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Oltre la catastrofe: imparare da coloro che sopravvivono tenacemente
ABBIAMO BISOGNO DI IMPARARE FORME CONCRETE DI RESISTENZA ALL’OLOCAUSTO CAPITALISTA CHE OGGI EMERGONO DENTRO, CONTRO E OLTRE IL SUO PERIMETRO ASFISSIANTE. “LA COLLABORAZIONE NEI COMPITI CHE FAVORISCONO LE OPPORTUNITÀ DELLA SUSSISTENZA COLLETTIVA, COME COLTIVARE LA TERRA O COSTRUIRE CASE, È UN PROCESSO CHE POTENZIALMENTE TRASFORMA LA NECESSITÀ IN ETICA… – SCRIVE STAVROS STAVRIDES – GLI SFORZI DELLA SOPRAVVIVENZA COLLETTIVA FANNO EMERGERE FORME DI CONVIVENZA BASATE SULLA MUTUA DIPENDENZA…”. I MODI ATTRAVERSO I QUALI IN TUTTO IL MONDO DONNE E UOMINI LOTTANO OGNI GIORNO PER SOPRAVVIVERE POSSONO CREARE DEI SENTIERI VERSO L’EMANCIPAZIONE COLLETTIVA, ANCHE SE NON SIAMO ABITUATI A CONSIDERARE QUESTA PROSPETTIVA Foto tratta dalla pag. fb del Movimento dos Trabalhadores Sem Terra (MST) -------------------------------------------------------------------------------- L’unico motivo per cui quelli che lottano contro il capitalismo e il patriarcato scrivono, parlano e agiscono è per dimostrare che la catastrofe attuale non è inevitabile. Inoltre, per esprimere con le parole e sperimentare con fatti che dimostrano che un altro mondo è possibile, hanno bisogno di imparare dalle concrete resistenze all’olocausto capitalista che oggi emergono dentro, contro e oltre il suo perimetro asfissiante. Ma che significa veramente imparare? Imitare, adattarsi a modelli basati su generalizzazioni affrettate, utilizzare diciture tecniche o etiche che cercano di afferrare il significato delle azioni degli altri? Forse possiamo partire dal fatto che i segnali della catastrofe sono tanto imminenti che la maggior parte della gente li attendono senza esitare, a meno che si realizzino cambiamenti radicali. Il problema è che, per molti, questa consapevolezza alimenta una specie di edonismo pessimista: “consumiamo tutto ciò che è possibile”, “sfruttiamo tutto ciò che possiamo”, consoliamoci guardando come altri già vivono in questa catastrofe con la speranza di poterle sfuggire”. È cruciale imparare da quelli che hanno già sperimentato una catastrofe nei loro mondi e sono sopravvissuti. Come riuscirono i popoli colonizzati a mantenersi vivi dal punto di vista culturale, etico e letterario? Come riescono gli afroamericani – quelli che siamo abituati a descrivere come i discendenti degli schiavi, come se questa descrizione già non implicasse una naturalizzazione di un’identità brutalmente forzata – a manifestare nella pratica la propria volontà di continuare a essere differenti e liberi per conferire forma al loro proprio mondo? Abbiamo la necessità di connettere le resistenze al capitalismo con le espressioni collettive di una volontà tenace di sopravvivere. In molti, casi, questa volontà collettiva viene sottovalutata: parliamo di “mera sopravvivenza”. Tuttavia, questi atti portano con sé i germogli di una inventiva collettiva, necessaria per qualsiasi sforzo di emancipazione. La collaborazione nei compiti che favoriscono le opportunità della sussistenza collettiva – come coltivare la terra, pescare o costruire case – è un processo che potenzialmente trasforma la necessità in etica. E le ricreazioni rituali della collaborazione possono trasformarla in una sorgente di valori sociali e principi fondamentali. Solo per fare un esempio: il Mutirão in Brasile (parola con radici nella lingua tupí guaraní) è un processo di comune aiuto che si è sviluppato nelle zone rurali e che si basa sul lavoro comunitario. Fu recuperato dai movimenti delle persone senza terra e senza casa (MST e MTST) come una forma di cooperazione nella lotta che produce nuovi modelli di vita collettiva. Non è un caso che il Mutirão venga ritualizzato anche nelle rappresentazioni mistiche del MST, che sono atti che celebrano il cooperativismo e il potere della Madre Terra. Le diverse rappresentazioni mistiche corroborano un’etica di condivisione e una relazione di cura con la terra (Stavrides, 2024). -------------------------------------------------------------------------------- Foto di Luca Perino -------------------------------------------------------------------------------- Un’assemblea del movimento sudafricano Abhalali baseMjondolo (“Coloro che vivono nelle baracche”) -------------------------------------------------------------------------------- Nelle pratiche di condividere e della cooperazione, nelle quali la prima (condividere) è sia la condizione iniziale che il risultato della seconda, emerge una potenzialità di emancipazione: la creazione di relazioni sociali basate sulla fiducia e sul reciproco appoggio. Ma questa potenzialità deve essere realizzata, sviluppata e inventata attraverso la pratica. Possiamo usare il verbo “rendere comune (comunizar)” per descrivere i processi di cooperazione che comprendono diverse aree della vita sociale nelle quali si pone la questione dell’accesso equo e della distribuzione del potere, questione inevitabile oltre al come la ricerca della sopravvivenza collettiva affronti questa questione. Se la catastrofe smaschera le differenze spesso accuratamente nascoste, gli sforzi della sopravvivenza collettiva fanno emergere forme di convivenza basate sulla mutua dipendenza. Gli sforzi individuali, specialmente tra coloro che sono i più vulnerabili e ignorati (a meno che non li si consideri dall’esterno come inutili) si rivelano ogni volta più sterili. Gli sforzi della sopravvivenza devono adattarsi mediante tattiche collettive e le tattiche si sviluppano nella pratica. I modelli della pratica nascono nella intersezione delle traiettorie precostruite della riproduzione sociale. Forse in un contesto sociale gli atti si convertono unicamente in esempi delle regole predominanti? Magari possiamo riscoprire la potenzialità degli atti che apparentemente seguono le tipologie predominanti del comportamento se distinguiamo con attenzione tra il paradigma e il modello. Questa possibilità la suggerisce Giorgio Agamben: “… un paradigma implica un movimento che passa di singolarità in singolarità e, senza mai abbandonare la singolarità, trasforma ogni caso singolare in un esempio di una regola generale che non può mai enunciarsi a priori” (2009:22). Il modo dominante di una tale conoscenza è l’analogia e non necessariamente la generalizzazione. In altre parole, il paradigma non è semplicemente il mezzo per presentare e confermare una regola, bensì forse per iniziare una comparazione analogica. I monaci, dice Agamben, potrebbero prendere ad esempio la vita del fondatore dell’ordine al quale appartengono e vivere le proprie vite, uniche come la sua, in forma analoga. Non ci affretteremo a chiamare questa pratica imitazione: l’analogia presuppone la singolarità degli aspetti comparati. La base di una comparazione si costruisce senza che l’uno si integri nell’altro. La creazione di una regola di condotta monastica è, per Agamben, qualcosa di molto diverso dal paradigma della vita del fondatore dell’ordine. Il paradigma, come manifestazione di una regola, presuppone una peculiare sospensione della propria specificità del suo significato. La sua singolarità, in un certo senso, rimane tra parentesi (come quando utilizziamo la coniugazione del verbo “amare” per mostrare la regola della coniugazione di verbi simili). Un gesto paradossale, di fatto, perché si suppone che la regola si formi a partire da tutti i casi che contiene (tutti i verbi simili). E l’esempio è certamente uno di quelli. Agamben conclude: “Il caso paradigmatico si converte in ciò nel sospendere e, allo stesso tempo, nell’esprimere la sua appartenenza al gruppo, in modo che non sia mai possibile separare il suo modello dalla sua singolarità” (ibid. 31). Un modo per valutare l’importanza di questa osservazione è formularla in questa maniera: ogni regola contiene un insieme di singolarità (istanze) solo perché identifica un elemento comune per tutte. Pertanto, è un errore ridurre l’unicità dei casi a una regola. L’unicità si capisce perché è l’intersezione di differenti regole. Così, di fronte al falso dilemma per il quale “le azioni delle persone sono tutte uniche” e “le azioni sono plasmate sulla base di schemi dominanti”, possiamo rispondere: in ogni singola azione si intrecciano regole che plasmano le pratiche (sequenze di atti) nell’applicare determinati schemi. In questo senso, ogni azione è un esempio. -------------------------------------------------------------------------------- I bambini e le bambine del Palestine Youth Club di Shatila al Centro storico Lebowski di Firenze (luglio 2025): foto di Chiara Benelli (che ringraziamo) per Un ponte per -------------------------------------------------------------------------------- In maniera analoga, possiamo parlare del controesempio. Un atto differente o un insieme di pratiche differenti possono considerarsi controesempi se li paragoniamo a una norma alla quale si contrappongono. Non come un’eccezione: l’eccezione appartiene alla regola. Si trova all’interno di essa come un verbo “irregolare” appartiene alla coniugazione dei verbi che si assomigliano nel non seguirlo. Agamben ha ragione quando insiste nel dire che l’eccezione non sta al di fuori della regola, bensì ne è solo la sua sospensione. Per questo, le eccezioni rilevano gli elementi costitutivi della regola dalla quale si separa ogni eccezione particolare. Il detto popolare che recita che l’eccezione conferma la regola sembra rivelare più di quanto appare in un primo momento. Le imprese eccezionali possono essere (viste) come atti eroici che sfidano esplicitamente le norme imposte. Sono (atti) necessari e utili per esporre la norma alla quale si contrappongono. Tuttavia, la loro forza diminuisce quando si trovano limitati a un confronto specifico con una norma specifica. I controesempi forse possono evitare questo trabocchetto, dato che possono arrivare più in là di un confronto specifico con la norma specifica di cui servono come esempio. Come succede di solito con gli esempi, possiedono le caratteristiche unica della loro specificità. Pertanto, possono trasformarsi in incroci di possibili pratiche, invece che in punti di rottura di una norma specifica. Le pratiche quotidiane possono essere portatrici di controesempi. Non dovrebbero descriversi semplicemente come non eccezioni, affermazioni di regole dominanti o espressioni di sottomissione reticente ma accettata. Questa è una delle maniere di ribadire che la riproduzione sociale è un campo di battaglia, più che una condizione stabilita con forza. Per questo, le tattiche di sopravvivenza quotidiana, specialmente di coloro che sono esposti ai pericoli immediati della catastrofe generata dal capitalismo, possono creare dei sentieri verso l’emancipazione collettiva, anche se una tale prospettiva non è necessariamente integrata in queste tattiche. Non è necessario che atti divergenti o dissidenti siano coscientemente proiettati da quelli che li realizzano in qualità di controesempi. La loro forza risiede nel fatto che offrono le opportunità per sperimentare mondi sociali organizzati in modo diverso. In questi mondi, attraverso gli atti, ma anche grazie al loro significato, si sviluppano controesempi. Considerare questi atti come modelli di sforzi emancipatori risulta utile per costruire delle teorie di emancipazione sociale, però forse trascura qualcosa di molto importante: il ragionamento analogico che permette alla teoria di mettere a confronto una molteplicità di casi senza ridurli a una regola generale. In altre parole, l’emancipazione sociale viene esplorata da persone reali in circostanze specifiche, e pertanto può adottare forme differenti. Nel rispettare il carattere distintivo e particolare di ogni pratica realizzata, abbiamo quindi la necessità di considerare l’emancipazione sociale come il trionfo dell’inventiva collettiva. Solo gli artigiani capaci e dotati di inventiva possono emancipare sé stessi. -------------------------------------------------------------------------------- Stavros Stavrides è professore alla Scuola di Architettura dell’Università Tecnica Nazionale di Atene, si occupa di reti urbani di solidarietà e mutuo sostegno. Nell’archivio di Comune, altri suoi articoli sono leggibili qui. Pubblicato sul numero 3 della Revista Crítica Anticapitalista (intitolato Crítica Anticapitalista 3 – La Tormenta, la castástrofe… ¿Y ahora qué?) di Comunizar, non-collettivo argentino fratello di Comune. Traduzione di Massimo Zincone. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Oltre la catastrofe: imparare da coloro che sopravvivono tenacemente proviene da Comune-info.
Create due, tre, molte arche
NELLE GUERRE DEL CAPITALISMO, LA QUESTIONE CENTRALE SONO I BENI MATERIALI, NON LE PERSONE. GOVERNI E MEDIA DESCRIVONO DETTAGLIATAMENTE LA DISTRUZIONE DI EDIFICI, INSTALLAZIONI MILITARI E CENTRALI NUCLEARI, IL SUCCESSO O IL FALLIMENTO DI RAID AEREI, MA IGNORANO LA SOFFERENZA DEGLI ESSERI UMANI. DEL RESTO QUELLI CHE SONO IN ALTO SI PREOCCUPANO SEMPRE MENO, NON SOLO DURANTE LE GUERRE, DELLA GENTE COMUNE. “SE NON LO FACCIAMO NOI DI SOTTO, SE NON CI PRENDIAMO CURA COLLETTIVAMENTE, SAREMO NUDI DAVANTI AGLI OPPRESSORI”, SCRIVE RAÚL ZIBECHI. INSOMMA, PER QUANTO SIA DIFFICILE DA ACCETTARE È CERTO CHE NON POSSIAMO PIÙ ASPETTARCI NULLA DA NESSUN GOVERNO. SI TRATTA ALLORA DI COSTRUIRE ARCHE, MOLTE ARCHE, CHE UNISCANO RESISTENZA, PROTEZIONE COLLETTIVA DALLA TORMENTA IN CORSO E CREAZIONE DI UN MONDO NON CAPITALISTA. “NON È UNA RICETTA, NÉ UNA LINEA DA SEGUIRE. È SEMPLICEMENTE UNA VERIFICA DI CIÒ CHE LA GENTE STA GIÀ FACENDO… IL MONDO CHE CONOSCEVAMO STA GIUNGENDO AL TERMINE. PRIMA CHE UN ALTRO MONDO POSSA NASCERE, VIVREMO UN CAOS SISTEMICO CHE DURERÀ DECENNI. SOLO L’ORGANIZZAZIONE COLLETTIVA PUÒ ILLUMINARE QUEL FUTURO…” A proposito di “quelli di sotto” e di organizzazione collettiva: Quarticciolo, Roma, come tutte le periferie del mondo ha mille problemi, ma anche infinite e spesso poco riconosciute capacità di autogestirsi per costruire qui e ora qualcosa di diverso, come dimostrano l’ostinazione e la creatività della Palestra popolare, del Doposcuola, del Polo civico, dell’ambulatorio popolare e del gruppo di donne che ha fatto nascere perfino un piccolo quanto straordinario Laboratorio di ristorazione (foto di Riccardo Troisi) -------------------------------------------------------------------------------- Nelle guerre del capitalismo, la questione centrale sono i beni materiali, non le persone. Governi e media descrivono dettagliatamente, con abbondante materiale grafico e audiovisivo, la distruzione di edifici, installazioni militari e centrali nucleari, il successo o il fallimento di raid aerei e lanci di missili, ma ignorano la sofferenza degli esseri umani, che non considerano più nemmeno “danni collaterali”. Nella guerra tra Stati Uniti e Israele contro l’Iran, le persone non esistono. Questo rivela il vero volto del sistema, interessato solo ai beni di valore creati dal capitale, che serve sia materialmente che simbolicamente. Gli analisti geopolitici sono più preoccupati dalla possibile chiusura dello Stretto di Hormuz, dal prezzo del petrolio e dal flusso globale di merci, che dall’impatto ambientale di queste guerre ipertecnologiche e dalle conseguenze che hanno sulle nostre vite. Si possono consultare decine di siti web e tutti i dati si concentrano sulle ripercussioni delle guerre sull’economia e sui mercati azionari. Assistiamo, infatti, alla sistematica esaltazione della morte rispetto alla vita, che sembra non avere posto nel mondo del capitale. Inoltre, i trucchi della guerra, l’inganno, la perfidia e la manipolazione mediatica della popolazione vengono presentati come manovre brillanti, sebbene il loro obiettivo sia la distruzione e la morte. Donald Trump, per fare solo un esempio, ha detto che ci fossero due settimane di tempo per negoziare la pace prima di attaccare l’Iran. Ma il giorno dopo ha lanciato un’operazione pianificata da tempo. Ha poi affermato che la guerra era finita, il che porta a credere che stesse pianificando di continuarla con ulteriori bombardamenti. Con questa descrizione, non intendo criticare la malvagità dei leader del sistema; sarebbe una perdita di tempo. Chiunque non abbia le idee chiare non sarà convinto dalle nostre argomentazioni. Al contrario, voglio riflettere sui nostri passi come individui e movimenti anticapitalisti alla luce di ciò che le guerre attuali ci insegnano. La prima lezione è non crederci, perché ogni parola, ogni immagine, ogni discorso è una menzogna pensata per paralizzarci come individui e come persone. La cosa peggiore è crederci quando si comportano in modo gentile e comprensivo, quando parlano di pace e lotta alla povertà, per esempio. Le parole di Trump, di chi è al potere, in generale, valgono “molto meno dell’urina di cane”, come ha detto León Felipe, riferendosi alla giustizia del sistema. La seconda è che la tormenta non fa che aumentare con queste guerre; la crisi climatica è alimentata dall’inquinamento derivante dalla distruzione di Gaza e da ogni bomba che esplode in qualsiasi parte del mondo, dove ci sono già undici guerre, secondo il rapporto del Conflict Data Program dell’Università di Uppsala. I territori bombardati in Ucraina, Gaza, Yemen, Israele, Libano e Iran, tra gli altri, saranno inabitabili in futuro. La terza è che non si preoccupano mai della gente comune. Quindi, se non lo facciamo noi di sotto, se non ci prendiamo cura collettivamente, saremo nudi davanti agli oppressori. È vero che alcuni governanti parlano bene, dicono proprio quello che i governati vogliono sentire perché si sono specializzati in quella scelta che chiamano sinistra o progressista. Ma non fanno niente contro il sistema, contro la violenza narco-statale, contro le sparizioni e i crimini che colpiscono popoli e persone di sotto. Per questo ci tocca proteggerci come possiamo, sulla base delle nostre risorse, prima di tutto attraverso i lavori collettivi, la minga, il tequio, che permettono allo stesso tempo di creare nuove realtà e difenderle. Ma la cosa più importante è la certezza che non ci si può aspettare nulla da governi o stati. Seguendo il consiglio di Che Guevara quando il popolo vietnamita resistette all’invasione e alla guerra degli Stati Uniti (“create due, tre, molti Vietnam”), credo che si tratti di costruire arche, molte arche, che uniscano resistenza, protezione collettiva dalla tormenta e creazione di un mondo non capitalista. Non è una ricetta, né una linea da seguire. È semplicemente una verifica di ciò che la gente sta facendo. La più nota e più estesa, sia per estensione che per profondità, si trova nello stato del Chiapas, guidata dall’EZLN. Ne conosco altre, come i consigli e le riserve di Nasa e Misak a Cauca, in Colombia; le comunità Guaraní Mbya in Brasile e le comunità Garifuna in Honduras; i quilombos e gli spazi di Teia dos Povos e del popolo Mapuche, e molte altre su cui riceviamo commenti e informazioni. Le guerre e le distruzioni in corso sono già parte del collasso/tormenta. Il mondo che conoscevamo sta giungendo al termine. Prima che un altro mondo possa nascere, vivremo un caos sistemico che durerà decenni. Solo l’organizzazione collettiva può illuminare quel futuro. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su La Jornada (qui con l’autorizzazione dell’autore, che da oltre dieci anni di prende cura anche di Comune). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Create due, tre, molte arche proviene da Comune-info.
Riflessioni a partire da un testo di psicologia della resistenza e della lotta per il cambiamento
Il libro di Gianpaolo Contestabile fornisce un interessante contributo per approfondire il dibattito sui temi della cura, del conflitto e del mutualismo nell’ambito complesso e controverso della salute mentale, che negli ultimi anni è stato attraversato da una «esplosione discorsiva» (come ha scritto Cresswell) nella quale può accadere di perdere l’orientamento. Il volume si presenta come un tentativo di riconfigurare il discorso sulla sofferenza mentale riattivando le linee del pensiero psicologico che possano aiutare a porre una distanza dal modello biomedico e dal suo riduzionismo, che isola la malattia come mera deviazione patologica, obliterando il peso dei fattori sociali e ambientali. Richiamando la figura di Franco Basaglia e la sua critica all’istituzione manicomiale, la “psicologia della salute” nata in contesti di fermento sociale come Cuba – che sposta il focus dalla mera cura alla prevenzione e alla comprensione dei determinanti sociali della salute – e gli esperimenti classici di psicologia sociale (Milgram, Asch, Zimbardo) l’autore rivendica la possibilità di costruire attraverso la psicologia un sapere critico della salute mentale, capace di comprendere come le dinamiche di potere operino non solo a livello macro-sociale, ma anche nelle micro-relazioni e nelle istituzioni. Le riflessioni in questo ambito sembrano rispondere a una crisi dei saperi psy, che si mostra nella difficoltà ad affrontare i fenomeni del disagio generalizzato fuori dalle angustie della relazione privata psicoterapeutica o delle funzioni di controllo e gestione affidate ai servizi pubblici. L’ambito dell’attivismo politico, quello a cui Giapaolo Contestabile fa esplicito riferimento anche attraverso la sua vicenda biografica (è uno dei fondatori della Brigata Basaglia) sembrerebbe quello più pronto ad affrontare questi temi. In questo orizzonte la riflessione sul contesto editoriale e sul dibattito di movimento in cui questo libro si inserisce può aiutarci a valutarne il possibile impatto. Esso infatti si pone all’interno di un gruppo di pubblicazioni, uscite dopo la sindemia di Covid, che ha provato a ricostruire la politicità del tema della cura, rimettendone i contenuti in relazioni con le riflessioni dell’attivismo di base. MUTUALISMO, MOVIMENTI E SINDEMIA Gli anni di crisi sindemica hanno aperto la strada a varie forme di mobilitazione politica e riflessione di movimento nelle quali hanno acquisito centralità la salute, la sanità e la cura. Tali elaborazioni hanno ripreso e approfondito pratiche di mutualismo e di autorganizzazione “dal basso” in continuità con alcune linee di azione politica sviluppatesi negli anni successivi alla crisi economica del 2008, particolarmente nei paesi del sud europeo. La pratica mutualistica orientata a costruire esperienze di cura autogestite, destinate a chi fosse strutturalmente escluso dai sistemi formali di protezione sociale, o a chi ne perdeva l’accesso in conseguenza di esperienze di attraversamento “irregolare” dei confini o per esperienze abitative informali, ha impegnato una variegata costellazione di soggettività di movimento italiane maturate lungo i cicli di lotte sulla casa, le migrazioni e la loro regolamentazione statale tanatopolitica (sul confine con la Francia e sulla “rotta balcanica”), in contrasto alle forme violente di segregazione ed espulsione che operano alle frontiere e nelle metropoli. Non sono mancati anche casi in cui alla produzione di servizi autogestiti si sono accompagnate esperienze focalizzate sulla costruzione di microeconomie esterne alle logiche del mercato mainstream, come i mercati contadini e le autoproduzioni, esperienze oggi in parte consolidatesi e in parte confluite in sperimentazioni maggiormente articolate di autorecupero ecologico, economie circolari e programmazione industriale. Attraverso una storia di conflitti e divaricazioni, a esse si sono affiancate esperienze di rivendicazione e progettazione tecnologica dal basso (si vedano ad esempio l’esperienza di Mondeggi o la GKN). Nel campo specifico della salute all’interno dei percorsi di mutualismo si sono sviluppate iniziative in cui, oltre a una focalizzazione sulle caratteristiche “residuali” delle soggettività destinatarie (sempre collocate lungo particolari faglie di oppressione sociale, razziale, di genere, ecc.) e sulla conseguente azione per la riduzione delle barriere (amministrative e giuridiche) all’accesso ai servizi, sono emersi approcci critici nei confronti dell’impianto istituzionale delle tecniche mainstream, delle pratiche e dei saperi medici ufficiali, riconosciute come inevitabilmente compromesse con i paradigmi escludenti e selettivi promossi dalle istituzioni pubbliche. > Nelle esperienze autogestite di mutualismo sono quindi maturate maggiori > consapevolezze rispetto alla questione dei determinanti sociali, relazionali e > ambientali della salute e si è approfondita la relazione tra l’intervento > sanitario e assistenziale e le pratiche di presa di parola e di rivendicazione > sugli assi della casa, del lavoro, dell’ambiente, della qualità della vita, > della dignità dell’accoglienza, del riconoscimento dei diritti essenziali. L’attenzione a quelle che nelle politiche istituzionali risponderebbero alle martellanti raccomandazioni rispetto alla “integrazione socio-sanitaria” e alla “promozione della salute” (ove però queste spesso restano più dichiarate che reali) è stata pienamente assunta in alcune esperienze (si veda la Rete degli Ambulatori Popolari). Stimolata dal contesto pandemico e dalla visibilità assunta dal tema della cura a partire dal marzo 2020 una parte significativa dei movimenti ha ulteriormente approfondito la propria elaborazione attraverso le riflessioni femministe e transfemministe – nelle quali è emersa con sempre maggiore importanza la componente ecologista – tematizzando la socializzazione del prendersi cura, la critica alla distribuzione iniqua del lavoro riproduttivo e ai saperi che operano la naturalizzazione forzata di tale distribuzione. Oltre a uno stretto confronto con pratiche rivendicative intese a contrastare l’invisibilizzazione delle questioni di genere in periodo pandemico (tra cui l’irrigidimento dei criteri di accessibilità all’IGV e la depauperazione dell’impianto pubblico dei consultori), le forme autogestite e mutualistiche di azione in questa area hanno riguardato la costruzione di attività nelle quali si mettessero contemporaneamente a critica i dispositivi e i saperi patriarcali e si realizzassero forme di azione collettiva basate sul riconoscimento della reciproca interdipendenza e della necessità di costruzione di relazioni, anche attraverso pratiche artistiche, performative e di inchiesta/autoinchiesta, intese a far emergere una soggettività collettiva insieme protagonista e oggetto della cura, che altrimenti sarebbe rimasta invisibilizzata dai saperi, dai discorsi e dalle pratiche dominanti. LA RIFLESSIONE TEORICA: RIPOLITICIZZAZIONE DELLA CURA E SOLIDARIETÀ Lo sviluppo di pratiche di mutualismo è stato variamente discusso nella letteratura scientifica focalizzata sui movimenti sociali. Anselmo et al ( 2020) hanno usato il concetto di “solidarietà urbana” e hanno messo in luce le possibili interazioni verificatesi tra ambiti istituzionali e azioni di movimento, notando come in alcuni contesti nazionali siano emersi inediti incontri tra «mobilitazioni sociali e (barlumi di) innovazione sociale». Altre riflessioni hanno invece messo in luce la difficoltà riscontrata di dar luogo a strutturali forme di interlocuzione con le istituzioni in questi percorsi. Queste elaborazioni, emerse principalmente nel campo della sociologia del welfare e delle politiche sociali, hanno costituito una parte molto minoritaria nella più generale riflessione che in questi anni si è sviluppata a proposito del rapporto tra welfare e mutualismo nel suo complesso. L’interesse rispetto al mutualismo ha attraversato prepotentemente vari ambiti di discussione sul welfare attraverso cui, con il concetto di “mutualismo”, si sono identificate genericamente le pratiche del terzo settore, delle fondazioni, delle assicurazioni, gli innovativi ibridi “comunitari” tra pubbliche amministrazioni, associazionismo di volontariato e promozione sociale, impresa sociale, ecc. Nel dibattito sociologico maggioritario sul tema si sono valorizzate, piuttosto che gli aspetti di azione collettiva e di prassi emancipatoria che hanno caratterizzato i dibattiti di movimento, le questioni relative alle maggiori capacità di affrontare, attraverso la prassi comunitaria, le sfide poste dalla sostenibilità economica dei sistemi pubblici di protezione, dal bisogno di intercettare e intervenire su bisogni “nascosti” con una maggiore prossimità rispetto alle istituzioni pubbliche tradizionali come i servizi sociali o i servizi sanitari, la presunta capacità di azione sul legame comunitario, anche attraverso elementi di responsabilizzazione, partecipazione e coprogettazione con la cittadinanza. Nel movimento il dibattito su questi temi resta invece incredibilmente legato alle questioni poste dal testo Centri sociali: che Impresa del 1995 e dal quasi contemporaneo L’impresa sociale del 1994. Oggi discutere di mutualismo in relazione all’azione politica emancipatoria e di movimento deve confrontarsi con la difficoltà iniziale costituita dal fatto che una serie di termini (a partire dallo stesso concetto di mutualismo) indicano fenomeni con attori e campi d’azione molto diversi: si va dalle pratiche e le elaborazioni di aggregazioni di think tank ed enti di secondo livello del terzo settore e delle assicurazioni – nella cui agenda politica sta la sostituzione di un sistema di contribuzione fiscale volontaria al “vecchio” sistema di tassazione progressiva su cui si fondava l’universalismo in sanità – a centri di ricerca universitaria che, con i mantra ossessivi dell’equità e della sostenibilità, propongono forme di sussidiarietà sempre più compatibili con la totale destituzione di un sistema di protezione sociale (e sanitaria) universalistico. Vista la sovrapposizione dei campi di studio e la forza performativa rispetto al dibattito pubblico di termini elaborati in ambiti dotati di così ampio potere, le soggettività di movimento hanno sviluppato varie ipotesi per delimitare un campo autonomo di elaborazione i cui termini potessero svincolarsi dal fatto che nell’attiguo campo del terzo settore, del welfare comunitario, del privato (sociale e non), concetti come “comunità”, “partecipazione”, “reciprocità”, “attivazione” hanno stabilmente informato campi semantici utili principalmente alla penetrazione e allo sviluppo di vettori di policy making neoliberali, tendenti alla destrutturazione del welfare state di caratterizzazione fordista. Non sono appunto mancati negli spazi di movimento tentativi di risemantizzare questi concetti, delimitarne in modo più specifico il campo, di riappropriarsi delle questioni messe in gioco dal discorso neoliberale mainstream per declinarle in ottica di azione collettiva emancipatoria. Si parla ad esempio di “difendere” il mutualismo (che qui identifichiamo come “dal basso” per distinguerlo da quell’altro) oppure di “rilanciarlo”, “politicizzarlo” fino anche a chi ha proposto di “superarlo” verso pratiche maggiormente conflittuali che però ne valorizzino il portato di esperienze. Come ha spiegato recentemente Alberto De Nicola il dibattito di movimento si è polarizzato tra le posizioni critiche alla macroarea di concetti di “comunità”, “partecipazione” – vedendone i vettori strumentali di trasformazioni neoliberali – e chi ha collocato in essi possibilità di contro-condotte e contro-dispositivi orientati alle «potenzialità trasformative connesse al ricorso alle comunità e all’agire comunitario nelle politiche del Welfare», alla «politicizzazione e ri-socializzazione dell’economia» anche attraverso la «proliferazione di economie alternative, [e il] ritorno di logiche di azione marginalizzate dai sistemi di Welfare», legate a comunità oppresse e marginalizzate. > In Grecia l’elaborazione attorno alle social clinics, particolarmente > sviluppata per le condizioni di retrenchment del servizio sanitario in seguito > all’attacco alla spesa pubblica condotto dalle istituzioni europee, ha assunto > caratteri politici fortemente connessi con le dimensioni della resistenza e > della sopravvivenza delle comunità, che si sono sviluppati in modo congiunto > con forme radicali di conflitto e di autogestione territoriale, sorte in > risposta a una profonda azione di impoverimento delle istituzioni pubbliche > strozzate dal diktat europeo. Heath Cabot ha parlato a proposito di «solidarietà contagiosa» come «altra faccia della crisi, che ha indotto nuove forme di partecipazione nella cittadinanza greca». In modo inestricabile rispetto alla crisi indotta dai meccanismi neoliberali, «la solidarietà parla di nuove forme di azione collettiva, comunitaria e sociale», di una nuova idea di «salute emergente nei momenti di bisogno somatico e sociale». In quanto paradigma e pratica della socialità, «la solidarietà riconfigura le interrelazioni tra persone, farmaci, assistenza e società, producendo nuove visioni di cittadinanza e di guarigione somatica e sociale»; tuttavia riconosce che «la solidarietà ha una vita ambivalente in quanto prodotto diretto dell’austerità». In campo internazionale, mentre alcune forme di mutualismo sono state valorizzate in quanto strumento di creazione di cura comunitaria radicalmente esterna e alternativa ai dispositivi dei servizi statali (Spade, Mutuo appoggio), altre riflessioni hanno invece valorizzato la relazione tra le pratiche mutualistiche e i cambiamenti possibili/necessari nell’ambito del welfare state, pensando ad una complessiva “rivoluzione della cura”. Gabriele Winker e Matthias Neumann appunto individuano «l’opportunità di una diversa etica sociale attraverso la cura stessa» per modificare «la gestione dei tradizionali campi del welfare state, appellandosi a tutti coloro che in tale pratica pubblica sono coinvolti in modo non disinteressato, non competitivo, perché non direttamente quantificabile». In modo simile si sono sviluppate alcune riflessioni femministe e transfemministe (Busi, Fragnito), in particolare quelle interessate a «combinare diversi pubblici e diversi gruppi di attivisti nel tentativo di sviluppare connessioni» impreviste. Le pratiche e le riflessioni femministe e transfemministe, anche attraverso i linguaggi artistici – per l’importanza che l’arte riveste nella ridefinizione potenzialmente conflittuale del sensibile e dei dispositivi che ne consentono la rappresentabilità – hanno messo in luce la trasversalità e la generalità del lavoro di cura, anche lungo le faglie di razzializzazione che definiscono la «divisione globale del lavoro di cura» e le sue contraddizioni. Secondo questa elaborazione l’attività di cura è stata sempre cruciale e può acquisire forme radicali grazie all’intersezione tra sguardi antirazzisti, transfemministi ed ecofemministi, valorizzandone il senso ma anche deromanticizzandola, problematizzandola e cogliendone l’ambigua natura di dispositivo di produzione e riproduzione di ineguaglianze, «non innocente ma sempre coinvolto nelle relazioni di potere» (Krasny). L’etica della cura, che rischia di invisibilizzare la dimensione politica dell’organizzazione della cura (una delle forme di invisibilizzazione è stata la retorica dell’eroismo che ha caratterizzato gli anni pandemici in relazione alle lavoratrici/tori del Servizio Sanitario Nazionale; su questo si veda Galanti), va corretta con la riflessione di Mbembe sugli assunti necropolitci che «attraverso la distribuzione della cura ci dicono chi deve vivere e chi no». Da questa collocazione ambivalente si possono guardare «non solo le eziologie della nostra crisi culturale (l’incapacità di pensare le nostre relazioni) ed ecologica, ma anche contestare le scelte su cosa viene curato e cosa no, sulla divisione sessuale e razziale del lavoro come traccia fondamentale delle attività di cura» (nel testo curato da Fragnito). Sugli stessi temi ha insistito il Manifesto della Cura – Per una politica dell’interdipendenza (The Care Collective, 2021) che ha rideclinato la cura come ambito di lotta politica sulla base della critica alla sua “naturalizzazione”. Commentando il manifesto Lea Melandri ha scritto: «a mancare finora non sono le esperienze che hanno tentato di spostare la cura fuori dai legami di parentela, ma il riconoscimento e il sostegno a queste forme “universali”, “promiscue” di socializzazione dei servizi e di difesa dei beni comuni, da parte delle istituzioni. Se serve il “mutuo soccorso”, altrettanto essenziale è la possibilità di avere “spazi pubblici”, che favoriscono la vita in comune, affitti calmierati, case, alloggi, scuole, asili, parchi, centri sociali, case di riposo gestite sulla base di una logica che non sia di profitto. Sappiamo quanto l’incuria degli Stati, sotto questo aspetto, sia dominante, lontana dalla prospettiva di una visione, come quella del Manifesto della cura, che vuole essere “femminista, queer, antirazzista ed ecosocialista”, incentivare modalità di proprietà più democratiche, socializzate ed egualitarie come le cooperative, dar vita a nuove istituzioni transnazionali e lavori green. Ma gli ostacoli al cambiamento purtroppo non sono solo quelli che vengono dall’esterno, da un sistema neoliberista che sta investendo con logiche di mercato tutti i bisogni e le manifestazioni dell’umano, mettendo al lavoro la vita (Cristina Morini)». In questo senso la riflessione del libro, a partire dal fatto che la pandemia ha svelato la centralità sociale dei lavori di cura a tutti i livelli (dall3 badanti all3 rider fino alle lavoranti del settore sanitario), propone una integrazione tra pubblico e mutualismo, sulla base di una rivendicazione collettiva che nasca dalla generalità di questa soggettività precarizzata, genderizzata e razzializzata. Proprio la capacità di impattare i servizi pubblici da parte delle pratiche mutualistiche resta il grande interrogativo di questa fase nel dibattito di movimento. PSICOLOGIA DELLA RESISTENZA Le presentazioni del libro Psicologia della resistenza, alla presenza dell’autore Gianpaolo Contestabile, stanno spesso assumendo i caratteri di vere e proprie assemblee. Il libro focalizza l’importanza del rapporto tra psicologia della salute e posture politiche critiche, evidenziando come l’approccio critico dei saperi possa incidere sull’impostazione dei servizi sanitari pubblici nel loro complesso. La psicologia della resistenza, soprattutto quella che si rifà a radici sudamericane, viene ricostruita come uno strumento fondamentale nella definizione di modelli di cura partecipati, universali e gratuiti per i movimenti rivoluzionari e democratici. La riflessione sui processi di disumanizzazione che attraversano le pratiche di gestione tanatopolitica delle migrazioni dà a Gianpaolo l’occasione di richiamare le riflessioni di Zimbardo, Milgram e Asch sui fenomeni della violenza e dell’oppressione istituzionalizzata. Gianpaolo prova a ricostruire una genealogia del sapere Psy che tenga conto delle sue possibilità emancipatorie scavando fino alle ambigue nozioni della psiche di Freud; l’autore cerca di sostenere l’esistenza di un orientamento tecnico dei saperi Psy che tenga conto delle condizioni di oppressione sperimentate da soggetti e – soprattutto – comunità sottoposte al giogo imperialista. La ricognizione di alcune possibilità inespresse contenute nelle teorie psicologiche sovietiche, così come la riflessione sulla psicologia della salute, permette a Gianpaolo di riconfigurare in termini politici le principali questioni della promozione della salute. Non essendoci un contesto comune in cui si riesca a confrontarsi collettivamente sia sulla strategia delle esperienze di movimento sia sul modo in cui stare politicamente dentro le istituzioni con i propri saperi tecnici, lo sforzo di verificare la validità e la tenuta etica delle proprie azioni è lasciato di solito a una sterile dimensione individuale. La configurazione assembleare assunta dalle presentazioni del libro di Gianpaolo Contestabile rivela il bisogno di rompere questa solitudine: il tentativo di leggere in un framework comune le varie esperienze soggettive di chi si forma, opera o in vario modo vive le discipline Psy, riesce a costruire un terreno comune nonostante le profonde differenze di approccio esistenti (che Gianpaolo rispetta nel libro lasciando aperte le questioni più controverse, come per esempio quando parla di neurodiversità). Sarebbe utile oggi indagare i motivi per cui non si sia riuscit3 a produrre una contronarrativa rispetto al tema della salute – capace di impattare sulle politiche sanitarie – nonostante numerose riflessioni e dibattiti abbiano aperto alla possibilità di sviluppare in questo senso la riflessione dopo la sindemia. Sicuramente l’assenza di un approccio unificato e interconnesso tra i temi della riproduzione sociale, del welfare, del genere, della disabilità e delle varie forme di oppressione che attraverso queste faglie si distribuiscono, impedisce una visione completa della situazione; la stratificazione dei lavori di cura – da quelli caratterizzati dall’alto potere contrattuale degli ordini professionali al lavoro nascosto e sottopagato di chi si dibatte tra caregiving non riconosciuto e sfruttamento – ha portato a una frammentazione in cui è difficile leggere le questioni comuni. Ma la lacuna più profonda sembra oggi essere quella che ha impedito di tramandare esperienze e riflessioni critiche nella formazione della psicologia come in tutte le altre professioni di aiuto. > Sono ormai divenute difficili da trovare nel dibattito dei movimenti le > riflessioni critiche sulla psicologia sviluppatesi negli anni ’70 e ‘80, a cui > hanno contribuito figure come Comba, Pirella, Fachinelli, Jervis, Risso, > Minguzzi, Palmonari e Melandri. In queste discussioni si metteva in > discussione il ruolo della psicologia, il suo rapporto con le istituzioni e > con il contesto politico-sociale, smontandone la presunta neutralità ed > elaborando metodi teorici e pratici che tenessero insieme la riflessione sul > proprio modo di svolgere le professioni di cura e le lotte che contestualmente > si sviluppavano nella società. Gli anni ‘90, con il processo che ha istituzionalizzato la formazione nel campo della psicologia e ha legato gli interessi corporativi dei nuovi gruppi professionali alle dinamiche aziendalistiche del welfare in via di innovazione, hanno contribuito a spazzare via le riflessioni critiche sulla tecnica psy come funzionale al potere e al sistema sociale esistente, colpevole di individualizzare e depoliticizzare il disagio, di riprodurre logiche di controllo e deresponsabilizzazione all’interno delle istituzioni. Senza capire cosa è accaduto negli anni ‘90 e che posizioni hanno tenuto i protagonisti di quella istituzionalizzazione, sarà difficile ricostruire forme di azione pratica capaci di mettere in discussione l’orientamento ideologico della pratica psy dominante. CONCLUSIONI Il libro di Gianpaolo Contestabile si inserisce nel solco di una serie di pubblicazioni che, a seguito della sindemia di Covid e della conseguente attenzione al tema della salute, hanno provato a riconfigurare il quadro della sofferenza riformulandolo in modi compatibili con l’attivismo di base e la mobilitazione politica. Per cogliere il senso dell’operazione di Contestabile è stato necessario delineare un quadro del contesto editoriale e del dibattito in cui essa è sorta, nei quali per ora non si sono ancora prodotti però orizzonti comuni ed efficaci strategie d’azione capaci di incidere sull’andamento delle politiche sanitarie. La difficoltà di attivare una coerente azione di movimento capace di porsi come azione di difesa popolare del Servizio Sanitario Nazionale ne è una drammatica conseguenza. In conclusione il libro si segnala per il tentativo di riannodare i fili tra sofferenza psichica, contesto sociale e impegno politico. Un’operazione necessaria, certo, in un’epoca di crescente medicalizzazione e individualizzazione del disagio. Resta da vedere se questa “psicologia della resistenza” saprà tradursi in un’azione politica e sociale incisiva, capace di superare le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano la formazione dei tecnici dei lavori di cura (soprattutto psy) e le riflessioni strategiche di movimento. Il libro offre spunti di riflessione importanti, ma la loro effettiva portata trasformativa dipenderà dalla capacità di innestarsi in un dibattito più ampio e in pratiche di elaborazione e di lotta collettiva. Immagine di copertina di Rudy and Peter Skitterians da Pixabay SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Riflessioni a partire da un testo di psicologia della resistenza e della lotta per il cambiamento proviene da DINAMOpress.
[2025-05-16] Brigata di Mutuo Soccorso - Dialoghi su Disuguaglianze, Welfare e Mutualismo @ Csa Astra
BRIGATA DI MUTUO SOCCORSO - DIALOGHI SU DISUGUAGLIANZE, WELFARE E MUTUALISMO Csa Astra - Via Capraia, 19, 00139 Roma RM (venerdì, 16 maggio 18:30) BRIGATA DI MUTUO SOCCORSO - Dialoghi su Disuguaglianze, Welfare e Mutualismo Il ruolo dello sport popolare al Tufello e in città: esperienze a confronto a cura della Palestra Popolare Valerio Verbano h: 18:30 - Csa Astra