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Più di venti rabbini arrestati in Campidoglio per una protesta contro il blocco israeliano di Gaza
Più di venti rabbini sono stati arrestati martedì in Campidoglio mentre occupavano l’ufficio del leader della maggioranza repubblicana John Thune per protestare in modo nonviolento contro il blocco di Gaza da parte del governo israeliano. I manifestanti rappresentano 750 rabbini e membri del clero ebraico e oltre 23.000 ebrei che hanno firmato una dichiarazione che chiedeva aiuti alimentari immediati a Gaza. Provengono da tutte le confessioni della fede ebraica. “Fermate queste morti per fame! Siamo qui come ebrei, perché la nostra religione ci impone di essere qui e di resistere!” ha gridato l’attivista Deborah Zavos mentre veniva portata via dalla protesta di martedì in manette. Democracy Now!
Israele sequestra l’equipaggio e la nave Handala della Freedom Flotilla
Facendo seguito all’intercettazione illegale della Handala, le autorità israeliane hanno confermato l’arrivo dell’imbarcazione, trainata al porto di Ashdod, dopo 12 ore di navigazione. Nonostante le ripetute richieste, le autorità israeliane continuano a negare agli avvocati di Adalah l’accesso agli attivisti detenuti, impedendo di incontrarli per fornire la necessaria assistenza legale. […] L'articolo Israele sequestra l’equipaggio e la nave Handala della Freedom Flotilla su Contropiano.
I Talebani intensificano l’apartheid di genere: decine di donne arrestate per “violazione dell’hijab”
In questi giorni abbiamo ricevuto il racconto affranto delle donne appartenenti alle associazioni afghane che sosteniamo, le quali confermano le notizie allarmanti apprese da alcuni siti circa l’arresto arbitrario di decine di donne da parte della polizia morale, presumibilmente per “violazioni dell’hijab”, trattenute senza accesso a un legale, senza contatti con i familiari e senza assistenza medica. Ci hanno scritto: “Negli ultimi giorni, la situazione per donne e ragazze è tornata ad essere estremamente allarmante. La polizia morale pattuglia le strade, ferma i veicoli e trattiene le donne con la forza. Molte ragazze sono sotto shock e spaventate, hanno paura anche solo di uscire di casa. Secondo quanto riferito, dopo essere state rilasciate, alcune donne sono state rifiutate dalle loro famiglie, come se il peso dell’ingiustizia fosse ancora una volta posto sulle loro spalle. Una ragazza, che per paura aveva inizialmente negato di avere subito un arresto, quando ha compreso il nostro sostegno ha iniziato a piangere e ha detto: ‘Per Dio, ero completamente coperta: indossavo l’hijab, la maschera e il chapan, ma all’improvviso mi hanno circondata come animali selvatici, mi hanno insultata e colpita con una pistola”. Sono svenuta per la paura e il dolore. Quando ho ripreso conoscenza, mi trovavo in uno scantinato buio con decine di altre ragazze assetate e terrorizzate, senza alcun contatto con le nostre famiglie. Quello che abbiamo passato è stato peggio della morte…’.  Con voce tremante, ha aggiunto: ‘La libertà è stata l’inizio di un nuovo dolore. Il comportamento di tutti nei miei confronti è cambiato, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Vorrei non essere mai uscita di casa’. Questa paura ha colpito profondamente anche le nostre studentesse. In molte, piangendo, hanno confermato quanto amano imparare, ma hanno chiesto di essere esentate dalla frequenza per qualche giorno, finché la situazione non si sarà calmata. Abbiamo deciso di sospendere le lezioni per due settimane. Anche oggi la polizia morale è passata diverse volte davanti al nostro centro e non possiamo mettere a repentaglio la sicurezza delle nostre studentesse. Sono giorni bui e pesanti, ma la vostra presenza e il vostro sostegno sono per noi una luce di speranza e conforto, la vostra solidarietà ci dà la forza per andare avanti”. Nel suo sito, RAWA NEWS informa: In un nuovo e più intenso attacco alle libertà delle donne, i Talebani hanno lanciato un’ondata di arresti arbitrari in tutto l’Afghanistan, prendendo di mira donne e ragazze accusate di aver violato l’interpretazione estremista che il gruppo dà delle regole sull’hijab. Solo nell’ultima settimana, decine di donne sono state arrestate a Kabul, Herat e Mazar-e-Sharif, applicando standard di “modestia” vaghi e mutevoli, senza alcun processo o giustificazione legale. Questi arresti avvengono in strade, centri commerciali, caffè e campus universitari, spazi pubblici dove le donne cercano semplicemente di condurre la propria vita quotidiana. A Kabul, nelle zone di Shahr-e-Naw, Dasht-e-Barchi e Qala-e-Fataullah, i testimoni hanno riferito che in alcuni casi le donne sono state aggredite fisicamente dagli agenti talebani prima di essere costrette a salire sui veicoli. Poi sono state trattenute nei cosiddetti “centri di moralità” – strutture gestite dal Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, un’istituzione temuta che ora opera come una forza di polizia religiosa – e rilasciate solo dopo che i loro tutori maschi avevano firmato garanzie scritte che avrebbero “corretto” il loro comportamento. Negli ultimi giorni a Herat sono state arrestate almeno 26 donne, molte delle quali giovani e alcune minorenni; a Mazar-e-Sharif una decina, sempre con l’accusa di non coprirsi completamente il volto. I funzionari talebani hanno confermato gli arresti, sostenendo che le donne erano state avvertite in precedenza. Secondo quanto riferito, le arrestate sono state trattenute senza poter usufruire di assistenza legale, contattare le proprie famiglie o ricevere cure mediche. Alcune famiglie hanno paura di far uscire di casa le proprie figlie, temendo che possano essere arrestate. Non per la religione, ma per il predominio Le Nazioni Unite e gli osservatori dei diritti umani hanno condannato questi arresti, ritenendoli delle gravi violazioni del diritto internazionale e un chiaro segno di apartheid di genere. Tuttavia, i Talebani non sembrano intenzionati a cedere. Anzi, i funzionari del ministero hanno raddoppiato le loro minacce, annunciando che qualsiasi donna trovata a indossare un “cattivo hijab” sarà punita immediatamente e senza preavviso. Queste azioni non riguardano la religione, ma il predominio: i Talebani usano l’imposizione del hijab come arma politica per mettere a tacere e cancellare le donne. Criminalizzando le normali scelte di abbigliamento, i Talebani inviano un messaggio agghiacciante: le donne non appartengono alla sfera pubblica e qualsiasi tentativo di affermare la propria presenza sarà represso con la forza. Si tratta di un’ulteriore fase del sistematico smantellamento dei diritti delle donne da parte dei Talebani, che include il divieto di istruzione per le ragazze oltre la prima media, il divieto per le donne di lavorare con le ONG e le organizzazioni internazionali e dure restrizioni nella possibilità di movimento  e nell’abbigliamento. Nonostante la crescente repressione, molte donne afghane resistono, rifiutandosi di scomparire, documentando gli abusi e parlando, anche a rischio della propria vita, ma le loro voci sono accolte con indifferenza dalla maggior parte della comunità internazionale. Il tempo delle condanne simboliche è finito. Le azioni dei Talebani equivalgono a una prolungata campagna di persecuzione di genere e devono essere trattate come tali. Senza una pressione internazionale concreta, il regime continuerà senza controllo la sua guerra contro le donne, incoraggiato dal silenzio di un mondo che un tempo aveva promesso di stare dalla parte del popolo afghano. Appello urgente: richiesta di aiuto per profughi afghani espulsi dall’Iran CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Scandalo urbanistica a Milano. Sul mattone campo larghissimo
L’altra mattina a Radio Popolare sono andate in onda soltanto interviste ad esponenti milanesi del Partito Democratico (ti pareva) i quali, mentre i cementificatori si mangiavano Milano facendo schizzare i prezzi degli immobili alle stelle, tra una dormita e l’altra, hanno votato ogni porcheria possibile. Ora che sono partiti arresti […] L'articolo Scandalo urbanistica a Milano. Sul mattone campo larghissimo su Contropiano.
Mimì e Angelo sono liberi. La lotta dei disoccupati napoletani organizzati va avanti
Facciamo un passo indietro. Il giorno prima, giovedi10 luglio,è un giorno importante per i disoccupati che hanno partecipato ai corsi di formazione. C’è il click day per 800 persone che potranno accedere a contratti di lavoro. A ciò si è arrivato dopo anni di lotte dei disoccupati napoletani organizzate dai […] L'articolo Mimì e Angelo sono liberi. La lotta dei disoccupati napoletani organizzati va avanti su Contropiano.
Proteste per gli attacchi agli immigrati e retate continuano in tutti gli Stati Uniti
A Los Angeles il procuratore federale ha annunciato mercoledì le accuse penali contro due manifestanti e ha minacciato di perseguire altre persone che stavano esercitando il loro diritto di protesta. “Questi sono solo i due casi che siamo riusciti a incriminare. Stiamo esaminando centinaia di persone. Abbiamo video. L’FBI sta raccogliendo video. Stiamo raccogliendo immagini delle bodycam e dei social media. Stiamo raccogliendo tutto” ha dichiarato Bill Essayli. Le proteste contro gli attacchi agli immigrati stanno prendendo piede in tutti gli Stati Uniti e hanno colpito almeno 35 città. Nello Stato di Washington, in seguito alle proteste mercoledì il sindaco di Spokane ha imposto un coprifuoco in tutta la città. Continuano anche le retate. In Nebraska, decine di persone sono state arrestate in un impianto di produzione di carne a Omaha. Un giudice federale ascolterà oggi la richiesta della California di limitare la presenza della Guardia Nazionale e dei Marines inviati da Trump a Los Angeles alla protezione degli edifici federali. Le truppe della Guardia Nazionale sono state coinvolte nell’arresto di civili e hanno accompagnato gli agenti dell’immigrazione nei loro raid a Los Angeles, provocando paura e caos in tutta la città. Mercoledì le proteste della comunità sono proseguite per il sesto giorno. Il centro di Los Angeles è rimasto sotto coprifuoco per la seconda notte di fila. Le famiglie arrestate durante le retate dell’ICE a Los Angeles sono state tenute in scantinati con accesso limitato a cibo e acqua e alcuni detenuti sono stati trasferiti fuori dallo Stato, in Texas, poiché le strutture locali non erano preparate all’aumento di nuovi detenuti. I parenti dei rapiti dicono di non avere idea di dove siano stati portati i loro cari o delle loro condizioni. “Siamo angosciati e non sappiamo dove sia. Non siamo riusciti a trovarlo e questo è ingiusto. Vorremmo giustizia per lui. E vorremmo vivere senza la paura continua di venire arrestati” si è sfogata Kimberly Hernández, il cui padre è scomparso dopo un raid nell’autolavaggio in cui lavorava.     Democracy Now!
Los Angeles, in migliaia contro le politiche migratorie di Trump. Centinaia di arresti
È stato un fine settimana di durissimi scontri a Los Angeles, con i cittadini scesi in strada per protestare contro le politiche antimigratorie del presidente Donald Trump. Venerdì sera gli agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) – l’agenzia federale che si occupa di frontiere e immigrazione – hanno arrestato più di 40 persone per presunte violazioni delle leggi sull’immigrazione, per poi fermarne oltre un centinaio nelle ore successive. L’ultima di una lunga serie di operazioni diventate la normalità sotto l’amministrazione Trump, cui i cittadini di Los Angeles hanno deciso di ribellarsi dando vita a scene di guerriglia urbana, tra lanci di pietre verso i poliziotti, barricate di fortuna e sabotaggi. Trump ha firmato un ordine esecutivo per inviare 2mila agenti della Guardia Nazionale, mentre il segretario alla Difesa Peter Hegseth ha fatto sapere che sono pronti a intervenire anche i marines. Decine i manifestanti arrestati fino ad ora dalla polizia. Gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine sono stati violenti. Centinaia di persone sono scese in strada per protestare contro le misure sull’immigrazione. Manifestazioni spontanee si sono moltiplicate in vari quartieri della città. In Downtown, l’intero centro è stato sgomberato e ogni assembramento dichiarato illegale, mentre i manifestanti hanno bloccato arterie strategiche come la Highway 101 e Figueroa Street. Alcuni hanno lanciato bottiglie e altri oggetti contro gli agenti. La polizia e la Guardia Nazionale hanno risposto con gas lacrimogeni, granate stordenti e proiettili di gomma sparati ad altezza degli occhi e delle gambe. Almeno 56 persone sono state arrestate, con accuse che vanno dal lancio di molotov contro gli agenti all’utilizzo di motociclette per speronare i cordoni di polizia. Tre agenti e alcuni giornalisti sono rimasti feriti. Il fotografo inglese Nick Stern ha raccontato al Guardian: «Alcuni manifestanti sono venuti ad aiutarmi, mi hanno portato in braccio e ho notato che mi colava sangue lungo la gamba». La giornalista australiana Lauren Tomasi è stata colpita da un proiettile di gomma mentre stava documentando le cariche della polizia. L’invio della Guardia Nazionale, verificatosi senza il consenso del governatore, rappresenta la prima applicazione unilaterale di questa misura in California dal 1965. Quest’azione ha scatenato una crisi politica e istituzionale, con il governatore della California Gavin Newsom e la sindaca della città Karen Bass che hanno apertamente contestato l’intervento federale. Newsom ha annunciato l’intenzione di ricorrere per vie legali contro quella che ha definito «una violazione della sovranità dello Stato della California»: «Questi sono gli atti di un dittatore, non di un presidente», ha dichiarato. Anche la sindaca Bass ha chiesto formalmente a Trump di revocare l’intervento militare e ha invitato i manifestanti a mantenere la calma: «Non date a Trump ciò che vuole – ha scritto – restate calmi, restate pacifici. Non cadete nella trappola. Non usate mai la violenza e non fate del male alle forze dell’ordine». Bass ha inoltre sottolineato che «quando si fanno irruzioni nei supermercati e nei luoghi di lavoro, quando si dividono genitori e figli e quando si fanno circolare blindati per le nostre strade, si crea paura e panico», definendo lo schieramento della Guardia Nazionale «una escalation pericolosa». Sul fronte legale, il Titolo 10 del Codice delle Forze Armate richiederebbe che l’impiego della Guardia Nazionale avvenga su richiesta del governatore. La Casa Bianca, però, ha giustificato l’intervento parlando di «ribellione» in corso. Le proteste sono scoppiate dopo una serie di raid dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE), in particolare nel distretto di Paramount, dove sono stati arrestati molti migranti. Gli agenti federali hanno fatto irruzione in abitazioni e luoghi di lavoro, provocando paura e panico tra la popolazione. L’area è a forte presenza latinoamericana: nelle proteste in corso a Los Angeles contro i raid dell’ICE spiccano infatti tra la folla numerose bandiere messicane. Il New York Times le ha definite «un simbolo» delle manifestazioni. Molti dei partecipanti sono cittadini statunitensi di origine messicana — 26,6 milioni secondo il Pew Research Center — che rivendicano con orgoglio le proprie radici. Nel frattempo, il Pentagono ha messo in stato di massima allerta anche i Marines di Camp Pendleton. Il capo della Difesa Pete Hegseth ha avvertito che, in caso di ulteriore violenza, saranno mobilitati. Trump, dal canto suo, ha rincarato la dose su Truth Social, definendo i manifestanti «istigatori e facinorosi spesso prezzolati» e invocando l’arresto immediato di chi protesta con il volto coperto. Ha accusato Newsom e Bass di essere incompetenti e di averlo costretto ad agire per ristabilire l’ordine. «Rendiamo di nuovo grande l’America!», ha scritto il presidente, alimentando ulteriormente lo scontro.   L'Indipendente
Ottanta manifestanti per Gaza arrestati dopo aver occupato la biblioteca della Columbia University
A New York, la polizia ha arrestato ottanta manifestanti alla Columbia University mercoledì, dopo che questi avevano occupato la biblioteca principale del campus per chiedere di disinvestire da Israele. La Columbia Palestine Solidarity Coalition afferma che diversi studenti sono stati ricoverati in ospedale dagli agenti di pubblica sicurezza. Almeno un manifestante è stato portato via in barella. La presidente ad interim della Columbia, Claire Shipman, ha dichiarato: “La Columbia condanna fermamente la violenza nel nostro campus, l’antisemitismo e tutte le forme di odio e discriminazione di cui oggi siamo stati testimoni”. Un gruppo di attivisti pacifisti ebrei della Columbia University si è recato a Washington per fare pressione sui membri del Congresso e per condannare l’uso delle accuse di antisemitismo come arma per mettere a tacere chi critica l’occupazione israeliana della Palestina e l’assalto a Gaza.   Democracy Now!
Università USA, denunce, arresti e veglie di protesta
Gli studenti dell‘UCLA (Università della California – Los Angeles) che lo scorso anno sono stati violentemente attaccati da una folla pro-Israele senza che gli agenti di polizia intervenissero hanno intentato una causa contro lo Stato della California. L’azione legale denuncia l’eccessiva violenza degli agenti della polizia di Los Angeles nei confronti dei manifestanti pacifici, colpiti da circa 50 proiettili rivestiti di gomma, riportando gravi lesioni. La legge californiana proibisce alla polizia di usare proiettili di gomma se non in circostanze straordinarie. In una vittoria del movimento di protesta dei campus, l’Università di San Francisco ha annunciato il disinvestimento da quattro aziende statunitensi che hanno contratti con l’esercito israeliano, a seguito di una campagna sostenuta dagli studenti. Nello Stato di Washington, la polizia ha arrestato una trentina di studenti attivisti dopo che questi avevano occupato la facoltà di ingegneria dell’Università di Washington per protestare contro i suoi legami con il produttore di armi Boeing. Il gruppo Students United for Palestinian Equality and Return chiede “che i soldi delle nostre tasse scolastiche e della nostra ricerca non vengano usati per finanziare e alimentare un genocidio”. In Pennsylvania, nove persone sono state violentemente arrestate sabato allo Swarthmore College mentre la polizia scioglieva un accampamento di solidarietà con Gaza che era stato chiamato “Zona liberata Hossam Shabat”, in onore del giornalista palestinese di 23 anni ucciso da Israele a marzo. Gli studenti chiedono di “disinvestire dall’occupazione, dall’aggressione e dall’apartheid israeliani e di dichiararsi un campus rifugio”. A New York, decine di docenti e personale della Columbia University vestiti di nero hanno sfilato in corteo e si sono fermati fuori dal campus lunedì per chiedere il rilascio di Mahmoud Khalil, laureato della Columbia  e di altri che sono stati presi di mira per aver difeso i diritti dei palestinesi. Veglie coordinate si sono tenute anche alle università di Tufts, Georgetown e Boston, dove gli studenti Rümeysa Öztürk e Badar Khan Suri sono stati recentemente arrestati dall’ICE. L’azione congiunta delle università si terrà ogni settimana. “Oggi abbiamo organizzato una veglia nel nostro campus contemporaneamente a gruppi di docenti delle Università di Tufts, Georgetown e Boston per denunciare la detenzione dei membri della nostra comunità. In questo Paese studenti e docenti vengono trasformati in prigionieri politici semplicemente per aver parlato a favore della causa palestinese” ha dichiarato Joseph Howley, professore di letteratura della Columbia University. Democracy Now!
MESOPOTAMIA: IL PRIMO MAGGIO IN TURCHIA TRA MANIFESTAZIONI DI MASSA E REPRESSIONE. IL RACCONTO DI MURAT CINAR
Il nuovo appuntamento con Mesopotamia – notizie dal vicino oriente è dedicato al Primo maggio, giornata internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici. In particolare, nella puntata di Mesopotamia andata in onda venerdì 2 maggio 2025 abbiamo raccontato le manifestazioni che hanno riempito le strade di Istanbul e di molte altre città della Turchia. Lo abbiamo fatto grazie al contributo di Murat Cinar, giornalista turco che vive in Italia e nostro collaboratore. Per quanto riguarda il Primo maggio in Turchia, anche quest’anno l’attenzione era tutta su Istanbul: ogni anno dal 2012, infatti, le autorità della città sul Bosforo vietano ai lavoratori e alle lavoratrici di raggiungere in corteo piazza Taksim, simbolo delle lotte operaie e sociali della megalopoli turca. In realtà, il 2012 fu una breve parentesi. Quell’anno il governo di Erdogan e dell’Akp non vietò la piazza per la prima volta dal 1977, quando in occasione della giornata di lotta di lavoratori e lavoratrici polizia ed esercito turco spararono sulla folla provocando la morte di 37 manifestanti. Da allora, regimi e governi della Repubblica di Turchia hanno sempre vietato le manifestazioni del Primo maggio in Piazza Taksim “per motivi di sicurezza”. Per quanto riguarda il Primo maggio di quest’anno, nei giorni precedenti la polizia turca aveva già arrestato decine di compagne e compagni di sindacati e organizzazioni della sinistra turca per ostacolare l’organizzazione della manifestazione. Nonostante questo migliaia e migliaia di persone si sono radunate per raggiungere piazza Taksim nonostante il divieto e il dispositivo di polizia che chiudeva tutte le strade di accesso. In tutta risposta gli agenti hanno arrestato oltre 400 persone, che sono state poi trattenute per ore in vari commissariati della città in condizioni brutali. Grandi manifestazioni sono state organizzate anche ad Ankara e in molte altre città del Paese. Con Murat Cinar non abbiamo parlato soltanto dei cortei del Primo maggio. Ci siamo occupati anche del caso del giornalista svedese Joakim Medin, arrestato lo scorso 27 marzo all’aeroporto di Istanbul con una doppia accusa: “vilipendio al presidente della Repubblica” e “appartenenza a un’organizzazione terroristica”. Per la prima accusa, che tra l’altro riguarderebbe manifestazioni cui il giornalista ha partecipato in Svezia, è già stato condannato a 11 mesi e 7 giorni di reclusione. Per la seconda, dovuta ad alcuni articoli nei quali Medin ha raccontato le azioni dell’esercito e del governo turco nel nord della Siria, in Rojava, deve ancora essere processato. Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, nel frattempo, proprio in occasione del comunicato del Primo maggio ha confermato la propria disponibilità a intraprendere un dialogo con lo stato turco come indicato dal suo leader Abdullah Ocalan dal carcere di Imrali lo scorso 27 febbraio. Tuttavia, denuncia il Pkk, nonostante il recente incontro e le dichiarazioni positive del Ministero della Giustizia turco e della delegazione a Imrali del Partito Dem, da Ankara non è stato intrapreso nessun passo concreto verso un processo di pace o un dialogo. Con Murat Cinar abbiamo fatto il punto anche su questo. Ascolta o scarica la trasmissione.