Decostruire il diritto, liberare la Palestina--------------------------------------------------------------------------------
Foto di Milano InMovimento (che ringraziamo)
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Nel racconto dominante, quando diventa troppo scomodo difenderla apertamente, la
violenza estrema di Israele contro i palestinesi viene derubricata a deviazione
momentanea dal diritto internazionale: un’eccezione tollerabile, una sospensione
temporanea dell’ordine giuridico globale, un errore morale da stigmatizzare con
qualche sanzione di rito. E se il diritto internazionale fosse già
ontologicamente selettivo, funzionale a tutelare gli interessi geopolitici,
economici e razziali di Israele e del suo alleato occidentale? Se il fallimento
del diritto non fosse tale, ma piuttosto genuina espressione della sua forma
reale, della sua coerenza storica?
Israele non agisce in un vuoto normativo, ma in un quadro giuridico che
implicitamente autorizza e sostiene il suo operato. Il genocidio in atto non
avviene nonostante il diritto internazionale, ma in coabitazione con esso.
L’impunità protratta, il sostegno incondizionato di Stati Uniti e Unione
Europea, il linguaggio diplomatico che evita la parola “genocidio” mentre
scorrono le immagini di crimini sistematici: tutto ciò segnala che non siamo
davanti a una sospensione delle regole, ma al loro autentico funzionamento.
Riarticolando concetti di Giorgio Agamben, potremmo osservare l’eccezione nel
suo affermarsi norma e, in un ulteriore passo critico, suggerire che essa è
sempre stata la norma – almeno nei confronti dei soggetti colonizzati,
discriminati, esclusi. La Palestina, allora, non è laboratorio dell’unicum: è il
luogo in cui l’infrastruttura coloniale e normativa dell’Occidente si palesa in
forma nuda, senza pudore.
Appare necessaria una rilettura complessiva del diritto internazionale non come
luogo di giustizia universale, ma come dispositivo morale e giuridico costruito
per salvaguardare i rapporti di potere globali. Il genocidio dei palestinesi con
la complicità silente o attiva delle “democrazie” liberali non è quindi
l’anomalia: è regola, e tale regola va decostruita. Da ciò deriva che smettere
di parlare di fallimento del diritto è un atto politico: significa riconoscere
che il diritto stesso è parte del problema. E se così è, allora ogni lotta
anticoloniale e di liberazione non può che passare per una decostruzione
radicale di quel diritto, per immaginare nuove forme di legalità che nascano dal
basso, dalla solidarietà, dalla disobbedienza.
Il principio di sovranità statale, fondamentale nel diritto internazionale, ha
sempre avuto una funzione ambivalente: garantire l’autonomia degli Stati
europei, mentre veniva negata la sovranità a interi continenti considerati
primitivi, arretrati, o semplicemente “fuori dalla civiltà”. Uno strumento per
distinguere tra chi poteva essere titolare di diritti – il soggetto sovrano
europeo – e chi invece poteva essere colonizzato, amministrato, sterminato.
La retorica della civilizzazione è stata l’abito morale del diritto
internazionale per secoli: le guerre coloniali venivano giustificate come
operazioni per portare ordine, progresso, diritto. Questo dispositivo
moralizzante ha continuato a operare anche dopo le decolonizzazioni formali: la
protezione dei diritti umani, le guerre umanitarie, le “interferenze giuste”
sono tutte estensioni dello stesso meccanismo, una grammatica giuridica e morale
che legittima l’intervento occidentale come atto civilizzatore e delegittima
ogni resistenza come fanatismo, terrorismo, o barbarie.
Dopo il 1945, con la creazione dell’ONU e la proclamazione dei diritti umani
universali, si sarebbe potuto pensare a una svolta. In realtà, si è trattato di
una riconfigurazione del diritto coloniale in chiave liberale: un “nuovo ordine
internazionale” che manteneva le gerarchie di potere, pur mascherandole sotto il
velo dell’universalismo. I tribunali internazionali, le convenzioni, le
sanzioni, i riconoscimenti diplomatici: tutti strumenti che continuano ad
applicarsi selettivamente.
In questo quadro, Israele si inserisce non come eccezione ma come ereditarietà
coloniale perfettamente integrata. È lo Stato-nazione che incarna, con assoluta
lucidità, le contraddizioni e le continuità del diritto coloniale. Non a caso,
il sionismo politico moderno nasce con lo stesso linguaggio dei grandi progetti
imperiali europei: la terra promessa da “redimere”, il deserto da “far fiorire”,
gli “indigeni” da spostare, contenere o far sparire.
Come ha sottolineato spesso il pensiero postcoloniale, la legge internazionale
non protegge chi è fuori dalla sua comunità morale di riferimento. Ecco perché
non si può parlare oggi di fallimento del diritto di fronte al genocidio
palestinese: piuttosto, assistiamo a una sua applicazione strutturale. I
palestinesi sono esclusi dalla comunità morale giuridica dell’Occidente, e
quindi ogni loro vita diventa sacrificabile, ogni loro morte classificabile come
“effetto collaterale”, ogni resistenza come minaccia all’ordine legittimo.
La Palestina rappresenta il paradigma massimo dell’eccezione come forma
ordinaria. Non si tratta di una sospensione temporanea delle regole
internazionali, ma di un regime permanente in cui la legge viene ritirata solo
per lasciare spazio a un’entità che esercita violenza legittimata. In questo
contesto, Israele agisce all’interno di un’eccezione giuridica che è ormai
divenuta struttura, dispositivo, routine. Il potere si esercita senza limiti, ma
in forme perfettamente organizzate e formalizzate, attraverso un apparato legale
che codifica l’oppressione come norma.
La Striscia di Gaza, i Territori Occupati, i campi profughi, i checkpoint, le
demolizioni, gli arresti extragiudiziali, le uccisioni sistematiche: tutto
contribuisce alla creazione di uno spazio in cui la distinzione tra guerra e
pace, diritto e crimine, occupazione e sicurezza, collassa quotidianamente in
una zona grigia che rende possibile l’assassinio, l’assedio, l’espulsione e
l’annientamento senza che ciò implichi responsabilità giuridiche effettive per
Israele. Ciò che è finalizzato quotidianamente alla de-soggettivazione del
palestinese. Per dirla con Achille Mbembe, è necropolitica: “la sovranità come
capacità di decidere chi può vivere e chi deve morire”.
In questa necropolitica legalizzata, il diritto internazionale non è assente: è
presente in quanto residuo simbolico, come linguaggio da evocare quando serve
giustificare, ridimensionare o differire la condanna. Ogni crimine viene poi
negato, minimizzato o rinviato alla diplomazia. Risoluzioni, trattati, condanne
restano privi di effetti materiali, una moltitudine di appelli alle Nazioni
Unite si arenano in risoluzioni non vincolanti e altrettanti tentativi di azione
presso la Corte Penale Internazionale sono ostacolati da potenze che dettano la
grammatica giuridica globale. Questa debolezza selettiva si rivela funzionale
alla riproduzione dell’ordine esistente e conferma che alcuni Stati possono
permettersi l’impunità, mentre altri devono obbedire alla norma.
Israele è dunque non al di fuori del diritto, ma dentro un diritto che ha
imparato a piegare sistematicamente a proprio favore, in stretta alleanza con le
architetture del potere occidentale. È qui che la relazione coloniale verso
corpi razzializzati, territori e popoli sacrificabili si manifesta con
chiarezza: l’Occidente, pur conoscendo nel dettaglio i crimini, li declassa
moralmente attraverso l’uso selettivo delle categorie giuridiche. E quindi non
si parla di “genocidio”, ma di “conflitto”; non di “occupazione illegale”, ma di
“diritto alla difesa”; non di “apartheid”, ma di “tensione etnica”. Dunque,
un’eccezione che si consolida e diventa architettura legale, nuova “normalità”.
Di fronte all’impunità sistematica con cui Israele conduce un’operazione
coloniale e genocida contro il popolo palestinese, la reazione più comune è
parlare di fallimento del diritto internazionale. Si invocano le Nazioni Unite,
le Convenzioni di Ginevra, la Corte Penale Internazionale, le risoluzioni
ignorate. Tuttavia, questo tipo di lettura, seppur mosso da (ingenua)
indignazione, rischia di rafforzare un mito: quello di un diritto internazionale
giusto, neutro, uguale per tutti, che sarebbe semplicemente mal applicato o in
crisi. Perché, invece, non domandarsi se sia proprio questa retorica del
fallimento a mascherare la funzione reale del diritto?
Lungi dall’essere uno strumento di emancipazione universale, il diritto
internazionale si è storicamente costituito come un apparato di
razionalizzazione del potere, costruito per regolare l’ordine globale secondo
gerarchie razziali, coloniali e geopolitiche. La sua stessa architettura – con i
suoi organi, le sue eccezioni procedurali, il peso degli Stati nella sua
applicazione – lo rende intrinsecamente dipendente dai rapporti di forza. Non
esiste un diritto “al di sopra” della politica: esiste solo un diritto che
esprime e protegge determinate configurazioni del potere.
L’impunità di Israele è garantita da una struttura giuridica che lo protegge,
non da una sua assenza. Il diritto è presente, ma articolato in modo da non
disturbare i rapporti geopolitici fondamentali. La nozione di “crimine” diventa
flessibile, sospesa, dislocata. Le risoluzioni non vincolanti, i processi mai
avviati, gli appelli diplomatici: tutto costruisce un apparato retorico che
simula il conflitto con la violenza, ma in realtà la tollera — e spesso la
premia. L’impunità di Israele non è dunque un bug, ma una feature del sistema.
La sua posizione strategica, il sostegno incondizionato degli Stati Uniti,
l’allineamento ideologico con l’Europa liberale, fanno sì che qualsiasi condanna
giuridica resti priva di effetti. L’Occidente, che si presenta come garante del
diritto, si rivela essere l’eccezione incarnata: capace di applicare il diritto
contro i nemici, ma di sospenderlo per sé e per i propri alleati.
L’apparato legale globale non ha bisogno di riforme: ha bisogno di una rottura
epistemica. Una rottura che comincia con il disincanto. Riconoscere che la
giustizia non verrà da una Corte, da una Risoluzione, da una Commissione. Che il
diritto non è neutro e che non può essere il fondamento delle lotte per la
liberazione, se non quando viene radicalmente reimmaginato e rifondato a partire
dai corpi, dalle comunità e dai popoli oppressi. Non si tratta di abbandonare il
campo del diritto, ma di rifiutare il suo feticismo. Il diritto, per diventare
strumento di liberazione, deve essere destrutturato e rifondato a partire dai
soggetti storicamente esclusi. Deve diventare un diritto “disobbediente”
all’ordinatore attuale. Questo non significa abbandonare la dimensione
giuridica, ma restituirla a chi ne è stato espulso. Significa trasformare il
diritto da codice di esclusione in strumento di conflitto: un diritto che non
chiede riconoscimento, ma che impone visibilità; che non supplica giustizia, ma
la reclama come atto politico. In questo senso, il diritto internazionale non è
oggi lo spazio in cui si gioca la liberazione palestinese, ma uno dei terreni di
scontro in cui la battaglia per la legittimità della memoria, della resistenza e
per la vita si deve necessariamente combattere. Il genocidio palestinese,
rivelandone i limiti, ci obbliga a immaginare non la riforma del diritto, ma la
sua trasformazione radicale, dal basso, dentro e contro l’ordine imperiale che
lo governa.
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