo l’ultimo rapporto dell’UNHCR, sono oltre 123 milioni le persone costrette a fuggire dalle proprie case nel mondo, spinte da guerre, persecuzioni, crisi climatiche e instabilità economica. Di queste, almeno 42,7 milioni sono rifugiati nel senso più stretto del termine: persone che hanno attraversato un confine nazionale per cercare protezione altrove. La cifra è in aumento costante: rispetto al 2023, si contano circa 7 milioni di nuovi sfollati forzati. Un incremento che non accenna a rallentare, anzi. Le guerre si moltiplicano, si intensificano, si cronicizzano. Secondo il Peace Research Institute di Oslo, nel 2024 si sono registrati 61 conflitti attivi nel mondo, un record assoluto. Undici di questi hanno superato la soglia delle mille vittime annue, il limite che ne sancisce formalmente lo status di “guerra”. Dall’Ucraina a Gaza, la geografia del dolore Tre sono le aree che più hanno contribuito all’impennata di rifugiati nel corso dell’ultimo anno: Ucraina, Striscia di Gaza e l’intera fascia che va dall’Iran al Libano, oggi al centro di una tensione crescente tra Israele, Hezbollah e altri attori regionali. In Ucraina, dopo oltre tre anni di guerra, si contano più di 8 milioni di sfollati interni e almeno 5 milioni di rifugiati in Europa, ospitati soprattutto da Polonia, Germania e Repubblica Ceca. La guerra in corso, lungi dal concludersi, continua a generare nuovi esodi. In Palestina, e in particolare nella Striscia di Gaza, i numeri sono ancora più drammatici. Le operazioni militari israeliane hanno provocato decine di migliaia di morti e un vero e proprio esodo interno, mentre le popolazioni rifugiate nei campi del Libano vivono in condizioni al limite della sopravvivenza. Il 94% delle vittime in questi teatri è rappresentato da civili. E poi c’è l’Iran, dove il conflitto con Israele sta generando un clima di instabilità e nuove fughe, anche se per il momento i dati restano parziali e difficili da verificare. Foto Unsplash di Julie Ricard Il Sudan, tragedia silenziosa dell’Africa Ma la crisi più grave si consuma nel silenzio quasi totale dei riflettori internazionali. In Sudan, una guerra civile devastante tra l’esercito regolare e le Rapid Support Forces, scoppiata nell’aprile 2023, ha già costretto 12,3 milioni di persone ad abbandonare le proprie case. Di queste, quasi 9 milioni sono sfollati interni, mentre oltre 3,5 milioni sono fuggiti nei Paesi vicini: Ciad, Egitto, Etiopia, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana. Si tratta del più grande esodo africano degli ultimi vent’anni. Molti di questi rifugiati trovano accoglienza in Uganda, un Paese che da anni si distingue per la generosità del suo sistema di asilo, pur tra enormi difficoltà economiche. Oggi, più di 1,8 milioni di persone trovano riparo nel Paese, ma i fondi scarseggiano: le razioni alimentari sono state ridotte per almeno un milione di loro. Il Programma Alimentare Mondiale, colpito da tagli di bilancio e scarsa cooperazione internazionale, fatica a garantire anche i servizi essenziali. Chi accoglie davvero Uno degli aspetti più inquietanti di questa crisi globale è la distribuzione profondamente diseguale dell’accoglienza. Oltre il 73% dei rifugiati si trova in Paesi a basso o medio reddito, per lo più confinanti con le aree di conflitto. Le nazioni che ospitano il maggior numero di rifugiati sono la Turchia (circa 3,6 milioni), l’Iran (3,4 milioni), la Colombia (2,5 milioni), la Germania (2,1 milioni) e il Pakistan (1,7 milioni). Nonostante le dichiarazioni di solidarietà, l’Occidente continua ad accogliere una percentuale minima del totale. I meccanismi di reinsediamento internazionale sono deboli e lenti: nel 2024, solo 188.800 rifugiati sono stati effettivamente reinsediati in un nuovo Paese terzo. Numeri irrisori se confrontati con l’ampiezza del fenomeno. Un appello all’umanità La Giornata Mondiale del Rifugiato dovrebbe essere, prima di tutto, un giorno di responsabilità. Il diritto d’asilo non è un favore né un’opzione politica: è un diritto umano fondamentale. Ma in un’epoca in cui la parola “rifugiato” viene spesso strumentalizzata, deformata, politicizzata, è necessario tornare al significato più semplice e universale: quello di una persona che fugge per salvare la propria vita. Dietro ogni numero, ogni statistica, c’è un volto, una storia, un’infanzia spezzata. Un mondo che fugge non è un mondo sicuro per nessuno. Serve una risposta globale, condivisa e solidale. Non basta più celebrare una giornata: bisogna ascoltarla. Foto da Unsplash di Salah Darwish Heraldo
La povertà in Italia secondo i dati della rete Caritas: in 10 anni l’incremento è stato del 62,6%
L’Italia è il settimo Paese in Europa per incidenza di persone a rischio povertà o esclusione sociale (al 23,1%, in aumento rispetto al 22,8% del 2023): solo Bulgaria, Romania, Grecia, Spagna, Lettonia e Lituania registrano valori più alti. Oggi si contano complessivamente 5 milioni e 694 mila poveri assoluti, per un totale di 2 milioni e 217 mila famiglie, che non dispongono delle risorse necessarie per una vita dignitosa, impossibilitati cioè ad accedere a un paniere di beni e servizi essenziali, quali ad esempio alimentazione adeguata, abbigliamento, abitazione. Una situazione confermata anche dai dati della rete Caritas Nel 2024 le persone accolte e sostenute dai Centri di Ascolto e servizi informatizzati della rete Caritas in Italia sono state 277.775. Si tratta di un numero che corrisponde ad altrettanti nuclei familiari, poiché l’intervento degli operatori e dei volontari mira sempre a rispondere ai bisogni dell’intera famiglia. Le informazioni provengono da 3.341 servizi, attivi in 204 diocesi (pari al 92,7% delle diocesi italiane) e distribuiti in tutte le 16 regioni ecclesiastiche, rappresentando circa la metà delle strutture promosse e/o gestite dalle Caritas diocesane e parrocchiali. L’aiuto della rete ha raggiunto circa il 6 per mille dei nuclei familiari residenti in Italia e circa il 12% delle famiglie in povertà assoluta. Il numero degli assistiti è aumentato del 3% rispetto al 2023. Se confrontato con il 2014, il dato appare decisamente allarmante: in dieci anni l’incremento è stato del 62,6%. I territori con l’aumento più marcato delle richieste di aiuto sono quelli del Nord Italia (+77%), seguiti da quelli del Mezzogiorno (+64,7%). Tali trend, evidenziano l’effetto cumulativo delle molteplici crisi che hanno attraversato il Paese negli ultimi anni: dalla crisi finanziaria del 2008, a quella del debito sovrano, fino alla pandemia da Covid-19 e alle recenti tensioni internazionali. Cala l’incidenza dei “nuovi ascolti” (37,7%, rispetto al 41,0% del 2023) e al contempo aumentano i casi di povertà intermittente e di lunga durata. Particolarmente preoccupante è la crescita delle situazioni di cronicità: oltre un assistito su quattro (26,7%) si trova in uno stato di disagio stabile e prolungato. La povertà diventa anche più intensa: il numero medio di incontri annui per assistito è quasi raddoppiato rispetto al 2012. L’età media delle persone accompagnate è 47,8 anni, in aumento rispetto al passato. Sebbene le statistiche ufficiali mostrino una situazione in cui gli anziani risultano meno colpiti dalla povertà rispetto alle fasce più giovani della popolazione, i dati raccolti dalla rete Caritas evidenziano una costante crescita della componente anziana tra le richieste di aiuto: se nel 2015, infatti, gli ultrasessantacinquenni rappresentavano appena il 7,7% oggi la loro incidenza è praticamente raddoppiata raggiungendo il 14,3%. Rimangono invece pressoché stabili e strutturali le difficoltà delle famiglie con figli che costituiscono circa i due terzi degli assistiti (63,4%), molti dei quali con figli minori. Un fattore che accomuna la gran parte delle persone accompagnate riguarda la fragilità occupazionale, che si esprime per lo più in condizioni di disoccupazione (47,9%) e di “lavoro povero” (23,5%). Non è solo dunque la mancanza di un impiego che spinge a chiedere aiuto: di fatto quasi un beneficiario su quattro rientra nella categoria del working poor, con punte che superano il 30% nella fascia tra i 35-54 anni. Quindici anni fa i disoccupati rappresentavano i due terzi dell’utenza e gli occupati appena il 15%; questo descrive con chiarezza quanto sia mutato il profilo dell’utenza Caritas nel corso degli ultimi tre lustri, riflettendo al contempo una profonda trasformazione del fenomeno stesso della povertà. La povertà appare multidimensionale e complessa: nel 56,4% delle storie incontrate si sommano due o più ambiti di fragilità, e per il 30% se ne cumulano tre o più. I principali pilastri di vulnerabilità sono il reddito, il lavoro e la casa, anche se le difficoltà non si esauriscono solo a queste dimensioni Tra i bisogni più frequenti, spesso correlati alle condizioni economiche, vi sono: problemi sanitari (in forte aumento rispetto al 2023); problemi familiari (legate a separazioni, conflitti, lutti o maternità in solitaria); difficoltà connesse allo status migratorio. A fronte di questa complessità, cala il numero di beneficiari delle misure di sostegno al reddito: i percettori di Assegno di Inclusione (Adi) sono l’11,5% del totale, quelli del Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL) solo l’1,3%. L’incidenza dei beneficiari dell’ADI risulta più alta al Sud (32,7%) e nelle Isole (29,8%) rispetto alle aree del Nord; allo stesso modo si evidenziano marcate differenze rispetto alla cittadinanza: tra gli italiani la percentuale di percettori si attesta al 19,4%, tra gli stranieri al 4,2%. La quota di beneficiari dell’Assegno Unico Universale sfiora complessivamente il quaranta per cento tra le persone con figli (38,8%), senza particolari differenze tra italiani e stranieri. La Caritas pone un particolare accento poi sul “problema casa”, sottolineando come non si tratti più di un’emergenza temporanea, bensì di una crisi strutturale con radici economiche, sociali e urbanistiche profonde. “Continuare a trattarla come una situazione contingente, si legge nel Rapporto, impedisce l’elaborazione di strategie di lungo periodo e soluzioni sistemiche. Non riguarda soltanto le situazioni estreme come quella delle persone senza dimora, ma coinvolge un numero crescente di famiglie che incontrano difficoltà nel trovare o mantenere un alloggio dignitoso e accessibile”. Ma anche la povertà sanitaria appare ormai preoccupante: i dati raccolti dalla Caritas nel 2024 mostrano che il 15,7% degli assistiti vive una condizione di vulnerabilità sanitaria, spesso legata a patologie gravi e alla mancanza di una risposta adeguata da parte del sistema pubblico. Qui il Rapporto: https://www.caritas.it/wp-content/uploads/sites/2/2025/06/report_stampa_9_06_25.pdf.  Giovanni Caprio
Ricchezza privata e debito pubblico
Ormai siamo abituati ad attenderci che ogni anno il debito pubblico dello stato italiano cresca in valore assoluto. Infatti, ecco i dati – forniti da Banca d’Italia – degli ultimi anni: 2.410 miliardi di euro nel 2019, 2.573 miliardi nel 2020, 2.678 miliardi nel 2021, 2.758 miliardi nel 2022, 2870 miliardi nel 2023 e 2967 miliardi di euro nel 2024. In 5 anni il debito è aumentato di 557 miliardi di euro (+ 23,1%). Nell’ultimo anno è cresciuto di 97 miliardi (+ 3,4%). Quello che raramente viene evidenziato è l’andamento della ricchezza finanziaria degli italiani. Ecco i dati, forniti dalla Federazione Autonoma Bancari Italiani (FABI): 4.664 miliardi di euro nel 2019, 4.800 miliardi nel 2020, 4.999 miliardi nel 2021, 5.138 miliardi nel 2022, 5.781 miliardi nel 2023 e 6.031 miliardi di euro nel 2024. La ricchezza finanziaria dei cittadini italiani negli ultimi 5 anni è aumentata di 1.367 miliardi (+ 29,3%). Nell’ultimo anno è cresciuta di 250 miliardi (+ 4,3%). Il debito pubblico continua ad aumentare perché lo stato italiano ogni anno chiude il bilancio in passivo nel confronto tra entrate (soprattutto imposte) e uscite (compresi gli interessi sul debito). Al contrario, gli italiani – considerati complessivamente – ogni anno si ritrovano con un bilancio positivo tra entrate (inclusi gli interessi sui titoli di stato) e uscite (tasse comprese). L’aumento della ricchezza privata non riguarda tutti i cittadini, ma soltanto i più abbienti, perché le statistiche mostrano come negli ultimi anni in Italia siano aumentate le povertà e le disuguaglianze. Analizzando in dettaglio i dati forniti dalla FABI, i maggiori aumenti di ricchezza in percentuale negli ultimi 5 anni si rilevano nei derivati e nelle stock option (+ 1.277%), nei titoli di stato (+ 84%) e nelle azioni (+ 73%). È evidente che è soprattutto chi dispone di capitali da investire che si è arricchito, confermando il detto che i soldi producono soldi. Questi dati implicitamente mostrano che l’attuale sistema fiscale è iniquo, poiché le imposte sui redditi da capitali sono inadeguate. Negli ultimi decenni il legislatore italiano ha introdotto sempre di più forme di tassazione separata, con imposte fisse e con ricavi non cumulabili. In questo modo è stata sottratta al fisco una parte significativa del gettito, creando forti disparità tra cittadini a parità di reddito. Questa riduzione delle entrate fiscali ha contribuito all’aumento del debito pubblico e anche alla crescita della ricchezza privata soltanto di alcuni. È noto ad esempio che l’aumento del debito statale implica una crescita della spesa per interessi da versare a chi acquista i titoli di stato. Questo meccanismo sottrae risorse alla spesa pubblica (per la sanità, per la scuola, ecc.), incrementando la ricchezza di chi detiene i titoli pubblici. In sintesi, lo stato si impoverisce e alcuni cittadini si arricchiscono. Un osservatore esterno e neutrale a rigor di logica potrebbe ipotizzare che per evitare la crescita del debito pubblico si dovrebbero limitare gli aumenti di ricchezza degli italiani più abbienti. Matematicamente si può facilmente calcolare che, se negli ultimi 5 anni la ricchezza degli italiani fosse aumentata “soltanto” di 810 miliardi di euro, destinando 557 miliardi di euro allo stato, il debito pubblico non avrebbe subito aumenti. Evidentemente, a fornire queste risorse dovrebbero essere proprio quelli che hanno beneficiato degli aumenti. Tutto questo sarebbe sensato se il debito pubblico venisse percepito come debito di tutti, anzi come un’eredità negativa che non si dovrebbe lasciare alle prossime generazioni. Invece, si ragiona in altro modo: la ricchezza è privata mentre il debito è pubblico, quindi quest’ultimo è un problema dello stato e non del contribuente. Resta il fatto che la ricchezza finanziaria privata degli italiani è più del doppio del debito pubblico dell’Italia. Di fronte a questi dati una riforma fiscale si dimostra sempre più necessaria. In realtà molti politici fanno a gara nel proporre tagli alle tasse, evitando di considerare il problema del debito pubblico. Perché i cittadini che pagano le imposte (e anche gli evasori) votano, mentre le future generazioni non possono recarsi alle urne. Pertanto, si persiste nel circolo vizioso di ridurre le imposte private, aumentando di fatto il debito pubblico. La Costituzione italiana prescrive la solidarietà come dovere inderogabile. Ne consegue che chi ha di più potrebbe e dovrebbe dare più risorse alla collettività, anche per sostenere chi ha di meno. Nel frattempo, sarebbe opportuno che chi ha di meno smettesse di votare per chi ha di più. La democrazia senza equità rischia di essere un regime ingiusto. Rocco Artifoni
Una serata per pensare insieme come cambiare rotta
Giovedì 22 maggio 2025 alle 19 Biblioteca Chiesa Rossa – Via San Domenico Savio, 3, Milano Ci eravamo presi  l’impegno di presentare il libro “Il capitale nell’Antropocene” di Saito Kohei come superamento o attenuazione della cesura creatasi tra i collettivi militanti posizionati sulla ricerca e critica anticapitalista e i nuovi gruppi di critica alla distruzione del pianeta da parte dei grandi gruppi economici. “Le concentrazioni e centralizzazioni dei capitali, se non mediate dai vari attori geopolitici, si muovono verso trasformazioni da guerre commerciali a guerre vere e proprie, con demagoghi pronti a implementare ricette suprematiste della peggior disumanità e a sacrificare milioni di persone. Nel mondo, ma anche in Italia, vivono in situazione di povertà assoluta milioni e milioni di persone. Siamo convinti che solo la lotta può liberarli dalla condizione materiale in cui si trovano e la storia ci ha dimostrato che è stato possibile! La storia ci ha anche insegnato che non tutto quello conquistato in termini di emancipazione dal bisogno è per sempre! Abbiamo l’esigenza di liberare forze  e provare a gettare un seme di contaminazione tra radicalità che intendono la trasformazione del mondo e lo vogliono salvare nella giustizia sociale. Kohei Saito nel suo libro, come altri studiosi marxisti, adotta l’Antropocene per ragioni non certo attenuanti o rassicuranti, ma perché la nozione sostituisce quella ancor più desueta di “questione ecologica oggi” e permette in sovrappiù di entrare nel dibattito in corso. Noi questi temi non intendiamo affrontarli in termini accademici e tanto meno tenerli rinchiusi in recinti di comunità che perseguono la decrescita senza dire come.  Allora semplificando ed esemplificando: come potremmo contribuire alla decrescita a livello personale e collettivo? Movimento per la decrescita felice e associazione Rossosispera   Redazione Milano
Le tariffe delle mense scolastiche e gli investimenti PNRR nell’VIII° report di Cittadinanzattiva
Una famiglia ha speso in media nell’anno scolastico che si avvia a conclusione 85 e 86 € al mese per la mensa di un figlio iscritto rispettivamente alla scuola dell’infanzia e alla primaria. Si tratta di 4,25 e 4,30 € a pasto. La regione mediamente più costosa è l’Emilia-Romagna con 108 € mensili (lo scorso anno era la Basilicata), mentre quella più economica è, come nell’anno scolastico precedente, la Sardegna con 61 € nell’infanzia e 64 € per la primaria. Anche in quest’anno scolastico si è dovuto registrare un incremento delle tariffe, pur se alquanto contenuto (circa l’1%), con importanti variazioni però a livello regionale: la Sicilia registra un’importante crescita del costo a carico delle famiglie sia nella scuola dell’infanzia (+13% circa) che in quella primaria (oltre l’8%), mentre per la Basilicata si segnala una riduzione significativa di circa il 6% sia nell’infanzia che nella primaria. A livello di singoli capoluoghi di provincia, sono le famiglie di Barletta a spendere di meno per il singolo pasto (2 € sia per l’infanzia che per la primaria), mentre per l’infanzia si spende di più a Torino (6,60 € a pasto) e per la primaria a Livorno e Trapani (6,40 €). Fra le città metropolitane si conferma il dato positivo di Roma che rientra nella classifica delle meno care, con un costo a pasto per la famiglia “tipo” di circa 2,60 € in entrambe le tipologie di scuola. Sono alcuni dei dati dell’VIII^ Indagine sulle mense scolastiche di Cittadinanzattiva. Come si sa, sono molteplici i vantaggi per le famiglie di un territorio avere la mensa scolastica. Innanzitutto, perché una corretta alimentazione è alla base della crescita e dello sviluppo psicofisico di bambini e ragazzi e dunque la mensa può garantire a tutti gli alunni che possono accedervi pasti sani ed equilibrati indipendentemente dalle possibilità territoriali, economiche, organizzative delle famiglie di origine. Secondo gli ultimi dati ISTAT di marzo 2025 relativi alla condizione di vita delle famiglie e dei bambini nel nostro Paese, il 23,1% delle persone è a rischio povertà o esclusione sociale e la percentuale sale al 25,6% per le famiglie in cui è presente almeno un minore (un dato stabile rispetto allo scorso anno, quando era al 25,5%). Purtroppo, però, il rischio povertà o esclusione sociale aumenta al crescere del numero dei minori presenti in famiglia. Infatti, tra le famiglie con un solo minore circa due su dieci (22,9%) sono a rischio povertà o esclusione sociale, mentre tra le famiglie con 3 o più figli minori il rischio povertà o esclusione sociale riguarda più di 4 famiglie su 10 (42%), con una crescita di circa 5 punti percentuali rispetto al 2023 (era il 37,1%). Tra le famiglie con tre o più minori, invece, cresce la percentuale di quanti si trovano in grave deprivazione materiale e sociale, 10,4% nel 2024 contro il 9,5% nel 2023, La mensa, dunque, rappresenta una conquista irrinunciabile, soprattutto a favore delle fasce meno abbienti della popolazione. Una conquista ancora remota però per tante realtà territoriali. Il Report in premessa sottolinea infatti ancora una volta le carenze strutturali relative alle mense scolastiche. “Secondo i dati pubblicati dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dall’Istat, relativi all’anno scolastico 2022-2023, il 34,54% (33,6% nell’anno precedente), cioè poco più di un edificio su tre, sarebbe dotato di mensa scolastica. Le mense esistenti, però, non sono distribuite in modo omogeneo nel Paese: nelle Regioni del Sud poco più di un edificio su cinque dispone di una mensa scolastica (22% al Sud, 21% nelle Isole) e la quota scende al 15,6% in Campania e al 13,7% in Sicilia. La differenza con le regioni del Centro (Umbria, Marche, Toscana, Lazio) e del Nord (Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Veneto) è molto evidente: 41,2% e 43,1% rispettivamente sono gli edifici dotati di mensa scolastica presenti in queste aree geografiche. La regione con un numero maggiore di mense è la Valle d’Aosta (72%), seguita da Piemonte (62,4%), Toscana (59,6%) e Liguria (59,1%)”. E il PNRR solo in parte riuscirà a sanare queste carenze: dalla piattaforma Regis, a dicembre 2024 risulta che, complessivamente, con il PNRR sono stati finanziati 961 interventi. Per colmare il divario territoriale circa il 58% dei fondi sarebbe dovuto andare alle regioni del sud, ma, osservando le graduatorie finali, si evidenzia come le Regioni del Sud e delle Isole prevedono complessivamente 489 interventi, pari al 50,88% del totale. In termini di risorse economiche, però, al Sud e alle Isole vanno complessivamente il 37% delle risorse impiegate, al Nord il 48%, al Centro il 15%. Poco più della metà degli interventi, 516, pari al 54%, prevede la costruzione di nuove mense, di cui 228 (44%) al Sud e nelle isole. Negli altri casi si tratta, dunque, di interventi di ampliamento, messa in sicurezza, efficientamento energetico, manutenzione, ecc. di mense preesistenti. Cittadinanzattiva avanza alcune proposte: realizzare un’indagine conoscitiva e promuovere un tavolo permanente sulla ristorazione scolastica; riconoscere le mense scolastiche come servizio pubblico essenziale e nel frattempo impedire qualsiasi forma di esclusione dai bambini le cui famiglie siano in condizioni di povertà; aumentare e rendere stabile il fondo per il contrasto alla povertà alimentare a scuola; predisporre un piano quinquennale, successivo al PNRR per costruire nuove mense e arrivare a garantire il tempo pieno, a partire dalla scuola primaria e soprattutto nelle aree del Sud, in quelle interne e ultra-periferiche del Paese; favorire la diffusione delle Commissioni Mensa con la presenza al loro interno di almeno un genitore di bambini che utilizzano le diete speciali; rendere gli studenti protagonisti dell’educazione alimentare, dei corretti stili di vita e contro lo spreco; eliminare dai distributori automatici a scuola il cibo spazzatura, ed inserire solo prodotti freschi e naturali, possibilmente locali. Qui per approfondire e scaricare l’indagine: https://www.cittadinanzattiva.it/notizie/17124-viii-indagine-sulle-mense-scolastiche-circa-85-euro-il-costo-medio-mensile-servono-piu-risorse-contro-la-poverta-alimentare.html. Giovanni Caprio