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Sudan: fermare subito la strage e aprire corridoi umanitari
La situazione in Sudan è ormai drammatica e in rapido deterioramento. Dopo oltre due anni di conflitto, il Paese è teatro della più grande crisi umanitaria contemporanea. La presa di Al Fashir, dopo un assedio durato 18 mesi, rischia di trasformarla in una vera e propria catastrofe. Più di 12 milioni di persone sono state costrette alla fuga e si contano in questi due anni oltre 150.000 morti. L’avanzata delle milizie delle Rapid Support Forces (RSF), culminata nella presa della città di Al Fashir, è segnata da atrocità e crimini contro la popolazione civile. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha denunciato l’uccisione sommaria di 460 pazienti e familiari all’interno dell’ospedale della città, un atto che rappresenta una flagrante violazione del diritto internazionale umanitario. Oltre 260.000 civili sono oggi intrappolati ad Al Fashir, senza accesso sicuro a cibo, acqua o cure mediche: la loro vita è appesa a un filo. La guerra tra le RSF e le Forze Armate Sudanesi (SAF), quest’ultime guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan che rappresenta comunque il governo riconosciuto internazionalmente, continua a devastare il Paese. Secondo fonti del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, le RSF sono state armate e sostenute dagli Emirati Arabi Uniti, contribuendo ad alimentare un conflitto che si nutre di forniture militari e interferenze regionali. La Rete Italiana Pace e Disarmo chiede con forza che il Governo italiano, l’Unione Europea e la comunità internazionale: 1. Promuovano un cessate il fuoco immediato, sostenendo con urgenza ogni sforzo diplomatico per fermare le ostilità e avviare un processo politico inclusivo sotto l’egida delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana. 2. Sostengano l’apertura di corridoi umanitari sicuri e garantiti, per permettere l’accesso immediato degli aiuti alle popolazioni intrappolate, in particolare nella regione del Darfur e nella città di Al Fashir. 3. Blocchino tutte le forniture e il commercio di armi verso le parti in conflitto, in applicazione del Trattato sul Commercio delle Armi (ATT) e delle normative europee ed italiane in materia di export militare. Nessun Paese deve contribuire — direttamente o indirettamente — a questa carneficina. 4. Sostengano l’attivazione urgente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, affinché la crisi sudanese sia posta all’ordine del giorno come priorità assoluta, con la richiesta di istituire una commissione d’inchiesta indipendente sui crimini di guerra e contro l’umanità. 5. Incrementino il sostegno alle organizzazioni umanitarie attive sul campo, sia internazionali che sudanesi, che stanno operando in condizioni estreme per salvare vite umane sia nelle zone colpite direttamente dal conflitto che in quelle che stanno accogliendo i rifugiati interni 6. Rafforzino la pressione diplomatica sui Paesi che alimentano il conflitto, in particolare gli Emirati Arabi Uniti, affinché cessino ogni forma di sostegno armato o logistico alle fazioni in guerra. Il Sudan non può essere abbandonato al silenzio e all’indifferenza. Serve un’azione immediata, coraggiosa e coordinata per fermare il massacro e restituire una prospettiva di pace a milioni di persone. La comunità internazionale, e in particolare l’Italia e l’Unione Europea, devono assumersi la responsabilità di agire — non solo con parole di condanna, ma con atti concreti di solidarietà, disarmo e diplomazia di pace. Rete Italiana Pace e Disarmo
Una prospettiva politica per l’alterità sociale
Grande è stata la soddisfazione per queste giornate di lotta in solidarietà del popolo palestinese e contro il governo complice del piano genocida di Israele. Tanti interventi hanno già colto la possibilità che una nuova fase si apra dopo anni di stagnazione e di apparente rassegnazione. Senza nulla aggiungere a […] L'articolo Una prospettiva politica per l’alterità sociale su Contropiano.
Qualcosa è cambiato – di Faber
Posso scrivere una poesia con il sangue che sgorga, con le lacrime, con la polvere nel mio petto, con i denti della ruspa, con le membra smembrate, con le macerie dell'edificio, con il sudore della protezione civile, con le urla delle donne e dei bambini, con il suono delle ambulanze, con i resti di un [...]
Il vento che tira. Per la pace il conflitto! – di Emanuele Braga
Lo sciopero italiano del 22 settembre per la Palestina è stato uno sciopero sociale. Da anni non si vedeva la società ribellarsi all’unisono in questo modo. Alla chiamata Blocchiamo Tutto, una moltitudine di persone si è riversata in strada, abbandonando il posto di lavoro, i banchi di scuola, i negozi e le case. Abbiamo [...]
Cosa resta di politico nell’arte?
Palestina pop? Negli ultimi mesi la causa palestinese è diventata pop per certi versi, visto che molti personaggi pubblici si sono esposti mediaticamente, soprattutto da quando pezzi grossi come Grossmann e affini hanno parlato, così da poter dare il via libera a coloro che potevano seguirne la scia, per lo […] L'articolo Cosa resta di politico nell’arte? su Contropiano.
Il confine come ferita: il conflitto tra Cambogia e Thailandia e la guerra per i templi
Ci sono guerre che sono giustificate con mappe, altre con dogmi e altre ancora con il petrolio, ma le più pericolose si alimentano di simboli. E non c’è simbolo più infiammabile di un tempio ancestrale conteso da due popoli feriti. Nel cuore selvaggio dell’Asia, la pietra scolpita dei templi di Shiva è tornata a risuonare sotto il fuoco incrociato. Preah Vihear e Ta Muen Thom non sono più solo rovine sacre: sono trincee. E ciò che è in disputa non è solo il territorio: è la dignità nazionale, la memoria coloniale e il diritto di dare un nome alla storia. Il 24 luglio 2025, nelle prime ore del mattino, sei valichi di frontiera tra Cambogia e Thailandia sono stati teatro di scontri armati. Razzi BM-21 lanciati dal lato cambogiano hanno colpito la provincia thailandese di Surin, uccidendo undici civili, tra cui un bambino di otto anni. La risposta thailandese è stata immediata: caccia F-16 hanno sorvolato il confine e bombardato le postazioni militari cambogiane vicino al tempio Prasat Ta Muen Thom. La guerra latente si era risvegliata. Non era la prima volta. Dalla sentenza della Corte internazionale di Giustizia (CIJ) del 1962, che ha concesso la sovranità sul tempio di Preah Vihear alla Cambogia, entrambi i Paesi hanno trascinato un latente disaccordo sui terreni confinanti. Questa disputa, esacerbata da mappe coloniali, interessi politici interni e memorie nazionalistiche incompiute, ha trasformato i templi indù dell’XI secolo in epicentri di conflitti contemporanei. Preah Vihear non è solo un complesso architettonico. Situato a 525 metri di altitudine sui monti Dângrêk, rappresenta per la Cambogia un simbolo sacro del suo patrimonio khmer e per la Thailandia una parte irrinunciabile del suo immaginario nazionale. È stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 2008, il che ha acceso le tensioni regionali. Il focolaio più recente riguarda Ta Muen Thom, un altro santuario indù dell’XI secolo, immerso nella giungla e situato strategicamente su una delle storiche rotte militari tra i due Paesi. Questo conflitto non può essere compreso senza osservare l’architettura occulta del potere che lo sostiene. La Thailandia, governata da una coalizione instabile e segnata da crisi interne, ha strumentalizzato il nazionalismo di frontiera come valvola di sfogo. La Cambogia, sotto il comando del primo ministro Hun Manet, figlio del longevo leader Hun Sen, ricorre alla difesa del patrimonio come bandiera sovrana. Entrambe le nazioni hanno utilizzato i templi non solo come punti geografici, ma anche come monumenti bellici che conferiscono legittimità politica e tengono insieme i discorsi identitari. La dimensione umanitaria è allarmante. I combattimenti del 24 luglio hanno causato almeno dodici morti, decine di feriti e costretto all’evacuazione tra le 40.000 e le 86.000 persone, secondo diverse fonti regionali. I villaggi vicini ai templi sono stati abbandonati; ci sono ospedali danneggiati, scuole chiuse e frontiere completamente sigillate. Le ambasciate sono state ritirate. Le accuse reciproche si intensificano. E mentre i proiettili volano, il mondo reagisce come se lo sapesse già in anticipo. L’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), presieduta quest’anno dalla Malesia, ha invitato al dialogo. Gli Stati Uniti hanno emesso un avvertimento formale. Israele, ironicamente, ha raccomandato ai propri cittadini di non avvicinarsi alle zone di confine a causa del “grave rischio di instabilità”. Ma è la Cina che occupa il centro silenzioso di questa scena. Il ruolo della Cina è allo stesso tempo strategico e rivelatore. Nell’immediato, il suo Ministro degli Esteri Wang Yi si è offerto di mediare nella disputa, appellandosi a una “posizione giusta e imparziale” e ai principi di cooperazione regionale. Il portavoce del Ministero degli Affari Esteri, Guo Jiakun, ha dichiarato pubblicamente che la Cina è “profondamente preoccupata” per gli scontri e che “confida che le parti risolvano le loro divergenze attraverso il dialogo”. Al di là della retorica, la posizione cinese risponde a interessi geopolitici strutturali. Da un decennio, Pechino ha costruito la sua influenza nel Sud-Est asiatico non solo con ferrovie e prestiti, ma anche con narrazioni. In un mondo sempre più frammentato, la Cina si propone come garante della stabilità di fronte al caos occidentale. La sua apparente neutralità in questa guerra è, in realtà, un sofisticato atto di posizionamento come mediatore di pace e attore indispensabile. Se Cambogia e Thailandia si siederanno al tavolo delle trattative, non sarà grazie all’ONU, ma al peso di Pechino nel tessuto economico e diplomatico della regione. Ma al di là dei vertici e delle cancellerie, qui è in gioco qualcosa di più complesso. Può un tempio essere motivo di morte? Può un muro di pietra scolpito con figure di Shiva trasformarsi in una sentenza di sfollamento di massa? Che tipo di civiltà costruiamo quando l’antica spiritualità diventa il detonatore di una guerra moderna? La Cambogia ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU un intervento urgente e una risoluzione vincolante e alla Corte internazionale di Giustizia una nuova delimitazione precisa dei terreni adiacenti ai templi, in linea con la sentenza del 2011 che ordinava il ritiro delle truppe dalla zona di Preah Vihear. La Thailandia, dal canto suo, ha accusato la Cambogia di “violazione territoriale e aggressione civile”, rafforzando lo schieramento militare nelle province confinanti di Sisaket e Surin. In questa disputa non ci sono invasori esterni né occupazioni coloniali, ma ferite coloniali non ancora rimarginate. Il confine tra Cambogia e Thailandia è stato tracciato con l’inchiostro degli imperi francese, siamese, britannico e anche se le mappe sono cambiate, la ferita rimane. Preah Vihear è anche la storia di come un passato irrisolto avveleni il presente. Quello che vediamo oggi non è un incidente isolato, ma un sintomo, un avvertimento e uno specchio. Uno specchio che riflette i meccanismi con cui le nazioni manipolano i simboli religiosi per galvanizzare le volontà, giustificare le offensive e reprimere il dissenso. Uno specchio in cui la diplomazia si svuota di contenuto se non è accompagnata da una giustizia reale e dalla volontà di ricordare. Uno specchio in cui, se nessuno interviene con forza e chiarezza, i templi torneranno a essere rovine, non per il passare del tempo, ma per il peso implacabile delle bombe. Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante Revisione di Anna Polo Claudia Aranda
Conflitto RDC-Rwanda: prove di pacificazione
È notizia di giovedì 19 giugno che siano in corso delle trattative per un possibile accordo di pace fra la Repubblica Democratica del Congo e il Rwanda, accordo che potrebbe mettere fine a decenni di guerra e sfollamenti interni della popolazione congolese. L’accordo verrà formalizzato a Washington il 27 giugno. L’accordo, mediato da Stati Uniti […]