Source - il Rovescio

cronache dallo stato di emergenza

inutile Memoir, lontano dalle polemiche
Riceviamo e diffondiamo: inutile Memoir, lontano dalle polemiche all those beautiful boys/ kings and queens/ and criminal queers/ all those beautiful boys/ tattoos of ships and tattoos of tears If you saw the younger you, what would you say to ‘em? A chi ha occhi per guardarsi intorno sarà evidente, ancora una volta, la marginalità del dibattito in auge nell’ambiente anarchico, resa più grave, stavolta, dall’urgenza della contemporaneità: l’unica cosa che conta è Gaza, temo, e la noiosa ironia così come la rivoltante acrimonia che animano le parti in causa si capiscono meglio in quanto frutto di una frustrazione alimentata innanzitutto proprio dalla marginalità. Ma dato che anch’io all’ultimo atto di un genocidio secolare oppongo evidentemente ben poco oltre alla frustrazione, dato che gli ambienti li capisco sempre meno, e dato che il dibattito in questione per più motivi (ora non interessa quali) mi riguarda, partecipo individualmente alla gara di osservarsi l’ombelico e parto dal mio, facendo aneddotica, e condividendo stadi successivi di rielaborazione di un’esperienza personale maturata in germania una ventina di anni fa. Mi si perdoni quindi la narrazione interna, la favoletta senza morale, lo stile eccentrico e l’argomento collaterale. All’epoca la queerness invadeva le strade della città che percepiva ancora se stessa, nonostante i fasti del ventennio precedente fossero già tramontati, come una delle capitali della conflittualità europea, in virtù appunto di una storia di riappropriazione degli spazi che era proprio ciò che mi aveva portato lì (Meinzer strasse, Kubat dreieck, i wagenplaetze…) con un habitus turistico che è adesso molto facile criticare, e che non costituisce però il tema centrale del racconto. La Humboldt Universitaet offriva da qualche anno un corso di laurea in gender studies, nelle Hausproject si leggevano Solanas, Preciado e Butler, il femminismo della terza ondata imponeva un’agenda trans, lesbica e separatista a tutti gli ambiti che si professassero Autonomen, portando inevitabilmente al confronto su questi temi anche i vari settori punk e insurrezionali, per non parlare di Antifa e Antideutsch. Le etichette, mi sembrava, funzionavano bene in germania, mentre si adattavano molto peggio alle persone che frequentavo in italia, dove era più diffusa la capacità, e la possibilità, di muoversi da un ambiente all’altro senza per forza professarsene adepti. Comunque le queer demo portavano in piazza a Berlino migliaia di persone che si identificavano nell’opposizione alla normatività capitalista e neoliberista, nel rifiuto dell’esistente e in un’utopia rivoluzionaria ancorché confusa e confusionaria (jedenfalls); e io ho partecipato, per poco meno di un anno, con un certo entusiasmo al movimento berlinese per quello che era, per ciò che vi trovavo, sforzandomi di prescindere da ciò che mi sarei aspettato di trovarvi. Durante una delle suddette affollate manifestazioni, l’amica ben inserita che mi faceva da Pigmalione mi spiegò: “vedi come sono tranquilli gli sbirri? sono felici che tutte le occupanti di case, le anarchiche che facevano gli scontri, le violente rivoluzionarie siano sparite dalla piazza, e che la piazza sia ormai piena di queers. Quello che non capiscono è che questi queers sono esattamente le stesse occupanti, anarchiche e rivoluzionarie di prima”; il che non era vero, ma esprimeva un’ambizione. L’affermazione peraltro strideva con la violenta repressione nelle strade ad opera della polizia, che osservavo quasi quotidianamente, in coincidenza con l’esplosione della Gentrifizierung in Friedrichshain e una serie impressionante di sgomberi di spazi definibili a vario titolo “liberi”. Purtroppo il criminal queering espresso nelle strade di Berlino nel 2006 e cantato da Anohny nell’esergo non aveva di per sé molto a che fare con l’autodifesa di un corteo, o di uno spazio occupato, o con i mezzi che attuano le rivoluzioni, cosa in parte confermata dal fatto che la mia amica avrebbe poi fatto carriera accademica, con belle pubblicazioni presso Seuil e il romantico rimpianto di non essere riuscita ad abbattere il capitalismo. Ora immagino che questo possa sdegnare molte di voi: io invece non me ne stupisco, non ci vedo un tradimento, e per questo ritengo di non avervi fatto la morale; anzi, se state ancora leggendo, se mi concederete il margine d’errore che io ho lasciato alla mia sodale berlinese, vorrei calare queste riflessioni e questa attitudine nel momento presente (se non vorrete farlo, beh siete delle persone orribili! perché discutere allora). È chiaro come il sole che nemmeno il “movimento anarchico” (?) è mai stato esente da dinamiche autoritarie, prevaricazioni, violenze di ogni tipo e quindi sì, ci sono, vorrei dire ci sono ancora, omofobia, transfobia, machismo tra le altre cose brutte; è anche chiaro che, a distanza di un decennio almeno dall’arrivo di istanze fortemente critiche e accusatorie rivolte all’interno del movimento stesso riguardo questi temi, le reazioni sono state spesso assenti o inadeguate, quando non del tutto scomposte e ostili, e che questo rende difficile o impossibile ad alcun* anche solo frequentare certi ambienti. Urge quindi una presa in carico del problema, che ad ogni modo non si risolverà facilmente e certo non nello spazio di una generazione. Dovrebbe essere però altrettanto chiaro che l’agire di molta di questa parte critica e accusatoria si è finora rivolto all’interno del movimento con una ferocia e una volontà di nuocere, nelle parole e nei fatti, che la stessa parte non riesce fuor di retorica a indirizzare all’esterno (siamo ancora in attesa di “bruciare tutto” dopo l’ennesimo stupro: e invece parrebbe che si voglia dar fuoco a un’occupazione “sessista” prima, più volentieri e piuttosto che a una questura), e che le modalità adottate in troppi frangenti hanno portato all’inazione o ancor peggio al sabotaggio di iniziative urgenti, in una logica del divide et impera in cui chi imperat, indovina un po’, è il nemico. Ed ecco che infine si pone la questione dirimente, con la quale alla buona ora chiudo queste deboli pagine: siamo, sono, siete, sei ancora in grado di riconoscere il nemico? Al di là delle astrazioni concettuali e, ovviamente, del gioco delle parti e delle egemonie; altrimenti, non resta che augurarsi anche qui una gazificazione diffusa come cura dell’intellettualismo e bagno di realtà storicizzata. We are smarter than they think we are They take us all for idiots, but that’s their problem When we behave like idiots, it becomes our problem Con affetto, amarezza e ancora auspici. V
Sulla sentenza per il corteo dell’11 febbraio 2023 a Milano. Raccolta di scritti solidali
Riceviamo e diffondiamo questo opuscolo, che raccoglie gli scritti in solidarietà a imputati e imputate per il corteo dell’11 febbraio 2023 a Milano in solidarietà ad Alfredo Cospito e contro 41-bis ed ergastolo ostativo. Il primo grado di questo processo si è concluso con pesanti condanne contro 10 compagni e compagne, a cui mandiamo tutta la nostra solidarietà. Qui l’opuscolo: prova opuscolo 2
Trento: fissata al 28 gennaio 2026 l’udienza preliminare per l’Operazione “Diana”
In questi giorni, a diverse compagne e compagni imputati è stata notificata l’udienza preliminare del processo per l’Operazione “Diana”, che coinvolge in tutto 12 persone. L’udienza è fissata presso il tribunale di Trento alle ore 9. Seguiranno aggiornamenti. Per saperne di più: https://ilrovescio.info/2023/08/04/ennesima-inchiesta-per-270-bis-in-trentino-richieste-e-non-concesse-12-misure-cautelari/ https://ilrovescio.info/2023/09/17/trento-rigettate-ancora-le-misure-richieste-per-linchiesta-diana/ https://ilrovescio.info/2025/06/28/sulloperazione-diana-contro-lanarchismo-in-trentino-cose-utili-da-sapere/
Dichiarazione del Congresso ebraico antisionistico
Mentre anche in Israele si svolgono le prime manifestazioni esplicitamente contro il genocidio del popolo palestinese (Standing Together), e i riservisti israeliani che non rispondono alla chiamata per andare ad uccidere i gazawi stanno diventando decine di migliaia, arriva questa importante dichiarazione da parte del Congresso ebraico antisionista, riunitosi a Vienna dal 13 al 15 giugno scorsi. La forza di questa dichiarazione non sta per noi nei riferimenti al Diritto internazionale e negli appelli all’ONU e agli Stati, ma nell’individuare le cause del genocidio in corso nel progetto coloniale sionista in quanto tale; nello schierarsi in modo netto con la resistenza palestinese («Affermiamo il diritto delle persone che vivono sotto occupazione a difendersi con ogni mezzo») e con il movimento BDS; nel rivendicare per la Palestina la prospettiva della decolonizzazione e della «de-sionizzazione»; nel ribadire a chiare lettere che l’«affermazione secondo cui gli ebrei sostengono intrinsecamente il sionismo e l’abominevole Stato sionista è autentico antisemitismo». DICHIARAZIONE DEL CONGRESSO EBRAICO ANTISIONISTICO Oltre 1.000 ebrei e non ebrei antisionisti si sono riuniti a Vienna per tre giorni di conferenze e workshop nell’ambito del Congresso sull’antisionismo ebraico. Sebbene si sia trattato del primo evento del suo genere in Europa, sono già in corso i preparativi per un secondo congresso nel 2026. Noi, relatori e organizzatori del congresso, pubblichiamo questo appello pubblico, che riflette le posizioni comuni raggiunte nel corso dei tre giorni di deliberazioni. Come ebrei antisionisti e alleati, ci schieriamo al fianco di tutti i palestinesi – in Palestina e in esilio – contro il sionismo e i suoi crimini, tra cui genocidio, apartheid, pulizia etnica e occupazione. Affermiamo il diritto delle persone che vivono sotto occupazione a difendersi con ogni mezzo, come riconosciuto da molteplici disposizioni delle Nazioni Unite. È fondamentale che gli ebrei di coscienza, ovunque nel mondo, si uniscano per opporsi al sionismo in comune e in solidarietà con il movimento globale per la liberazione della Palestina. Ci impegniamo a espandere il nostro movimento oltre le sue radici europee per includere le voci antisioniste di tutto il mondo, incluso il Sud del mondo. Condanniamo senza riserve tutti i crimini di guerra commessi da Israele dal 7 ottobre 2023, tra cui la pulizia etnica, l’apartheid militarizzato, l’urbicidio, lo scolasticidio, il medicidio, la carestia di massa come mezzo per sfollare forzatamente oltre due milioni di abitanti di Gaza e un genocidio in corso che coinvolge centinaia di migliaia di persone, uno dei peggiori crimini di guerra del nostro tempo. Questi atti sono già stati riconosciuti come tali dalla CPI e dalla Corte Internazionale di Giustizia, sebbene lo Stato di Israele abbia respinto categoricamente le richieste di entrambe le corti. Ha inoltre respinto numerose richieste sia dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che del Consiglio di Sicurezza. Di conseguenza, circa due milioni di civili sono attualmente confinati in una piccola area della Striscia di Gaza senza accesso a cibo, acqua, medicine, riparo o assistenza medica. Questi nuovi crimini sono solo gli ultimi di una storia infinita di reati simili che risale al 1948. Nonostante le ripetute violazioni delle risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e gli estesi rapporti dei Relatori Speciali delle Nazioni Unite, non sono mai state imposte sanzioni a Israele. Nessuno di questi crimini di guerra e crimini contro l’umanità avrebbe potuto essere compiuto o sostenuto senza il sostegno attivo ed entusiastico delle potenze occidentali – attraverso aiuti militari, supporto finanziario e copertura politica e diplomatica – guidate da Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Sostenendo e armando uno Stato criminale che commette genocidio, questi governi hanno la responsabilità legale e morale ai sensi della Convenzione sul Genocidio del 1948. Invitiamo tutti gli Stati e le società a rispettare i propri obblighi ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio e ad adottare tutte le misure necessarie per porre fine al genocidio in corso a Gaza. Le sanzioni devono includere anche la sospensione di Israele dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, come accadde al Sudafrica nel 1974 per le sue politiche di apartheid. I crimini di Israele sono chiaramente ancora più orribili. Sebbene l’ONU abbia schierato truppe internazionali per decenni per separare le parti in conflitto tra Israele ed Egitto e Israele e Libano, non ha mai istituito una forza di protezione per proteggere la vita dei palestinesi dall’oppressione sistematica e dal terrore perpetrati dallo Stato israeliano. Siamo d’accordo che sia giunto il momento di adottare una simile misura umanitaria. Senza di essa, Israele continuerà a commettere omicidi di massa contro i palestinesi. Chiediamo inoltre che l’Unione Europea segua le proprie leggi e rispetti l’articolo 2 dell’accordo di associazione UE-Israele , che le impone di cessare i rapporti commerciali con Israele e di porre fine al suo status di associazione nei programmi finanziati dall’UE. Invitiamo tutte le società, le associazioni e le organizzazioni internazionali a espellere Israele dalle proprie fila finché non rispetterà tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite e dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, non porrà fine al genocidio in corso a Gaza e non ritirerà le sue forze armate da tutti i territori conquistati con la forza nel 1948 e nel 1967, nonché da tutti i territori siriani e libanesi occupati dal 1967. Israele deve ritirare immediatamente e completamente le sue forze armate dalla Striscia di Gaza, revocare il blocco in vigore dal 2006 e garantire a tutte le organizzazioni umanitarie accesso illimitato per operare liberamente. Invitiamo tutti gli stati, le istituzioni e le organizzazioni della società civile a implementare e sostenere le richieste del Comitato Nazionale Palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS). Ciò include la cessazione di tutti i legami finanziari, accademici, militari, culturali e diplomatici con lo stato genocida fino a quando non soddisferà le condizioni di cui sopra e garantirà il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare alle loro case e proprietà, in conformità con la Risoluzione ONU 194. Invitiamo inoltre le Nazioni Unite a imporre sanzioni immediate e globali in risposta agli attacchi immotivati e illegali di Israele contro Teheran e altre città iraniane, nonché alle sue uccisioni di massa di civili. Queste sanzioni devono essere estese anche ai governi occidentali che incoraggiano e favoriscono i crimini internazionali in corso di Israele attraverso il sostegno militare e politico. Le armi nucleari illegali di Israele devono essere smantellate attraverso un processo trasparente supervisionato dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Rifiutiamo categoricamente l’affermazione che Israele agisca per conto degli ebrei o che le sue attività criminali siano sostenute da tutti gli ebrei. Invitiamo gli ebrei di tutto il mondo a opporsi allo Stato sionista, a negarne la legittimità e a chiedere la cessazione immediata delle sue azioni criminali e riprovevoli. Ciò include il sostegno alla campagna BDS e la recisione dei legami culturali, politici e istituzionali con Israele finché non soddisferà le condizioni di cui sopra. Israele e il sionismo agiscono illegalmente e immoralmente, pur insistendo di farlo per conto degli ebrei, mettendo così in pericolo tutti gli ebrei ovunque. Questa affermazione secondo cui gli ebrei sostengono intrinsecamente il sionismo e l’abominevole Stato sionista è autentico antisemitismo.  Rendiamo omaggio a tutti gli oppositori israeliani del sionismo e invitiamo gli ebrei israeliani a riconsiderare la loro lealtà a un regime che ha negato i diritti dei palestinesi per oltre otto decenni. Onorando l’eredità storica degli ebrei e i principi dell’ebraismo stesso, invitiamo tutti gli ebrei di coscienza ovunque a schierarsi fianco a fianco con i palestinesi contro l’ideologia razzista del sionismo e la sua intrinseca supremazia. Invece, ovunque ci troviamo, lavoreremo con il movimento globale per la decolonizzazione e la liberazione della Palestina. Restiamo uniti e facciamo tutto ciò che è in nostro potere per creare un futuro di uguaglianza, giustizia e dignità per tutto il popolo palestinese, una terra dove la vita condivisa e il rispetto reciproco possano rifiorire. Decolonizzazione e de-sionizzazione. Libertà per la Palestina e il suo popolo.  Firmato, (le Firme sono leggibili nel Link) Bitte teilen:  https://www.juedisch-antizionistisch.at/deklaration
Guerra grande, strozzature e specchi di faglia
Qui il pdf: guerra grande, strozzature e specchi di faglia GUERRA GRANDE, STROZZATURE E SPECCHI DI FAGLIA Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso e non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia. Sun Tzu, L’arte della guerra «Questo è il momento della pace attraverso la forza. È il momento di una difesa comune. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà necessario più coraggio. E altre scelte difficili ci attendono. Il tempo delle illusioni è finito.» Così dichiarava, il 4 marzo scorso, la presidente della Commissione UE Ursola Von der Leyern presentando un piano di 5 punti per il riarmo degli Stati appartenenti all’Unione Europea, mobilitando quasi 800 miliardi di euro per le spese per la difesa. L’annuncio precede e si aggiunge al maxi fondo tedesco da 500 miliardi di euro che il Bundestag, il parlamento tedesco, ha approvato il 18 marzo con i voti della SPD, della CDU-CSU e dei Verdi, unitamente alle modifiche costituzionali per investire nel riarmo e per superare lo “scoglio” del limite del debito e della spesa statale. L’accordo multimilionario per finanziare la difesa tedesca dà a sua volta impulso al piano di riarmo europeo. Quest’ultimo è strutturato ed articolato su 5 punti strategici. Il primo punto del piano “ReArm Europe” prevede l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del patto di stabilità (ovvero il regolamento che disciplina i bilanci degli Stati UE). Questa misura permetterà agli Stati membri di aumentare la spesa per il riarmo anche oltre il limite del 3% del deficit senza incorrere nella procedura di infrazione europea. In pratica i governi potranno investire di più in armamenti senza temere sanzioni dell’UE (cioè fare ciò che tutti i governi e politici sia di destra che di sinistra dicevano che era impossibile per le spese sociali e sanitarie). Il secondo punto prevede un nuovo strumento finanziario da 150 miliardi di euro per investimenti militari “condivisi”. La particolarità è che questi investimenti militari saranno per equipaggiamenti standardizzati fra eserciti di Stati diversi, così da assicurare che i sistemi militari possano operare assieme in caso di guerra. Per istituire questo meccanismo la Commissione UE utilizzerà l’articolo 122 del trattato dell’Unione, che consente di costruire strumenti finanziari di emergenza senza l’approvazione del parlamento degli Stati europei. Il terzo punto introduce la possibilità di utilizzare i fondi destinati alla pacificazione sociale (i cosiddetti “fondi di coesione” presenti in ogni “piano di resilienza” introdotto negli anni passati ed emanazione diretta del manifesto della borghesia e degli Stati europei, ovvero il documento Next generation UE) per progetti di riarmo di guerra. Il quarto punto del piano prevede il coinvolgimento della Banca Europea per gli Investimenti nel finanziamento a lungo termine per investimenti di natura militare, mentre il quinto e ultimo punto ordina la mobilitazione generale del cosiddetto capitale privato, ovvero il furto di classe dei piccoli risparmi delle classi sociali non privilegiate del vecchio continente per finanziare la guerra dei padroni e degli Stati, drenando soldi dai piccoli conti bancari per trasformarli in capitali di rischio in investimenti militari e nella re-industrializzazione del vecchio continente. Il provvedimento proposto da Mario Draghi ed Enrico Letta dopo il successo ottenuto negli anni passati a danno delle classi sfruttate per finanziare le grandi opere nello Stato italiano (anche in questo caso, come per il “fronte interno” degli Stati articolato nelle misure repressive, la classe dominante e lo Stato italiano fanno scuola in Unione Europea). L’ideologia nazionalista fa da involucro e da parte in causa nel muovere la guerra globale, sia nelle sue varianti dichiaratamente reazionarie (ad esempio tutti i partiti di estrema destra chiedono maggiori attenzioni ai vari riarmi nazionali) sia nelle varianti progressiste e sinistrorse (evidenti sono, ad esempio, le dichiarazioni in Francia di alcuni esponenti del Nouveau Front Populaire sull’urgenza di ri-creare un’ideologia patriottica e nazionalista di sinistra). In questo clima di union sacrée e di mobilitazione delle coscienze e dei corpi, disertare (per quanto ci riguarda) dal fronte occidentale diviene un’urgenza sempre più impellente. Come fare? Cerchiamo innanzitutto di fotografare le dinamiche e di fissare alcune coordinate della “Guerra Grande” in corsa sempre più veloce sul piano inclinato che ci sta portando verso l’abisso, partendo dal fronte orientale europeo e tenendo ben saldi nelle mani il sestante del disfattismo rivoluzionario e dell’internazionalismo antiautoritario. La vittoria della porzione della classe dominante statunitense che sostiene l’amministrazione Trump ha impresso una accelerazione crescente al rafforzamento dell’interventismo dello Stato a stelle e strisce nell’area del continente americano, africano, mediorientale e soprattutto indo-pacifico, mentre con l’avvio dei colloqui e degli “incontri di pace” fra classe dominante russa e nord-americana si evidenzia la crescente contrapposizione con le borghesie del vecchio continente (degno di nota che uno di questi “incontri di pace” si è tenuto nella città di Monaco, già teatro della tristemente nota conferenza di pace del 1938) nell’onda di una sorta di Yalta 2.0 che ricorda bene le dichiarazioni del primo segretario generale dell’Alleanza Atlantica, ovvero che la Nato serve a: “tenere dentro gli americani, fuori i russi e sotto i tedeschi”. Ciò ci porta a ricordare l’obiettivo del più grosso atto di guerra realizzato in questi ultimi anni in Europa a danno dei padroni di casa nostra, ovvero il sabotaggio del gasdotto Nord Stream. Negli ultimi mesi il territorio della regione di Kursk, così come le aree di confine tra la regione ucraina di Sumy e quella russa di Belgorod, sono state completamente riconquistate dalle forze militari russe e nord-coreane. Per quanto riguarda i territori ucraini la regione di Donetsk è sotto controllo russo per più del 73%, quella di Kherson per il 59%, e assistiamo al totale controllo russo sulla regione di Lugansk. Attualmente più del 21% del territorio dello Stato ucraino è sotto controllo delle forze armate di Mosca. Ovviamente i successi degli ultimi mesi dell’esercito russo sul fronte orientale hanno un impatto ben pesante sui negoziati, visto che la borghesia russa sta vincendo la guerra, e la preoccupazione attuale dei nostri padroni è quella di interrompere velocemente questo conflitto prima che l’esercito ucraino crolli e quello russo dilaghi. Il rischio che i dominatori di entrambi i fronti temono maggiormente è la presenza di un convitato di pietra al tavolo dei possibili negoziati di pace, ovvero il ruolo che la nostra classe sociale sta giocando da entrambi i lati del fronte con il rischio sempre più visibile di un aumento esponenziale delle diserzioni dal militarismo sia russo che ucraino-NATO, fino ad arrivare – come dichiarato nell’ultimo mese da alcuni analisti geopolitici dei padronati occidentali – alla possibilità di ammutinamento delle truppe ucraine contro il governo di Kiev. Come abbiamo sempre sostenuto, la guerra in Ucraina è anche guerra per il controllo delle importanti risorse di terre rare indispensabili all’economia di guerra e alla trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Mentre l’eventuale e sempre più traballante proseguimento degli aiuti militari statunitensi dipende dall’accordo che pone in mano al capitalismo a stelle e strisce le risorse minerarie e le infrastrutture ucraine che, secondo alcune fonti di Kiev dei mesi scorsi, sarebbero già state assegnate all’Empire 2.0 britannico in base ad un accordo siglato durante la visita del primo ministro Starmer a Kiev. Già alla conferenza di Monaco si parlò della proposta della delegazione del Congresso degli Stati Uniti di un contratto che avrebbe concesso agli USA i diritti sul 50% delle future riserve minerarie ucraine. I disaccordi e i tira e molla con Trump sulle terre rare negli ultimi mesi si sono verificati a causa del ruolo attivo in questa questione dei ceti padronali britannici che, in base ad un preaccordo che fu firmato da Zelensky e Starmer, lo Stato ucraino si sarebbe impegnato a trasferire tutti i porti, le centrali nucleari e i sistemi di produzione e trasferimento del gas e giacimenti di titanio sotto il controllo di Londra. Il giacimento di litio di Shevchenko (Donetsk), riconquistato dall’esercito russo lo scorso gennaio, contiene circa 13,8 milioni di tonnellate di minerali di litio. Il giacimento è il più grande non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’Europa. Già nel 2021, la società mineraria del Commonwealth European Lithium aveva annunciato di essere in procinto di mettere in sicurezza il sito. La perdita di questo giacimento è un duro colpo per i fabbisogni di litio per le classi dominanti UE che si sarebbero comunque dovuti rivolgere alla borghesia britannica. Ma anche il cosiddetto agribusiness (cioè lo sfruttamento intensivo delle terre e degli animali di allevamento con l’espulsione delle comunità locali) è una della parti in causa nella corsa dei padronati contrapposti per il controllo delle ricche risorse dell’antica Sarmatia. Ad esempio già nel 2013 la società agricola ucraina “Ksg Agro” firmò un accordo con lo “Xinjiang Production and Construction Corps” dello Stato cinese per la concessione in affitto di terreni agricoli nella regione orientale di Dnipropetrovsk. L’accordo prevedeva una iniziale locazione di 100mila ettari, con la possibilità di espandersi fino a 3 milioni di ettari nel tempo, equivalente circa al 5% del territorio ucraino, e avente come obiettivo principale la coltivazione agricola e l’allevamento dei suini destinati al mercato cinese. Progetto ad oggi fallito non solo a causa di eventi bellici ma anche per via di resistenze e di piccolo lotte delle comunità locali. Secondo il rapporto del 2023 dell’“Oakland Institute”, oltre 9 milioni di ettari di terreni agricoli ucraini sono dominati dalla grossa borghesia locale e da grandi aziende agro-industriali statunitensi, europee e arabe-saudite (come la “NHC Capital” degli Usa, la francese “Agrogénération” e le tedesche “KWS” e “Bayer”). Terra di confine fin dai tempi del Kanato dell’Orda d’Oro e del gran ducato di Lituania, tutti gli sfruttatori e gli oppressori di ogni età hanno sempre cercato di controllare la porzione del basso piano sarmatico accarezzata dal Mar Nero. Lo stesso toponimo “ucraina” significa “presso il bordo” limitante, cioè il bordo fra blocchi di Stati e capitalismi contrapposti e di un piccolo bacino semi chiuso e poco profondo: il Mar Nero. Il nome di quest’ultimo non è però legato al colore delle sue acque, ma “Kara” (“Nero”) è il modo con cui i turchi definivano questo specchio d’acqua secondo un’antica associazione dei punti cardinali a colori specifici. Ma la cupezza legata all’angusto pelago è più antica. Nel settimo secolo a.C. i primi colonizzatori delle sue coste (gli Ioni) lo definivano “Pontos Axeinos” (“Mare inospitale”). Le parole non sono mai neutre ma lavorano per gli interessi delle varie classi sfruttatrici, così come possono lavorare anche per noi sfruttati chiamando con il loro nome le cose, indicando i responsabili dell’oppressione, e dipingendo una cosmovisione altra della vita. Come fa presagire il suo nome, questo mare non è mai stato controllato da nessuno. Nell’attuale frangente storico, sulle coste e nelle acque del Ponto Eusino si incontrano e si scontrano quattro blocchi di Stati e di capitalismi principali: quello russo, quello statunitense, quello “europeo” e quello neo-ottomano. Un mare chiuso caratterizzato da un unico accesso: quello del Bosforo-Dardanelli controllato dallo Stato turco. Le classi dominanti russe hanno sempre considerato strategico questo mare, in quanto unico accesso ai mari caldi e alle loro rotte logistiche. Per il neo-ottomanesimo dello Stato turco, distanziare dall’Anatolia gli Stati rivali è un fattore cruciale, mentre continua l’espansionismo degli interessi del capitale turco verso Europa, Africa, Medio Oriente e Asia Centrale. La nuova dottrina militare della “Mavi Vatan” (Patria blu) rispecchia pienamente questi obiettivi. Fra Stati e potenze in guerra fra loro, la diplomazia turca si adopera per aprirsi margini di influenza lungo le direttrici precedentemente dette. Ad esempio, condanna Mosca per l’invasione dell’Ucraina, ma non cessa di fare affari con il Cremlino. Permette alle flotte della marina militare russa di entrare ed uscire dal Bosforo, ma costringe gli sfruttatori russi ad accettare che sia essa a dirigere la “Black Sea Grain Initiative”, mediata per l’appunto da Ankara per permettere alla fertile Ucraina di esportare derrate alimentari, aumentando ovviamente le tariffe per il transito dei mercantili nel mar di Marmara. Ingenti risultano i tentativi su questo mare ad opera dei padronati di casa nostra di rompere l’anossia data dallo strangolamento delle classi dominanti rivali statunitensi e russe sull’Europa, in quella che è evidentemente sempre di più una riaffermazione dell’accordo di Yalta, ad esempio con lo sfruttamento dei fondali di questo pelago. L’UE vuole realizzare un cavo internet sottomarino lungo 1100 km per collegare gli Stati membri con la Georgia con un investimento da circa 45 milioni di euro. Il progetto mira a ridurre “la dipendenza della regione dalla connettività in fibra ottica terrestre che transita attraverso la Russia”, ha affermato la Commissione europea, come riportato dal “Financial Times”. Attualmente circa il 99% del traffico internet intercontinentale viene trasmesso tramite oltre 400 cavi sottomarini che si estendono per 1,4 milioni di km. La gerarchia ed il controllo delle rotte marittime, dei porti, dei trasporti e della logistica orienta la circolazione di merci e di capitali. Esprime da sempre la potenza degli Stati, fin da quando nacquero, e lo sviluppo del capitale. Mare, capitalismo e guerra muovono e ridefiniscono i rapporti di forza fra Stati e classi dominanti, nei due passati macelli mondiali così come ora. La Guerra Grande in corso si combatte strategicamente sulle onde. Sopra e sotto di esse, tra controllo dei fondali, della terra, dello spazio orbitale e cibernetico fino al dominio delle tecnologie per il controllo dello spazio infinitamente piccolo (genetico e nanotecnologico) contratto in un’unica dimensione. Per la nostra classe sociale, cercare di bloccare la logistica che permette alla megamacchina della morte di funzionare è un’urgenza vitale e necessaria per poter disertare dalla loro guerra. Proverò ora ad introdurre due attrezzi concettuali per l’analisi dei movimenti- posizionamenti del nostro nemico di classe e, soprattutto, per poter cogliere noi la «fecondità dell’imprevisto» (Proudhon) e provare a dargli forma nei territori dove si presenta e si presenterà sempre di più: ovvero il concetto delle “strozzature marittime” e delle possibilità insurrezionali e rivoluzionarie che si aprono per noi negli “specchi di faglia”, ovvero in quei territori dove vanno a collidere interessi di Stati e blocchi contrapposti. Quando parliamo di controllo del mare e di controllo degli spazi (sia fisici che virtuali come quello digitale), per i nostri nemici di classe stiamo parlando di controllo della terraferma circostante questi spazi, e di dominio sulla logistica che rende possibile lo sfruttamento e il loro mondo (dalle rotte commerciali alla infrastruttura materiale come i cavi internet sottomarini, che rendono possibile la trasformazione della società e del modo di produzione capitalistico verso la fase digitale). Per controllare questi spazi e i territori, Stati e classe padronali devono controllare gli stretti di mare detti anche, a livello mondiale, “strozzature”. Snodi naturali e/o artificiali (come Panama e Suez) delle arterie degli Stati e dei meccanismi materiali di valorizzazione e di riproduzione del capitale per i quali transita la quasi totalità delle merci e dei cavi internet su scala mondiale. Malacca, Taiwan, Panama, Gibilterra, Otranto, il canale di Sicilia, Suez, Dardanelli, Bab al-Mandab, Hormuz, Bering, il canale fra Islanda e Groenlandia, l’Egeo, lo Jutland ecc. Se consideriamo i vari fronti aperti a livello mondiale dalla Guerra Grande ci accorgiamo che gli scontri e le guerre in corso dei nostri padroni ruotano attorno al dominio di queste strozzature perché per Stati e capitalismi, sin dalla loro nascita, il mare è viatico inaggirabile nella rincorsa alla volontà di potenza loro e delle classi sfruttatrici. Chi domina questi spazi e quindi in pratica queste strozzature domina il mondo. Attorno a questi si scontrano e/o sormontano le varie “faglie” di blocchi di Stati e di capitalismi in contrapposizione tra loro. Tendenzialmente in alcuni dei territori limitanti una linea di faglia si aprono più facilmente contraddizioni a livello sociale ed economico. Territori e società direttamente contesi o semplicemente considerati punti deboli dal blocco opposto per via delle loro caratteristiche storico-sociali ed economico-culturali. Ad esempio, per i nostri padroni i territori e le società dell’Europa orientale e del Sud Europa sono più sensibili potenzialmente per via delle contraddizioni che si potrebbero spalancare a insurrezioni o autogestioni generalizzate e alla possibile conseguente catarsi rivoluzionaria. Esempi a livello storico dove possiamo utilizzare questi due attrezzi di orientamento e di navigazione per le possibilità insurrezionali sono tutte le grandi rivoluzioni libertarie della storia del XX secolo (Manciuria, Ucraina, Kronstadt, Catalunya). Se consideriamo le considerazioni e le progettualità già elaborate decenni fa nell’area dell’anarchismo di azione per quanto riguarda le possibilità e le occasioni rivoluzionarie nelle società del Sud Europa e nel bacino del Mediterraneo, ritengo che ora, fra le contraddizioni che si spalancano in alcuni territori con la Guerra Grande in corso e la ristrutturazione sociale del capitalismo, le analisi e le considerazioni che facemmo decenni fa sono quanto più attuali e preziose e hanno confermato tutta la loro validità e potenzialità soprattutto per quanto riguarda le aree rurali, ad esempio del Sud Europa. Aree rurali dove poter coordinare informalmente sul territorio specifico in questione situazioni di lotta, di autonomia materiale e di cultura di resistenza; in sostanza porre in rete e creare momenti e situazioni di autonomia materiale, di cosmovisione altra e di lotta e lavoro insurrezionale tracciando un orizzonte politico libertario e anarchico. In sostanza delle CLR (Collettività Locali di Resistenza) dove provare sin da ora a vivere materialmente e umanamente su dei territori la vita per cui ci battiamo in lotta contro la devastazione portata dagli Stati e dal capitale. Rilanciare e nello stesso tempo “uscire” in questa maniera dal mero intervento di agitazione sia teorica che pratica per entrare in un’ottica di possibilità rivoluzionaria e insurrezionale. Possibilità, purtroppo, ben consce e presenti nelle analisi degli Stati dell’UE e dei nostri nemici di classe, dal momento che già nel 2017 in un documento preparato per la Commissione europea, e già citato negli anni passati nei vari articoli della rubrica “Apocalisse o insurrezione”[metterei link], veniva evidenziato come nelle aree rurali dell’est e del sud Europa, già feconde per noi di contraddizioni intrinseche, la situazione a livello sociale era potenzialmente esplosiva. Saper cogliere e rendere feconde le contraddizioni che si stanno aprendo e che si possono spalancare nel momento in cui i nostri padroni e gli Stati dell’UE si trovano in difficoltà e si indeboliscono nel confronto con i loro avversari in questa Guerra Grande. Per noi il tutto sta nel cogliere le possibilità che si aprono su certi territori nel momento in cui sappiamo interpretare lo spazio-tempo in profondità e in ampiezza, declinando in pratica la nostra bussola dei princìpi facendo tesoro dell’esperienza storica delle lotte della nostra classe sociale, fissando una rotta di massima e elaborandola in un lavoro rivoluzionario affinché le correnti del divenire convulso e frenetico di questo periodo storico non ci portino alla deriva. Cosa ancora più facile dal momento che buona parte della classe dominante, soprattutto occidentale, sta scivolando a livello di analisi strategica nella demenza post-storica e dei problemi minuti incasellati in un’illusione dell’eterno presente. Proviamo a vedere le contraddizioni politico-sociali ed economiche che si sono aperte nell’ultimo periodo in due aree geografiche che si trovano sullo specchio di faglia dell’Europa orientale: in Romania e in Moldavia. Che i territori appartenenti allo Stato rumeno e moldavo siano contesi fra due blocchi capitalistici contrapposti, non è una novità per nessuno. Gli avvenimenti istituzionali dell’ultimo anno in Romania (come ad esempio il colpo di stato filo-UE del dicembre 2024), sono esemplificativi di questa situazione. Non è questa la sede per entrare nel merito di queste dinamiche. È interessante, invece, per quanto riguarda l’angolazione della nostra classe, sottolineare le contraddizioni sociali che possono emergere. Ad esempio, gli scioperi continui degli insegnanti per l’aumento dei salari, o le forti proteste dei trasportatori e dei piccoli agricoltori in Romania. Bucarest ormai da più di un anno è una città in ebollizione. «Raderei al suolo il nostro parlamento. Nessuno fa niente per migliorare la situazione economica del paese. I salari non crescono ma i prezzi dei beni di prima necessità continuano ad aumentare. Non ne possiamo più», commenta un tassista di Bucarest. Similare la situazione in Moldavia, area incistata tra Ucraina e Romania e punto di frizione diretta tra le ambizioni di allargamento degli Stati e dei capitalismi UE e le frazioni delle classi dominanti locali che spingono per rafforzare i legami con Mosca. Negli ultimi anni, nelle strade di Chisinau, si sono svolte proteste ed accese mobilitazioni contro il carovita. Nella nostra prospettiva di classe, antiautoritaria e di disfattismo rivoluzionario, è fondamentale comprendere quali sono le difficoltà e le problematiche che sta passando il nemico di casa nostra nella crescente contrapposizione fra Stati e borghesie europee con la classe dominante statunitense. “Con simili amici, chi ha bisogno di nemici?”. Dal 24 febbraio del ’22 la frase celebre di Charlotte Bronte può precisamente sintetizzare la situazione del padronato e degli Stati dell’UE verso la borghesia a stelle e strisce. A partire dal sabotaggio del gasdotto Nord Stream ai danni del padronato tedesco avvenuto agli inizi della guerra, fino alla guerra commerciale dei dazi e agli avvenimenti dell’ultimo anno sulla questione dell’approvvigionamento energetico. Lo stop al transito del gas russo verso l’Europa attraverso i gasdotti ucraini alla fine del ’24 determinò difficoltà e rialzo dei costi in gran parte del continente con previsioni di incrementi considerevoli delle bollette. Lo Stato slovacco, membro della NATO e dell’UE, è stato quello che ha risentito di più della decisione assunta da Kiev con il pieno supporto degli USA e, paradossalmente ma non troppo vista la posizione di sconfitti delle classi sociali del vecchio continente, dell’Unione Europea. Washington ha tutto l’interesse ad imporre il suo costoso GNL (sostenuto in maniera perentoria da Obama, da Biden e ora da Trump). L’attacco strategico contro i gasdotti Nord Stream non è stato certamente l’ultima battaglia della guerra per il mercato energetico europeo. L’11 gennaio del 2025 un attacco (fallito) è stato portato da 9 droni ucraini alla stazione di compressione “Russkaya” del gasdotto “Turkstream”, che attraversa i fondali del Mar Nero e raggiunge la Turchia europea, ed è l’ultimo gasdotto ancora funzionante che trasporta il gas russo negli Stati europei come Serbia e Ungheria. Le fazioni della classe dominante nordamericana, che trova nel governo repubblicano al potere il rappresentante e il propinatore dei propri interessi, accelera le pressioni per rinforzare la “Yalta 2.0” contro i padroni del vecchio continente, attraverso anche una sorta di pagamento delle “indennità di guerra”, e cioè attraverso l’imposizione che gli Stati dell’Ue comprino più prodotti “per la difesa” made in USA, se vogliono evitare la guerra – ancora “non combattuta” sul piano militare – dei dazi commerciali. Trump ha previsto di ridurre in 4 anni di 300 miliardi su 900 il bilancio annuale del Pentagono: il militarismo europeo dovrà indebitarsi per assorbire le acquisizioni di armamenti cui rinunceranno gli americani. L’industria statunitense è ben determinata ad occupare il mercato europeo della “difesa” in cui le importazioni dagli USA sono cresciute di oltre il 30% dal 2022. Tracciando una panoramica complessiva, al conflitto in nuce (per il momento limitato al livello commerciale e politico) fra la borghesia USA e quelle del vecchio continente, si aggiungono i crescenti compromessi tra Stato statunitense e russo anche in campo economico ed energetico. L’avvio della guerra mondiale dei dazi si caratterizza, oltre che per l’inasprimento degli accordi di Yalta, anche per il rinvigorimento della dottrina Monroe, prendendo di mira direttamente i due stati limitrofi agli States (Canada e Messico), minacciati di essere colpiti nelle loro esportazioni verso Washington. Per il Canada, i dazi rappresentano anche il tassello di una fase espansionistica che culmina con la minaccia dell’annessione agli Stati Uniti. I continui ripensamenti e poi l’abbassamento dei toni stanno caratterizzando l’atteggiamento delle classi sfruttatrici nord-americane verso il vero nemico: il padronato mandarino. La classe dirigente cinese ha ottenuto dagli USA una retromarcia dietro l’altra sui dazi, come dimostrato dall’ultimo accordo raggiunto nel mese di maggio con la sospensione temporanea e parziale degli enormi dazi che i due Stati si erano imposti a vicenda. In base alle condizioni concordate, infatti, gli USA abbasseranno dal 145 al 30% i dazi sulle merci cinesi, mentre lo Stato cinese, che aveva imposto dazi speculari, li abbasserà dal 125 al 10%. Per il padronato statunitense è l’ennesima resa unilaterale, che mostra l’improvvisazione della strategia dello stato nordamericano, che quando impone i dazi dice che serviranno per la reindustrializzazione e quando li toglie dice che serviranno per favorire il commercio. Negli ultimi mesi, alle atrocità inenarrabili che caratterizzano il proseguimento del primo genocidio automatizzato della storia, si aggiungono i conflitti nelle regioni che insistono attorno allo stretto di Hormuz, come la micro-guerra combattuta fra Stato pachistano e indiano, e la guerra dei 12 giorni di Israele e USA contro l’Iran. Utilizzando l’attrezzo analitico-concettuale delle “strozzature”, per quanto riguarda ad esempio il conflitto fra Pakistan e India, evidenziamo che stagliato sullo sfondo c’è il problema del riequilibrio delle relazioni commerciali tra Stato indiano e statunitense. La tendenza al riposizionamento della borghesia indiana nei confronti degli USA è stata dirompente per gli equilibri del sub-continente. Mentre lo Stato pachistano ha la necessità di un ampio confine diretto con il territorio cinese (fondamentale per uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano al fine di superare un eventuale blocco navale dello stretto di Malacca), così la borghesia indiana cerca a tutti i costi di interrompere questo canale di traffico commerciale. Attorno alle strozzature contese fra blocchi di Stati e di capitalismi rivali di Hormuz e di Malacca si stanno spalancando contraddizioni sociali e di classe significative. Basti pensare anche solamente alle enormi mobilitazioni e scioperi in aumento negli ultimi anni ad esempio nel territorio indiano, a partire dalle grosse ondate di scioperi iniziate alla fine del 2020 contro l’introduzione di nuove leggi agrarie, e dove la congiuntura fra la crisi climatica e idrica, il revanscismo dell’ideologia nazionalista indiana e il conseguente riposizionamento delle classi sfruttatrici indù sul piano internazionale della Guerra Grande, nonché la liberalizzazione del mercato del carbone assieme all’eliminazione della legge che vincolava l’uso delle terre al consenso obbligatorio delle popolazioni locali, stanno realizzando sconquassi strutturali rilevanti e un forte inasprimento della lotta di classe. Ma torniamo alla situazione che più riguarda da vicino il territorio che abitiamo e che attraversiamo con un focus sulla situazione groenlandese e delle rotte che attraversano il Mar Artico. La Groenlandia è la nuova isola del tesoro dove le borghesie cinesi, statunitensi, russe ed europee si sfidano fra i ghiacci. Frontiera strategica sulle rotte artiche e ricchissima di terre rare, gas e petrolio, ci sono diversi motivi che hanno scatenato negli ultimi anni un’attenzione crescente attorno a questa isola, e quasi tutti i motivi hanno a che fare con un fattore: il cambiamento climatico. Il riscaldamento globale sta provocando lo scioglimento dei ghiacciai in tutto l’Artico, modificandone i contorni, aprendo nuove possibili rotte commerciali e militari, scoperchiando ricchezze nascoste e giacimenti di “terre rare”. La Groenlandia per la sua posizione geografica è considerata strategica dal militarismo statunitense. L’isola è circondata dagli stretti che introducono ai passaggi a nord-ovest e a nord-est dell’Oceano Artico e, con le rotte nel prossimo futuro sempre più navigabili, gli USA non vogliono che le altre potenze rivali ne approfittino. Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, consentirà sempre di più lo sfruttamento delle risorse minerali presenti nell’isola, ricca di minerali e di metalli rari. Una ricerca del 2023 ha confermato la presenza di 25 dei 34 minerali considerati “materie prime critiche” dalla Commissione europea, tra cui grafite e litio. Ma all’interno del meccanismo delle varie economie di guerra, dove la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari ha un ruolo cruciale nel contribuire allo scontro fra capitalismi rivali (come sta avvenendo in Africa nella corsa all’accaparramento e alla predazione dei terreni necessari per la “sovranità alimentare” delle varie potenze in guerra sullo scacchiere mondiale), così i fondali groenlandesi sono necessari per la pesca, visto che diversi stock ittici si spostano sempre più a nord, rinvigorendo le potenzialità del mercato della pesca di Nuuk. La competizione accesa per il controllo dell’isola più grande del mondo, dei suoi stretti e dei suoi mari (lo stesso Macron è volato a Nuuk il 15 giugno scorso per “difendere l’integrità territoriale” di questo territorio colonizzato dalla Danimarca) accende le contraddizioni sociali sull’isola: aumentano le proteste delle comunità Inuit in conseguenza dell’accaparramento dei territori e delle acque limitrofe all’isola, mentre il tasso di disoccupazione e le carenze sanitarie stanno iniziando a creare segnali di insofferenza nel paese. La regione artica sta emergendo come nuova frontiera della competizione strategica e commerciale. Si stima che l’Artico contenga circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio, il 30% di quelle di gas e grandi quantità di risorse ittiche e minerali rari. Stato cinese e Stato russo stanno ampliando le loro operazioni nell’Artico, coinvolgendo le isole Svalbard e l’Islanda. Il controllo del cyber-spazio e dei fondali oceanici è una base fondante per la guerra e per la trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Tutti questi punti sono ben visibili per quanto riguarda lo spazio artico dove, data la crescente attività del capitalismo russo e cinese inerente alla logistica digitale attraverso i cavi sottomarini, la NATO sta avviando nuovi progetti che «puntano a rendere internet meno vulnerabile ai sabotaggi, reindirizzando il flusso di dati verso lo spazio in caso di danneggiamento delle dorsali sottomarine». La stessa attività estrattiva in acque profonde potrebbe iniziare già quest’anno. Agli inizi di aprile del 2024, i membri dell’Autorità Internazionale dei Fondali marini (ISA) ha revisionato le norme che regolano lo sfruttamento dei fondali. La nuova corsa all’oro degli abissi è iniziata l’anno scorso con una legge dello Stato norvegese che permette l’estrazione mineraria su scala commerciale. L’impatto (anche) ambientale di queste decisioni comporterà la distruzione di interi habitat, oltre al fatto che il 90% del calore in eccesso dovuto al riscaldamento globale viene assorbito dagli oceani, devastando così l’equilibrio che sorregge la vita in questo pianeta. Sostanzialmente, la guerra al vivente procede e si ramifica in ogni sua forma. La guerra è sempre più palesemente il cuore di questo mondo senza cuore. Mentre i nostri padroni proseguono ad attrezzarsi alla guerra mondiale, la domanda (banale) che poniamo è questa: chi pagherà il riarmo degli Stati e delle borghesie nostrane? Già nei mesi scorsi, in un articolo che non lascia adito ad alcun fraintendimento dal titolo: Europe must trim its Welfare State to build a warfare state, il “Financial Times” sostiene che l’Europa deve ridurre le spese per il welfare per assicurarsi la capacità di sostenere un consistente riarmo. L’accordo per aumentare la spesa militare degli Stati aderenti alla NATO al 5% del PIL deciso al vertice dell’Aia va pienamente in questa direzione, assieme all’estrazione e al furto dei piccoli risparmi privati, già presente nei punti che articolano il riarmo europeo. Ribadendo ulteriormente e con forza che fino a quando esisteranno Stati e capitalismi saranno illogiche le speranze di pace duratura poiché la negazione della guerra implica in primo luogo quella dello Stato e del capitale, dinnanzi a questo mondo di conflitti e di miserie generalizzate che corre verso l’oblio e la propria autodistruzione, la resistenza palestinese (vera e propria forza tellurica che ha ridonato speranza alle classi sfruttate di tutto il mondo), la rivolta di Los Angeles e l’accentuarsi delle insurrezioni, delle mobilitazioni sociali, delle lotte e dei gesti di insubordinazione quotidiana in tutto il mondo sono come lampi premonitori che squarciano l’Ancien régime, segnali che un nuovo assalto proletario ai bastioni dell’alienazione e dello sfruttamento può essere alle porte. Non c’è notte tanto lunga da non permettere al sole di risorgere. «Secondo noi le rivalità e gli odi nazionali sono tra i mezzi che le classi dominanti hanno a loro disposizione per perpetuare la schiavitù dei lavoratori. E in quanto al diritto delle piccole nazionalità di conservare, se lo desiderano, la loro lingua e i loro costumi, ciò è semplicemente questione di libertà, che avrà la sua vera finale soluzione solo quando, distrutti gli Stati, ogni gruppo di uomini, o meglio ogni individuo, avrà diritto di unirsi con ogni altro gruppo o separarsi a piacere.» (Errico Malatesta).
È disponibile la ristampa del libro “Fòc al fòc! Goliardo Fiaschi: una vita per l’anarchia”
Riceviamo e diffondiamo: Qui il pdf: ristampa di foc al foc goliardo fiaschi una vita per lanarchia È disponibile la ristampa del libro “Fòc al fòc! Goliardo Fiaschi: una vita per l’anarchia” Alberto [Josep Lluís Facerías] era un grande e valido organizzatore, nelle riunioni ci diceva che portare avanti un campeggio era come portare avanti un paese, quindi il buon funzionamento dello stesso poteva rappresentare una prova che noi anarchici, un giorno, saremmo stati in grado di gestire nel miglior modo possibile una città. Sicché dovevamo occuparci con attenzione del rifornimento e della distribuzione dei viveri, curare l’igiene in tutti i suoi aspetti, organizzare e programmare le varie conferenze di propaganda, le esposizioni di manifesti e le mostre fotografiche, gli spazi dedicati ai libri ed alle riviste, i concerti di musica. Tutti i compagni dovevano svolgere dei turni di lavoro in ogni settore del campeggio, in modo che ognuno potesse impratichirsi un po’ su tutto, così da non rimanere sempre impiegato in un solo tipo di attività. Fu una grandissima esperienza! Di soldi, per organizzare al meglio tutte queste attività, ne servivano molti, ma nel nostro movimento non ne giravano un granché. Sì, c’era sempre la cassetta per le sottoscrizioni, ma la maggior parte delle volte rimaneva vuota. E senza mezzi, i campeggi o i giornali e gli opuscoli di propaganda non si potevano fare. Quindi, Alberto doveva, assieme a compagni di volta in volta diversi, fare necessariamente dei prelievi nelle banche, nelle oreficerie o in altre attività commerciali. Erano azioni di esproprio e di autofinanziamento indispensabili al buon funzionamento delle varie attività e iniziative anarchiche. A Carrara, ma anche altrove, alcuni compagni, soprattutto quelli più anziani, avevano una mentalità un po’ particolare. Se venivi arrestato per aver rubato qualcosa, diventavi una vergogna per l’onorabilità del movimento. È un reato comune, dicevano, non ha niente a che vedere con la politica. E quindi ti veniva a mancare la loro solidarietà, e a poco a poco anche altri “compagni” cominciavano a mollarti: «Sono azioni da ladri comuni! L’anarchia non c’entra nulla con queste cose…». E invece c’entrava eccome! È finalmente disponibile la ristampa dell’unica edizione di Fòc al fòc! Goliardo Fiaschi: una vita per l’anarchia, di Gino Vatteroni, editata nel 2012 dal Circolo Culturale Anarchico di Carrara, intitolato proprio a Gogliardo Fiaschi dopo la sua morte avvenuta il 29 luglio 2000. La ristampa, limitata a 100 copie e identica all’edizione pubblicata 13 anni fa, è disponibile in distribuzione presso il circolo in via Ulivi 8/B a Carrara o è richiedibile in spedizione rivolgendosi all’indirizzo e-mail circolofiaschi@canaglie.org. Ne abbiamo deciso la ristampa, oltre che per rendere nuovamente disponibile un libro da tempo esaurito, anche perché quest’anno ricorrono i cinquant’anni dall’apertura del circolo, avvenuta nel 1975 grazie all’impegno di numerosi compagni anarchici, tra cui Gogliardo. Così come resta testardamente immutata la nostra esigenza di libertà integrale, così continua l’attività di distribuzione di testi e pubblicazioni che alla realizzazione possibile di questa libertà intendono contribuire. Carrara, luglio 2025 Circolo Culturale Anarchico “Gogliardo Fiaschi” * * * Gino Vatteroni Fòc al fòc! Goliardo Fiaschi: una vita per l’anarchia Edizione curata dal Circolo Culturale Anarchico “Gogliardo Fiaschi” e stampata presso la Cooperativa Tipolitografica, Carrara, 2012. 368 pp., nota introduttiva di G. Vatteroni, prefazione di M. Guastini. Edito in proprio senza contributi di Stato o di qualsiasi istituzione. Ristampa identica alla prima edizione, Carrara, 2025. Per richieste rivolgersi all’indirizzo e-mail: circolofiaschi@canaglie.org Prezzo di copertina: 20,00 euro. Per la distribuzione (ordini di almeno cinque copie): 40% di sconto sul prezzo di copertina (12,00 euro a copia). Tutte le entrate dal libro andranno a sostegno delle attività e delle iniziative del Circolo Culturale Anarchico “Gogliardo Fiaschi”. Indice: Nota introduttiva, p. 5 Prefazione, p. 7 Prologo – Ricordi d’infanzia, p. 11 1 – Adolescenza partigiana, p. 16 2 – Le stragi dei nazifascisti, p. 35 3 – Ricordi su Giovanni Mariga, p. 39 4 – Il passaggio del fronte, p. 44 5 – Partigiano nel modenese, p. 51 6 – Ritorno a Carrara, p. 65 7 – Il dopoguerra, p. 70 8 – Con la Spagna nel cuore, p. 100 9 – Villanova Monferrato, p. 129 10 – In Francia, p. 149 11 – In Spagna, p. 159 12 – In carcere a Barcellona, p. 178 13 – Guadalajara, p. 207 14 – Da Alcalà de Henares a Gijon, da Cuellar a Teruel, passando per Madrid, p. 228 15 – Alicante, p. 237 16 – Burgos, passando per Guijuelo, Carabanchel e Avila, p. 245 17 – Logroño, di nuovo Burgos e l’estradizione in Italia, p. 263 18 – Da Genova a Porto Azzurro, passando per Casale e Firenze, p. 270 19 – Da Fossombrone a Spoleto, da Viterbo a Parma, fino a giungere a Lucca, p. 287 20 – Da Pisa a Lecce, passando per Massa, p. 314 Epilogo – Di nuovo a Carrara, p. 333 Appendice, p. 337
È disponibile il numero 1 di “Senza”, pagine anarchiche (luglio 2025)
Riceviamo e diffondiamo: È disponibile il numero 1 di “Senza”, pagine anarchiche (luglio 2025) Segnaliamo l’uscita della nuova pubblicazione “Senza”, un foglio di quattro pagine di cui riportiamo di seguito il sommario e il testo di presentazione. In questo numero: — Radici — Contro la guerra dei padroni, per la guerra sociale — Il salto (indietro). Non la massima distruzione, ma il minimo danno — La nostra fiamma che non si spegne Per richieste di copie rivolgersi all’e-mail: senza@logorroici.org Stampato in proprio, fine luglio 2025. Il foglio naturalmente è senza prezzo, tuttavia per quanto riguarda l’invio di copie in distribuzione (almeno 10 copie) viene richiesto un minimo di contributo anzitutto a sostegno delle spese di spedizione. * * * Radici e niente è promessa tra il dicibile che equivale a mentire (tutto ciò che si può dire è menzogna) il resto è silenzio solo che il silenzio non esiste Alejandra Pizarnik Per sua natura un pezzo di carta come questo non può essere una spinta di coraggio. Nonostante ciò, può pur sempre avere l’ambizione di diventare uno strumento che rifletta, che dia spazio agli slanci rivoluzionari esistenti oggi: uno strumento che possa (contribuire ad) accendere, a ravvivare quella fiamma oggi sempre più flebile a causa di quella lebbra che chiamate civiltà. Con la fine dell’epoca delle mediazioni e dei riformismi, gli Stati e il capitalismo hanno dichiarato una guerra aperta – per il momento perlopiù a senso unico – contro gli sfruttati, gli esclusi; allo stesso tempo tanti segnali positivi e incoraggianti si manifestano sul terreno della rivolta. È ambizione di questo foglio riuscire ad amplificare (a suo modo e nei limiti esistenti) questi fatti, non tanto per un bisogno di “controinformazione” bensì per darci uno strumento di agitazione. Crediamo di trovarci in un momento di attenuazione della pace sociale: al netto dell’intensificarsi dell’attacco padronale, in questi anni stanno emergendo anche delle risposte da parte degli esclusi. Manifestazioni di insubordinazione e di resistenza spesse volte embrionali e contraddittorie secondo i canoni e le “convenzioni” cui siamo abituati, che però rendono appieno la cifra di quest’epoca dove, quantomeno a partire dagli anni del Covid-19, è evidente un cambio di passo nell’incalzare degli eventi. Rinchiusi nella tana della nostra eterna disillusione, amareggiati dallo scoramento generalizzato, incupiti per esserci arenati nelle sabbie mobili del disincanto, eccoci qui, apparentemente nella condizione di non poter fare altro che appellarci alla volontà. Come a dire: se le idee per sconvolgere questo mondo non ci sono mai mancate, ciò che oggi manca sono la volontà e il coraggio – quindi la necessaria coerenza – di essere questo sconvolgimento. Tuttavia di esortazioni come questa, di appelli alle buone intenzioni (o forse sarebbe meglio dire allo scatenamento delle cattive passioni) ne sono piene le fosse. Se le condizioni oggettive ci sono tutte, è la disponibilità soggettiva a mancare enormemente. Può un pezzo di carta come questo, nel contesto appena delineato a grandi linee, contribuire a maturare questa disponibilità? Certo, un foglio redatto da anarchici è pur sempre un insieme di pagine, imbrattato di inchiostro. Esaltarne un’inesistente funzione di grimaldello nel terreno dello scontro sociale e di classe sarebbe una ben misera operazione. Tuttavia l’anarchismo non può prescindere dalla critica sociale, e questo è sicuramente un primo scopo di pagine come queste. Non un luogo di sedimentazione della teoria, o di illustrazione di una deliziosa condizione ideale di un mondo senza padroni e poliziotti, bensì uno strumento di propaganda anarchica come occasione di riflessione, suggerimento di lotta, coinvolgimento nell’azione. Riteniamo occorra oggi più che mai scardinare ogni autocompiaciuto avvitamento su sé stessi. In quanto anarchici non ci riteniamo qualcosa di più, non siamo portatori di una radicale alterità rispetto agli altri proletari. È semmai il connubio teorico-pratico dell’anarchismo, quindi la capacità propulsiva dell’azione, a prefigurare con i fatti quest’alterità. Non ci riteniamo depositari del verbo della violenza così come altri sono depositari del verbo del pacifismo. Non ci è mai bastata – o non ci basta più – la strenua rivendicazione della giustezza della violenza rivoluzionaria contro lo Stato e il capitale. Sottolineare l’importanza dell’azione, ribadirne la capacità discriminante, non basta a tirarci fuori dalle secche della mancanza di prospettive. Ecco allora che, più che affermare il valore di determinati mezzi e strumenti, è essenziale per noi oggi suggerire l’importanza del metodo, perché non crediamo che darsi degli atteggiamenti o dei vestiti nuovi ci possa consentire di raggiungere ciò che invece ci può dare l’impiego dei metodi di sempre. Cauti nei riguardi delle novità teoriche e scettici nei confronti dei fabbricanti di queste novità, restiamo fautori di un metodo, quello anarchico e rivoluzionario, con cui intervenire nella realtà sociale e nello scontro di classe. Perché le classi – così come i padroni – esistono ancora e la concezione anarchica della lotta di classe non può essere messa sotto il tappeto. Lo diciamo chiaramente: diffidiamo di quanti tentano di presentare il concetto di classe come una sorta di manipolazione teorica di estrazione marxista. Negli ultimi decenni, ovunque in tutto il mondo, le più recenti generazioni approcciatesi alla lotta fanno propria una concezione libertaria della lotta stessa e della vita, anche se con un moto dell’animo per certi versi comprensibile – ma non condivisibile – non fanno propri i caratteri e i concetti dell’anarchismo. Non riteniamo sia nostro compito “capitalizzare” in termini quantitativi questa tensione, bensì coglierne i caratteri qualitativi nella direzione di uno sviluppo dello scontro sociale in senso antiautoritario. Parole altisonanti? Forse. In ogni caso, proprio nella direzione di uno sviluppo in questo senso, e in critica alle sempreverdi sirene della resa e della desistenza, riteniamo non sia affatto anacronistico perseverare nel considerare discriminanti l’attacco, la conflittualità permanente, l’autorganizzazione della lotta. Non abbiamo scordato che l’anarchismo è per sua natura rivoluzionario, ossia tendente a porre in essere e a consolidare le condizioni per cui – senza fasi transitorie, attaccando il possibile sviluppo di qualsiasi centro di potere – si possa avere un processo rivoluzionario, o affinché a partire da lotte specifiche o da determinate circostanze storiche si possano dare degli sbocchi insurrezionali, per loro natura preparatori della rivoluzione sociale. Queste sono le nostre radici di anarchici, che affondano nella necessità e nella volontà di arrischiarsi su strade non ancora battute, di azzerare il nemico di sempre in favore di un vita radicalmente libera, senza Stato e capitale. Queste pagine nascono quindi con la presunzione di dire qualcosa su questa necessità e su questa volontà di sconvolgimento, e nel segno di un’assenza, di un’urgenza che avvertiamo, ossia nel solco di una continuità con alcune precedenti pubblicazioni anarchiche rivoluzionarie. Non si tratta però della riesumazione di un cadavere – considerata anzitutto la diversità nel formato e nel “taglio” di queste pagine –, ma dell’avvio di un nuovo strumento di cui pensiamo ci sia bisogno. Con questa pubblicazione (per il momento) irregolare vorremmo raccogliere sia degli “elementi” che consentano di cogliere cosa significano pensiero e azione per l’anarchismo, sia delle occasioni di riflessione su fatti “grandi e piccoli” a partire dai quali delineare la nostra visione del mondo, risalendo quindi alle motivazioni della nostra lotta, alle ragioni dell’anarchismo. Allora, come rendere comprensibili queste ragioni, e la fame di libertà integrale – spesse volte intuita, altre volte mal compresa – che portano con sé, a fronte di una realtà sociale dove si punta unicamente a rendere spendibili delle opinioni usa e getta? Questa pubblicazione non sarà un contenitore, incapace di dire di no, disponibile a tutti i vezzi retorici o velleità letterarie (oggigiorno perlopiù improbabili). Saranno delle pagine talvolta a loro modo polemiche, corrosive, ma non inutilmente polemiche, adagiate nel livore. Occorrerà quindi una scelta nel taglio degli argomenti, nella consapevolezza che questo resta uno strumento, non una palestra per esercitazioni retoriche. Quanti di noi si sono avvicinati alle idee anarchiche perché, un giorno tra i tanti, si sono trovati tra le mani un giornale, una rivista, un libro? Siamo ancora disposti a scommettere sulla scoperta e sull’approfondimento delle potenzialità proprie della nostra individualità. Desideriamo che queste poche pagine mantengano una tensione costante nell’essere uno strumento (ancorché minimale) per attrezzarci a fronte dei tentativi dello Stato di metterci all’angolo, di liquidare la prospettiva rivoluzionaria dell’anarchismo. Una scommessa che nel suo complesso si pone decisamente al di fuori della portata delle nostre attuali capacità. Tuttavia, inguaribilmente ottimisti, niente e nessuno potrà impedirci di perseverare nell’illimitatezza dei nostri sogni.
Un lavoretto da portare a termine. Sul 41-bis
Riceviamo e diffondiamo: Qui l’articolo in pdf: Un lavoretto da portare a termine Un lavoretto da portare a termine All’inizio del mese di luglio (2025) il tribunale di sorveglianza di Roma ha rinnovato l’applicazione del regime detentivo 41-bis a Marco Mezzasalma. Marco è stato arrestato nel 2003 ed in seguito condannato all’ergastolo per le azioni dell’organizzazione di cui faceva parte: le Brigate Rosse per la Costituzione del Partito Comunista Combattente. Le più note azioni di questa organizzazione armata furono l’eliminazione di Massimo D’Antona, presidente della commissione tecnica per la redazione di un testo unico per la disciplina del rapporto di lavoro presso le pubbliche amministrazioni del governo Amato, e di Marco Biagi, consulente del ministro del welfare Roberto Maroni per l’elaborazione della riforma del mercato del lavoro. Entrambi i giuslavoristi erano impegnati nella trasformazioni dei rapporti di sfruttamento per renderli idonei all’affermazione del modello economico neoliberista. Marco Mezzasalma, come altri due membri della sua organizzazione Nadia Lioce e Roberto Morandi, è soggetto al 41-bis da oltre vent’anni, periodo in cui l’applicazione del regime speciale gli è stata costantemente rinnovata. Il 41bis prevede la reclusione in istituti appositamente dedicati; l’isolamento; l’assenza di spazi comuni; limitazioni all’accesso all’aria e la gestione delle sezioni unicamente da parte di corpi speciali della polizia penitenziaria (GOM); la limitazione dei colloqui e l’utilizzo di vetri divisori; la censura della posta e forti limitazioni alla possibilità di studio; la totale impossibilità di comunicare con l’esterno. Si tratta quindi di una forma di detenzione finalizzata all’annientamento fisico, mentale e politico del detenuto. Dalla data del 2 marzo 2023, in cui si verificò il conflitto a fuoco che portò alla morte del combattente Mario Galesi e di un agente della PolFer, alla cattura di Nadia Lioce, ed al successivo arresto di altri membri del loro gruppo, l’esistenza dell’organizzazione PCC non si è più manifestata. Quindi è palesemente inesistente il presupposto legale per cui viene applicato il 41-bis ai tre compagni, cioè recidere i contatti tra il detenuto e l’organizzazione all’esterno, mentre è altrettanto evidente la sua non dichiarata funzione punitiva. L’accanimento con cui viene prorogato il 41-bis sembra quindi essere l’esercizio della vendetta e dell’odio di classe della borghesia verso chi ne ha messo in discussione il potere; ed essere inoltre un castigo esemplare attraverso cui si sottopone un corpo a condizioni estreme per lanciare un monito a molti altri: che sappiano cosa li potrebbe aspettare se la loro rivolta superasse determinati limiti. Il 41-bis si manifesta come sospensione (delle regole previste dall’ordinamento penitenziario), si tratta quindi dell’instaurazione dello stato di emergenza all’interno delle carceri, cioè di una misura di carattere eccezionale e provvisorio prevista per gravi motivi di ordine pubblico e di sicurezza. Nei fatti, una volta introdotta, questa misura di governo delle carceri è stata normalizzata e la sua applicazione progressivamente estesa: l’eccezione è divenuta la regola. Infatti il 41-bis, che riprende il percorso del carcere speciale (una storia sia europea che specificamente italiana legata alla repressione dell’insorgenza rivoluzionaria degli anni 70), è stato inizialmente introdotto a tempo determinato negli anni 80, ma successivamente la sua applicazione è stata costantemente prorogata ed infine è diventata stabile nell’ordinamento penitenziario. Inoltre il limite di tempo per il quale un detenuto può esservi sottoposto è stato prolungato da due a quattro anni. Ma soprattutto, per quanto riguarda la durata, è importante rilevare che le istituzioni preposte ad amministrare questa misura – la cui applicazione, dato il suo elevato livello di afflizione, era appunto prevista per periodi limitati – hanno assunto nella maggior parte dei casi la decisione di rinnovarla costantemente, ed in sostanza automaticamente, facendola diventare una pesante pena accessoria che, per molti detenuti, accompagna l’intera durata della reclusione. Questa è una grave responsabilità politica di chi gestisce il 41-bis, cioè in primo luogo del Ministro della Giustizia in carica e del tribunale di sorveglianza di Roma, ma evidentemente, risalendo l’ordine gerarchico, anche del presidente del consiglio e del presidente della repubblica che avrebbero il potere di porre fine a questa situazione disumana. Infine il 41-bis, originariamente utilizzato per contrastare “l’emergenza mafia”, dal 2002 è diventato uno strumento di repressione politica, e vi possono essere sottoposti gli accusati di delitti commessi con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. Inoltre 41-bis si è esteso nello spazio, facendo dello Stato italiano un punto di riferimento per le politiche repressive in campo internazionale. Infatti recentemente questo modello detentivo, sperimentato in Italia, è stato proposto e preso in considerazione dalle amministrazioni dei sistemi carcerari cileno e francese. Il principale argomento utilizzato per giustificare il carcere duro è la sua utilità nel contrastare la mafia, conseguenza della diffusa quanto reazionaria ideologia antimafia. Essere contro la mafia non vuol dire essere favorevoli al carcere duro, ad esempio gli anarchici sono contro la mafia, perché qualsiasi mafia è un sistema fondato sulla gerarchia, sulla sopraffazione, sullo sfruttamento e quando lo scontro tra le classi si accende si dimostra fedele alleata dei capitalisti e dello Stato, ma allo stesso tempo gli anarchici sono per la distruzione del carcere. Basterebbe conoscere la storia degli anarchici di Africo in Calabria, della loro lotta contro la ‘ndrangheta e di come lo Stato li abbia repressi per favorire l’insediamento delle Cosche, per fugare qualsiasi dubbio in merito a questa irreversibile inimicizia, messa recentemente in discussione dalle vergognose insinuazioni del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro. Non pretendiamo rappresentare l’opinione di tutti ma, limitandoci alle idee di chi scrive, riteniamo che l’esistenza della mafia sia indissolubilmente connaturata all’ingiustizia insita nel sistema capitalista e che quindi solo tramite la distruzione di questo sistema si potrà estinguerla. Il carcere duro invece non risolve nulla in questo senso, infatti non solo la logica punitiva ed il carcere duro non hanno evidentemente sconfitto la mafia, ma l’antimafia ha creato nuove concentrazioni di potere e rafforzato la parte più profonda e totalitaria dello Stato. Rigettiamo totalmente quindi la logica punitiva insita nella concezioni giustizialiste, tanto di destra quanto di sinistra, che arrivano a fare presa perfino in ambiti che si definiscono libertari. Questa visione, strettamente legate al pensiero dominante, si concentra sulle responsabilità individuali di fenomeni ritenuti criminali o nocivi per la società, rifiutandosi di indagarne le cause. Ragionando in questi termini i conflitti interni alla società vengono letti come un problema di legalità e la soluzione è sempre la repressione. Invitiamo a ribaltare completamente questo paradigma ed a considerare che si possono risolvere i problemi di una società solo analizzandone e comprendendone le cause originanti ed andando a ad agire su di esse. La lotta di classe quindi è l’unica soluzione possibile per avere giustizia, per un vero cambiamento della società, e anche per sconfiggere la mafia. Il 41-bis va chiuso perché è tortura, è il carcere nella sua massima espressione, e la sua funzione antimafia non lo giustifica. Inoltre il 41 bis va chiuso perché è uno strumento di guerra, pronto per per essere usato dallo Stato contro chiunque osi metta in discussione l’ordine che domina la società in cui viviamo. In un periodo di relativa pace sociale, lo Stato si è dotato di una serie di potenti strumenti repressivi, che vanno dall’apice del 41-bis, fino arrivare al decreto sicurezza approvato quest’anno. Questi strumenti non sono scollegati tra loro, ma andrebbero letti come un sistema complessivo che abbraccia l’intero spettro delle pratiche con cui si esprime il conflitto sociale, mirando a impedirgli qualsiasi possibilità di espressione che non sia totalmente sterile o recuperabile. Oggi che il pluridecennale periodo di dominio incontrastato del capitalismo occidentale è giunto al termine e sul suo orizzonte si addensano pesanti nubi che portano tempesta, il rapporto tra conflitto sociale e repressione è di stringente attualità. Segnaliamo alcune importanti questioni, che comportano l’aumento della repressione, quali la fine del mondo unipolare e la ridefinizione degli equilibri internazionali, quindi la guerra come questione fondamentale del presente e quindi la necessità di mantenere un rigido controllo del fronte interno. Altra importante questione è la diminuzione costante della richiesta di forza lavoro all’interno dell’occidente, dovuta ad una somma di cause tra cui l’introduzione di nuove tecnologie, che porta all’esistenza di masse umane eccedenti rispetto alle esigenze del capitale, quindi alla necessità per chi detiene il potere di gestirle: l’aumento di repressione e controllo è la soluzione che è stata adottata. Il 41-bis è un carcere di guerra, è la punta di diamante di questo guerra di classe dall’alto verso il basso, uno strumento che oggi è rivolto conto pochi combattenti ma che è a disposizione dello Stato qualora dovesse allargarsi il conflitto. Lo sciopero della fame intrapreso dal compagno anarchico Alfredo Cospito per l’abolizione del 41-bis e dell’ergastolo ostativo, ha avuto il grande merito di fare prendere coscienza a molti, anche al di fuori del movimento, della inaccettabile esistenza del 41 bis. Questa iniziativa è stata sostenuta da una campagna di solidarietà internazionale. In previsione della decisione su un eventuale rinnovo del regime speciale di detenzione al compagno, che verrà presa dal ministro della giustizia Carlo Nordio nei prossimi mesi, è giunta l’ora di riprendere la discussione e la mobilitazione in merito a questa lotta. Un lavoro iniziato bene che dobbiamo ancora concludere… complici e solidali