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Madagascar: la Generazione Z ha vinto, ma non è lei a riscrivere le regole
Abbiamo assistito di recente a una svolta storica in Madagascar, che ha visto protagonisti i giovani della Generazione Zeta. A distanza di poco tempo rimangono molti interrogativi e sfide. Tra il 25 settembre e il 14 ottobre scorsi, il Madagascar ha vissuto una svolta storica. La Generazione Z, nata e organizzata sui social network, è riuscita a far cadere il regime di Andry Rajoelina. Ora però i ragazzi della Gen Z tra i 15 e i 25 anni, arrabbiati, connessi e determinati, si trovano di fronte a un interrogativo cruciale: come evitare che il loro sogno di cambiamento venga neutralizzato? Il rischio principale per la Generazione Z malgascia è che il “momento rivoluzionario” venga normalizzato dentro logiche militari, clientelari e internazionali che non controlla, trasformando una vittoria di piazza in una riconfigurazione del vecchio sistema con volti nuovi. La specificità della Generazione Z malgascia è il suo nucleo motore: una galassia di gruppi urbani connessi che ha usato piattaforme cifrate per coordinare scioperi, sit-in, occupazioni, manifestazioni e presidi in spazi simbolici come la Place de la Démocratie, aggirando partiti e notabili. Questa “rivoluzione digitale” ha prodotto due effetti ambivalenti: ha mostrato che una generazione con poco da perdere può rovesciare rapidamente un presidente, ma ha anche aperto spazio a un arbitraggio di potere da parte dei militari, delle élite economiche e degli attori esterni che ora cercano di incanalare l’energia giovanile in una transizione controllata. Un governo senza consultazione La scelta del primo ministro e la formazione del nuovo governo sono avvenute senza il diretto coinvolgimento dei giovani protagonisti della rivolta. I 29 membri dell’esecutivo odierno includono qualche nuovo volto e alcuni esperti, ma l’insieme resta un sapiente dosaggio di vecchi politici, oppositori storici e persino rappresentanti del regime appena cacciato come Christine Razanamahasoa già presidente dell’Assemblea Nazionale ed ex ministro con Andry Rajoelina, che oggi nel nuovo governo ha ottenuto lo strategico Ministero degli Esteri. Sariaka Senecal, giovane attivista malgascia (poco più che ventenne) descrive così al settimanale francese Le Point il rapporto ambivalente con le nuove autorità: “E’ vero, siamo stati ricevuti dalla presidenza e al Ministero della Gioventù. Da questo punto di vista c’è stato ascolto. Ma sulle nomine politiche non siamo stati minimamente consultati. Dalla scelta del premier a quella dei ministri, non siamo mai stati coinvolti. Stiamo assistendo a una rifondazione di facciata. Non è prevista alcuna revisione costituzionale, nessuna riforma strutturale. Cambiano le facce, non le logiche. Ci ascoltano, fingono di prenderci sul serio. Ma hanno già i loro piani”. Dal movimento orizzontale alla struttura organizzata La difficoltà di questa “rivoluzione della Generazione Z” era prevedibile. Nata in modo spontaneo e orizzontale, la mobilitazione giovanile manca, come in altri contesti simili, di rappresentatività formale. Per acquisire maggior peso, il movimento starebbe valutando di modificare la pura orizzontalità e organizzarsi in una struttura più tradizionale, con portavoce, comitati e leader riconoscibili. La Generazione Z dispone oggi di reti e strumenti che le danno un’influenza senza precedenti, ma oscilla ancora tra la forma organizzata di un movimento e quella assembleare e fluida di un organo consultivo. L’obiettivo comunque resta invariato: influenzare le decisioni del potere. Per ora una delle sfide principali per il nuovo governo è mantenere il sostegno finanziario della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, da cui dipendono numerosi progetti in corso per migliorare l’accesso all’acqua e all’energia: solo il 36% della popolazione malgascia ha accesso all’elettricità, quando c’è. Un brief “Poverty and Equity” su Madagascar dell’ottobre 2025 stima che nel 2024 circa l’80% dei malgasci viva sotto la soglia internazionale di povertà di 2,15 dollari al giorno Intanto la Russia in queste settimane ha manifestato ufficialmente la volontà di rafforzare la cooperazione con il Madagascar in questa fase di transizione. Una mossa sostenuta dal nuovo Presidente dell’Assemblea Nazionale malgascia, Siteny Randrianasoloniaiko, noto per la sua vicinanza a Mosca. “I russi sono specialisti nella risoluzione di problemi urgenti. possono fornirci carburante. La scelta è nelle nostre mani se vogliamo davvero trovare soluzioni ai nostri problemi” ha dichiarato lunedì 24 novembre, durante la discussione sulla legge finanziaria per il 2026. Il giorno seguente ha convocato i fornitori della Jirama, la società pubblica di distribuzione di acqua ed elettricità sostenendo che il supporto tecnico russo sarebbe il benvenuto dato che nella capitale sono già ripresi i tagli di corrente. Non è la prima volta che Mosca prova a esercitare la sua influenza sul Madagascar. Nel 2018, pochi mesi prima delle presidenziali, un’indagine di BBC Africa Eye aveva rivelato come una squadra di consulenti politici russi (entrati nel Paese come “turisti” o “osservatori”) avesse offerto denaro e supporto tecnico ad almeno sei candidati. L’obiettivo era influenzare l’esito del voto sostenendo più candidati in parallelo. Da allora gli attori esterni non hanno smesso di cercare spazio a Antananarivo, tra contratti minerari e offerte di ‘cooperazione strategica’. Ma sette anni dopo, quel copione non funziona più: per i ragazzi della Generazione Z la vera battaglia comincia adesso.   Africa Rivista
Emergenza freddo o emergenza casa?
Queste righe sono riflessioni – o deliri per chi pensa che la povertà sia colpa dei poveri – di chi vive in un appartamento riscaldato, che non ha mai avuto bisogno di trovare un letto di fortuna e che può … Leggi tutto L'articolo Emergenza freddo o emergenza casa? sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Il furto di futuro e i suoi disertori
-------------------------------------------------------------------------------- Un’assemblea dello straordinario movimento sudafricano Abahlali baseMjondolo (“Coloro che vivono nelle baracche”). Oltre un miliardo di persone vivono in baraccopoli in tutto il mondo -------------------------------------------------------------------------------- Chi controlla il presente controlla il passato. Chi controlla il passato controlla il futuro. Lo scrisse il romanziere e militante George Orwell nel suo libro dal titolo 1984. Ci troviamo nell’altro millennio e siamo testimoni più o meno consapevoli del progressivo spossessamento del futuro dei poveri. Si trovino essi nella parte “sud” o “nord” del mondo così com’è stato ridotto in questi ultimi decenni della storia. La tragedia provocata delle oltre cinquanta guerre in atto nel pianeta e la conseguente creazione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo non è altro che un futuro trafugato e che mai più troverà dimora. La strategia di controllo mirato e spesso istituzionalmente violento delle migrazioni internazionali conferma, specie nelle migliaia di morti alle frontiere, l’arbitraria e spesso definitiva sottrazione del futuro a che aveva il diritto di cercarlo altrove. Non c’è nulla di più grave, nella vita umana, della confisca o dell’esproprio del futuro. Prendere come ostaggio il futuro di un popolo, di una classe sociale o di età è commettere un crimine le cui conseguenze sono irreparabili. Non casualmente i politici, i generali, i commercianti e i religiosi promettono, ognuno a suo modo, un futuro differente ai sudditi, cittadini, fedeli o semplicemente clienti. Passato, presente e futuro si giocano nell’oggi che sfugge per distrazione, manipolazione o per scelta. I tempi sono stagioni che abbiamo comunque vissuto, sperato e atteso nell’apertura all’inedito di un futuro che pensiamo possibile. Tutti inconsciamente crediamo, come fanno i contadini, che si seminano oggi i grani conservati dal passato per raccoglierne, domani, i frutti. Si ha fiducia che il futuro non sia totalmente deciso o addirittura precluso dal luogo della nascita o dalle circostanze avverse del destino. Attentare alla speranza che domani non sia la banale ripetizione dell’oggi o di quanto già vissuto nel passato ma avventura di un altro mondo possibile è il più spietato dei genocidi. “Della perdita del passato – scrive nel romanzo I disorientati, lo scrittore libanese-francese Amin Maalouf – ci si consola facilmente, è dalla perdita del futuro che non ci si riprende“. L’orchestrata rapina del futuro passa anche attraverso la propaganda, la società dello spettacolo, le ideologie millenariste che si ostinano a promettere la felicità e l’eldorado per domani. Prima però sono necessari sacrifici, rinunce e sofferenze. Domani, certamente, arriverà Godot, personaggio enigmatico nel teatro dell’assurdo dell’irlandese Samuel Beckett. Godot non arriverà mai sulla scena e i due protagonisti passeranno il tempo in una tragica attesa senza futuro. Si mutila il futuro dei poveri tradendone i sogni con politiche economiche basate sull’esclusione e la morte. Si instilla nell’educazione in famiglia e negli istituti scolastici la paura del futuro perché non controllabile o semplicemente incerto. L’inverno demografico dell’occidente economicamente abbiente non è che un sintomo, peraltro di un’eloquenza unica, dell’espulsione del futuro di un’intera civiltà. Non è dunque casuale che, nella presente fase storica ci sia una moltiplicazione di campi di detenzione per i migranti e carceri contestualmente saturate. In entrambi i casi il futuro è letteralmente sospeso o spento. Fortuna ci sono loro, i disertori. Non seguono le indicazioni di percorso tracciate anzitempo dai maestri del tempio e i dottori della legge. Non aderiscono ai progetti confezionati o ai piani stabiliti dagli illuminati del sistema o l’intelligenza artificiale. Tra loro si trovano i poeti e i resistenti di ogni tipo che ridanno senso, gusto e vita alle parole cadute in disuso. Disertano come possono i paradisi occasionali e tutto ciò che sembra assicurare il successo. Si contano numerosi tra i marginali e in genere i poco importanti della società che conta. Non hanno fatta propria l’arte della guerra. Vivono nella loro patria ma come stranieri, ogni patria straniera è patria loro e ogni patria è straniera. -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a Ilfattoquotidiano.it -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY: > Organizzare la nostra disperazione -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il furto di futuro e i suoi disertori proviene da Comune-info.
Violenza massima
La vita è massacrata. La violenza della potenza  è al suo massimo.  ll sistema America, ancora oggi il  più potente  al mondo, ha deciso di remunerare con  $ 1.000/000/000.000  ( mille miliardi di dollari)  il l lavoro di un anno di un solo imprenditore (Musk). Inoltre,   consente ad una sola persona (Trump) di demolire a suo piacere e senza limiti tutti i principi fondatori della convivenza umana.  Musk è stato ricompensato (in anticipo !) perché  si è impegnato a produrre a palate robots  taxi,  auto senza guida umana, la conquista di Marte  ed   altre macchine AI rivoluzionarie (ci saranno anche i soldati robots ?) E ciò nel mentre circa 5 miliardi di persone su Terra soffrono e muoiono perché non hanno alcuna copertura di base per la loro salute. Peraltro,   mai il sistema America ha voluto spendere un centesimo  per sradicare  la povertà salvo  per fare opera di carità in tutto il mondo anche con milioni e milioni di dollari  per « aiutare »  i poveri  a mal « sopravvivere » in modo che cantino la gloria di Uncle Sam e  si dimostrino a lui riconoscenti per  l’eternità.    Trump, capo supremo del più forte esercito al mondo, ha sconvolto il mondo lanciando una guerra commerciale contro tutti i paesi, individualmente, compresi i paesi  alleati/sudditi; ha minacciato pubblicamente la sicurezza della Groenlandia-DK, del Canada, Panama, Messico e ora ha rilanciato verso il Venezuela e la  Colombia la vecchia politica USA colonialista della cannoniera ; continua con pervicacia   l’espulsione  di migliaia d’immigrati residenti negli USA da anni;  ha smantellato,con l’aiuto di Musk, l’apparato statale statunitense; ha ridotto le principali misure   del sistema di carità sociale  USA. Negli USA, la guerra reale dei ricchi contro i poveri  è di gran lunga la più avanzata al mondo; ha instaurato un sistema di terrore verso i giudici che si oppongono alle sue prevaricazioni  della Legge; lo stesso vale per il mondo universitario  e dei media; persiste con arroganza e incuranza  a mettere   in pericolo la vita del Pianeta continuando  a  finanziare le energie fossili e boicottando  le misure degli altri paesi contro  il cambiamento  climatico e la grave contaminazione chimica del Pianeta; infine,  tratta con disprezzo i diritti di tutti gli  abitanti della Terra. Siamo in presenza di un autocrata cosciente, convinto. In quanto presidente del paese più potente,  di essere la persona che puo’ fare tutto quello che vuole, compreso cambiare i dati  reali, mentire,  accusare ingiustamente, fare e disfare le regole  e le relazioni tra i paesi secondo i suoi interessi.. Si tratta di un « fuorilegge », di un predatore globale, di una violenza massima  e che trova nella   forza della sua violenza la propria legittimazione. La vita della Terra quale conosciuta è insensatamente in fase di dissoluzione  ad opera delle due violenze   fondate sulla  egemonia planetaria acquisita rispettivamente dal  denaro (sistema finanziario) e dalle armi (sistema autocratico militare). Il nostro pianeta è come una pentola sotto  pressione della forza   delle due violenze.  Delle due, quella rappresentata da Trump è la più perversa. La violenza assoluta del sistema del denaro rappresentata da Musk può sembrare meno catastrofica perché , si dice, «almeno produce beni e tecnologia ». E’ una illusione  perché le due violenze sono strettamente legate, si intrecciano necessariamente  La forza del  denaro scatena più passioni e violenze  indicibili dappertutto, in tutti i paesi, in tutti i campi in tutte le classi e in tutte le età. Qualche cifra: * Solo 19  Stati al mondo su 200 hanno un PIL annuo superiore a 1000 miliardi di dollari. Stati come la Svizzera, l’Argentina ,Singapore, il  SudAfrica, il Belgio,  la Norvegia,….e tutti gli altri sono al disotto; * Con mille miliardi di $ si possono comprare 50.000 aerei da caccia (ciascuno costa 20 milioni) ! Eh  si , mille miliardi sono una somma enorme, rappresentano più di un terzo della spesa  militare  mondiale del 2024; * L’UNICEF informa che ha potuto allocare nel 2024, 1,2 miliardo nel settore WASH (Water, Sanitation, Hygiene) con   il risultato di consentire  a 31 milioni di bambini  di accedere all’acqua potabile buona  su basi sicure. 450 milioni di bambini (su  2,3 miliardi  di bambini, quasi un terzo della popolazione mondiale)  sono privati di acqua potabile.  Una  centesima di  quanto offerto a Musk potrebbe azzerare il  numero dei bambini senza acqua potabile. Ma  la vita dei bambini non sembra valere tanto. per cui la violenza del denaro continuerà  a far morire milioni di bambini nei prossimi anni;  * il salario medio lordo annuo  di un operaio in Francia nel 2024 è di poco superiore à 30  mila euro. Per raggiungere la remunerazione accordata a Musk, l’operaio francese  deve lavorare più di 33 milioni di anni ! E che dire dell’operaio pakistano? Forse avranno cosi il tempo di andare su Marte con le navicelle spaziali di Musk…..e non tornare ; Il fatto che quanto detto  accada è in sè un non-senso assoluto, di una  violenza  incommensurabile e indescrivibile.  Che fare ? Rivoltarsi.  Come ?  In primo luogo,   battendosi con ogni mezzo per delegittimare, dimostrare la totale assenza di razionalità , saggezza e  pertinenza  delle forme prese dall’egemonia del sistema finanziario attuale e dell’autocrazia militarista.  Bisogna fortemente demistificare  le loro finalità,  imposte cinicamente  in nome della nazione, del popolo, della ricchezza , dell’efficienza, della competitività, del progresso scientifico, della tecnologia salvatrice, insistendo sul fatto che esse  agiscono sistematicamente in  favore dei pochi  e non di tutti,  dei più potenti  e non  di coloro che  hanno bisogno  di altri beni, altri  servizi, altri orizzonti (di vita, di libertà ,  di emancipazione);   dei più ricchi e non dei poveri, dei « lasciati da parte » come è ampiamente dimostrato nel corso degli ultimi  quaranta anni. E come accadrà per gli  800 miliardi di euro decisi dall ‘UE per il riarmo dell’Europa. . I beneficiari  saranno unicamente coloro la cui economia é legata all’industria delle armi (che bel onore !) Nel frattempo,  essi contribueranno a distruggere  milioni di esseri umani, la natura e le società umane ! In nome di una fasulla « sicurezza europea » !! In  secondo luogo, valorizzare sempre più il mondo delle leggi, la giustiziabilità  dei principi costituzionali  del XX° secolo e del loro rinforzo ed estensione. Altrimenti detto, rinnovare la resistenza attraverso la mobilitazione dei cittadini in favore del rispetto delle leggi.  Abbandonare le petizioni indirizzate ai  dominanti e moltiplicare quelle rivolte ai cittadini e, soprattutto,  moltiplicare il ricorso ai tribunali,  intensificando  le « class actions »  (anche transnazionali)», le iniziative che associano  decine e decine di gruppi, associazioni,  diversi partiti,  diverse collettività locali. In terzo luogo, di questi tempi non sono possibili compromessi al ribasso. Non accordare  alcun minimo di serietà, di fondatezza e  di giustificazione a tutto ciò che  nel mondo è  Trump-equivalente. La forza dei dominanti risiede sovente nella tendenza al compromesso da parte dei sudditi, in nome dell’efficienza e di «salvare il salvabile». E’ stato molto doloroso vedere come  la maggioranza dei governi europei sono andati in udienza presso il presidente deglii StatiUniti per «negoziare» nuovi patti  commerciali , invece di rigettare con coerenza ed insieme l’insensata guerra commerciale. Lo stesso dicasi per quanto riguarda il dovere dei poteri pubblici  di far rispettare gli obiettivi collettivi decisi per la lotta contro il cambiamento climatico. Anche in questo caso, i cittadini devono esprimere con più forza e coerenza il loro rigetto della sottomissione vergognosa di tanti governi agli interessi corporativi e privati  del  mondo del business e della  finanza. I loro interessi  attuali non sono buoni per il futuro dell’Umanità e della Terra.    Riccardo Petrella
In un Paese con oltre 5,7 milioni di persone in condizioni d’indigenza si buttano 157 miliardi nell’azzardo
Dal 1990 al 2020, l’Italia è il fanalino di coda dei Paesi OCSE e l’unico Paese con un valore negativo (-2,9%) di variazione dei salari reali medi. La percentuale di lavoratori a basso salario è passata da 25,9 punti percentuali nel 1990 a 32,2 punti percentuali nel 2017. A essere colpiti sono soprattutto donne, giovani nella fascia 16-34 anni e residenti al Sud, ed in generale quanti hanno un contratto di lavoro part-time. Nel 2023, ogni italiana o italiano deteneva in media circa 190.000 euro di patrimonio. Il patrimonio medio dei 50,000 adulti più ricchi del paese è più che raddoppiato rispetto agli anni Novanta, mentre i 25 milioni di italiani più poveri hanno visto la propria ricchezza media ridursi di più di tre volte e oggi detengono un patrimonio medio di circa 7 mila euro pro-capite. Si stima che almeno 10 milioni di adulti abbiano risparmi liquidi inferiori ai 2.000 euro, decisamente insufficienti per far fronte a uno shock di reddito come quello inflitto dalla perdita del lavoro o da una malattia. La povertà assoluta nel nostro Paese coinvolge oggi una quota sempre più ampia della popolazione. Secondo i dati diffusi da Istat il 14 ottobre, il 9,8% degli italiani – oltre 5,7 milioni di persone e 2,2 milioni di famiglie (8,4% dei nuclei) – vive in condizioni di indigenza. Negli ultimi dieci anni il fenomeno è cresciuto in modo significativo: il numero di famiglie in povertà assoluta ha registrato un + 43,3%, segno di un processo di radicamento che ha reso la povertà una componente strutturale del tessuto sociale nazionale. E’ quanto si legge nel Rapporto 2025 su povertà ed esclusione sociale in Italia della Caritas, dal titolo “Fuori Campo. Lo sguardo della prossimità”. Due capitoli del Rapporto Caritas 2025 sono dedicati alla deriva nazionale dell’azzardo industriale di massa e alle sue conseguenze e alla povertà energetica. Il capitolo 3 si occupa della deriva dell’azzardo, sottolineando come a partire dalla fine degli anni 90, l’offerta dell’azzardo si sua arricchita di oltre una cinquantina di modalità di gioco, sia online che in presenza (oltre 150mila locali, disseminati in tutte le province italiane). “Il volume monetario del gioco d’azzardo, si legge nel Rapporto, mostra una crescita inarrestabile: dai 35 miliardi di euro giocati nel 2006 siamo giunti ai 157 miliardi giocati nel 2024 (+349%). A fronte di tale incremento, l’incasso dell’erario è aumentato solamente dell’’83% (da 6 a 11 miliardi), a tutto favore delle grandi società produttrici. Solo per le slot, si stimano 38 milioni di ore impegnate nel gioco. Oltre 22 milioni di ore impegnate per 1 miliardo e 358 mila giocate”. Ma sono soprattutto le modalità tradizionali ad impegnare tempo di vita: oltre 388 milioni di ore impegnate dalla popolazione per lotto, scommesse, superenalotto. In totale, le giornate lavorative assorbite dal gioco sono oltre 104 milioni. L’altra faccia della medaglia è costituita dalle perdite: nel 2024, il totale delle perdite è stato pari a 20 miliardi di euro. I dati mostrano una correlazione inversa tra reddito medio per contribuente e perdita media al gioco, con un peso percentuale più alto nelle regioni più povere. Dieci regioni sono sopra la soglia della media nazionale (493 euro) e di esse, cinque sono meridionali e isole, due del centro-sud (Abruzzo e Molise) seguite da Lazio e Lombardia. “L’azzardo – si sottolinea nel Rapporto –  costa di più a chi ha meno: non solo perché perde più euro, ma perché quegli euro valgono di più nel bilancio familiare. È il punto da cui far partire qualunque discussione seria su prevenzione, regolazione e responsabilità pubblica”. Il capitolo 5 si occupa, invece, della povertà energetica, quel fenomeno che interessa coloro che non possono usufruire di forniture adeguate e affidabili di energia elettrica e gas per indisponibilità di sufficienti risorse economiche. È la punta di un iceberg, la cui massa sommersa è costituita dalla complessità delle connessioni tra questioni ambientali, climatiche e sociali. È una “nuova” povertà sulla quale pesano gli effetti della crisi climatica che ha creato nuovi rischi ambientali e sociali, che incrementano le disuguaglianze e producono nuove forme di povertà. Secondo l’OIPE nel 2023 le famiglie in povertà energetica in Italia erano 2,36 milioni, pari al 9% del totale, in crescita rispetto all’anno precedente (+1,3 punti percentuali, pari a 340 mila famiglie in più), il valore più alto dall’inizio della serie storica. “Le famiglie più povere, si legge nel Rapporto,  impegnano l’8,7% della loro spesa per beni e servizi energetici, contro il 3,3% delle famiglie più ricche. I poveri sono anche coloro che, per effetto della riduzione progressiva delle risorse stanziate per i bonus (meno 1 miliardo tra il 2022 e il 2023), hanno ridotto più della media le spese per consumi energetici”. Dall’incrocio tra la posizione nel mercato energetico e l’inserimento nelle reti di protezione o possibilità di accesso alle politiche per la transizione energetica, il capitolo identifica e approfondisce tre tipi di poveri: i vulnerabili energetici, gli assistiti energetici e gli esclusi energetici. “Dal punto di vista delle risposte possibili, non si tratta più – propone la Caritas – di affrontare una povertà tradizionale con strumenti assistenziali tradizionali, ma di ripensare il welfare in una logica di sistema che integri sostenibilità ambientale e giustizia sociale, con politiche che intervengano prima che la vulnerabilità si trasformi in esclusione, affinché ogni cittadino, nella transizione energetica, abbia diritto a fruire di energia prodotta da fonti rinnovabili, accessibile a un prezzo equo e fruibile grazie a dispositivi efficienti”.  Come scrive il direttore della Caritas italiana, don Marco Pagniello, il “fuori campo” del titolo del Rapporto è ciò che non si vede, è la parte invisibile che sfugge allo sguardo immediato. La povertà oggi non è sempre visibile, spesso è silenziosa, frammentata, trasversale e multidimensionale. È la povertà di quei lavoratori che non riescono a vivere dignitosamente, di chi cade nella trappola dell’azzardo, di chi subisce violenza nel silenzio, di chi rinuncia al riscaldamento o alla luce, di chi non riesce ad assicurare un tetto alla propria famiglia, di chi vive perennemente connesso, ma senza relazioni significative. La povertà oggi è educativa, sanitaria, abitativa, energetica, affettiva. “Non basta guardarla da lontano o analizzarla con categorie vecchie, ammonisce il direttore della Caritas italiana. Bisogna abitarla, entrarci dentro, sporcarsi le mani, lasciarsi coinvolgere, assumere lo sguardo della prossimità per consentire alla conoscenza di diventare compassione e, di conseguenza, alla compassione di tradursi in azione davvero incisiva”. Qui il Rapporto Caritas: https://www.caritas.it/wp-content/uploads/sites/2/2025/11/Rapproto-Poverta-2025-Versione-integrale.pdf.  Giovanni Caprio
Il Kerala comunista è il primo Stato dell’India a sradicare la povertà
Dopo aver pubblicato un importante articolo sulla notizia, ripubblichiamo questo importante articolo di Contropiano.org sulla lotta del governo comunista dello Stato indiano del Kerala contro la povertà assoluta. Lo Stato indiano del Kerala è diventato il primo del Paese a sradicare la povertà estrema, con un anno di anticipo rispetto al previsto, grazie a un programma “meticolosamente pianificato” guidato dal Partito Comunista Indiano (Marxista). Il primo ministro Pinarayi Vijayan ha annunciato il risultato raggiunto il 1° novembre. “Questa iniziativa storica è stata avviata coinvolgendo persone provenienti da tutti i settori della società e incorporando le idee emerse dalla loro partecipazione e dai loro feedback”, ha affermato. Il Kerala, che conta oltre 36 milioni di abitanti, era un tempo uno degli Stati più poveri dell’India, ma ora ha il tasso di povertà più basso del Paese. Il Progetto per l’Eliminazione della povertà estrema (EPEP) è iniziato nel 2021 con una massiccia campagna porta a porta per sondare le esigenze dei residenti e ha identificato 64.006 famiglie che vivono in condizioni di “estrema deprivazione”. Le assemblee locali hanno quindi elaborato “micro piani” mirati che descrivono in dettaglio gli interventi necessari nelle loro aree, tenendo conto di fattori quali alloggi, assistenza sanitaria, occupazione, titoli di proprietà terriera e pensioni. Il quotidiano Hindu ha affermato in un editoriale che il Kerala è “noto per i suoi risultati esemplari in materia di sviluppo sociale e umano e per i sistemi sanitari paragonabili a quelli dei paesi sviluppati”. Ha descritto il successo dell’EPEP come “un’altra pietra miliare”. “Questo risultato è frutto di un programma quadriennale meticolosamente pianificato che ha coinvolto una serie di agenzie, guidate dal dipartimento dell’autogoverno locale, insieme a un’ampia partecipazione della comunità”, ha aggiunto.  Alla fine degli anni ’60, il Kerala ha espropriato terreni privati e li ha ridistribuiti ai lavoratori senza terra. Secondo un’analisi di Progressive International, ciò ha gettato “le basi per i notevoli indicatori sociali del Kerala: alfabetizzazione quasi universale, uno dei tassi di mortalità infantile più bassi del sud del mondo e la più alta aspettativa di vita in India”. “Il Kerala ha tracciato un nuovo capitolo nella storia—eliminando la povertà estrema per diventare il primo luogo in India e il secondo al mondo a raggiungere questo traguardo”, ha dichiarato John Brittas, membro del parlamento indiano per il Partito Comunista d’India (Marxista), su X. Redazione Italia
Ricchezze che bruciano
DOPO LE ULTIME CONFERENZE ONU SUL CLIMA OSPITATE DAI PAESI PETROLIFERI, IL BRASILE ACCOGLIE DAL 10 AL 21 NOVEMBRE LA COP NUMERO 30 A DIECI ANNI DALL’ACCORDO DI PARIGI E DOPO IL 2024, L’ANNO PIÙ CALDO DI SEMPRE. L’UNICA COSA CERTA IN QUESTO SCENARIO TREMENDO È CHE NON È POSSIBILE COMBATTERE I CAMBIAMENTI CLIMATICI SE NON VENGONO MESSE IN DISCUSSIONE LE DISUGUAGLIANZE ECONOMICHE: IL 10% PIÙ RICCO DELLA POPOLAZIONE MONDIALE, INFATTI, È RESPONSABILE DEL 50% DELLE EMISSIONI TOTALI, MA A PAGARNE LE CONSEGUENZE SONO I PIÙ POVERI, IN PARTICOLARE IN ASIA PER ECCESSO DI PIOGGE E IN AFRICA PER LA LORO ASSENZA L’agricoltura di sussistenza è una delle principali vittime dei cambiamenti climatici ma, insieme ai principi e alle pratiche dell’agrecologia, è al tempo stesso una delle soluzioni più importanti. Foto MST – Movimento dos Trabalhadores Sem Terra -------------------------------------------------------------------------------- Lo aveva già detto Oxfam, ma ora lo ha sottolineato anche Joseph Stiglitz per conto del G20: non è possibile combattere i cambiamenti climatici se non combattiamo le disuguaglianze economiche perché è dimostrato che i maggiori emettitori di anidride carbonica sono i ricchi, ma a pagarne le conseguenze sono i più poveri. Un disaccoppiamento che vale non solo a livello geografico, ma anche sociale inteso come rapporto trasversale fra classi. Da un punto di vista geografico i metereologi hanno appurato che le conseguenze più gravi dei cambiamenti climatici le stanno subendo le regioni più povere, in particolare l’Asia meridionale e l’Africa Subsahariana. Con meccanismi opposti. In Asia per eccesso di piogge, in Africa per la loro assenza. Nel 2022 il Pakistan venne colpito da una vasta inondazione che provocò quasi 2mila morti e perdite per oltre 15 miliardi di dollari, di cui cinque attribuibili al settore agricolo. In Africa, invece, nella regione del Sahel il problema è la siccità. Paesi come Mali, Niger, Sudan, Somalia, negli ultimi anni hanno registrato cali di produttività agricola fino al 40% a causa della mancanza d’acqua. La riduzione dei raccolti agricoli ha come effetto immediato la fame, perché in Africa, come in molti altri paesi del Sud del mondo, una percentuale importante di famiglie pratica ancora l’agricoltura di sussistenza, ossia vive direttamente di ciò che produce. E quando non c’è più da mangiare e da bere, non rimane che andarsene. Il dramma degli sfollati per cause naturali destinato a peggiorare negli anni a venire. La Banca Mondiale calcola che da qui al 2050, oltre 216 milioni di persone potrebbero trovarsi costrette a migrare verso le città o i paesi limitrofi per sfuggire ai disastri provocati dai cambiamenti climatici. E non solo nei paesi del Sud, ma anche in quelli del Nord come testimonia l’Istituto norvegese Internal Displacement Monitoring Centre. Dei 22 milioni di sfollati per incendi, tifoni e allagamenti registrati nel 2024, ben sei appartengono agli Stati Uniti a causa dell’uragano Milton. Ma c’è da stare certi che pur trattandosi del paese più ricco del mondo, a essere colpite sono state le fasce più povere. Intanto perché i ricchi cercano di evitare le località più rischiose e quand’anche dovessero subire dei danni avrebbero i mezzi per risollevarsi rapidamente. Purtroppo per noi, i ricchi hanno anche i mezzi per condurre vite così lussuose, da emettere quantità stratosferiche di anidride carbonica. Quanto è successo a Venezia nel giugno 2025 ne è un esempio. Per tre giorni la città venne stravolta dalla presenza di Jeff Bezos, patron di Amazon e terzo individuo più ricco del mondo, che aveva invitato oltre duecento magnati per celebrare il suo matrimonio. Molti ritennero l’evento scandaloso per la montagna di soldi spesi, all’incirca 50 milioni di dollari, ma altri si sono concentrati sul tasso di inquinamento prodotto. Gli invitati più facoltosi avevano usato i propri aerei privati per unirsi ai festeggiamenti, tant’è che l’aeroporto di Venezia registrò l’atterraggio di ben 90 jet provenienti da ogni parte del mondo. Aerei che mediamente producono due tonnellate di anidride carbonica per ogni ora di volo, una quantità che rapportata al basso numero di passeggeri trasportati li rende da cinque a quattordici volte più inquinanti dei normali aerei di linea. L’organizzazione statunitense International Council on Clean Transportation ha appurato che nel 2023 sono stati effettuati tre milioni e mezzo di voli da parte di jet privati che complessivamente hanno bruciato oltre sei milioni di tonnellate di carburante per un totale di anidride carbonica prodotta pari a 19,5 milioni di tonnellate. Considerato che nell’Unione Europea le emissioni procapite annuali corrispondono a 10,7 tonnellate, nel 2023 i jet privati hanno emesso la stessa quantità di anidride carbonica prodotta in dodici mesi da 1,8 milioni di europei. Uno studio pubblicato nel 2023 da Oxfam ci informa che la responsabilità per l’inquinamento prodotto dalla CO2 è profondamente differenziata non solo per aree geografiche, ma soprattutto per livello di ricchezza. Il 10% più ricco della popolazione mondiale, è responsabile del 50% delle emissioni totali, con l’1% di cima che ne emette, da solo, il 16%. Il 50% più povero è responsabile appena dell’8%, mentre il 40% intermedio si intesta il rimanente 42%. Considerato che per impedire alla temperatura terrestre di crescere oltre 1,5 gradi centigradi, nessuno di noi dovrebbe emettere più di 2,8 tonnellate di CO2 all’anno, si scopre che mentre il 50% più povero non ne emette neanche una tonnellata, il 40% intermedio ne emette il doppio del consentito, mentre il 10% più ricco ne emette nove volte di più e l’1% di cima addirittura ventisette volte di più. Per non parlare dei top 20 miliardari che con 8.000 tonnellate a testa sono sopra al consentito di oltre 2.800 volte. Quote che diventano ancora più scandalose se prendiamo in considerazione anche le emissioni derivanti dai loro investimenti in settori altamente inquinanti come gas, petrolio, acciaio, cemento. Il paradosso della situazione è che mentre contribuiscono così pesantemente al degrado del pianeta, i superricchi pensano di mettersi a posto con l’umanità donando qualche milione di dollari per attività filantropiche destinate al miglioramento ambientale. Bezos, ad esempio, dopo aver fondato il Bezos Earth Fund per la difesa del clima e della natura, si è impegnato a finanziarlo con 10 miliardi di dollari entro il 2030. Ma la vera strada da intraprendere per arrestare i cambiamenti climatici è quello di adottare stili di vita meno inquinanti. Un passo che i ricchi faranno solo quando avranno meno soldi da sperperare. Per questo tutti coloro che si battono per la difesa del pianeta sostengono che per vincere la battaglia climatica è indispensabile applicare serie politiche di redistribuzione della ricchezza. Che tradotto significa tasse più alte sui redditi e i patrimoni delle classi agiate con contemporaneo utilizzo dei fondi raccolti in due direzioni. Il primo, la cooperazione internazionale per aiutare le popolazioni più povere a superare le loro difficoltà. Il secondo, intervenire internamente per garantire maggiori servizi in campo sociale, sanitario e dei trasporti, necessari per permettere anche alle fasce più deboli di affrontare la transizione ecologica senza eccessivi scossoni. Questo, in fondo, era il sogno di Alex Langer quando diceva che la conversione ecologica avverrà solo se sarà socialmente desiderabile. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > L’accordo minato -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Ricchezze che bruciano proviene da Comune-info.
Gaza è Rio de Janeiro. Gaza è il mondo intero
-------------------------------------------------------------------------------- Foto Desinformemonos -------------------------------------------------------------------------------- Le parole non possono descrivere adeguatamente l’orrore del massacro di oltre 120 giovani neri poveri, uccisi dalla polizia di Rio de Janeiro con il pretesto di combattere il narcotraffico. Si è trattato di un’operazione di guerriglia urbana in cui il governo statale ha mobilitato 2.500 agenti di polizia militare pesantemente armati, insieme a veicoli blindati ed elicotteri, per attaccare i complessi delle favelas Penha e Alemão nella Zona Nord della città, un’area con un’alta concentrazione di residenti poveri. Questi due complessi di favelas contano oltre 150mila abitanti ciascuno, con una densità di popolazione estremamente elevata. Il governo di Rio ha segnalato 60 morti, ma gli abitanti delle favelas hanno portato nelle piazze oltre 50 corpi, corpi che non sono stati inclusi nel conteggio ufficiale, lasciando poco chiaro il numero effettivo delle vittime. Il bilancio delle vittime è ora salito a oltre 120. Le reazioni sono state immediate, dalle organizzazioni per i diritti umani alle Nazioni Unite, che si sono dichiarate “inorridite” dal massacro. Al di là delle statistiche, ci sono fatti rilevanti. Il genocidio palestinese a Gaza è lo specchio in cui i popoli oppressi del mondo devono riflettersi. Per chi detiene il potere, è iniziato un periodo di caccia indiscriminata alla popolazione “in eccesso”, perché l’impunità è garantita. Ora più che mai, Gaza siamo tutti noi. Potrebbe essere Quito, San Salvador, Rosario o Tegucigalpa; il Cauca colombiano o il Wallmapu; forse le montagne di Guerrero o le comunità del Chiapas. Ora siamo tutti nel mirino di un capitalismo che uccide per accumulare ricchezza più velocemente. Parlano di narcotrafficanti con la stessa insensibilità con cui nominano palestinesi, mapuche o maya. Sono solo scuse. Argomentazioni per la classe media urbana. Ma la storia recente ci insegna che stanno creando laboratori per il genocidio. Nel pacifico Ecuador, quando il popolo trionfò nella rivolta del 2019, il governo reagì liberando i criminali dalle prigioni trasformate in campi di sterminio, dove i media mostravano detenuti che giocavano a calcio con la testa mozzata di una vittima. Nel Cauca (Colombia), l’estrazione mineraria a cielo aperto e la coltivazione di droga hanno esacerbato la violenza paramilitare contro le comunità Nasa e Misak che resistono e si rifiutano di essere sottomesse, rendendo la regione la più violenta in un paese già di per sé violento. Nel territorio Mapuche, sia in Cile che in Argentina, le autorità hanno deciso di etichettare come “terroristi” coloro che si rifiutano di essere sottomessi, con il risultato che oggi ci sono più prigionieri Mapuche che sotto le dittature di Pinochet e Videla. In Messico, tutto è chiaro, così chiaro che i media e il governo si rifiutano di lasciarlo vedere, mascherando la violenza con una retorica che si limita a riconoscere la loro complicità. La violenza sistematica a Guerrero e in Chiapas dovrebbe essere motivo di indignazione. A Rio de Janeiro, un sociologo dice spesso che il narcotraffico non è uno stato parallelo, ma piuttosto lo stato stesso. Questo include tutti i governatori degli ultimi decenni, con il loro entourage di imprenditori, deputati e consiglieri comunali legati alla mafia, che formano una struttura di potere ereditata dagli squadroni della morte della dittatura militare. Gaza ci pone in un contesto diverso, di fronte a sfide diverse. La prima è capire che la morte è la ragion d’essere del sistema capitalista. La seconda è capire che questo sistema è composto sia dalla destra che dalla sinistra, dai conservatori e dai progressisti. La terza è che dobbiamo organizzarci per proteggerci, perché nessun altro lo farà. Il mondo che conoscevamo sta crollando. Piangiamo quei giovani assassinati a Rio, quei corpi sparsi sull’asfalto. Trasformiamo le nostre lacrime in fiumi di indignazione e torrenti di ribellione. -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a Desinformemonos -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Gaza è Rio de Janeiro. Gaza è il mondo intero proviene da Comune-info.
L’Argentina non si è stancata del liberismo: Milei vince le elezioni di metà mandato
«Oggi è una giornata storica»: così il presidente argentino Javier Milei ha celebrato la sorprendente vittoria alle elezioni legislative di metà mandato di domenica 26 ottobre. Con la promessa all’elettorato di proseguire con le riforme economiche intraprese, ha inoltre annunciato che l’Argentina avrà il parlamento «più riformista della storia». Si votava per rinnovare circa la metà dei seggi della Camera dei Deputati e un terzo di quelli del Senato: il partito di Milei, La Libertad Avanza (LLA), ha ottenuto quasi il 41% dei voti e ha vinto nelle sei più grandi province del Paese, tra cui quella di Buenos Aires, dove aveva subito una pesante sconfitta nelle elezioni provinciali del 7 settembre scorso. La principale forza di opposizione, la coalizione peronista di centrosinistra, si è fermata al 31%. L’affluenza è stata del 67,85%, un dato record dal ritorno della democrazia nel 1983, che conferma un calo della partecipazione degli elettori. La vittoria, che ribalta tutti i pronostici, è stata celebrata sui social dal presidente statunitense Donald Trump, che è intervenuto direttamente nella campagna elettorale con un piano di aiuti all’economia argentina e ha più volte minacciato di interromperlo nel caso in cui il suo alleato Milei fosse uscito sconfitto dalle urne. L’Argentina, invece di archiviare la stagione delle ricette ultraliberiste, sembra volerla rilanciare, come se il dolore economico fosse solo un effetto collaterale necessario della “cura Milei”. Una cura che molti economisti definiscono “tossica”, ma che l’elettorato ha deciso di confermare, scommettendo ancora una volta sul presidente argentino, nonostante il calo di popolarità. Alcuni scandali, infatti, lo hanno coinvolto personalmente, a partire dal caso del meme-coin “Libra”, una cripto-moneta che Milei aveva promosso sui social, poi tracollata in borsa rovinando centinaia di investitori. Negli ultimi sei mesi, era sembrato che La Libertad Avanza dovesse ridimensionare i suoi obiettivi in queste elezioni, abbandonando le speranze di cambiare radicalmente la situazione in parlamento, controllato dalle opposizioni. Nell’ultimo comizio che si è tenuto giovedì nella città di Rosario, Milei già non brandiva più l’iconica motosega e ha chiamato gli elettori a «non arrendersi» e a «cambiare l’Argentina sul serio», promettendo per la seconda parte del mandato «le riforme di cui il Paese ha bisogno». Dietro la narrazione trionfalista, l’Argentina resta un Paese lacerato. Dal suo insediamento nel dicembre 2023, Javier Milei ha promesso una “rivoluzione libertaria” fondata su drastici tagli allo Stato, deregolamentazione e più potere al mercato. Con il decreto urgente 70/2023 ha smantellato numerose leggi sociali e liberalizzato settori strategici come affitti, sanità, commercio estero e ambiente. In pochi mesi, l’inflazione – pur ridottasi rispetto ai picchi del 2023 – ha continuato a erodere i redditi, mentre i salari pubblici sono stati congelati e le sovvenzioni energetiche cancellate. Il deficit ha superato i tre miliardi di dollari nel secondo trimestre del 2025, aggravando la crisi sociale. Le classi medie si sono impoverite, i ceti popolari sono precipitati nella precarietà e le proteste sono tornate a moltiplicarsi nelle strade di Buenos Aires e nelle province. In questo scenario, gli Stati Uniti sono intervenuti con una linea di credito da 20 miliardi di dollari per sostenere le riserve della banca centrale argentina, un salvataggio politico che somiglia a un guinzaglio: l’Argentina, ancora una volta, si ritrova legata agli interessi geopolitici e finanziari degli Stati Uniti, che non regalano denaro, ma comprano influenza. Il prestito prevede nuove privatizzazioni, ulteriori tagli e un’apertura ancora più ampia al capitale straniero, accentuando la dipendenza del Paese da interessi esterni e riducendo la sua autonomia politica. L’appoggio plateale di Donald Trump alla campagna di Milei, culminato in un endorsement entusiasta, è il segnale più chiaro di questa convergenza: due populismi, due volti dello stesso capitalismo selvaggio. Eppure, molti argentini hanno visto in Milei l’unico uomo disposto a “fare piazza pulita”. Il linguaggio della rottura, della rabbia contro “la casta”, ha funzionato meglio di qualsiasi programma economico. Le sue comparsate in televisione, i discorsi infuocati, il richiamo all’ordine e alla libertà assoluta hanno sedotto un elettorato esasperato, disposto a sacrificare persino le tutele sociali pur di punire il sistema politico tradizionale. Oggi, l’Argentina si risveglia con un governo più forte e un popolo più fragile. Milei può vantarsi di aver vinto la battaglia politica, ma la guerra economica è tutt’altro che conclusa: la sua “motosega” non ha tagliato gli sprechi, ha tagliato semmai il tessuto sociale. Dietro i sorrisi delle piazze e i tweet di congratulazioni americani, si intravede una nazione che rischia di essere svenduta a pezzi, tra shock economico e dipendenza estera. La sua vittoria non è la prova che l’Argentina crede nel neoliberismo: è la prova che non riesce più a immaginare un’alternativa. Milei potrà contare ora su un Parlamento più favorevole, ma il suo programma resta divisivo e incerto nei risultati. Il prezzo della fedeltà dell’Argentina al liberismo rischia di essere altissimo: un Paese più disciplinato nei conti, ma più diseguale, più vulnerabile e meno sovrano. E finché la libertà verrà confusa con la legge del più forte, la motosega continuerà a ronzare, scavando solchi sempre più profondi tra chi ha tutto e chi non ha più nulla.   L'Indipendente
Partito Comunista Moldavo: “La Moldavia che guarda all’Europa tra povertà, corruzione e repressione dell’opposzione”
Dopo una serie di eventi, che per qualche motivo sono stati chiamati “elezioni parlamentari” in Moldavia, c’era qualche speranza che dopo la fine di tutta questa parodia della democrazia liberale in quanto tale, la situazione sarebbe comunque entrata nel canale del buon senso, della tranquillità, della stabilità, che il governo sarebbe sceso con i piedi per terra, avrebbe iniziato a interessarsi ai veri problemi delle persone e, forse, avrebbe anche cercato di risolverli. Il discorso della presidente Maia Sandu ai parlamentari durante la sessione di fondazione del nuovo Parlamento ha dissipato queste illusioni. In questo discorso, tutte le tesi su cui il Partito di Azione e Solidarietà (PAS) al governo ha costruito la sua campagna elettorale sono state ripetute in forma concentrata – a partire dalla “guerra ibrida” e dalla “corruzione elettorale”, proseguendo con gli “intrighi del Cremlino” e le “intenzioni antinazionali” dell’opposizione, la divisione della società in generale e del parlamento in particolare in “patrioti” e “sleali”, per finire con storie dell’orrore su una vera guerra e favole sull’integrazione europea della Moldavia già nel 2028. Il governo di Chisinau è completamente distaccato dalla realtà e continua ad esistere in un mondo illusorio da esso inventato. E’ sufficiente recarsi più volte nelle regioni della Moldavia e parlare con la gente sul campo per convincersi che uno dei risultati evidenti di queste cosiddette elezioni è stata la distruzione della vita politica in quanto tale. A causa delle repressioni di massa non solo contro l’opposizione, ma anche contro decine di migliaia di cittadini comuni, le persone sono intimidite, hanno paura della propria ombra e non vogliono nemmeno sentir parlare di politici e partiti. Solo in un distretto – non lo nomineremo – la polizia ha emesso 1000 multe amministrative di 37mila lei per “corruzione elettorale”. In tutta la Moldavia, l’importo totale di tali multe può raggiungere il miliardo di lei. Un modo originale, tra l’altro, per ricostituire la tesoreria dello Stato: puoi condividere tale esperienza anche con il FMI. Il sistema partitico in Moldavia è stato ucciso. Sette o otto partiti non sono stati autorizzati a partecipare alle elezioni (o non sono stati registrati, o rimossi dopo la registrazione). Il fianco destro è bruciato da un ferro rovente – c’è solo un grande partito rimasto, che, naturalmente, è il PAS stesso. Sul fianco sinistro, che ha fallito miseramente alle elezioni, c’è confusione e esitazione. Non c’è nemmeno un vero centro. La prima cosa che salta all’occhio quando si viaggia in Moldavia è la povertà. È impossibile nasconderlo anche a Chisinau, per non parlare dei villaggi, dove una casa su tre è abbandonata. Non importa quanto duramente l’amministrazione comunale cerchi di trasformare la capitale in uno spazio per hipster, la povertà e la mancanza di soldi per progetti seri sono visibili anche qui. Il collasso dei trasporti da solo vale qualcosa. L’intera città è bloccata negli ingorghi dalla mattina alla sera, ma non solo il Municipio, ma anche il governo centrale continuano a far finta che non stia succedendo nulla di insolito. Se le persone stesse in qualche modo combattono ancora la povertà privatamente, andando a lavorare all’estero, allora la povertà dello Stato non può essere nascosta. Per quanto offensivo possa sembrare, la Moldavia è davvero lo stato più arretrato d’Europa, che impiegherà decenni per raggiungere il livello medio di sviluppo degli attuali Stati membri dell’UE. Il nuovo governo, guidato da un “manager efficace” Alexandru Munteanu venuto dall’estero, dovrà risolvere i problemi del deficit di bilancio, del servizio dei debiti esterni e interni, combattere le minacce di default e di svalutazione della moneta nazionale, cercare di uscire dallo stato di stagnazione permanente e avviare la crescita economica. Allo stesso tempo, questo governo dovrà negoziare con l’Unione Europea in una dozzina di direzioni diverse, portare avanti la riforma amministrativo-territoriale, riducendo di diverse volte il numero di distretti e sindaci, continuare il corso della militarizzazione in linea con la politica generale dell’UE di prepararsi alla guerra con la Russia, partecipare alle sanzioni anti-russe dell’UE, che privano la Moldavia di risorse energetiche a prezzi accessibili, e fare qualcos’altro con la Transnistria che si sta trasformando in una regione sempre più depressa con un futuro sempre più incerto. Nelle sue attività, il governo si troverà fin dai primi giorni di fronte a una contraddizione insolubile tra il desiderio di liberalizzare l’economia, rilanciare gli affari, attrarre investitori e un duro regime di repressione politica, gestito dalla giustizia, in una parola, quello che viene chiamato “stato 2.0 catturato”. Dal momento che questo regime è guidato dal presidente, il primo ministro nei suoi sforzi per risolvere i problemi economici dovrà confrontarsi direttamente con Maia Sandu, che guida personalmente la stretta delle “viti” politiche. Alcuni paesi, come Singapore o la Cina, sono riusciti a combinare sistemi politici autoritari con la liberalizzazione economica. Ma la Moldavia non è Singapore o la Cina. Oggi è difficile immaginare un investitore serio, sia locale che straniero, che oserebbe davvero investire in Moldavia. A partire dal fatto che le costose risorse energetiche rendono qualsiasi attività non competitiva fin dall’inizio, e finendo con i capricci della giustizia moldava, dei servizi speciali, di alcuni torbidi Consigli di Sicurezza e comitati per il controllo degli affari, tutto questo non aggiunge fiducia e ottimismo a nessun investitore. Dal momento che sono state le autorità a stringere le viti e a trasformare la vita politica in un deserto, sarebbe logico che le autorità iniziassero e indebolissero le repressioni politiche, avviassero un dialogo con l’opposizione e la società nel suo insieme. Ma a giudicare dalle dichiarazioni di questo governo dopo le elezioni, non cambierà nulla. Metà della società, che non condivide le aspirazioni pro-UE di questo governo, è stata dichiarata “non autentica” e sottoposta all’abolizione. Queste persone non sono trattate come concittadini uguali, ma come sabotatori che sabotano l’unico corso politico corretto. Ciò significa che l’economia moldava continuerà a ristagnare, l’instabilità politica persisterà e la società rimarrà divisa in due parti più o meno uguali, in contrasto l’una con l’altra sotto la guida dei politici locali. Nulla di buono per il paese e per il popolo porterà nulla di buono alla conservazione di tutte queste anomalie. Allo stesso tempo, la domanda pubblica di qualcosa di nuovo nella politica moldava è enorme. Questo conferma almeno il fatto che anche una settimana prima delle elezioni, un elettore su tre non sapeva per chi votare, e se votare affatto. La domanda è: fino a che punto possiamo contare su almeno un’attività civica minima in questo stato di generale apatia, paura, delusione, sfiducia e incredulità? La società è così “stanca” che non c’è più bisogno di affidarsi agli impulsi interni? O c’è ancora un po’ di brace che cova su queste ceneri della politica moldava, da cui è possibile soffiare sul fuoco della normale attività politica – e della vita in generale? Partito Comunista Moldavo – traduzione in Italiano a cura di Viva Cuba Libre da https://www.pcrm.md/ru Redazione Italia