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Non ci affidiamo alle amnesie di Nordio! Manifesto contro il rinnovo del 41-bis ad Alfredo Cospito
Riceviamo e diffondiamo: Non ci affidiamo alle amnesie di Nordio! Torniamo in piazza contro il rinnovo del 41 bis ad Alfredo Cospito! Da maggio 2022 il compagno anarchico Alfredo Cospito è stato trasferito nel regime detentivo di 41 bis. Il carcere duro che prevede una socialità estremamente ristretta, la censura permanente sulla posta e svariati divieti per l’accesso ai libri. Colloqui previsti rigorosamente per familiari autorizzati, separati da un vetro divisorio. Un’area di passeggio volta a limitarti lo sguardo con mura alte fino al cielo e una rete come soffitto. Una pressione costante dello Stato sul detenuto, i suoi familiari, i suoi avvocati. Un messaggio unico per tutti coloro che sono costretti a orbitare intorno a questo universo: quello che succede al 41 bis non può essere comunicato. L’obbiettivo è distruggere il prigioniero, torturarlo fino al punto di spingerlo alla collaborazione. Un dogma intoccabile che non viene messo in discussione nemmeno di fronte alla morte. Un regime – visto dallo stesso diritto borghese che l’ha creato come un’eccezione a sé stesso – il cui rinnovo deve per forza essere avallato dal Ministro della cosiddetta “Grazia e Giustizia”, con decreto motivato in cui si giustifica la sua proroga. Questo iter amministrativo, suonerebbe come una buona notizia considerando che il preposto a tale dicastero è Carlo Nordio. Un uomo affetto da una sbadataggine cronica, preda di amnesie folgoranti che lo portano a rimpatriare in terra d’origine, con voli di Stato, noti torturatori come il generale libico Almasri, dimentico, improvvisamente, dei mandati d’arresto pendenti su di lui da parte di corti internazionali. Purtroppo la patologia di cui è affetto il ministro risulta oggettivamente selettiva e colpisce solo quando qualche potente ha qualcosa da perdere. Quindi, per le sorti detentive del compagno Alfredo Cospito, c’è poco da sperare nella malattia di Nordio. D’altronde Alfredo non è ricercato per reati di pluriomicidio su persone in condizione di minorata difesa (detenuti nelle carceri che il generale amministrava, reclusi principalmente per aver tentato clandestinamente la fuga dagli orrori e dalla miseria dei luoghi d’origine), non è accusato di sevizie e stupri, praticati con maggior sadismo su prigionieri accusati d’ateismo od omosessualità, finalizzati all’estorsione, non è capo di bande di miliziani al soldo di potere e denaro. Soprattutto, non è accusato di aver fatto questo e altro al servizio dell’imperialismo italiano, internando e torturando i rifugiati in nostra vece e combattendo la propria parte di guerra civile per le fazioni sponsorizzate dal nostro Paese e dall’Eni. Alfredo è, invece, un anarchico che crede, come credono gli anarchici, che un po’ di giustizia, differente da quella comunemente chiamata legge, si possa realmente portare in questo mondo dannato, affetto da logiche di predominio. Per questo ha rivendicato di aver gambizzato, in una splendida mattina di maggio del 2012, uno tra i massimi dirigenti del nucleare in Italia. Alfredo è un anarchico e come gli anarchici, come la compagna Anna Beniamino, non si fanno piegare da uno Stato che prima li accusa e poi li condanna con capi d’imputazione totalmente sproporzionati, come quello di “strage politica”, rimanendo a testa alta e, seppur sottoposti a un processo farlocco, ribadendo attraverso dichiarazioni spontanee la vera natura stragista dello Stato italiano. Alfredo, quindi, non è un leader e non ricopre ruoli apicali. Gli anarchici capi e gerarchie non ne hanno. È solo un uomo coerente in un mondo nel quale la coerenza fa paura. Per questo Alfredo non godrà delle amnesie selettive dei potenti. Per tirarlo fuori dal 41 bis serve la nostra determinazione.
Puntata del 13/9/2025
L’accanimento del governo Meloni sui più vulnerabili è ormai cosa nota e non certo nascosta. L’idea di risolvere le problematiche delle carceri italiane e la drammaticità dei suicidi in cella...
Contro il ponte, contro la repressione! Solidarietà agli arrestati No Ponte (con gli indirizzi per scrivere ai compagni e indicazioni per il sostegno economico)
Riceviamo e diffondiamo: CONTRO IL PONTE, CONTRO LA REPRESSIONE SOLIDARIETÀ AD ANDRE, BAK E GUI Negli scorsi giorni tre compagni, Andre e Bak di Bari e Gui di Varese, sono stati arrestati per eventi relativi al corteo del carnevale No ponte del 1 Marzo di quest’anno a Messina. Una manifestazione che ha dato una scossa alla lotta contro il progetto del ponte sullo Stretto, ribadendo l’inevitabilità del conflitto con lo Stato e i suoi apparati di sicurezza. Varie le accuse tra cui resistenza e lesioni gravissime. In concomitanza degli arresti sono state effettuate diverse perquisizioni, anche a casa di altre compagne e compagni, con il sequestro di materiale informatico e di propaganda. Bak è stato arrestato a Napoli ed è rinchiuso nel carcere di Poggioreale, Andre è stato trasferito oggi dal carcere di Bari a quello di Potenza come probabile ritorsione, mentre Gui è al momento rinchiuso nel carcere di Varese. Riteniamo sia di grande importanza mostrare vicinanza e affetto ai compagni privati della libertà e invitiamo tutte e tutti a scrivere lettere e telegrammi. Guido Chiarappa C/o Casa Circondariale di Varese, Via Felicità Morandi, 5, 21100 Varese (VA). Gabriele Maria Venturi C/o C.c. di Napoli Poggioreale “Giuseppe Salvia” Via nuova Poggioreale 167, 80143 – Napoli Andrea Berardi C/o C. c. di Potenza “Andrea Santoro” Via Appia 175, 85100 Potenza (PZ) Per il sostegno economico è possibile mandare dei  contributi alla cassa anticarceraria caricando la postepay numero 4023601012012746 intestata a Daniele Giaccone (causale: solidarietà  NOPONTE). Per contattarci scrivere a: vumsec@canaglie.net SOLIDARIETÀ AD ANDRE, BAK E GUI VOGLIO UN MONDO SENZA CARCERE CONTRO IL PONTE CONTRO QUESTO MONDO Cassa Anticarceraria VUMSeC
Tre arresti e una perquisizione per il Carnevale No Ponte
Riceviamo e diffondiamo, esprimendo solidarietà ai compagni arrestati e alla compagna perquisita: Nella sera tra il 9 e il 10 settembre, in un piccolo paese della provincia di Bari, alcunx compagnx, hanno ricevuto la notizia dell’arresto di altrx tre compagnx G., A. e G. Questx, infatti, erano statx arrestatx rispettivamente a Napoli a Bari e a Varese, tuttx con molteplici accuse relative al corteo “Carnevale No Ponte” avvenuto a Messina nel marzo 2025. Una volta ricevuta la notizia, lx compagnx hanno deciso di incontrarsi in una casa privata. Intorno alla mezzanotte, poco dopo aver raggiunto l’abitazione, lx compagnx hanno sentito bussare violentemente e ripetutamente alla porta. Sei agenti della DIGOS hanno intimato di uscire velocemente dall’abitazione. Una volta fuori hanno specificato di avere un mandato di perquisizione per la compagna S. S. assieme ad un altro compagno sono statx caricatx nelle macchine della DIGOS e condottx all’abitazione dove risiede S. Una volta entratx nell’abitazione, gli agenti della DIGOS sono raddoppiati. Inoltre è apparso evidente fin da subito che la metà degli agenti non proveniva da Bari. Come si legge dalle carte, sei di loro provenivano da Messina e l’obiettivo della perquisizione, oltre alla chiara intimidazione, era quello di recuperare materiale inerente alle indagini contro lx compagnx arrestatx. L’atteggiamento della DIGOS è stato quello di sempre, arrogante, violento e prevaricatore. L’abitazione è stata completamente rivoltata per sequestrare, oltre a due maschere di carnevale, dei poster e degli opuscoli di stampa anarchica. Intorno alle 01.30, dopo la perquisizione S., assieme ad un altro compagno, è stata portata nella questura di Bari per degli accertamenti, effettuare le foto segnaletiche e depositare le impronte digitali. S. ed il compagno che l’aveva accompagnata sono statx lasciatx liberx di andare solo dopo le 5 del mattino. Al momento G. si trova nel carcere di Poggio Reale a Napoli, A. nel carcere di Bari e G. nel carcere di Varese. Queste intimidazioni da parte dello stato non ci fermeranno. Non faremo mancare la nostra solidarietà allx nostrx compagnx detenutx. FUOCO AD OGNI GABBIA! SIAMO TUTTX NO PONTE! Per scrivere: Gabriele Maria Venturi C/o C.c. di Napoli Poggioreale “Giuseppe Salvia” Via nuova Poggioreale 167, 80143 – Napoli Andrea Berardi C/o Casa circondariale di Bari “Francesco Rucci” Via Alcide De Gasperi 307, 70125 – Bari Chiarappa Guido Casa Circondariale di Varese Via Felicità Morandi, 5 21100 Varese (VA)
Il racconto di Suaad prigioniera palestinese
In studio con l’autrice, Suaad Genem, presentiamo il libro “Il racconto di Suaad, prigioniera palestinese”, pubblicato da Edizioni Q nel 2024. Suaad Genem è nata nel 1958 ad Haifa e, dopo aver studiato Giurisprudenza, ha conseguito il Dottorato in Diritto Internazionale all’Università di Exeter, nel Regno Unito. Suaad è stata incarcerata tre volte nelle prigioni israeliane, rispettivamente nel 1979, nel 1983 e nel 1991. Il libro racconta le memorie del carcere, la solidarietà e le lotte delle prigioniere per difendere il loro diritti, lo sfruttamento, le tecniche usate per indurre le prigioniere a confessare fatti, opinioni e idee, i traumi che la prigionia lascia, i ricordi che riaffiorano nei momenti difficili…
“Dal mare al carcere”: report semestrale 2025 di Arci Porco Rosso
Secondo quanto emerso dal report annuale della Polizia di Stato 1, ad aprile 2024 venivano emanati “240 provvedimenti restrittivi a carico di trafficanti e favoreggiatori nell’ambito del contrasto all’immigrazione clandestina e alla tratta di esseri umani, nonché a carico di scafisti” , 72 arresti immediati al momento dello sbarco nei confronti dei cosiddetti scafist3 e “160 arresti per articolo 12 del Testo Unico sul confine sloveno”. Inoltre, una questione che occorre sollevare, riguarda l’utilizzo improprio di queste categorie: termini quali tratta o “smuggling”, impiegati indistintamente dal caso e aventi definizioni molto diverse tra loro, generano confusione invece di praticare chiarezza. Tornando all’analisi dei dati, i 72 presunti scafisti sopramenzionati non corrispondono al numero calcolato dal monitoraggio della cronaca e dei processi del 2024 di Arci Porco Rosso, che ne individua 106 2. Facendo un excursus storico sui numeri diffusi dal progetto “Dal Mare al carcere“: nel 2021 si sono registrati 171 fermi, mentre la polizia ha dichiarato di aver arrestato “225 persone, tra scafisti, organizzatori e basisti”. Dal mare al carcere è un progetto militante promosso da Arci Porco Rosso insieme a Borderline-Europe, attivo dal 2021, che monitora la criminalizzazione delle persone considerate “scafiste”. L’aggiornamento di luglio aggiorna dati, casi giudiziari, deportazioni e dinamiche repressive evidenziate nei 6 mesi precedenti. Gli anni successivi, nel 2022 e nel 2023 sono stati contati rispettivamente 264 e 177 arresti, cifre sostanzialmente in linea con quanto riportato dalla polizia 5. I dati della polizia ad ogni modo confermano che il numero assoluto di fermi di presunti “scafisti” dopo gli sbarchi risulta inferiore rispetto agli anni precedenti. Invece, in termini relativi, cioè in rapporto al numero complessivo degli arrivi, la percentuale rimane sostanzialmente stabile. Dai numeri emerge inoltre che l’articolo 12 del TUI viene oggi applicato in contesti diversi rispetto al passato: emblematico è il caso delle 160 persone arrestate al confine sloveno, una situazione che richiede senza dubbio un’analisi approfondita. E, su questo aspetto, l’associazione Migreurop ha avviato una ricerca i cui esiti sono attesi nei prossimi mesi. Un dato appare ancor meno plausibile: al di fuori degli sbarchi (72 persone) e del confine sloveno (160 persone), sono state contestate accuse di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare sole 8 persone – cifra ottenuta sottraendo 72 e 160 al totale ufficiale di 240 arresti. Considerando le numerose operazioni di polizia condotte lo scorso anno in zone lontane dai confini terrestri e marittimi – come i 9 arresti a Siena, i 10 a Milano e i 28 a Terni – i numeri diffusi dalle autorità risultano non soltanto poco attendibili, ma sembrano piuttosto celare la reale portata del processo di criminalizzazione in corso. DAL CARCERE IN ITALIA AL CARCERE IN EGITTO Arci Porco Rosso negli ultimi mesi ha osservato come numerosi cittadini egiziani siano stati coattivamente trasferiti dal carcere direttamente nel CPR al momento della scarcerazione, e nel caso di tre uomini, prelevati dai CPR di Milo e Pian del Lago e direttamente rimpatriati. Ciò che emerge inoltre di preoccupante evidenziato dal report è: «le persone detenute in Italia come scafiste vengono nuovamente arrestate all’arrivo in Egitto, in misura cautelare, con l’accusa di traffico di persone». Grazie al sostegno legale fornito da Refugees Platform in Egypt, i tre uomini sono stati poi rilasciati. Tuttavia, avvocati italiani riferiscono di altri assistiti che, dopo il rimpatrio, hanno subito la stessa sorte. Secondo un’inchiesta di Mada Masr 3, questa pratica si inserisce nella cosiddetta “rotazione” 4: un meccanismo che consente di arrestare più volte le stesse persone, passando da metodo di repressione indirizzati ad attivisti politici in uno strumento per colpire presunti trafficanti, gonfiare le statistiche e garantire incentivi economici agli agenti. Il fenomeno è così diffuso da aver spinto persino il procuratore generale egiziano ad aprire un’indagine 5. Ci si interroga se tali ri-arresti possano rappresentare una strategia coordinata a livello transnazionale, anche alla luce dell’accordo UE-Egitto da 7,4 miliardi di euro siglato nel 2024 6. L’associazione segue inoltre i casi di due cittadini egiziani detenuti nei CPR di Milo e Bari, entrambi condannati in Italia per art. 12 TUI e quindi a rischio di un nuovo arresto in Egitto. Tra loro c’è Mahammad Al Jezar Ezet 7, arrivato con la nave Diciotti nel 2018, rimasto bloccato a bordo per tre settimane per decisione dell’allora ministro Salvini. Dopo una condanna a sette anni per art. 12 TUI, oggi Mahammad è di nuovo detenuto amministrativamente come richiedente asilo considerato “socialmente pericoloso”, e rischia di subire una terza incarcerazione una volta rimpatriato. LA STRAGE DI FERRAGOSTO 2015 Sono quasi dieci anni che otto giovani scontano condanne pesantissime – tra i 20 e i 30 anni – per la strage di Ferragosto 2015, e la loro battaglia per giustizia e libertà continua, nonostante nuovi e gravi ostacoli. Nell’ottobre 2024, la Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Messina che aveva dichiarato inammissibile la richiesta di revisione del processo per Tarek Jomaa Laamami 8. Lo scorso maggio, la stessa Corte si è pronunciata allo stesso modo sul caso di Mohammed Assayd 9, condannato a 20 anni in abbreviato. Le irregolarità del processo e le nuove testimonianze raccolte dalle avvocate non sono state ritenute sufficienti. Inoltre, il 12 giugno 2025, la Cassazione ha respinto anche la richiesta di revisione di Alaa Faraj, nonostante una campagna mediatica a sostegno della sua liberazione e la prossima pubblicazione di un libro con Sellerio editori 10. Nonostante la gravità delle irregolarità e il fatto che otto persone stiano scontando pene ingiuste, il sistema giudiziario italiano sembra continuare a ignorare le richieste di revisione. Malgrado queste ingiustizie – tra i condannati ci sono tre ex calciatori professionisti in Libia che avevano tentato di realizzare il loro sogno in Europa – i ragazzi continuano a lottare per la libertà e per far emergere la verità sul loro caso. A luglio 2025, alcuni familiari dalla Libia hanno finalmente ottenuto un visto per visitarli in carcere e, dopo dieci anni si sono potuti riabbracciare. Questo momento di affetto non cancella però la rabbia per le ingiustizie subite. Ribadiamo il nostro impegno per libertà e giustizia per tutt3. ARTICOLO 12-BIS: ARRIVANO LE PRIME CONDANNE Sono in corso le prime condanne per il reato di cui all’art. 12-bis del TUI, introdotto dal decreto-legge n. 20/2023 (c.d. decreto Cutro), che prevede pene particolarmente severe per chi causa, anche indirettamente, la morte o lesioni gravi durante attività di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Tale reato comporta una pena massima di 30 anni di carcere e una minima di 15. E così,a dicembre 2024, un cittadino sudanese sbarcato a Lampedusa alla fine del 2023 è stato condannato a 12 anni di carcere dal Tribunale di Agrigento; l’accusa di art. 12-bis è stata contestata solo all’ultima udienza. La condanna è stata confermata in appello a giugno, con una lieve riduzione a 11 anni e 8 mesi. Gli altri tre migranti arrestati con lui, e seguiti dall’associazione Maldusa, – di origine nigeriana, gambiana e ghanese – hanno scelto il rito ordinario, con la prossima udienza fissata per il 18 settembre. Nel mentre proseguono anche altri processi: il minore egiziano Ahmed, sbarcato con la nave Nadir, è imputato insieme a un maggiorenne già condannato a 17 anni e 6 mesi. Sempre ad Agrigento, la procura ha chiesto 16 anni per un altro cittadino egiziano, con sentenza attesa a settembre. Queste prime condanne segnano un arretramento nella tutela dei diritti delle persone migranti. Nei processi precedenti, invece, le accuse di art. 12-bis non avevano retto: a Reggio Calabria due ragazzi del Sierra Leone hanno visto l’accusa ridotta ad art. 12 “semplice”, confermata in appello, e una misura cautelare è stata trasformata in obbligo di firma, permettendo la libertà. Alla Corte di Assise di Locri, 5 dei 7 imputati accusati di art. 12-bis sono stati assolti, mentre le due condanne per art. 12 “semplice” sono state impugnate in appello. CUTRO: I PROCESSI PARALLELI Nel corso di questi due anni, Arci Porco Rosso ha regolarmente fornito aggiornamenti sulla criminalizzazione delle 5 persone migranti accusate di essere i capitani 11 e dunque responsabili della strage di Cutro nel febbraio 2023: «I ricorsi in appello contro le condanne di Sami Fuat, Hasab Hussain e Khalid Arslan devono ancora essere presentati; nel frattempo, la Corte d’Appello ha confermato a marzo la condanna a 20 anni per Abdessalem Mohammed, mentre a giugno la Cassazione ha reso definitiva la condanna per Gun Ufuk». Parallelamente, il 3 marzo 2025, è stato portato avanti anche un ulteriore processo riguardante l’accertamento delle responsabilità istituzionali della strage. 4 finanzieri e 2 militari della Guardia costiera sono accusati di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo per gravi negligenze commesse durante le operazioni di salvataggio.  Le prime fasi dell’udienza preliminare si sono concentrate in larga parte sulla questione delle ammissioni come parte civile, un passaggio considerato decisivo nell’ambito del procedimento legato ai soccorsi in mare. Tra coloro che hanno avanzato richiesta di costituirsi parte civile – e quindi di partecipare al processo – figurano i parenti delle vittime, i sopravvissuti al naufragio e, sul piano collettivo, quasi tutte le organizzazioni non governative impegnate nelle operazioni di soccorso, insieme a numerose realtà associative che da anni lavorano in Italia e sul territorio locale per la difesa dei diritti fondamentali, in particolare delle persone migranti (tra queste ARCI, ASGI, Progetto Diritti onlus e Mem.Med). Notizie/In mare NAUFRAGIO DI CUTRO: QUATTRO FINANZIERI E DUE MILITARI DELLA GUARDIA COSTIERA RINVIATI A GIUDIZIO Le Ong parte civile al processo: «Si avvicina la possibilità di ottenere verità e giustizia» Redazione 24 Luglio 2025 Insolita la scelta della Regione Calabria che, il 12 maggio, ha presentato istanza per costituirsi parte civile, salvo poi ritirarla nell’udienza successiva dopo l’intervento del ministro Salvini, giustificando la retromarcia con un presunto errore nelle deleghe. Con riferimento all’udienza del 28 maggio, il giudice dell’udienza preliminare di Crotone ha deciso di non ammettere numerosi soggetti, escludendo in blocco le associazioni, fatta eccezione per le ONG che operano nel salvataggio di vite in mare. Le uniche persone fisiche escluse invece sono Hasab Hussain e Khalid Arslan, condannati in primo grado per art. 12 e che al pari delle altre persone si trovavano sull’imbarcazione. La motivazione dichiarata per la loro esclusione, su richiesta del pubblico ministero, riguarda l’essere stati condannati per lo stesso fatto ascritto agli imputati. Va ricordato, come sottolinea il loro avvocato 12, che i due sono stati assolti dal reato di naufragio colposo e che, al di sopra di tutto, in quanto passeggeri dell’imbarcazione aventi diritto ad essere salvati come ricorda il nostro ordinamento e quello internazionale. “Il salvataggio è un obbligo, non un argomento di dibattito”. FUGGITꞫ DALL’IRAN, PERSEGUITATꞫ DALL’ITALIA Il 16 giugno si è tenuta l’ultima udienza del processo a carico di Marjan Jamali e Amir Babai, cittadinə iranianə arrivatə in Italia nell’ottobre 2023 per sfuggire alla repressione del regime. Marjan – già da un anno agli arresti domiciliari – è stata assolta dal Tribunale, una notizia accolta con sollievo da lei, dal suo bambino e dalla comunità che in questi mesi le è stata vicina con grande solidarietà. Amir Babai, invece, è stato condannato a 6 anni e 1 mese di carcere. Entrambe hanno sempre proclamato la propria innocenza. Pochi giorni dopo la condanna si è diffusa la notizia che Amir abbia tentato il suicidio 13: per fortuna il gesto non è stato fatale, ma mostra chiaramente la disperazione causata da una sentenza tanto dura quanto ingiusta. L’assoluzione di Marjan è stata resa possibile anche grazie alla forte mobilitazione di associazioni e attivistə, attive sia a livello locale che nazionale. Ora l’impegno continua per ottenere la liberazione di Amir. Notizie/In mare NO, NON ERA UNA SCAFISTA: ASSOLTA MARJAN JAMALI Ma Amir Babai resta in carcere tra disperazione e ingiustizia Redazione 20 Giugno 2025 La sua condanna appare ancora più insopportabile se si considera che arriva proprio mentre l’Italia presenta il governo iraniano come nemico del popolo per giustificare le proprie scelte belliche, ma allo stesso tempo imprigiona Amir per aver tentato di sottrarsi a quella dittatura. Tra le realtà che hanno sostenuto questa battaglia va ricordata la rete Oltre i Confini: Scafiste Tutte, nata in Calabria durante la campagna Free Maysoon Majidi e oggi di nuovo attiva per promuovere azioni e dibattito politico sul territorio contro la criminalizzazione sistematica delle persone migranti. Approfondimenti/In mare LA PROCURA CONTESTA L’ASSOLUZIONE DI MAYSOON MAJIDI Appello per asserite lacune e contraddizioni Chiara Lo Bianco 22 Agosto 2025 Per concludere, si ribadisce la necessità della presa di responsabilità del governo italiano e delle sue politiche, che spostano il focus criminalizzando chi tenta di sopravvivere al mare, provocando ulteriore morte. Dal mare al carcere è un progetto militante di Arci Porco Rosso e borderline-europe finalizzato a monitorare la criminalizzazione dei cosiddetti scafist3 in Italia e a fornire supporto socio-legale alle persone coinvolte criminalizzate, dal 2021. 1. Consulta i dati ↩︎ 2. Consulta il rapporto: Dal mare al carcere: aggiornamento semestrale 2025 ↩︎ 3. ‘Recycling’ the migration books: How Egypt manipulates smuggler arrests for EU money, Mada Masr (aprile 2025) ↩︎ 4. Egypt: Special Rapporteur concerned about use of anti-terrorism legislation against human rights defenders, United Nations (gennaio 2025) ↩︎ 5. After Hundreds of Complaints of Fabricated and Rotated Cases, Prosecutor General Orders Nationwide Examination of Unlawful Migration Cases, RPE (aprile 2025) ↩︎ 6. Cosa prevede l’accordo da 7,4 miliardi con l’Egitto, il più sostanzioso mai siglato dall’Ue, EuNews (marzo 2024) ↩︎ 7. “Non sono uno scafista”, la storia del migrante della Diciotti bloccato dopo il carcere che aspetta di vivere a Palermo, Palermo Today (giugno 2025) ↩︎ 8. Per approfondire clicca qui ↩︎ 9. Nessun nuovo processo per uno dei giocatori libici accusati di essere scafisti, RaiNews (maggio 2025) ↩︎ 10. Alaa, fuggito dalla Libia e condannato in Italia come scafista: “Era meglio morire”, LaViaLibera (giugno 2025) ↩︎ 11. Qui per approfondire ↩︎ 12. Cutro, 2 scafisti chiedono di essere parte civile contro militari, Ansa (5 marzo 2025) ↩︎ 13. Amir Babai condannato per scafismo: i comitati denunciano la sentenza e il tentato suicidio, ReggioToday (19 giugno 2025) ↩︎
Poggioreale, privacy violata e diritto d’asilo negato
Il 19 agosto 2025 il deputato Francesco Emilio Borrelli pubblicava su Facebook e Instagram le foto dell’arresto di Elokla Mohmed Kazem. L’immagine ritraeva il ragazzo, richiedente asilo, apparentemente ammanettato, inconsapevole dello scatto e con il volto non oscurato. Il post, commentato con la frase “preso uno dei due evasi da Poggioreale”, ha avuto migliaia di interazioni, alimentando una gogna mediatica di tenore xenofobo e fortemente violento. Successivamente, il deputato pubblicava altri due post con altre immagini del sig. Elokla e del sig. Mahrez Souki, non opportunamente oscurate, ritratti nell’immediatezza dell’arresto. È a partire da questo episodio che diverse associazioni hanno inviato un esposto, redatto dall’avvocata Martina Stefanile di ASGI 1, al Garante nazionale e regionale delle persone private della libertà, al Garante della privacy e all’UNHCR per denunciare due questioni: la diffusione illecita delle immagini dei detenuti Elokla Mohmed Kazem e Mahrez Souki, e la violazione dei diritti fondamentali all’interno della Casa Circondariale “Giuseppe Salvia” di Napoli – Poggioreale, in particolare la sospensione di fatto del diritto d’asilo per i cittadini stranieri detenuti. A firmarlo sono la Clinica Legale per l’Immigrazione dell’Università Roma 3, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione – ASGI, Antigone Campania, Melting Pot Europa, Spazi Circolari, Le Carbet, Attiva Diritti, Chi Rom e…chi no, La Kumpania, Mem.Med – Memoria Mediterranea per LasciateCIEntrare e Gridas. La pubblicazione delle foto, riporta il documento, viola diverse norme nazionali e internazionali, dal diritto alla privacy sancito dalla CEDU al divieto previsto dall’articolo 114 del codice di procedura penale di diffondere immagini di persone private della libertà in stato di coercizione. Ma è tutta la vicenda che, tra esposizione mediatica sensazionalistica e ostacoli burocratici, porta alla luce la condizione fragile e spesso invisibile dei detenuti stranieri in Italia, il cui diritto a chiedere protezione internazionale rischia di restare impossibile da dietro le sbarre. A rendere ancora più evidente la vulnerabilità di Elokla sono le parole del giornalista e volontario della Comunità di Sant’Egidio Antonio Mattone, che lo aveva incontrato di persona: «A chi lo ha conosciuto il ragazzo siriano di 23 anni fuggito da Poggioreale etichettato dalla cronaca come un rapinatore, è sembrato essenzialmente un ragazzo di estrema fragilità». Il giovane, ricostruisce Mattone, «viveva in un paese ai confini con la Turchia ed è scappato a piedi fino a giungere in Italia. Quando gli è stato chiesto della sua famiglia gli sono scesi due lacrimoni: erano tutti morti, uccisi in quell’infinita guerra civile che insanguina la Siria dal 2011. Arrivato nel nostro Paese, senza riferimenti e legami, ha vissuto per strada dove ha iniziato a drogarsi e a compiere gesti di autolesionismo, quasi a volersi lasciare andare. Poi una rapina per avere qualche soldo ed è così finito in carcere». Un quadro che per le associazioni firmatarie avrebbe dovuto imporre maggiore cautela nella tutela della dignità del ragazzo, piuttosto che un’esposizione pubblica capace di aggravare ulteriormente la sua condizione. L’altra denuncia contenuta nell’esposto riguarda il diritto d’asilo, che all’interno di Poggioreale risulta di fatto sospeso. «Su queste premesse, si apre uno scenario gravissimo che vede sistematicamente lesi i diritti dei rifugiati e richiedenti asilo all’interno del penitenziario napoletano», scrivono le associazioni. Secondo le segnalazioni raccolte, i detenuti stranieri possono esprimere la volontà di chiedere protezione internazionale soltanto tramite i loro avvocati, che trasmettono le istanze via PEC all’Ufficio Matricola e alla Questura di Napoli. Se un detenuto tenta di presentare la richiesta autonomamente, ciò è consentito solo a ridosso del fine pena. Ma anche in questi casi le domande rimangono “congelate” per tutta la durata della detenzione. È accaduto anche a Elokla, che nell’aprile 2025 aveva presentato tramite la propria legale una formale richiesta di protezione internazionale. A distanza di mesi, non ha ancora ricevuto un appuntamento né sostenuto l’audizione davanti alla Commissione territoriale, in palese violazione dell’articolo 26 del decreto legislativo 25/2008, che prevede tempi stringenti per la formalizzazione delle domande. Gli esempi citati nell’esposto sono numerosi: cittadini sudanesi e ciadiani che hanno protocollato le loro istanze tra il 2024 e il 2025, senza alcun seguito. Tutti profughi di guerre civili e situazioni drammatiche che avrebbero dovuto garantire loro almeno un rapido accesso alla procedura. Per le associazioni firmatarie, siamo davanti a «violazioni intollerabili dell’impianto normativo posto a tutela dei migranti, rifugiati e richiedenti asilo». L’appello è rivolto ai Garanti, alla Questura e alle Commissioni territoriali: serve «un urgente superamento effettivo delle violazioni di diritto rappresentate, anche previo esercizio dei poteri ispettivi propri dell’Ufficio del Garante». L’invito è a stabilire un coordinamento stabile tra amministrazione penitenziaria e autorità competenti per «assicurare ai detenuti stranieri l’esercizio di tali diritti e facoltà, che possono essere limitati solo con un provvedimento espresso». Infine, le associazioni chiedono all’UNHCR un parere tecnico e un monitoraggio costante della vicenda, mentre al Garante della privacy sollecitano «l’immediata cessazione, mediante rimozione delle immagini diffuse sulle pagine social del deputato, delle condotte lesive dei diritti fondamentali dei ritratti». 1. Leggi l’esposto inviato ↩︎
Puntata del 6/9/2025
Ripartiamo con la nuova stagione analizzando i dati aggiornati del ministero della Giustizia sulla situazione delle carceri del nostro paese. Verità e giustizia per Danilo Riahi, ragazzo morto di carcere nell’IPM...
Niger. Tensioni al “Centro Umanitario” di Agadez: arrestati sei attivisti
Molti rifugiati vogliono lasciare il campo dopo l’irruzione della polizia nigerina Dopo mesi di intimidazioni e minacce per fermare la protesta dei rifugiati al Centro Umanitario di Agadez 1, giovedì 21 agosto la polizia nigerina ha fatto irruzione nel campo e arrestato sei persone 2. Si tratta di tre uomini e tre donne: Mohamed Abdullah, Abdullah Hashim, Imad Younis, Zubaida Abdeljabbar, Zahra Daoud Juma, Hoda Musa Mohamed. Tutti erano particolarmente attivi nel movimento autorganizzato che, da settembre scorso, chiede soluzioni alternative al Centro, dove i rifugiati vivono isolati nel deserto, con servizi essenziali carenti, denunciando da mesi la loro condizione. I testimoni affermano che le sei persone arrestate hanno subito abusi da parte della polizia: «Sono stati picchiati e torturati. Una delle donne ha perso conoscenza a causa della violenza delle percosse». Le donne arrestate sono state separate forzatamente dai loro figli. Video Refugees in Niger «Hanno lasciato qui i loro figli e le autorità non hanno permesso loro di portarli con sé. Quando si sono rifiutate di salire in macchina senza i figli, le hanno picchiate brutalmente». Le autorità non hanno reso noto dove hanno trasferito i sei attivisti, ma potrebbero essere state deportate fuori dai confini del Niger 3 . Non è la prima volta che le autorità nigerine usano la forza per reprimere la protesta e i suoi rappresentanti. Le stesse persone erano già state arrestate a maggio, senza accuse formali, per poi essere rilasciate dopo qualche giorno. Il mese scorso, inoltre, una circolare del Ministero dell’Interno del Niger aveva sospeso l’esame delle loro richieste di asilo per “disturbo dell’ordine pubblico e rifiuto di rispettare le leggi e i regolamenti in vigore nel paese ospitante”. È un fatto estremamente grave: l’arresto, la persecuzione di persone e la revoca della possibilità di ricevere protezione solo per aver esercitato il diritto di esprimersi e protestare, senza aver commesso alcun reato. Sulla vicenda si è espressa anche la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Difensori dei Diritti Umani, Mary Lawlor, che ha commentato: «Sto ricevendo notizie molto preoccupanti riguardo all’arresto e alla detenzione in isolamento di sei attivisti, tutti rifugiati, in rappresaglia per il loro impegno a favore dei diritti dei rifugiati nei pressi di Agadez, in Niger, la scorsa settimana. Chiedo la loro immediata liberazione». Altrettanto grave è il silenzio dell’UNHCR sulla vicenda. L’agenzia, che gestisce il Centro tramite finanziamenti europei – incluso un consistente contributo del Ministero dell’Interno italiano – ha il mandato di proteggere i rifugiati, garantendo anche che i governi ospitanti rispettino il loro status giuridico e i loro diritti. Non è chiaro se e come l’ufficio UNHCR in Niger stia affrontando la situazione, ma finora non una parola è stata spesa pubblicamente né sulle tensioni al Centro né sulla sorte dei sei rifugiati dispersi. Con questo raid nel campo, le autorità nigerine intendono chiaramente scoraggiare il protrarsi della protesta. Finora, però, non ci sono riuscite: la mobilitazione continua con ostinazione e, tra meno di un mese, compirà un anno. Tuttavia, dopo l’irruzione della polizia, la situazione al Centro Umanitario è diventata estremamente tesa. Altre persone temono di essere arrestate: hanno appreso informalmente l’esistenza di una lista di persone sorvegliate dalla polizia. Si respira un clima di paura generalizzata, che colpisce soprattutto i più vulnerabili. «Ora i bambini vivono in un costante stato di paura, al punto da non riuscire a dormire la notte per timore della polizia. Anche solo alla vista di un agente, scoppiano a piangere e corrono dalle madri». Secondo i testimoni, negli ultimi giorni, molte persone hanno lasciato il campo, probabilmente per dirigersi verso i paesi limitrofi: «Il totale disinteresse dell’UNHCR e il mancato adempimento delle proprie responsabilità nei confronti dei rifugiati […] hanno portato a un’ondata di partenze dal centro, soprattutto da parte di famiglie con bambini che vi soggiornavano da molto tempo». Mentre al Centro cresce la tensione e le famiglie vivono nell’incertezza e nella paura, la protesta continua e mette in discussione l’intera logica dei confini chiusi su cui si basa l’impalcatura umanitaria del campo. La retorica che descrive il Niger come un paese accogliente, nonostante le sue difficoltà interne, appare ipocrita e piegata alla volontà dei paesi europei, che spostano sempre più lontano dalle proprie coste il controllo delle frontiere. Non si può fingere che le persone al Centro umanitario di Agadez stiano bene, che abbiano reali opportunità di lavoro e di inserimento sociale. Alle loro legittime richieste viene risposto che il campo non è una prigione e che sono liberi di andarsene. Ma andare dove? Verso paesi vicini che li sfruttano, li respingono o li sottopongono a nuove violenze? Notizie I RIFUGIATI DI AGADEZ LANCIANO UNA PETIZIONE URGENTE DOPO OLTRE 300 GIORNI DI PROTESTA Non possiamo lasciare che tutto questo continui: firma subito e sostieni i rifugiati Laura Morreale 31 Luglio 2025 1. Leggi tutti gli articoli di Laura Morreale sulla vicenda ↩︎ 2. Vedi anche: Niger, “centro umanitario” Agadez & il nuovo stato di polizia, Davide Tommasin (22 agosto 2025) ↩︎ 3. Urgent appeal: refugee human rights defenders arbitrarily arrested in Niger, Refugees in Libya ↩︎
Dagli USA al Regno Unito, da carcere a carcere. Comunicato di Casy Goonan in sciopero della fame
Ringraziando chi l’ha fatta, pubblichiamo la traduzione dello scritto con cui Casey Goonan, prigioniero politico dell’intifada studentesca statunitense (accusato dell’incendio di un’auto della polizia in risposta agli sgomberi delle accampate) annuncia di unirsi allo sciopero della fame di T. Hoxha, prigioniera politica di Palestine Action nel Regno Unito (contro alcune restrizioni che le sono state imposte in prigione). Qui un articolo di Samidoun che spiega le due vicende e la situazione attuale: https://samidoun.net/2025/08/call-to-action-political-prisoners-for-palestine-on-hunger-strike-from-britain-to-the-u-s/ Qui un sito di supporto a Casey Goonan: https://freecaseynow.noblogs.org/   Oggi ho saputo di T. Hoxha, una prigioniera di Pal Action nel Regno Unito, al 16° giorno di sciopero della fame presso il carcere di Peterborough. Alle 16:00 (ora della costa orientale) del 26 agosto 2025, 2 delle sue 3 richieste sono state accolte, ma è ancora in sciopero per chiedere al carcere di rilasciare la posta che le è stata trattenuta. Come prigionieri incarcerati per la nostra partecipazione al movimento di liberazione palestinese in Occidente, abbiamo la responsabilità reciproca, oltre i confini, di vivere la nostra vita in prigione con la stessa fermezza del movimento dei prigionieri palestinesi tenuti prigionieri nelle prigioni “israeliane”. Gli stati da cui siamo stati catturati sono i facilitatori del genocidio accelerato dei palestinesi da parte dell’entità sionista, così come dei genocidi in corso dei neri e degli indigeni, le cui terre continuano a occupare. Mentre la sinistra occidentale continua a passare da una crisi all’altra, evitando le proprie responsabilità nei confronti della Palestina, noi siamo tutto ciò che abbiamo. Con noi mi riferisco a chi subisce la repressione per il suo sostegno alla Palestina, a chi si sta davvero sacrificando. Come T. Hoxha, che ha sofferto 16 giorni di fame solo per ricevere la posta. Il movimento di solidarietà con la Palestina in Occidente non può abbandonare persone come lei, che hanno rischiato la vita e continuano a farlo per resistere all’intollerabile condizione di genocidio. Da oggi, io e uno dei miei compagni di cella siamo in sciopero della fame nel carcere di Santa Rita finché le sue richieste non saranno soddisfatte. Solidarietà a T. Hoxha e a tutti i prigionieri del movimento di solidarietà con la Palestina! Abbattete i muri! Liberate tutti i prigionieri dell’impero dei coloni! Casey Goonan