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VERONA: CHIUSA L’OCCUPAZIONE DEL GHIBELLIN, MA “LA LOTTA È ANCORA APERTA”. TRASMISSIONE SPECIALE CON LE VOCI PROTAGONISTE
Si è chiusa l’esperienza di occupazione abitativa del Ghibellin Fuggiasco. Attiviste e attivisti del Laboratorio Autogestito Paratod@s di Verona hanno comunicato alla stampa una decisione presa già da alcuni mesi e che a portato alla chiusura definitiva dello stabile di viale Venezia 51, lo scorso 10 maggio. Il tempo intercorso da allora è servito a Paratod@s per elaborare una posizione politica da rendere pubblica e anche per continuare a trovare una soluzione abitativa alle decine di migranti che senza il Ghibellin non hanno un posto dove abitare. L’idea di occupare lo stabile abbandonato da trent’anni, che si trova a lato dello spazio Paratod@s, era stata presa nel 2021. All’epoca decine di giovani originari principalmente da alcuni paesi dell’Africa occidentale, erano stati ospitati nei locali in affitto da compagni e compagne, dove da dieci anni si svolgono attività politiche e culturali. Era poi scaturita l’idea di occupare la struttura adiacente al Laboratorio. Non doveva essere un’occupazione di lungo periodo, precisano nel comunicato diffuso oggi il collettivo Paratod@s, “pensavamo si trattasse di una situazione temporanea e non immaginavamo l’inizio di un percorso”. I coinquilini che alloggiavano al Ghibellin erano perlopiù lavoratori in regola con il permesso di soggiorno, provenienti principalmente da Mali, Burkina Faso, Senegal, Gambia e Nigeria. Oltre 150 quelli ospitati negli anni: hanno alloggiato nei due piani dello stabile occupato, in alcuni periodi, anche da 60 persone contemporaneamente. Negli stessi spazi aveva trovato alloggio anche Moussa Diarra, ventiseienne maliano ucciso dalla Polizia il 20 ottobre scorso. “Le condizioni igienico/sanitarie e le problematiche strutturali dell’edificio non consentivano più di garantire il pieno rispetto della dignità umana. E se non abbiamo tenuto fede all’impegno di chiudere prima dell’inverno è stato solo per non aggiungere altro disagio alla già grave emergenza freddo, gestita con numeri e modalità che da sempre riteniamo insufficienti e non adeguate”, è scritto nel comunicato stampa. “Negli anni si è venuta a creare una comunità di lotta composta da attivisti e migranti“, aggiungono ai nostri microfoni da Paratod@s, ripercorrendo l’esperienza. “Speravamo che l’enormità del problema sollevato e la nostra spinta dal basso avrebbero portato a risposte concrete e ad un cambio radicale di visione sul tema casa, accoglienza e dormitori”. Negli anni qualche risposta è arrivata, lo riportano i numeri diffusi oggi da Paratod@s: “15 persone sono stabilmente ospitate in strutture Caritas, attraverso l’intervento del vescovo Pompili, tra dicembre 2023 e gennaio 2024; 22 persone hanno una casa AGEC (tra quelle non comprese nel piano di riatto/assegnazione dell’ente) attraverso la collaborazione con la cooperativa La Casa degli Immigrati; 5 persone hanno ottenuto posti letto attraverso la collaborazione con la cooperativa La Milonga; 1 persona ha avuto posto letto attraverso i servizi sociali del Comune di Verona; circa 30 persone hanno ottenuto la residenza fittizia, attraverso il dialogo con l’ufficio anagrafe del comune di Verona e la collaborazione con la rete sportelli; 6 persone sono state escluse da qualunque tipo di percorso e soluzione da parte delle istituzioni, nonostante la pressione esercitata nei mesi successivi, affinché si trovasse una sistemazione”. Compagni e compagne di Paratod@s rivendicano un’esperienza che “ha mostrato come l’azione dal basso di autorecupero di un edificio abbandonato sia pratica possibile, realizzabile e necessaria. In una città come Verona, con centinaia di edifici pubblici vuoti, con un mercato immobiliare intossicato dal profitto, in cui a student3 universitari3 vengono chiesti 500 euro per un posto letto, i progetti di Hotel/cohousing sociale dovrebbero essere pubblici e accessibili”. Radio Onda d’Urto ha incontrato la comunità del Ghibellin presso il Laboratorio Autogestito Paratod@s e ha realizzato una trasmissione speciale con i protagonisti dell’esperienza dell’occupazione abitativa. La prima parte della trasmissione (37 minuti). Ascolta o scarica La seconda parte della trasmissione (42 minuti). Ascolta o scarica Con le voci di Rachele Tomezzoli, Giuseppe Capitano, Osasuyi, Alessia Toffalini, Bakari Traoré, Sekou.
Praticare resistenza democratica
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Gianluca Peciola -------------------------------------------------------------------------------- “We refuse to be what you wanted us to be. We are what we are, that’s the way it’s going to be” (“Rifiutiamo di essere quello che volevate che fossimo. Siamo quello che siamo. È così che andrà”, Bob Marley) Sabato 31 maggio eravamo, in migliaia, in piazza a Roma ad opporci al decreto sicurezza voluto dal Governo Meloni. In questi mesi, in migliaia, ci siamo mobilitati in tutto il Paese, dando vita a decine di iniziative; presidi; cortei. È stata una risposta di popolo, larga, plurale, non politicista all’autoritarismo che questo esecutivo sta mettendo in campo. Lo sappiamo bene come, da trent’anni, il tema della “sicurezza” sia usato come specchietto per le allodole. Un paravento funzionale a legittimare leggi violente, impregnate di razzismo, classismo e sessismo. Una colpa equamente distribuita tra i governanti di destra e sinistra. Da Maroni, a Minniti-Orlando fino ai decreti di Salvini e di Lamorgese. Una lunga catena repressiva, che ha causato incommensurabili danni sociali: persone migranti costrette all’irregolarità e detenute, in condizioni inumane, nei CPR (cui, ricordiamolo, Minniti ha dato nuovo vigore); Daspo urbano per senza dimora; venditori ambulanti; sex workers, giovani razzializzati allontanati dai nostri territori come reietti; criminalizzazione delle lotte sociali; restrizione di ogni spazio di dissenso, con l’impossibilità di esercitare il sacrosanto diritto di manifestare. Il Governo Meloni si era già trovato la strada spianata. E proprio per questo ha potuto mettere in campo un provvedimento che segna un ulteriore salto di qualità nelle dinamiche di controllo sociale e di repressione. Un cambio di paradigma nel rapporto tra Stato e società civile, che ci riporta direttamente nei tempi più bui della nostra storia. A dirlo, non sono state solo le migliaia di persone; di associazioni; di spazi sociali; di realtà sindacali scesi in piazza in questi mesi. Non è stata solo la magistratura; i e le docent3 universitarie; gli e le avvocat3. A dirlo sono stati gli stessi organismi internazionali, dalle Nazioni Unite al Consiglio d’Europa, che hanno affermato chiaramente come l’approvazione di quel provvedimento avrebbe rappresentato per l’Italia una rottura con lo Stato di diritto, traghettandoci direttamente in uno Stato di Polizia, in cui è impedito l’esercizio delle libertà e dei diritti fondamentali. Davanti a tutto questo, cos’ha fatto questo Governo? In maniera vile, ha strappato il DDL Sicurezza da una discussione parlamentare che durava da oltre un anno e lo ha trasformato in un decreto legge approvato, a colpi di Consiglio dei Ministri, in meno di 48 ore. Perché hanno avuto paura. Paura di non controllare l’opposizione a questo provvedimento, dentro e fuori il Parlamento. Hanno dimostrato la vera pasta di cui sono fatti: vili e codardi. Utilizzando lo strumento del decreto legge come un manganello legislativo. Dando vita a una forzatura istituzionale gravissima, in sfregio a qualsiasi confronto democratico e agli stessi organismi internazionali. Dunque dall’11 aprile, con l’approvazione di questo decreto legge, siamo già in uno scenario distopico, in un delirio repressivo: fino 5 anni di reclusione per una resistenza passiva in carcere o nei CPR; 2 anni di galera per un blocco stradale; 7 anni per l’organizzazione di un picchetto anti-sfratto; 3 anni per l’imbrattamento di un edificio istituzionale. Anni di galera, per condotte inoffensive. Anni di galera per chi pone in essere la benché minima forma di dissenso. Per non parlare di ciò che si prevede per le madri detenute; per chi si trova in una condizione di marginalità sociale; sul settore della cannabis; sulla revoca della cittadinanza e sui privilegi elargiti alle forze dell’ordine… Davanti a tutto questo, non può non cogliersi l’importanza della mobilitazione che si è creata contro questo provvedimento. Una opposizione non solo difensiva ma che ha saputo contrattaccare. Che intende ridare senso alla parola “sicurezza”, sottraendola dalla spirale del securitarismo per ancorarla all’unico significato che dovrebbe avere: la sicurezza sociale. Sicurezza è avere un tetto sopra la testa; non morire sul lavoro; non aspettare mesi per una mammografia; non subire il ricatto di una cittadinanza negata; non perdere la libertà per un permesso di soggiorno che ti hanno impedito di avere. Sicurezza è sapere che, se scendi in piazza, non rischi di finire in galera solo perché hai manifestato il tuo dissenso. Sicurezza è non essere lasciato in balìa dell’arbitrio delle forze dell’ordine, oramai forti della loro impunità e di uno Stato che pagherà anche le spese processuali per i loro abusi di potere. L’abbiamo detto, sabato, in piazza che è solo l’inizio. E ci crediamo veramente. Ora tocca vincere una campagna referendaria fondamentale. Portare tutt3 a votare per un diritto al lavoro degno e per dare cittadinanza a migliaia di italian3 che ne sono stati privati. Sarà lunga. Bisognerà lavorare tanto. Stare nei nostri territori, presidiare i nostri quartieri, opporci alla loro militarizzazione già avvenuta con le ignobili “zone rosse”. Bisognerà continuare a praticare disobbedienza a questi leggi ingiuste. Continuare a tessere quei legami di solidarietà che vogliono, in ogni modo, spezzare. Ma la mobilitazione che abbiamo saputo creare, le convergenze inedite che – finalmente – si stanno realizzando sono ossigeno. Ossigeno puro davanti alle miserie di questo presente. Nei prossimi mesi, davanti a questo attacco inedito, dovremmo continuare a realizzare alleanze inedite, a sperimentare linguaggi e pratiche nuove; ad aprire spazi reali di trasformazione, praticando una resistenza democratica diffusa. Abbiamo imparato a camminare insieme, ora tocca solo non fermarci. Scrive bell hooks in Elogio del margine: “Faccio una distinzione precisa tra marginalità imposta da strutture oppressive e marginalità eletta a luogo di resistenza, spazio di possibilità e di apertura radicale. […]. Noi giungiamo in questo spazio attraverso la sofferenza, il dolore e la lotta. Sappiamo che la lotta è il solo strumento capace di soddisfare, esaudire e appagare il desiderio. La nostra trasformazione, individuale e collettiva, avviene attraverso la costruzione di uno spazio creativo radicale, capace di affermare e sostenere la nostra soggettività, di assegnarci una posizione nuova da cui poter articolare il nostro senso del mondo…”. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GIULIANO SANTORO Un antidoto al veleno securitario -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Praticare resistenza democratica proviene da Comune-info.
PAVIA: BLOCCATO LO SFRATTO DI UNA FAMIGLIA CON MINORI, “LA PROPRIETÀ UNO DEI PALAZZINARI PIÙ RICCHI” DELLA CITTÀ
Questa mattina alle ore 8 presso via Cardano, nel centro di Pavia, si sono presentati attiviste e attivisti dell’Assemblea per il diritto alla casa di Pavia per impedire uno sfratto. La famiglia che avrebbe dovuto lasciare l’appartamento, è composta da una coppia di origini egiziane con un bambino di 3 anni e una bambina di 5 mesi: il padre ha perso il lavoro da qualche mese e non è più riuscito a pagare l’affitto. La famiglia aveva fatto domanda per ottenere un contributo per morosità incolpevole, “che il proprietario dovrebbe accettare”. Tuttavia l’amministrazione “non è riuscita, in ben sette mesi, a prendere in carico la domanda di contributo presentata dalla famiglia lo scorso ottobre”. Come raccontato ai nostri microfoni da Stefano, attivista anti sfratti pavese, “la proprietà è di uno dei palazzinari più ricchi della città, che gestisce centinaia di case in affitto, come in questo caso piene di muffa e a prezzi esorbitanti”. In occasione del quinto accesso previsto per oggi, poco dopo l’arrivo dei solidali, si sono presentate la polizia, i vigili urbani, la Digos, l’assistente sociale, il rappresentante della proprietà e l’ufficiale giudiziario che si è rifiutato di dialogare con i solidali dell’Assemblea per il diritto alla casa. “Ci siamo barricati nella palazzina, la polizia ha tentennato, non si aspettava questa mossa e non ha cercato di entrare”, quindi dopo una mezzoretta l’ufficiale giudiziario ha rinviato lo sfratto alla fine del mese. La famiglia ha diritto ad una casa popolare, ma attualmente né Comune né ALER le hanno assegnato l’alloggio che le spetta. Attiviste e attiviste pretendono casa e diritti per tutti, in particolare chiedono al Comune che “i diversi milioni di euro avanzati dal bilancio comunale vengano destinati alla ristrutturazione delle case popolari attualmente vuote”. A Pavia ci sono “seicento case vuote, lo stesso numero di persone che sono in lista per la casa popolare. Se ristrutturassero, ci sarebbe una casa per tutte”. Il racconto di Stefano, dell’Assemblea per il diritto alla casa di Pavia. Ascolta o scarica
Decostruire il diritto, liberare la Palestina
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Milano InMovimento (che ringraziamo) -------------------------------------------------------------------------------- Nel racconto dominante, quando diventa troppo scomodo difenderla apertamente, la violenza estrema di Israele contro i palestinesi viene derubricata a deviazione momentanea dal diritto internazionale: un’eccezione tollerabile, una sospensione temporanea dell’ordine giuridico globale, un errore morale da stigmatizzare con qualche sanzione di rito. E se il diritto internazionale fosse già ontologicamente selettivo, funzionale a tutelare gli interessi geopolitici, economici e razziali di Israele e del suo alleato occidentale? Se il fallimento del diritto non fosse tale, ma piuttosto genuina espressione della sua forma reale, della sua coerenza storica? Israele non agisce in un vuoto normativo, ma in un quadro giuridico che implicitamente autorizza e sostiene il suo operato. Il genocidio in atto non avviene nonostante il diritto internazionale, ma in coabitazione con esso. L’impunità protratta, il sostegno incondizionato di Stati Uniti e Unione Europea, il linguaggio diplomatico che evita la parola “genocidio” mentre scorrono le immagini di crimini sistematici: tutto ciò segnala che non siamo davanti a una sospensione delle regole, ma al loro autentico funzionamento. Riarticolando concetti di Giorgio Agamben, potremmo osservare l’eccezione nel suo affermarsi norma e, in un ulteriore passo critico, suggerire che essa è sempre stata la norma – almeno nei confronti dei soggetti colonizzati, discriminati, esclusi. La Palestina, allora, non è laboratorio dell’unicum: è il luogo in cui l’infrastruttura coloniale e normativa dell’Occidente si palesa in forma nuda, senza pudore. Appare necessaria una rilettura complessiva del diritto internazionale non come luogo di giustizia universale, ma come dispositivo morale e giuridico costruito per salvaguardare i rapporti di potere globali. Il genocidio dei palestinesi con la complicità silente o attiva delle “democrazie” liberali non è quindi l’anomalia: è regola, e tale regola va decostruita. Da ciò deriva che smettere di parlare di fallimento del diritto è un atto politico: significa riconoscere che il diritto stesso è parte del problema. E se così è, allora ogni lotta anticoloniale e di liberazione non può che passare per una decostruzione radicale di quel diritto, per immaginare nuove forme di legalità che nascano dal basso, dalla solidarietà, dalla disobbedienza. Il principio di sovranità statale, fondamentale nel diritto internazionale, ha sempre avuto una funzione ambivalente: garantire l’autonomia degli Stati europei, mentre veniva negata la sovranità a interi continenti considerati primitivi, arretrati, o semplicemente “fuori dalla civiltà”. Uno strumento per distinguere tra chi poteva essere titolare di diritti – il soggetto sovrano europeo – e chi invece poteva essere colonizzato, amministrato, sterminato. La retorica della civilizzazione è stata l’abito morale del diritto internazionale per secoli: le guerre coloniali venivano giustificate come operazioni per portare ordine, progresso, diritto. Questo dispositivo moralizzante ha continuato a operare anche dopo le decolonizzazioni formali: la protezione dei diritti umani, le guerre umanitarie, le “interferenze giuste” sono tutte estensioni dello stesso meccanismo, una grammatica giuridica e morale che legittima l’intervento occidentale come atto civilizzatore e delegittima ogni resistenza come fanatismo, terrorismo, o barbarie. Dopo il 1945, con la creazione dell’ONU e la proclamazione dei diritti umani universali, si sarebbe potuto pensare a una svolta. In realtà, si è trattato di una riconfigurazione del diritto coloniale in chiave liberale: un “nuovo ordine internazionale” che manteneva le gerarchie di potere, pur mascherandole sotto il velo dell’universalismo. I tribunali internazionali, le convenzioni, le sanzioni, i riconoscimenti diplomatici: tutti strumenti che continuano ad applicarsi selettivamente. In questo quadro, Israele si inserisce non come eccezione ma come ereditarietà coloniale perfettamente integrata. È lo Stato-nazione che incarna, con assoluta lucidità, le contraddizioni e le continuità del diritto coloniale. Non a caso, il sionismo politico moderno nasce con lo stesso linguaggio dei grandi progetti imperiali europei: la terra promessa da “redimere”, il deserto da “far fiorire”, gli “indigeni” da spostare, contenere o far sparire. Come ha sottolineato spesso il pensiero postcoloniale, la legge internazionale non protegge chi è fuori dalla sua comunità morale di riferimento. Ecco perché non si può parlare oggi di fallimento del diritto di fronte al genocidio palestinese: piuttosto, assistiamo a una sua applicazione strutturale. I palestinesi sono esclusi dalla comunità morale giuridica dell’Occidente, e quindi ogni loro vita diventa sacrificabile, ogni loro morte classificabile come “effetto collaterale”, ogni resistenza come minaccia all’ordine legittimo. La Palestina rappresenta il paradigma massimo dell’eccezione come forma ordinaria. Non si tratta di una sospensione temporanea delle regole internazionali, ma di un regime permanente in cui la legge viene ritirata solo per lasciare spazio a un’entità che esercita violenza legittimata. In questo contesto, Israele agisce all’interno di un’eccezione giuridica che è ormai divenuta struttura, dispositivo, routine. Il potere si esercita senza limiti, ma in forme perfettamente organizzate e formalizzate, attraverso un apparato legale che codifica l’oppressione come norma. La Striscia di Gaza, i Territori Occupati, i campi profughi, i checkpoint, le demolizioni, gli arresti extragiudiziali, le uccisioni sistematiche: tutto contribuisce alla creazione di uno spazio in cui la distinzione tra guerra e pace, diritto e crimine, occupazione e sicurezza, collassa quotidianamente in una zona grigia che rende possibile l’assassinio, l’assedio, l’espulsione e l’annientamento senza che ciò implichi responsabilità giuridiche effettive per Israele. Ciò che è finalizzato quotidianamente alla de-soggettivazione del palestinese. Per dirla con Achille Mbembe, è necropolitica: “la sovranità come capacità di decidere chi può vivere e chi deve morire”. In questa necropolitica legalizzata, il diritto internazionale non è assente: è presente in quanto residuo simbolico, come linguaggio da evocare quando serve giustificare, ridimensionare o differire la condanna. Ogni crimine viene poi negato, minimizzato o rinviato alla diplomazia. Risoluzioni, trattati, condanne restano privi di effetti materiali, una moltitudine di appelli alle Nazioni Unite si arenano in risoluzioni non vincolanti e altrettanti tentativi di azione presso la Corte Penale Internazionale sono ostacolati da potenze che dettano la grammatica giuridica globale. Questa debolezza selettiva si rivela funzionale alla riproduzione dell’ordine esistente e conferma che alcuni Stati possono permettersi l’impunità, mentre altri devono obbedire alla norma. Israele è dunque non al di fuori del diritto, ma dentro un diritto che ha imparato a piegare sistematicamente a proprio favore, in stretta alleanza con le architetture del potere occidentale. È qui che la relazione coloniale verso corpi razzializzati, territori e popoli sacrificabili si manifesta con chiarezza: l’Occidente, pur conoscendo nel dettaglio i crimini, li declassa moralmente attraverso l’uso selettivo delle categorie giuridiche. E quindi non si parla di “genocidio”, ma di “conflitto”; non di “occupazione illegale”, ma di “diritto alla difesa”; non di “apartheid”, ma di “tensione etnica”. Dunque, un’eccezione che si consolida e diventa architettura legale, nuova “normalità”. Di fronte all’impunità sistematica con cui Israele conduce un’operazione coloniale e genocida contro il popolo palestinese, la reazione più comune è parlare di fallimento del diritto internazionale. Si invocano le Nazioni Unite, le Convenzioni di Ginevra, la Corte Penale Internazionale, le risoluzioni ignorate. Tuttavia, questo tipo di lettura, seppur mosso da (ingenua) indignazione, rischia di rafforzare un mito: quello di un diritto internazionale giusto, neutro, uguale per tutti, che sarebbe semplicemente mal applicato o in crisi. Perché, invece, non domandarsi se sia proprio questa retorica del fallimento a mascherare la funzione reale del diritto? Lungi dall’essere uno strumento di emancipazione universale, il diritto internazionale si è storicamente costituito come un apparato di razionalizzazione del potere, costruito per regolare l’ordine globale secondo gerarchie razziali, coloniali e geopolitiche. La sua stessa architettura – con i suoi organi, le sue eccezioni procedurali, il peso degli Stati nella sua applicazione – lo rende intrinsecamente dipendente dai rapporti di forza. Non esiste un diritto “al di sopra” della politica: esiste solo un diritto che esprime e protegge determinate configurazioni del potere. L’impunità di Israele è garantita da una struttura giuridica che lo protegge, non da una sua assenza. Il diritto è presente, ma articolato in modo da non disturbare i rapporti geopolitici fondamentali. La nozione di “crimine” diventa flessibile, sospesa, dislocata. Le risoluzioni non vincolanti, i processi mai avviati, gli appelli diplomatici: tutto costruisce un apparato retorico che simula il conflitto con la violenza, ma in realtà la tollera — e spesso la premia. L’impunità di Israele non è dunque un bug, ma una feature del sistema. La sua posizione strategica, il sostegno incondizionato degli Stati Uniti, l’allineamento ideologico con l’Europa liberale, fanno sì che qualsiasi condanna giuridica resti priva di effetti. L’Occidente, che si presenta come garante del diritto, si rivela essere l’eccezione incarnata: capace di applicare il diritto contro i nemici, ma di sospenderlo per sé e per i propri alleati. L’apparato legale globale non ha bisogno di riforme: ha bisogno di una rottura epistemica. Una rottura che comincia con il disincanto. Riconoscere che la giustizia non verrà da una Corte, da una Risoluzione, da una Commissione. Che il diritto non è neutro e che non può essere il fondamento delle lotte per la liberazione, se non quando viene radicalmente reimmaginato e rifondato a partire dai corpi, dalle comunità e dai popoli oppressi. Non si tratta di abbandonare il campo del diritto, ma di rifiutare il suo feticismo. Il diritto, per diventare strumento di liberazione, deve essere destrutturato e rifondato a partire dai soggetti storicamente esclusi. Deve diventare un diritto “disobbediente” all’ordinatore attuale. Questo non significa abbandonare la dimensione giuridica, ma restituirla a chi ne è stato espulso. Significa trasformare il diritto da codice di esclusione in strumento di conflitto: un diritto che non chiede riconoscimento, ma che impone visibilità; che non supplica giustizia, ma la reclama come atto politico. In questo senso, il diritto internazionale non è oggi lo spazio in cui si gioca la liberazione palestinese, ma uno dei terreni di scontro in cui la battaglia per la legittimità della memoria, della resistenza e per la vita si deve necessariamente combattere. Il genocidio palestinese, rivelandone i limiti, ci obbliga a immaginare non la riforma del diritto, ma la sua trasformazione radicale, dal basso, dentro e contro l’ordine imperiale che lo governa. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Decostruire il diritto, liberare la Palestina proviene da Comune-info.