La resistenza ai social media riparte dal Fediverso e dai server ribelliImmagine in evidenza da Mozilla
Da una parte i social network e i rischi intrinseci della raccolta di dati e,
sul fronte opposto, l’attivismo digitale che vuole dare vita a una riforma di
internet dal basso.
Un’idea che si scontra con problemi pratici, tecnici, etici e anche
culturali-narrativi. Non ultimo un immaginario che ancora sconta una vecchia
diffidenza verso gli hacktivisti (e tutto ciò che contiene la parola “hacker”).
Su questo e su altro ancora si concentra Giuliana Sorci nel libro Server
ribelli: R-esistenza digitale e hacktivismo nel Fediverso in Italia che esamina
l’hacktivismo italiano nel corso di tre decenni.
Sorci è una ricercatrice indipendente e insegnante, ha conseguito il dottorato
all’Università di Catania approfondendo la comunicazione politica dei movimenti
sociali e dei conflitti territoriali in Italia. Nel 2015 ha pubblicato il libro
I social network. Nuovi sistemi di sorveglianza e controllo sociale,
approfondendo i modi in cui i social media agiscono come strumenti di
sorveglianza e controllo.
QUALCHE TERMINE UTILE
Nel suo ultimo libro, Server ribelli, si fa ampio riferimento alle piattaforme
commerciali, ovvero al gruppo Meta che detiene Facebook, Instagram, Threads e
WhatsApp e, parallelamente, a X (ex Twitter) e a TikTok. In contrapposizione, il
Fediverso è una rete di piattaforme indipendenti e connesse tra loro, che usano
software open source e protocolli aperti come ActivityPub. La natura
decentralizzata del Fediverso non è l’unico tratto che la contraddistingue dalle
piattaforme commerciali: il Fediverso è non profit, è autogestito, rifiuta la
profilazione di massa e rifugge ogni forma di pubblicità. Gli sviluppatori
rilasciano il codice sorgente affinché gli utenti possano controllare
l’infrastruttura e contribuire al suo miglioramento. Ciò, sottolinea l’autrice,
richiama la partecipazione attiva, altro tratto distintivo che separa il
Fediverso dalle piattaforme commerciali, che impongono un uso passivo.
Altro termine chiave è quello di r-esistenza, che racchiude le pratiche e le
strategie adottate dagli hacktivisti italiani per opporsi al mondo digitale
dominato dalle piattaforme commerciali, proponendo alternative. La r-esistenza
non è un rifiuto passivo ma rappresenta azioni politiche, culturali e creative
che si manifestano in più modi.
Per Giuliana Sorci l’attivismo digitale italiano, l’hacktivismo, ha individuato
nel Fediverso una terra promessa nella quale la r-esistenza digitale, la riforma
di Internet dal basso, possono crescere. Ma centrali sono anche gli spazi
autogestiti come gli hacklab e i fablab, e l’hacking come una pratica creativa e
costruttiva che si spinge al di là della scrittura di codice e lavora alla
creazione di infrastrutture alternative, alla promozione della conoscenza libera
e alla costruzione di comunità inclusive. I profili degli hacktivisti italiani
rivelano spesso un’elevata istruzione, peraltro con una corposa presenza di
laureati in discipline umanistiche, e una forte propensione al cambiamento
sociale e alla giustizia sociale.
Tuttavia, il Fediverso affronta diverse sfide. La difficoltà di installazione e
gestione per gli utenti meno esperti e il rischio di abbandono dei progetti con
pochi iscritti sono aspetti critici. La minaccia più grande proviene dalle
grandi corporation che mostrano un crescente interesse verso le architetture
decentralizzate. Threads, piattaforma con cui Meta si è affacciata sul
Fediverso, sebbene potenzialmente in grado di diversificare l’ecosistema,
solleva seri dubbi sulla gestione monopolistica e antidemocratica che potrebbe
esercitare.
Il libro si concentra sulla resistenza a questo scenario, considerando che non
può essere solo tecnica ma deve essere soprattutto politica, basata sulla
capacità dei movimenti hacker di costruire strategie concordate e di
salvaguardare la sovranità digitale.
INTERVISTA CON L’AUTRICE
Abbiamo approfondito alcuni aspetti con Giuliana Sorci.
Quali sono i fattori che al momento ostacolano una larga adozione del Fediverso
da parte degli utenti?
“Credo che ci siano diversi fattori. Un primo elemento consiste nel fatto che il
Fediverso è ancora poco conosciuto al grande pubblico e viene utilizzato per lo
più dagli ‘addetti ai lavori’.
Uno degli obiettivi che mi sono posta con questo libro consiste proprio nel far
comprendere che esistono delle alternative ai social media commerciali; che
queste piattaforme sono federate ed interoperabili e non contemplano logiche di
monetizzazione dei dati degli utenti o pratiche di censura e sorveglianza, come
avviene nei comuni social media.
Il Fediverso offre, infatti, la possibilità di creare istanze gestite
direttamente dagli utenti e che si basano sui principi (policy) e sugli
interessi della community, formando un ecosistema digitale alternativo. Un altro
elemento consiste nel fatto che la gestione di un server richiede competenze
tecniche, tempo e risorse economiche che possono limitarne l’uso a coloro che
non le possiedono: non tutti gli utenti, infatti, riescono a implementare o a
gestire istanze nel lungo periodo.
Un altro fattore che limita l’uso del Fediverso è la cultura che sta dietro i
social network commerciali. Il famoso tasto ‘like’ di Facebook o il cuore che si
riceve quando si pubblica una foto su Instagram o un video su TikTok provocano
un effetto che si potrebbe definire ‘dopaminico’ nell’utente che lo riceve,
facendogli vivere un’esperienza positiva che tenderà a ripetere, incrementando
l’engagement sulla piattaforma.
Questo processo avviene a discapito di qualsiasi forma di tutela della privacy e
del fatto che ogni aspetto della vita degli utenti viene inesorabilmente sempre
‘reso pubblico’. Il Fediverso, rifiutando queste logiche di mercificazione delle
identità digitali, potrebbe quindi risultare meno attrattivo per quegli utenti
che ormai hanno interiorizzato questo modo di pensare e utilizzare i social
media”.
Come si contrasta il potere delle grandi piattaforme e la loro capacità di
bloccare gli utenti dentro i loro recinti dorati (che poi sono sempre meno
dorati…)?
“Il social media trasforma le relazioni in merce, orientando la comunicazione
verso la performance pubblica e il profitto aziendale. Per contrastare il potere
delle grandi piattaforme e la loro capacità di rinchiudere gli utenti ‘nelle
loro prigioni dorate’ non serve tentare una competizione di ‘scala’, ovvero
creare social media in grado di trattenere migliaia di utenti e che ripropongono
le solite logiche di gamificazione, per dirla con le parole del collettivo
Ippolita.
Per contrastare il potere delle piattaforme commerciali bisogna ripensare il
modo di implementare e utilizzare le tecnologie, trasformandole da tecnologie
del dominio in quelle che Ivan Illich definiva come ‘Tools of Conviviality’,
ovvero strumenti in grado di creare spazi di libertà, in cui le relazioni tra
gli utenti si basano su rapporti di cooperazione reciproca ed interessi comuni.
Il Fediverso, essendo composto da piattaforme indipendenti, alternative e
interoperabili, infatti, non può essere considerato soltanto un’infrastruttura
tecnica, ma riflette un progetto politico, in cui ogni comunità può dotarsi di
regole proprie che si basano sui principi comuni e sugli interessi della
comunità.
Usare il Fediverso significa dunque aderire a un’altra idea di socialità online,
basata non sulla profilazione e sull’engagement forzato, ma sulla costruzione di
legami reali e condivisi che vengono coltivati anche online.
La filosofia che viene incoraggiata dagli hacker che lo implementano è, infatti,
quella di costruire tante comunità fondate su piccoli numeri, in cui le
relazioni sono basate sulla fiducia, il rispetto reciproco e la condivisione di
valori e principi comuni.
In questo senso, è utile fare riferimento alla distinzione di Ian Bogost tra
social network e social media, ripresa in Server ribelli. Il social network è la
rete sociale vera e propria, fatta di legami forti e deboli, che riflettono le
dinamiche umane fondamentali e che esiste prima, e al di fuori, delle
piattaforme digitali. Il social media, al contrario, rappresenta la
trasformazione del network in strumento di comunicazione di massa, dove le
relazioni non servono più a rafforzare legami ma a spettacolarizzare la vita
degli utenti, rendendoli essi stessi prodotti da monetizzare.
È ormai celebre la frase resa popolare da una serie Netflix, secondo cui ‘se
qualcosa è gratuito, allora il prodotto sei tu’: un modo diretto per ricordare
che nelle piattaforme commerciali non siamo utenti da servire, ma merci da
monetizzare attraverso la sorveglianza e la profilazione dei nostri
comportamenti.
Recuperare il significato originario di social network significa allora tornare
a pensare le reti come comunità di prossimità, federate tra loro, capaci di
mantenere senso e qualità nei legami. È esattamente ciò che il Fediverso
propone: non l’illusione di una piazza globale uniforme, ma una costellazione di
comunità autonome che scelgono di intrecciarsi liberamente, ricostruendo
l’infrastruttura digitale a misura delle persone e non dei profitti”.
Quali misure e leggi europee sono state utili e dove non sono state abbastanza
coraggiose?
“Il GDPR, entrato in vigore nel 2018, ha avuto il merito di incrinare la
normalità dell’economia della sorveglianza, introducendo principi fondamentali
come la minimizzazione dei dati, la portabilità e il diritto all’oblio.
Più recentemente, il Digital Services Act e il Digital Markets Act hanno segnato
un ulteriore passo avanti: il primo punta ad aumentare la trasparenza nella
moderazione dei contenuti e a garantire l’accesso ai dati per i ricercatori; il
secondo mira a contenere gli abusi di posizione dominante delle Big Tech,
imponendo per esempio obblighi di interoperabilità e il divieto di pratiche
escludenti.
Tuttavia, questi strumenti mostrano anche i loro limiti. La forza economica e
legale delle grandi piattaforme consente loro di resistere a lungo ai
procedimenti, mentre la rapidità del progresso tecnologico, in particolare nel
campo dell’intelligenza artificiale, rischia di superare continuamente la
capacità regolatoria.
A questo si aggiungono la lentezza burocratica e, in molti casi, la scarsa
volontà politica di applicare le norme con decisione. Senza un enforcement forte
e risorse adeguate, il rischio è che queste iniziative restino parziali e non
riescano a incidere davvero sul potere dei social media mainstream”.
L’impegno degli hacktivisti nel Fediverso può superare la nicchia e innescare
una trasformazione della governance di Internet?
“Gli hacktivisti, nel libro, non vengono descritti come figure isolate ma come
costruttori di comunità e infrastrutture. La loro azione non si limita a
denunciare i rischi in termini di erosione della privacy e mercificazione delle
identità degli utenti come avviene nei social media commerciali.
Il loro obiettivo è quello di praticare ‘una sorta di riforma dal basso di
Internet’ che ne rivoluzioni i principi della governance, ancora sotto il
dominio delle piattaforme mainstream. Secondo questa prospettiva, l’azione
hacker è prefigurativa: attraverso l’implementazione di tecnologie libere, si
anticipa la costruzione di un’altra Internet più democratica e partecipata. Ma
il concetto può includere anche la società nel suo complesso, perché ogni
laboratorio, server autogestito, archivio digitale, pratica di crittografia o
progetto di data activism favorisce questo processo di riforma e trasformazione
della Rete.
Per uscire dagli ambienti degli addetti ai lavori, gli attivisti della comunità
hacker si impegnano in attività orientate al dialogo con associazioni, reti
civiche, scuole, centri sociali, biblioteche e spazi culturali, anche in
contesti periferici. Qui organizzano workshop, cablano reti, diffondono tecniche
di crittografia, costruiscono hacklab e fablab come spazi di resistenza
digitale. Alcuni esempi particolarmente significativi sono i tecno-musei come il
Museo Interattivo di Archeologia Informatica (MIAI) di Rende e il Museo
dell’Informatica Funzionante (MusIF) di Palazzolo Acreide (qui il link, nda).
Queste esperienze hanno raccolto e preservato centinaia di sistemi hardware e
documentazione tecnica, trasformandosi in luoghi di memoria e formazione
collettiva, veri e propri presidi di cultura hacker e tecnologia condivisa.
Accanto a queste esperienze, si collocano anche le bacheche digitali, nate a
partire dal progetto Gancio.org implementata dal collettivo hacker torinese
Underscore e replicate in numerosi territori. Non si tratta solo di piattaforme
per condividere eventi, ma di veri e propri calendari comunitari, pensati per
dare visibilità a iniziative sociali, culturali e politiche dei territori.
La scelta di nomi legati ai dialetti e alle espressioni locali – come avviene
nelle bacheche di Bologna, Ravenna, Torino, Catania, in Sardegna o a Cosenza –
sottolinea la volontà di radicare la tecnologia nelle culture e nei linguaggi
delle comunità. Queste bacheche diventano così strumenti di auto-organizzazione,
rafforzano i legami sociali e mostrano come la dimensione digitale possa
sostenere le pratiche collettive anziché snaturarle. In questo intreccio di
memorie, partecipazione e radicamento territoriale, l’hacktivismo dimostra che
la tecnologia può essere piegata a fini conviviali e liberatori. Non è quindi
soltanto una questione di server o protocolli: è un progetto politico e
culturale che riporta la tecnologia alla portata delle persone, trasformandola
in terreno di resistenza e di immaginazione sociale”.
Considerando che per la gestione delle istanze del fediverso sono necessarie
competenze tecniche e tecnologiche di alto livello, non si corre il rischio di
creare un elitarismo interno, un gruppo che si arroga il diritto di prendere le
decisioni? Quali meccanismi di inclusione potrebbero mitigare tali asimmetrie
cognitive e partecipative?
“In Server ribelli il tema dell’asimmetria tra competenze tecniche e
partecipazione politica è affrontato in modo diretto. Da un lato, è vero che la
gestione di un’istanza del Fediverso richiede skill tecniche di alto profilo,
conoscenze di cybersicurezza e tempo da dedicare; ciò potrebbe generare un
rischio di elitarismo tecnico, con pochi amministratori in grado di determinare
scelte cruciali.
Ma l’esperienza concreta delle comunità hacker italiane mostra come sono stati
sviluppati diversi meccanismi per evitare questa deriva.
Innanzitutto, negli hacklab e nei collettivi digitali si pratica costantemente
l’autoformazione condivisa: workshop, seminari e momenti di trasmissione dei
saperi permettono a chi possiede competenze elevate di condividerle con chi ne
ha meno, riequilibrando i ruoli interni e riducendo le disuguaglianze cognitive.
Questa pedagogia orizzontale trasforma le abilità tecniche in un bene comune,
anziché in una risorsa di potere.
In secondo luogo, le comunità legate al Fediverso adottano in prevalenza il
metodo del consenso nelle decisioni. L’81% degli attivisti che ho intervistato,
infatti, dichiara che nelle proprie assemblee non viene utilizzato il criterio
del voto, ma le decisioni vengono prese deliberando e cercando l’accordo
collettivo, così da favorire il dialogo inclusivo ed eliminare gerarchie
interne. Solo una minima parte ricorre a votazioni o a modelli più formali.
Questo consente anche ai non-tecnici di incidere sulle scelte politiche delle
istanze. Un ulteriore strumento di inclusione è rappresentato da esperienze come
Autogestione.social, l’assemblea federata delle istanze italiane. Qui tecnici e
non-tecnici partecipano insieme, discutendo policy comuni e manifesti politici,
condividendo competenze e sostenendo la nascita di nuove istanze. L’idea è che
le piattaforme non debbano essere portate avanti ‘da un manipolo di tecnici che
scelgono cosa è meglio’, ma da tutte le persone che le usano quotidianamente.
In sintesi, il rischio di elitarismo tecnico esiste, ma può essere contrastato
se la comunità si dota di strumenti di condivisione delle conoscenze,
deliberazione inclusiva e governance federata.
È questa la vera sfida della decentralizzazione: non solo redistribuire il
potere tecnico tra più server, ma costruire pratiche sociali che impediscano a
pochi di trasformarsi in una nuova élite”.
La minaccia insita nella cosiddetta EEE Strategy (Embrace, Extend, Extinguish),
una strategia commerciale che può essere adottata da grandi piattaforme, e che
consiste nell’abbracciare uno standard aperto, estenderlo con funzioni
proprietarie ed infine estinguere lo standard originale svantaggiando i
concorrenti, può estendersi ai principi della defederazione? Con quali strategie
può rispondere il fediverso per creare una propria immunità?
Nel capitolo conclusivo di Server ribelli si evidenzia chiaramente come la
strategia EEE (embrace, extend, extinguish), storicamente usata da Microsoft e
oggi potenzialmente applicabile dalle Big Tech al Fediverso, rappresenti una
minaccia concreta.
L’interesse di Meta per ActivityPub e l’apertura di Threads alla federazione
mostrano il rischio che un attore dominante possa prima ‘abbracciare’ i
protocolli aperti, poi modificarli con estensioni proprietarie imponendone così
la propria versione, omologando e indebolendo l’ecosistema delle istanze
indipendenti.
Se ciò accadesse, i principi di autonomia, orizzontalità e autogestione su cui
si fonda il Fediverso sarebbero messi a dura prova.
È legittimo, infatti, temere che Meta e altre corporation possano guardare al
Fediverso come a un’infrastruttura da colonizzare o come a una minaccia da
neutralizzare, soprattutto perché sottrae utenti al loro modello di business
basato sulla sorveglianza e sulla profilazione.
Tuttavia, la risposta non può limitarsi a una difesa tecnica. L’‘immunità’ del
Fediverso deve essere insieme tecnica e politica. Da un lato, esiste già la
pratica della defederazione, che consente alle istanze di bloccare o silenziare
quelle realtà (comprese eventuali piattaforme commerciali) che non rispettano i
valori condivisi dalla community. Non a caso, molte istanze italiane hanno già
iniziato a defederare Threads per marcare la distanza da un attore percepito
come ostile. Dall’altro lato, serve una resistenza politica e culturale, fatta
di strategie comuni, assemblee, manifesti e pratiche di cooperazione che
ribadiscano la natura comunitaria e anticapitalista del progetto. In questo
senso, l’immunità non deriva dall’illusione di poter blindare il Fediverso, ma
dalla sua capacità di mantenersi fedele ai principi originari: software libero,
autogestione, rifiuto della sorveglianza, orizzontalità delle decisioni. È la
combinazione tra strumenti di governance interna (come la defederazione) e la
costruzione di una cultura hacker condivisa che può garantire al Fediverso di
non farsi inglobare e neutralizzare dalle logiche di mercato”.
La pedagogia hacker è, a tuo avviso, un elemento cardine tanto sul piano etico
quanto su quello politico. Come questa può uscire dalla propria nicchia e
diventare una vera e propria alfabetizzazione digitale appannaggio delle masse?
Quali strumenti può usare per raggiungere questo scopo e, ancora prima, le
persone vogliono davvero un rapporto emancipato con le tecnologie o si
crogiolano nel loro uso funzionale?
“La definizione di pedagogia hacker, così come utilizzata da Carlo Milani e
ripresa in Server ribelli, va ben oltre la semplice alfabetizzazione digitale
intesa come acquisizione di competenze tecniche di base.
È piuttosto un’attitudine collettiva – un approccio educativo libertario – che
rende le persone capaci di elaborare critiche e riflessioni sulle tecnologie
digitali nell’era del capitalismo delle piattaforme. Ma non solo. È la capacità
di immaginare delle alternative, a partire dalla decostruzione delle dinamiche
di potere che sono presenti nell’attuale ecosistema digitale.
La pedagogia hacker valorizza il principio della condivisione del sapere,
guardando alla tecnologia come ‘bene comune’ valorizzando l’apprendimento
condiviso come patrimonio esperienziale collettivo.
In tal senso, è utile citare Steven Levy, autore del famoso saggio Hackers. Gli
eroi della rivoluzione informatica del 1984, che a proposito dell’etica hacker,
scriveva dell’importanza del libero accesso alle informazioni e della
condivisione del sapere come principi fondamentali da seguire.
La pedagogia hacker, dunque, non si limita a insegnare ‘come si usa un software
o un computer’, ma propone un modello di formazione che è insieme etico e
politico: imparare a disertare la tecnocrazia, rifiutare gerarchie e burocrazie,
costruire ambienti di affinità basati sull’autonomia e sui rapporti di
cooperazione reciproca.
Questa prospettiva trova applicazione pratica nelle attività organizzate dalle
comunità hacker: hacklab, fablab, Hackmeeting, laboratori autogestiti nelle
scuole e nelle università.
In questi spazi la conoscenza non è mai patrimonio esclusivo di pochi esperti,
ma diventa bene comune: si organizzano workshop sulla crittografia, incontri sui
social network alternativi, laboratori di riuso e riparazione di hardware,
progetti di alfabetizzazione digitale, alla portata di tutte e tutti. Attraverso
questi strumenti, la pedagogia hacker si configura come una pratica di
emancipazione collettiva, che non solo trasmette competenze, ma costruisce
comunità e consapevolezza politica.
In questo senso, parlare di pedagogia hacker come alfabetizzazione digitale
significa parlare il linguaggio dei diritti collettivi – digitali e non –
significa parlare il linguaggio della cooperazione e della capacità di
immaginare e costruire insieme la società desiderata e desiderabile, nel tempo
del qui e ora”.
In che modo la creatività dell’hacktivismo può fare da controcanto alle
narrazioni distorte che riguardano gli hacker e, a monte, il ruolo della
tecnologia nella società?
“La figura dell’hacker tramandata dalle narrazioni dominanti fatte dai media
mainstream è stata fuorviante. L’hacker viene spesso rappresentato come un
criminale informatico che minaccia la sicurezza collettiva, oppure come un genio
solitario – nerd – che le grandi corporation possono sussumere per rafforzare il
proprio capitale umano. In entrambi i casi, l’immagine restituita è funzionale
al mantenimento dell’ordine esistente: o l’hacker diventa un nemico da
reprimere, o una risorsa da inglobare nel mercato.
Queste narrazioni distorte hanno finito per oscurare la dimensione politica e
creativa dell’hacktivism – termine che coniuga le pratiche hacker con
l’attivismo politico – riducendolo a un problema di sicurezza informatica o a
una competenza da monetizzare. La genealogia del termine racconta però una
storia molto diversa.
L’hacker nasce come colui che sperimenta, smonta, ricombina, non per distruggere
ma per comprendere e reinventare. Nel già citato saggio, Steven Levy descriveva
questa figura come ‘un artista del codice’ capace di perseguire l’eleganza
tecnica e la libertà di accesso al sapere. L’hacking non è necessariamente
soltanto un atto illegale e di pirateria informatica, ma rappresenta un’azione
creativa, estetica e politica. Questa prospettiva emerge con forza anche dalle
voci raccolte nelle interviste di Server ribelli.
Un membro del collettivo Ippolita definisce l’essere hacker come una tensione,
una condizione che non si possiede mai definitivamente ma a cui si tende
costantemente: ‘L’hacker è un po’ una tensione, è un avatar. Essere un hacker
cosa significa? In realtà è qualcosa a cui tendere, non è qualcosa che sei mai.
Veramente un hacker è una dimensione un po’ ideale, come dire che non c’è un
momento in cui diventi hacker, è sempre qualcosa che è là a venire!’. In
un’altra intervista, la definizione si arricchisce ulteriormente: ‘L’hacking è
la trasposizione della curiosità dell’hacker, il desiderio di ricombinare la
realtà, eseguire il codice del mondo per fargli fare una cosa diversa, magari
inutile, semplicemente per la bellezza di costruire e plasmare la realtà in modo
diverso’.
È proprio questa capacità di plasmare la realtà in modi inattesi che rende la
creatività ‘hacktivista’ un controcanto potente alle narrazioni distorte. Se i
media lo riducono a minaccia o anomalia, l’hacktivismo dimostra invece di essere
una pratica sociale e culturale capace di generare alternative: server
autogestiti, piattaforme federate, archivi liberi, reti comunitarie, laboratori
di alfabetizzazione digitale.
In questi spazi la creatività non è mai fine a sé stessa, ma diventa strumento
politico per mostrare che un altro uso della tecnologia è possibile, e che un
altro mondo digitale può essere costruito collettivamente. In definitiva, la
creatività hacker non si limita a contraddire l’immaginario dominante, ma lo
ribalta: non pirati solitari che violano sistemi – almeno, non soltanto – bensì
artigiani del digitale, che attraverso ingegno e cooperazione aprono spiragli su
futuri diversi. È in questa tensione, continuamente rinnovata, che si trova il
vero significato dell’essere hacker.
C’è qualcosa che non ti ho chiesto, un aspetto su cui non mi sono soffermata, ma
che ritieni importante e utile far sapere ai lettori?
C’è un aspetto che spesso non viene messo abbastanza in evidenza: ovvero che la
tecnologia non è mai neutra. Ogni piattaforma, ogni protocollo, ogni riga di
codice riflette una visione del mondo, un insieme di valori e di priorità.
Non esistono strumenti neutri: i social network commerciali, ad esempio,
incorporano logiche economiche e politiche precise – sorveglianza, profilazione,
massimizzazione del profitto – che finiscono per orientare i nostri
comportamenti e modellare le nostre relazioni.
L’esperienza di Mastodon.bida.im implementata dall’omonimo collettivo hacker
bolognese nel 2018, raccontata in Server ribelli, lo mostra con grande
chiarezza. Questa istanza del Fediverso non è semplicemente un’alternativa
tecnica a Facebook o Twitter, ma un progetto politico e culturale a tutti gli
effetti. Le sue regole di funzionamento non si limitano a questioni di
moderazione tecnica: dichiarano esplicitamente un orientamento libertario e
anarchico, fondato su principi di antirazzismo, antisessismo, antifascismo e
rifiuto delle logiche commerciali.
Non è dunque uno spazio ‘neutrale’, ma un luogo che sceglie di prendere
posizione. La comunità che gravita attorno a Mastodon.bida.im porta avanti
pratiche che superano la dimensione digitale in senso stretto: assemblee
collettive, momenti di socialità, processi decisionali orizzontali e forme di
mutuo supporto tra utenti e amministratori.
In questo modo, l’istanza diventa un laboratorio sociale, un esperimento
politico che mostra come Internet potrebbe essere organizzato diversamente se al
centro ci fossero cooperazione e giustizia sociale, anziché profitto e
controllo. Raccontare esperienze come quella di Mastodon.bida.im significa
dunque ricordare che non stiamo parlando solo di tecnologia, ma di società. Ogni
scelta tecnica è anche una scelta politica: può rafforzare meccanismi di dominio
oppure aprire spazi di libertà. E il Fediverso, con le sue comunità autogestite,
dimostra che è possibile costruire un’infrastruttura digitale che non si limita
a ospitare contenuti, ma che aiuta a immaginare e praticare un altro modo di
stare insieme online”.
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