La libertà di esserci
C’È UNA INESAURIBILE E DIFFUSA RICERCA DI SENSO, NATURALMENTE IGNORATA DA COLORO
CHE SONO IN ALTO, CHE NON SMETTE DI ALIMENTARE LA CRITICA AL PATRIARCATO E DI
APRIRE IL CONCETTO DI LIBERAZIONE, MA CHE NELLO STESSO TEMPO NON VUOLE INSEGUIRE
IL CARROZZONE DELLE PARI OPPORTUNITÀ, NÉ CHIUDERSI IN UNA GABBIA IDENTITARIA,
COME PUÒ DIVENTARE PERFINO IL DICHIARARSI FEMMINISTA. “IN QUESTA SOGGETTIVITÀ IN
MOVIMENTO – SCRIVE ANTONIETTA LELARIO, PRENDENDO SPUNTO DA ALCUNI IMPORTANTI
INTERVENTI DI LEA MELANDRI E LAURA COLOMBO – POSSIAMO CERCARE INSIEME QUALE
CIVILTÀ VOGLIAMO COSTRUIRE, DONNE E UOMINI CON UNA NUOVA RELAZIONE FRA NOI E CON
CHIUNQUE SI SENTA COINVOLTO IN QUESTO PROCESSO. OGNUNO CONTRIBUENDO CON LA
PROPRIA VOCE AL MONDO COMUNE…”
Mural realizzato a San Lorenzo, Roma. Foto di Nilde Guiducci
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L’articolo di Lea Melandri (Quel cordone ombelicale che lega ancora la donna
alla madre) e la lettera al Manifesto di Laura Colombo (Non si fraintenda la
differenza sessuale, pensiero in relazione) hanno riaperto questioni di
fondamentale importanza su cui penso dovremmo intervenire in molti e in molte.
Io vorrei riprenderle sulla base della mia esperienza e delle mie scelte,
discusse nel circolo “La merlettaia di Foggia”.
Non solo ruoli
Un’accusa molto diffusa fatta al patriarcato è di aver ruolizzato le donne e di
aver costruito una cultura stereotipata, dando un’immagine spregiativa
dell’essere donna.
Il noto monologo di Paola Cortellesi sulla differente percezione di alcune
parole al femminile e al maschile ne è prova evidente, così alcuni corsi a
scuola contro gli stereotipi di genere, come si usa dire, o l’uso e l’abuso che
ne fa la pubblicità.
Questa critica è più facile da accogliere perché non apre interrogativi sulle
cause, non solleva questioni di fondo: sul piano simbolico si può affrontare con
la vecchia arma dell’indignazione morale o dell’ironia a seconda delle
situazioni, mentre sul piano politico, pur non precludendo altri sviluppi, ne
suggerisce alcuni molto comodi.
La proposta più diffusa è l’invito a lottare, pretendendo la parità. Un esempio:
il ruolo di casalinga viene ribaltato se anche gli uomini lavano i piatti e
accompagnano i bambini a scuola, come in effetti succede ormai in molte coppie.
E giustizia è fatta. E se non è fatta, si tratta solo di insistere in un’ottica
di modernizzazione dei costumi. C’è un altro esempio più sottile: se l’uso del
nudo femminile viene denunciato come offensivo, basta portare sul mercato anche
il nudo maschile. Così parità e inclusione si prendono a braccetto invadendo la
lingua e l’immaginario, con buona pace delle analisi che vedono nella
rappresentazione del nudo, a fini commerciali, i corpi ridotti a cosa e
l’estensione ad altri soggetti come aggravante. Né alcuno sviluppo hanno avuto i
coraggiosi tentativi di distinguere erotismo e pornografia, libertà sessuale e
uso strumentale dell’altro, prevalentemente della donna, ma, appunto, non
cambierebbe niente se fosse di altri. Per inciso, quale educazione sessuale si
vuole dare ai e alle giovani se non si riaprono queste questioni con un
dibattito sulla sessualità che permetta alle donne di dire la propria esperienza
e il proprio desiderio?
Dal punto di vista dei partiti tutti, appare evidente che sono ancora indecisi
fra un riconoscimento della differenza femminile sempre in termini di pochezza
su cui hanno costruito il carrozzone delle pari opportunità, dal Parlamento ai
Comuni, e la proposta di inclusione nelle logiche partitiche, dove essere donna
diventa qualcosa da esibire, non espressione di differenza pensata e collegata
alla politica delle donne.
Con uno sguardo altrettanto miope, si vede nella maternità solo un ruolo e un
destino a cui il patriarcato condannava le donne, cancellando così ogni nesso
tra libertà e necessità e non prendendo in alcuna considerazione il desiderio
femminile di maternità.
Quando non essere d’accordo è una ricchezza
Grande è il disordine in cui siamo trascinate come seconda metà del cielo! Qui
non c’è tempo di approfondire, ma voglio ricordare la Carta delle donne come
tentativo di alcune elette nel Parlamento italiano di sottrarsi a questa morsa
soffocante e di proporre altro.
Insomma, la radicalità del pensiero femminile genera ancora sordità e paura.
Voglio rispondere attraverso le parole di Pietro Ingrao dette, quando era
presidente della Camera dei deputati, a Rossana Rossanda (Le altre Bompiani
1979). Si sente l’eco della sua cultura nell’uso del termine emancipazione che
lui prende dalla tradizione comunista dove emancipazione del proletariato voleva
dire far saltare la divisione in classi sociali. Quindi la parola ha ben altro
spessore rispetto all’emancipazione come accomodamento nell’ordine esistente,
che molta parte del movimento femminista ha criticato lavorando sulla differenza
fra emancipazione, liberazione e libertà.
Pietro Ingrao:
“Affrontare la questione dell’emancipazione femminile comporta affrontare punti
di fondo dell’organizzazione della società in generale. Ti faccio un esempio. Se
vuoi affrontare davvero il problema donna/lavoro, devi investire caratteri e
dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro,
fino allo stesso senso del lavoro. Contemporaneamente – ecco dove la dimensione
diventa diversa – vai ad incidere sulle forme di riproduzione della società, sul
modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, i rapporti tra padri e
figli, l’educazione, il rapporto tra passato e presente, forme e natura
dell’assistenza eccetera. Cioè, una concezione storica, secolare del privato,
tutta una concezione dello Stato, tutto il rapporto fra Stato e privato”.
Tante di queste questioni il femminismo della differenza le sta coraggiosamente
portando avanti per esempio attraverso il manifesto Sottosopra Immagina che il
lavoro discusso in tutta Italia e in molte assemblee sindacali, attraverso la
proposta di Autoriforma gentile della scuola che ha tentato di dare parola
politica alle molte forme di esperienza libera dell’insegnare che continuano ad
esserci e attraverso la rete delle Città vicine nella quale donne e uomini
legati al pensiero della differenza danno voce al rapporto con la città e al
nostro presente difficile, ma anche ricco di nuove intuizioni.
Dove abbiamo trovato in questi anni la forza di non lasciarci trascinare dalla
sordità a cui facevo riferimento prima? Beh, parlo per me e per tantissime di
noi con cui ho relazioni politiche, lo abbiamo fatto mantenendo la critica agli
stereotipi come traccia, ma cercando il nodo di fondo su cui è stata costruita
la cultura patriarcale.
L’ordine simbolico della madre
Così scriveva negli anni ‘70 del ‘900 Adrienne Rich:
“Il rapporto madre-figlio è il rapporto umano fondamentale. Con la creazione
della famiglia patriarcale questo nucleo è stato oggetto di violenza. La donna
non è stata solo svilita in quello che era il suo pieno significato e la sua
piena capacità. Non è stata soltanto rinchiusa entro limiti strettamente
definiti. Pur imprigionata e resa inoffensiva in un unico aspetto del suo
essere, quello materno, ella resta oggetto di sfiducia, sospetto, misoginia, in
forme sia evidenti sia nascoste. E gli organi di riproduzione femminili, la
matrice della vita umana, sono diventati uno dei bersagli favoriti della
tecnologia patriarcale. (Nato di donna, Garzanti 1977)
In seguito, Luisa Muraro con il saggio L’ordine simbolico della madre ci ha
ricordato che ciò che il patriarcato ha temuto, e che ancora si continua a
temere, è il significato simbolico contenuto nella esperienza materna. E lì c’è
anche una ricchezza, lei diceva. A me viene in mente la mia esperienza come
madre e come figlia: obblighi imposti e libertà, desiderio e rischio, dolore e
gioia insieme, riconoscimento e paura, amore e rabbia, incrocio di sguardi e
tono di voce, bisogno di futuro e garanzie di vita, prime parole date e
ricevute, apertura a ciò che il nuovo nato insegna e sollecita dentro chi se ne
prende cura, consapevolezza della dipendenza e necessità di nutrire
l’indipendenza. Vita simbolica in atto. Come si vede da quanto riesco a dire, è
un miscuglio fertile di detto e non detto, di visibile e invisibile che niente
ha a che vedere con i codici binari del patriarcato. Molto ha a che vedere con
la vita, fuori da ogni schema. E ciò che ho detto non è che uno dei possibili
accessi al sapere che quella esperienza dà. In un’altra situazione e con altri
interlocutori io per prima direi altre cose.
Quello che non cambia è la sua radicalità, se nell’esperienza madre-figlio/a
leggiamo questa vita simbolica, se a questa diamo significato politico e la
portiamo nelle nostre relazioni. O lo riconosciamo, laddove si presenta. Se la
valorizziamo nella lingua, che è ciò che tutti abbiamo a disposizione per dare
forma al mondo.
Certo ricordo un convegno a Pinarella – ero allora giovanissima -, in cui si
discusse e si litigò su se la nostra politica dovesse dare o non dare
riconoscimento alla relazione con la madre. Non ci furono conclusioni.
Ma ormai la questione era aperta.
La genealogia femminile
Sta di fatto che per tantissime di noi indicibile è stata, in questi anni, la
gioia di ricercare un riferimento nelle donne che ci hanno preceduto. Ne è nata
una passione per la letteratura scritta da donne e una sua rivalutazione che è
sotto gli occhi di tutti. E il campo della letteratura e dell’arte sono solo i
più evidenti. Tener conto di chi prima di noi l’aveva già detto ha cambiato i
parametri della conoscenza e, introducendo la soggettività, lo stesso modo di
conoscere. I saperi non sono più gli stessi ed è apparsa la profonda ingiustizia
che lo stampo patriarcale aveva loro imposto per esempio nel rapporto con la
natura. Così come, tornando alla vita personale come luogo in cui si vedono i
cambiamenti del mondo, molte di noi hanno imparato a riconoscere ciascuna la
propria madre e a praticare la lingua della gratitudine. Grande è stata la
bellezza di scoprire che alle nostre spalle non c’era vuoto simbolico, ma donne
che avevano patito la ferita inferta dal patriarcato al rapporto madre /figlia o
figlio, e vi avevano posto riparo, come nell’arte giapponese dello Kintsugi,
lasciandoci tracce dorate. Sottolineo: non canoni rigidi e chiusi, ma tracce
dorate per chi di noi è in una inesauribile ricerca di sé e non vuole chiudersi
in gabbie identitarie come può diventare anche il dichiararsi femminista se non
è continua ricerca di senso. E nemmeno vuole lasciarsi schiacciare nel nuovo
ruolo oppositivo già bello e pronto: una generazione contro l’altra, le donne
contro gli uomini, chi ha capito contro chi non ha capito, eccetera.
Quale civiltà
Grazie a questo scarto, politica di relazione, politica del simbolico, politica
del desiderio, femminismo della differenza sono equivalenti per dire una
politica, come dice una mia cara amica, che mette l’accento su ciò di cui ci
sentiamo ricche. È una politica che nessuno può toglierci perché è nelle nostre
mani, si nutre delle nostre relazioni e del nostro desiderio per “mettere al
mondo” ciò che sogniamo e di cui sentiamo la mancanza.
E in questa soggettività in movimento possiamo cercare insieme quale civiltà
vogliamo costruire, donne e uomini con una nuova relazione fra noi e con
chiunque si senta coinvolto in questo processo. Ognuno contribuendo con la
propria voce al mondo comune.
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Antonietta Lelario (Circolo la Merlettaia di Foggia)
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