Source - il Rovescio

cronache dallo stato di emergenza

Chi devasta è lo Stato, chi saccheggia è il capitale. Sull’operazione “Ipogeo” in Sicilia
Riceviamo e diffondiamo: CHI DEVASTA È LO STATO, CHI SACCHEGGIA È IL CAPITALE All’alba di giovedì 20 novembre è scattata l’operazione Ipogeo orchestrata dalla Procura di Catania, con perquisizioni a Catania, Palermo, Messina, Siracusa e Bari. Per tre delle sedici compagnx inquisitx è stata disposta la detenzione in carcere come misura cautelare. I fatti contestati riguardano quanto accaduto durante il corteo di Catania dello scorso 17 maggio contro il Decreto Sicurezza. Interruzione di pubblico servizio, imbrattamento, lesioni personali, rapina e devastazione e saccheggio, queste le principali accuse che la Procura muove ai sedici compagnx. Il recupero di devastazione e saccheggio, reato introdotto nel ventennio fascista con il Codice Rocco e rispolverato e sdoganato dal G8 di Genova in poi, è del tutto strategico. La sua estrema ambiguità ne permette l’applicazione nei contesti più disparati facendone deterrente perfetto per cortei e manifestazioni che non intendono rientrare nei recinti della concertazione, che non si accontentano di mere passeggiate e anzi esprimono nelle strade un saldo antagonismo politico. Inoltre, la severità delle pene (dagli otto ai quindici anni) che questo reato prevede lo rende strumento ideale per terrorizzare e reprimere la conflittualità. A rendere il quadro ancora più tetro contribuisce l’uso diffuso del dispositivo del concorso in reato, anch’esso largamente elargito a buona parte delle compagnx inquisitx nell’Operazione Ipogeo. Si tratta di un articolo del Codice penale che colpisce chi si ritiene concorrere materialmente o moralmente al reato contestato, prevedendo la stessa pena di questo. Per la Questura e la stampa è stata l’ennesima occasione per rivomitare all’opinione pubblica la solita retorica dei buoni e dei cattivi. Ci ripetono che chi mette in campo pratiche che eccedono il recinto della legalità è un infiltratx che inquina le lotte giuste, quelle ben perimetrate dei sinceri democratici, e va quindi isolatx. Il corteo al centro dell’operazione, che ha attraversato Catania passando sotto il carcere di Piazza Lanza, si opponeva al Decreto Sicurezza, l’ennesimo strumento con cui Stato e padroni si armano nella guerra interna contro oppresse e sfruttati. Il cosiddetto Decreto Sicurezza, divenuto legge a giugno, con il suo nauseabondo insieme di nuovi reati e aggravanti prevede sempre più carcere per gli esclusx e per chi si ribella allo stato di cose presenti. Contro queste misure le compagnx arrestatx e inquisitx si sono oppostx e per questo sono statx colpitx dalla repressione. È fondamentale ora non lasciarlx solx mostrando vicinanza, supporto e solidarietà. Dove il livello dello scontro si abbassa, la repressione ha campo libero. Di fronte alla stretta repressiva l’unico modo che abbiamo per resistere non è piegarci alle regole della controparte, ma dare forza e nutrire le nostre pratiche reagendo all’isolamento. Anche le recenti piazze in solidarietà alla resistenza del popolo palestinese lo hanno dimostrato: non accettare le limitazioni imposte dal nuovo Decreto Sicurezza rende più difficile allo Stato e ai suoi gendarmi applicarne il contenuto. L’UNICO INFILTRATO È LO STATO! ADESSO E SEMPRE SOLIDARIETÀ! BAK, LUIGI E ALE LIBERX! Per il supporto ai compagni scrivi a vumsec@canaglie.net
Comunicato di Juan, fianco a fianco dei “Prisoners for Palestine”
A causa di ritardi nella comunicazione via posta, facciamo sapere solo adesso che anche il compagno anarchico Juan Sorroche ha aderito alla protesta dei “Prisoners for Palestine”, con uno sciopero dell’aria durato alcuni giorni. Di seguito il suo comunicato, in cui ancora una volta il cuore del nostro amico Juanito è un atto di accusa  contro la meschinità di chi lo tiene rinchiuso. Tutti liberi! Palestina libera! Solidarietà ai/alle prigionieri/e palestinesi nel mondo Solidarietà ai/alle prigionieri/e delle proteste di “Palestine Action” Questo mio pensiero viene stimolato dalle proteste dei/delle prigionieri/e di “Palestine Action” in sciopero della fame dal 14/11/2025 nelle carceri britanniche e anche da chi si è unito in solidarietà a loro. Il compagno anarchico Stecco, prigioniero in Italia, ha aderito allo sciopero della fame dal 07/11 fino al 28/11, così come Massimo, compagno anarchico che si trova in semilibertà nella prigione di Trento, che ha portato la sua solidarietà e protesta rinunciando a una settimana di lavoro e quindi di uscite giornaliere. Ho deciso di aderire il 26/11/2025 anch’io con un gesto simbolico e di solidarietà alle ragioni di questa protesta rinunciando alle mie ore d’aria (nel cortile) per una settimana nel carcere di TerniAS2, dove mi trovo prigioniero, in solidarietà libertaria e internazionalista e che accompagno con queste parole. Per prima cosa vorrei ricordare che il mio cuore piange nel sapere il gran numero di BAMBINI PRGIONIERI dello Stato israeliano! E innanzi tutto, la mia solidarietà non può che andare ai 17.000 prigionieri dello Stato sionista in Palestina e ai prigionieri palestinesi in tutto il mondo! La mia solidarietà rivoluzionaria e il mio cuore batte per il coraggio della resistenza degli oppressi palestinesi, i combattenti partigiani che resistono oggi con la guerriglia armata di liberazione, che dura da settantacinque anni contro il colonialismo israeliano sionista e occidentale! E nello specifico mando la mia solidarietà in Italia ad Ali e a Mansour e in special modo al mio amico e fratello Anan partigiano palestinese, trasferito poco fa da qui, portato via e rinchiuso a Melfi in maniera punitiva per mano dello Stato italiano che è complice obbediente dei sionisti dello Stato di Isreale. Così come vorrei ricordare gli oppressi che soffrono la guerra nel mondo! E il popolo palestinese in particolare con le 67.000 persone assassinate dagli Stati capitalisti occidentali, di cui 20.000 BAMBINI, cioè quasi la metà del totale!! Questa guerra infame e queste violenze razziste strutturali, che sono intrinseche a tutta la nostra società occidentale statalista-capitalista e colonialista, che sono la genesi della società israeliana. Per fare ciò in queste nostre società siamo stati in primo luogo assuefatti a questa violenza e razzismo SISTEMICI degli Stati capitalisti ed educati ai “grandi” valori politico-economici DEMOCRATICI e questo, DICIAMOLO, dev’essere detto FORTE E CHIARO. Vorrei ricordare i genocidi programmati da secoli dalle democrazie occidentali! Che OGGI ANCORA avanzano indisturbati in ogni momento e adesso, a Gaza e in Cisgiordania, con la complicità dell’Occidente, che a parole roboanti dell’ONU dà “diritti e pace” e nei fatti reali vende le bombe e le armi che trucidano. Come sono anche programmate scientificamente da decenni LE DIVERSE GUERRE STATALI-CAPITALISTE (a suon di leggi) nell’indifferenza delle nostre società occidentali. Ne sono un “piccolo” esempio le infinite stragi degli immigrati nel Mediterraneo che avvengono nell’indifferenza strutturale razzista che continua nel silenzio complice di quasi tutta la nostra società occidentale. Questi danni e tanto, tanto ancora è ciò che fa l’interclassismo democratico nelle nostre vite-lotte, io credo che a livello pratico della lotta autonoma e antiautoritaria quest’ultimo ci porti via le poche energie preziose, indirizzandoci volutamente a forme spettacolari di solidarietà che vengono svuotate completamente dalle poche forze reali che si hanno; tra l’altro così non incidendo minimamente nella possibilità di cambiamenti radicali della lotta di classe e rivoluzionaria e della realtà del cambiamento della nostra società incanalandoci verso la pace sociale che è la continuità delle azioni di guerra stataliste-capitaliste e della conseguente repressione esterna-interna. È giusto anche ricordare che oggi ci sono compagni prigionieri rivoluzionari comunisti in Italia, alcuni rinchiusi da più di 40 anni, che già decenni addietro lottavano con la lotta armata contro l’imperialismo, ricordare che storicamente lottavano anche con la resistenza armata palestinese, in solidarietà al popolo palestinese, ci serve per ricordare la storia rivoluzionaria, per dare la giusta dimensione solidale contro la repressione statale, come bussola, per dare le giuste ragioni sociali e storiche per le future lotte rivoluzionarie-libertarie! Solidarietà all’amico e compagno anarchico Alfredo Cospito rinchiuso al 41 bis per azioni rivoluzionarie contro Ansaldo. Contro il 41 bis, fuori tutti! Solidarietà alla compagna prigioniera Anna Beniamino e a tutti/e i/le prigionieri/e anarchici e libertari nel mondo! Lo Stato italiano come quello inglese è complice delle guerre coloniali di Israele e del genocidio, della repressione interna, con l’imprigionamento dei/delle compagni/e rivoluzionari comunisti e anarchici: in Italia di tre partigiani palestinesi, uno dei quali è Anan Yaeshh; in Inghilterra con l’arresto degli attivisti di “Palestine Action” e la detenzione degli indipendentisti irlandesi. Questi Stati sono anche complici di aver rinchiuso i 17.000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Tutto ciò è collegato! Ciò che vogliono dare oggi lo Stato italiano e quello inglese sia nel processo di Anan che di “Palestine Action”, accusandoli di terrorismo e non riconoscendo la loro resistenza di liberazione del popolo palestinese e dal colonialismo occidentale, è un chiaro messaggio di tutto il colonialismo occidentale e della complicità italiana e inglese con il genocidio. Solidarietà ai/alle prigionieri/e delle proteste di “Palestine Action”! Libertà per tutti/e i/le prigionieri/e nel mondo! Per la distruzione di tutte le carceri, delle frontiere, di tutti gli Stati e del capitalismo! Contro la guerra! Rivoluzione-libertaria! Juan Sorroche (spedito il 24/11/2025 dalla sezione AS2 del carcere di Terni)
Riarmo e toni apocalittici
Riprendiamo da lanemesi.noblogs.org questa riflessione, che fa da contrappunto a certi “toni apocalittici” sulla guerra spesso utlizzati anche dal nostro sito. Ne apprezziamo soprattutto lo sguardo verso la materialità dei rapporti economici e politici a livello internazionale: ciò che più conta, dal nostro punto di vista, non è certo fare allarmismo, ma non perdere mai di vista la realtà, e in particolare quella che va oltre le nostre immediate vicinanze (l’analisi dell’economia e della politica internazionale, assolutamente necessaria in un mondo globale, non è esattamente un punto di forza della maggioranza degli anarchici). Dal canto nostro,  crediamo però che sia sempre buona cosa prepararsi, e preparare chi ci ascolta, allo scenario peggiore, specialmente in tempi di inerzia della catastrofe. Il che non esclude, ma integra l’attenzione – giustamente richiama dall’autore dell’articolo – agli effetti materiali che sono già prodotti dalla guerra sulla pelle degli sfruttati.   Riarmo e toni apocalittici Nell’attuale (e striminzito) campo rivoluzionario – quello che non ha rinunciato ad adottare una postura classista, internazionalista, antimilitarista e disfattista – la questione del riarmo viene spesso affrontata facendo largo ricorso a toni apocalittici. In particolare, per quanto riguarda l’Europa, stante lo scenario ucraino, il fatto che gli stati accelerino la corsa al riarmo, sembra spingere molti a credere che la guerra totale alle nostre latitudini sia questione di mesi, magari anni; la clessidra del tempo di ”pace” va esaurendosi, la catastrofe incombe. Sarà poi così? Se non si può rimanere indifferenti al riarmo europeo, soprattutto a quello intrapreso da potenze come la Germania, per orientarsi nel caos propagandistico e patriottardo promosso dalle classi dominanti del Vecchio continente,è altrettanto impossibile prescindere da una serie di valutazioni circa lo stato del conflitto in Ucraina e le possibilità concrete di ”scelta” alla portata, nel breve-medio termine, degli stati dell’Europa centrale e occidentale, al fine di preparasi a quella che viene presentata come un’incombente minaccia di attacco russo. Sarà allora il caso di prendere atto, come invitano a fare analisti, tutt’altro che sovversivi, del calibro di Fabio Mini o Lucio Caracciolo, che, nell’immediato, la Russia non ha alcuna seria intenzione di attaccare l’Europa, a partire dai paesi baltici; e non perché non disponga dei mezzi convenzionali e nucleari indispensabili a questo scopo, in questo senso semmai il problema vale per l’avversario. Ad esempio, dovrebbe far riflettere l’atteggiamento dell’Europa, che mentre dipinge il nemico moscovita come il nemico della democrazia pronto ad attaccarla da un momento all’altro, temporeggia, sperando nella prosecuzione del conflitto in Ucraina, per compensare le deficienze che si porta dietro da decenni sul piano militare, e non solo. Ad ogni modo, per la Russia, sin dallo scoppio del conflitto ucraino nel 2022, aggredire l’Europa, con la quale fino a pochi anni prima facevano affaroni, non è mai stata una priorità strategica, quanto piuttosto un’azione insensata frutto delle fantasticherie occidentali, dalla portata potenzialmente destabilizzante per Mosca. In tutto ciò, gli USA sono ben lungi dall’essersi defilati dal conflitto in Ucraina; fatto testimoniato dal recupero dei rapporti bilaterali con la Russia, incrinati dall’amministrazione Biden, funzionali ad evitare un coinvolgimento in uno scontro diretto con Mosca e, possibilmente, a tentare di sganciarla dalla Cina. Sempre Fabio Mini recentemente ha sottolineato che la titubanza dell’attuale amministrazione americana nel fornire agli ucraini i tanto richiesti missili Tomahawk si inserisce in questa direzione; senza tralasciare che il Pentagono ha fatto notare al dealmaker della Casa Bianca che la fornitura non rinforzerebbe affatto la capacità di deterrenza verso la Russia, ma anzi potrebbe favorire un’escalation nucleare. La Russia è dotata poi di sistemi difensivi antimissile capaci di ridurre fortemente il successo, in termini di capacità di colpire i bersagli russi individuati, a due missili su dieci lanciati. «In Ucraina è già successo agli ATACMS e ai Patriot, che hanno visto la loro percentuale di successo crollare dal 90% dichiarato al 6% effettivo». Altro che deterrenza. Per lo sbirro mondiale tanto vale allora fare più concessioni tattiche possibili a Mosca, rimettendo l’Europa, lacerata dai contrasti interni, al suo posto, senza mancare di rammentargli la sua irrilevanza, non avendo assolutamente nulla da mettere sulla bilancia dei rapporti di forza esistenti. Ciò che rimane, a partire dalla futura ricostruzione ucraina, è, ancora una volta, questione di affari. Tra i 28 punti della bozza del piano di pace per l’Ucraina, a quanto pare elaborato in un mese di confronto tra la delegazione statunitense e quella russa, era previsto non solo l’addio dell’Ucraina ai piani di integrazione nella NATO, ma anche la riammissione di Mosca nei circuiti della finanzia internazionale (leggi SWIFT), la cancellazione delle sanzioni, in cambio del 50% dei proventi della ricostruzione, finanziata in parte dagli assets russi congelati in Belgio e in parte dalle tasche europee. Le richieste di modifica del piano da parte degli europei evidenziano soprattutto, e per l’ennesima volta, il tentativo di mandare in vacca il deal, rimettendo al centro la palla dell’integrazione ucraina nella NATO. Intendiamoci, i proletari, di qualsiasi nazionalità siano, non hanno amici: piano USA-Russia o piano UE, ogni decisione viene presa sulla loro pelle; quattro anni di massacri in nome della difesa della democrazia contro la tirannide dovrebbero averlo dimostrato, in barba alla mitizzazione della resistenza ucraina, alimentata da disgraziati strappati via dalle proprie famiglie e comunità. Ecco le magnifiche e progressive della coscrizione obbligatorio e della legge marziale, ma, per l’amore del cielo, in salsa democratica, mica come in Russia. Ma torniamo al riarmo europeo, la cui necessità impellente non va attribuita esclusivamente alla minaccia Russa, ma ancor prima al ruolo degli Stati Uniti in Europa e all’incognita della loro permanenza nell’arco del prossimo decennio. La Germania, recentemente presa in considerazione in relazione alla presentazione della nuova legge sulla leva1, come sempre fa scuola, anche se bisogna tenere ben presente che tra ciò che viene dichiarato e ciò che viene poi applicato la corrispondenza non è automatica: gli investimenti nella spesa bellica e il rafforzamento degli eserciti non avvengono dall’oggi al domani. Perché vengano destinati efficacemente occorre continuità, stabilità politica interna, collaborazione della popolazione e sforzo strategico nel lungo periodo. Partendo dalle deficienze a cui si accennava sopra, le Forze armate tedesche tra gli anni Novanta e il 2022 hanno perso finanziamenti per un valore complessivo di 400 miliardi di euro, con serie conseguenze sul piano della prontezza operativa, delle infrastrutture logistiche, delle scorte, del personale, delle tecnologie della comunicazione, ecc. Nel 2022 Scholz dichiara pubblicamente che la Germania si deve svegliare dal suo letargo pacifista per riarmarsi, e in fretta. Viene così stanziato il primo fondo da 102 miliardi, poi nel marzo del 2025 è il turno del programma di potenziamento della Bundeswher: le spese belliche oltre l’1% vanno fuori bilancio. Per il 2029 è previsto l’investimento di 150 miliardi; intanto, per quanto riguarda il 2026, si passa ai 108 miliardi. Sempre recentemente però, si è stimato ottimisticamente che entro il 2030 la Germania non sarà minimamente in grado di reggere una guerra convenzionale, a causa di tutte le mancanze di cui sopra. Anche perché per farlo è necessaria un’altra cosa: la conversione dell’industria in chiave bellica; un processo che richiede tempi lunghi, capitali e sviluppo tecnico. Rheinmetal punta già ad acquisire stabilimenti Volkswagen, coerentemente con l’idea di far leva sul settore automobilistico in forte crisi per realizzare la riconversione. Ancora poco, se è vero che il tempo stringe, e stiamo parlando della Germania, mica dell’Italietta. In un articolo dell’ultimo numero della Rivista di Geopolitica Limes, sempre in riferimento alla Germania, si riporta come: «le guerre del presente non si combattono con armi tecnologicamente sofisticate e pochi mestieranti. Nessuna blitzkrieg alle viste. Sono conflitti d’attrito, scontri di lunga durata tra apparati bellici di vaste proporzioni. Perdi quando si logora il consenso interno». Quando avviene questa frattura? Questo Limes non ce lo dice, o meglio ce lo dice diversamente: quando le condizioni di vita e la riproduzione della forza lavoro subiscono una forte degradazione funzionale allo sforzo bellico; diversamente gli appelli al disfattismo rivoluzionario, alla diserzione, sono esercitazione retoriche ad uso e consumo degli addetti ai lavori, piaccia o meno. La lotta di classe e l’antimilitarismo devono quindi essere necessariamente legate, giacché separarla, ricondurre la seconda a ragioni etiche, di giustizia e morale, senza sminuire la realtà e concretezza dell’atrocità, della disumanità connaturata a questi fenomeni abominevoli di negazione totale delle vite proletarie, è opera più da pretaglia che da sovversivi. Comunque, è lo stesso articolo a presentarci il sostanziale accordo di due terzi dei tedeschi verso l’aumento delle spese militari entro il 2032, ma con almeno due riserve: innanzitutto che non venga toccato lo stato sociale – ma anche a fronte della possibilità di scorporare la spesa bellica dal patto di stabilità, prima o poi i conti saranno da fare, e saranno dolori-; secondo: poca disponibilità a sacrificarsi per la patria; soltanto un tedesco su sei sarebbe pronto a rischiare la pelle per difendere i confini tedeschi. Ancora una volta: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare! 30/11/2025 1 https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/11/15/una-levataccia-per-la-gioventu-tedesca-ed-europea/
Stecco ha interrotto lo sciopero della fame
Apprendiamo che il nostro compagno Stecco ha interrotto lo sciopero della fame in solidarietà con i “Prisoners for Palestine” all’alba di sabato 29 novembre. In attesa di aggiornamenti, rimaniamo al fianco dei prigionieri in lotta che continuano a portare avanti lo sciopero della fame. Tutti liberi! Palestina libera!
Trento, 10 dicembre: Presentazione di “disfare – per la lotta contro il mondo-guerra” e discussione
La guerra. Un «fatto sociale totale» che racchiude tutto il nostro presente: dalla Palestina, all’Ucraina, passando per i fronti interni dell’occidente, e per l’apparato tecnologico che, con le sue reti logistiche e i suoi flussi digitali, sostiene e organizza lo sforzo bellico. Mentre anche in Italia si parla di reintroduzione della leva militare, quali sono i “compiti dell’ora presente” di cui dovrebbe farsi carico un movimento contro la guerra? Ne parliamo con alcuni compagni della redazione di disfare – per la lotta contro il mondo-guerra. Mercoledì 10 dicembre 2025 Ore 20:00 Spazio anarchico “El Tavan” Via Torre Vanga 14 Trento  
“Che fatica conciliare l’inconciliabile…”. Una risposta a “Sulle care vecchie – amate – questioni”
Riprendiamo da lanemesi.noblogs.org questa risposta all’articolo su Comunismo-e-individualismo, pubblicato anche su questo sito: Qui il testo in pdf: Conciliare   “Che fatica, conciliare l’inconciliabile…”. Una risposta al contributo “Sulle solite vecchie – amate – questioni. A proposito di comunismo e individualismo (con disimpegno a vista sul nichilismo)” Che fatica, conciliare l’inconciliabile… Recentemente è stato fatto circolare, sia su Il rovescio che su La Nemesi, un contributo intitolato Sulle solite vecchie amate questioni. A proposito di comunismo e individualismo (https://ilrovescio.info/2025/10/22/sulle-solite-vecchie-amate-questioni-a-proposito-di-comunismo-e-individualismo/), contenente alcune risposte a quattro scritti critici – di cui due riconducibili a Juan Sorroche, prigioniero anarchico, uno ad un autore anonimo e l’altro ancora al gruppo anarchico Panopticon – aventi per oggetto gli articoli La fase nichilista e L‘anarchismo rivoluzionario contro la desistenza, entrambi pubblicati sul settimo numero del giornale anarchico Vetriolo. I quattro scritti menzionati non sono affatto sovrapponibili, né per quanto riguarda il loro contenuto, che nell’approccio metodologico, piaccia o meno il termine, adottato nello sviluppo delle critiche. Poco importa che dietro alle righe che avete sotto gli occhi vi sia l’autore di uno di questi quattro testi; anonimato sia, tanto per quello (Alcune considerazioni critiche su “La fase nichilista“), quanto per questo. Tuttavia, non posso fare a meno di rilevare che emmeffe, l’autore della risposta, o meglio dell’insieme di risposte, evidentemente meno avvezzo alla scelta dell’anonimato, ha replicato in maniera piuttosto autoreferenziale e, mi verrebbe da dire egocentrata, al mio contributo, ignorando di fatto una serie di punti critici ben più rilevanti, ai fini di un dibattito tra rivoluzionari, di mal interpretate accuse di scarsa originalità nella teorizzazione della cosiddetta fase nichilista. Piuttosto che tornarci sopra – l’autoreferenzialità è terribilmente noiosa – trovo maggiormente interessante collegarmi solo ad alcuni punti sviluppati nel suo scritto, al di là del loro specifico riferimento alle critiche mosse nei quattro diversi scritti, tentando di alimentare il dibattito. A questo scopo, può essere utile avvalersi di alcune citazioni testuali. Faccio solo presente che nell’opuscolo Bussole impazzite https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/09/25/bussole-impazzite-note-critiche-su-teoria-radicale-classe coscienza-individuo-comunita-e-possibilita-di-rottura-rivoluzionaria/) – sono state trattate alcune questioni – su cui non mi posso dilungare in questa sede – attorno a cui si è sviluppato anche il dibattito in corso: l’individuo, la comunità, il contenuto del comunismo e le recenti rivolte e sommosse verificatesi in tutto il mondo. * * * «L’espressione «frontismo» indica la strategia messa in atto a partire dagli anni Trenta dello scorso secolo di costituire, dinnanzi all’avanzare del pericolo fascista e nazista, ampi fronti popolari, ovvero alleanze fra partiti, sindacati e altri grandi organizzatori collettivi appartenenti a classi sociali diverse. Con la strategia del frontismo, quindi, si postula che il fascismo è il male assoluto e che contro questa maledizione la lotta di classe va messa in secondo piano. A teorizzare e mettere in pratica il frontismo sono stati innanzitutto partiti marxisti di varie colorazioni, stalinisti e socialdemocratici in origine, seguiti nel dopoguerra dal frontismo straccione del maoismo e del guevarismo che recuperava le lotte di liberazione nazionale originariamente espressione delle borghesie dei Paesi oppressi (giusto per ricordare all’ignorante di turno che i primi ad abbandonare la lotta di classe a favore delle alleanze politiche siano stati i marxisti e che talune categorie postcoloniali sono molto più staliniste-maoiste che libertarie)» Il nostro autore la fa un po’ troppo facile. Il frontismo antifascista è certamente una delle massime espressioni dell’assunzione ottimistica e della partecipazione attiva a lotte sociali interclassiste. In questo senso, la formula, abusata e raramente praticata nelle sue conseguenze pratiche, «l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo», conserva integralmente la sua validità, e non solo perché, al termine della Seconda guerra mondiale, il fascismo ha perso militarmente e ha vinto politicamente, in quanto modo di essere del capitalismo (e quindi dello Stato). Il fatto è che, volendo essere onesti, la tattica del frontismo antifascista non può essere ricondotta esclusivamente ai partiti marxisti fedeli alle direttive della Terza Internazionale, dominata dai bolscevichi. Tra l’altro, in seno ad essa non tutti i partiti aderirono alla tattica del fronte unico; il caso del Partito comunista d’Italia, da poco fondato e diretto dalla cosiddetta Sinistra comunista italiana, e dal più volte evocato – poco coerentemente essendo il nostro autore anarchico – Amadeo Bordiga, è emblematico, ma non esaurisce le posizioni scettiche e di netto rifiuto del frontismo, più diffuse di quanto si immagini in campo marxista, non solo al principio degli anni 20′. Il frontismo è un fenomeno che ha coinvolto storicamente anche gli anarchici, molti ma non tutti, tanto in Italia, ad inizio anni Venti con gli Arditi del popolo, tra il 1943 e il 1945 con la Resistenza partigiana, che, ancora più evidentemente, in Spagna, e precisamente nella misura in cui il fascismo veniva visto come il nemico numero uno da combattere. La lotta di classe e lo scontro ultimativo rivoluzionario venivano così rimandati a democrazia restaurata. È lo stesso autore de La fase nichilista a farcelo presente più avanti: in Spagna alcuni anarchici accettarono addirittura dei ministeri, per non parlare poi dei tentativi di sabotaggio degli scioperi spontanei che si produssero più volte già durante le prime fasi della guerra civile, del maggio 1937 a Barcellona, del discorso pronunciato da Durruti a Radio Barcelona (e riportato sul bollettino Solidaridad Obrera, il 5 novembre 1936), in cui il leader anarchico – si sprecano gli esempi di veri e propri capi libertari nella storia dell’anarchismo – esortava le organizzazioni operaie a non dimenticare che il dovere principale a cui erano chiamate era combattere il fascismo, motivo per cui dovevano lasciare perdere «i rancori e la politica, e pensare alla guerra». Tornando al nostro autore, non è chiaro perché l’esempio del tradimento della CNT debba costituire un’eccezione, tale da permettere di ricondurre il tatticismo frontista ai marxisti, deresponsabilizzando storicamente gli anarchici. La questione conserva una certa attualità. Infatti, ancora oggi l’antifascismo militante classico, con tutto il suo squallido corollario da politicanti – codismo, carrozzoni, logiche racketistiche, compromessi col ”meno peggio”, ecc – viene volentieri abbracciato da molti/e attivisti/e; a monte c’è lo stesso principio: prima si fanno i conti col pericolo fascista sempre dietro l’angolo – evitando di fare un bilancio di cosa sia stato il fascismo oltre allo squadrismo, alle camicie nere, all’olio di ricino, alla brutalità repressiva, quindi ignorando il suo più profondo contenuto, circoscritto ad una fase capitalistica e di scontro di classe che non esiste più nella forma in cui si pose un secolo fa – poi, ammesso e concesso che ne venga riconosciuta l’esistenza, c’è lo scontro di classe. Ogni fronte antifascista è fronte democratico, ogni fronte interclassista è fronte contro l’autonomia proletaria. «Il filone principale di queste ultime analisi, che solo impropriamente e molto riduttivamente possiamo definire di attualità politica, è quello che ci porta ai due scritti contro i quali hanno polemizzato i nostri ultimi interlocutori. In occasione della prima elezione di Trump abbiamo abbozzato un’ipotesi di massima, ancora oggi a mio avviso piuttosto buona per descrivere il presente: siamo di fronte a una fase che definiamo «crisi della globalizzazione», la cosiddetta ondata reazionaria che tanto spaventa i benpensanti di sinistra (Trump, Putin, Orban, i dazi, l’irrigidimento dei mercati, il razzismo e la chiusura delle frontiere) è espressione fenomenica di questa crisi; questa crisi è resa possibile dalle nuove tecnologie, le quali rendono relativamente più agile la produzione nelle economie sviluppate invertendo la dinamica creatasi durante la lunga stagione delle delocalizzazioni (nel frattempo anche i Paesi un tempo poveri sono diventati a capitalismo maturo, gli operai asiatici hanno cominciato a pretendere stipendi un po’ più decenti, ecc.); una parte del capitalismo occidentale dunque ha optato per il ritorno a casa propria degli investimenti, dandosi degli involucri politici (come il trumpismo) che facessero delle politiche (i dazi, per fare un esempio di recentissima attualità) atte allo scopo, mentre la vecchia élite politica liberale è inorridita e ha chiamato alla resistenza». Da tempo ci troviamo di fronte ad una crisi della globalizzazione, ma bisogna fare delle precisazioni utili non a trastullarsi il cervello con menate accademiche, come molti attivisti ostinatamente continuano a sostenere, ma a comprendere dove sta andando il modo di produzione capitalistico. Innanzitutto, il processo di globalizzazione, risposta alla crisi di accumulazione emersa sul finire della Golden Age, sin dal principio aveva fornito solo risposte parziali e niente affatto risolutive per il precario stato di salute del capitalismo. La globalizzazione inizialmente si configura come una vera e propria piattaforma di rilancio dell’accumulazione mondiale sostenuta dall’imperialismo finanziario del dollaro e dalla dilatazione della sua sfera d’influenza – resa possibile dalla fine degli accordi di Bretton Woods – all’intero globo. Contemporaneamente, si assiste al rapido sviluppo cinese, frutto del rapprochement sino-americano, accompagnato da un sostanziale calo della produttività industriale negli USA e dalla progressiva formazione di enormi bolle di capitale fittizio pronte a scoppiare, ecc; contraddizioni che sono andate inasprendosi, nonostante gli innumerevoli tentativi di arginarle, e che sono parzialmente deflagrate nella grande crisi finanziaria dei titoli subprime del 2008. Dire che la crisi in corso è resa possibile delle nuove tecnologie – una formuletta meccanicista che un buon anarchico dovrebbe sbattere in faccia ai suoi storici avversari, i ”socialisti scientifici” – è un’affermazione fumosa, se non si prende in causa il fenomeno della caduta tendenziale del saggio di profitto, quindi – essendo il capitale costretto a rivoluzionare continuamente i propri mezzi di produzione per fronteggiare la concorrenza in termini di produttività e costi – l’insieme di contraddizioni connesse al fenomeno della sostituzione macchinica della forza lavoro viva, per cui, riducendo all’osso: più capitale fisso = meno forza lavoro viva impiegata = meno estrazione di plusvalore = popolazione eccedente crescente = quantità crescenti di merci invendute, con tutto quello che ne consegue dal punto di vista dei mercati, del sistema monetario, del credito, della finanza, ecc. Se poi ce ne sbattiamo altamente dei più recenti, ormai ricorrenti e sistematici, tentativi di decoupling selettivo tra USA e Cina, del debito mondiale e, in particolar modo, di quello yankee; del fatto che gli stessi Stati Uniti fanno sempre più fatica, economicamente e militarmente, a sostenere la propria posizione di sbirro mondiale, della messa in discussione dell’egemonia del dollaro come valuta di riferimento per gli scambi internazionali, e tante altre cosette non da poco, allora la confusione è più che garantita. La crisi della globalizzazione non può quindi essere ridotta all’affermazione di nuove tecnologie nella sfera della produzione e della logistica. Sulla spaccatura politica interna ai grandi amministratori del capitale poi ci sarebbe molto altro da aggiungere, per esempio che il reshoring e i già citati tentativi di disaccoppiamento delle due più grandi economie – anche considerando la sola Cina, che non è poco, senza di essa gli USA non starebbero in piedi – stanno dando pochi risultati. Persino Biden e ”l’élite politica liberale” hanno dovuto raccogliere il lascito trumpiano rappresentato dall’inasprimento della guerra commerciale contro la Cina: un processo avviato formalmente nel 2018 con le tariffe su acciaio e alluminio, arrivate a colpire le importazioni cinesi per 370 miliardi di dollari, nonché su merci e componenti ad elevato contenuto tecnologico. Che vogliamo dire poi della reciproca dipendenza tecnologica tra le due potenze, che vede la Cina detenere quasi il monopolio delle terre rare, essenziali allo sviluppo delle moderne tecnologie e dei sistemi d’arma, con particolare riferimento all’IA – su cui si sta già giocando la partita decisiva, in vista dello scontro aperto tra i due colossi che va preparandosi, e che per ora è solo rimandato – e gli Stati Uniti la supremazia (ancora per quanto?) in materia di produzione di microprocessori e software più all’avanguardia? Insomma, il nodo delle tecnologie e delle materie prime rende evidente l’impossibilità di un disaccoppiamento totale delle due più grandi economie mondiali. Alle restrizioni statunitensi nell’esportazione di tecnologie avanzate la Cina risponde con restrizioni sull’esportazione di terre rare. Per il momento non è possibile parlare di un’inversione della globalizzazione, anche e soprattutto perché i tre processi fondamentali che la caratterizzano: catene globali del valore, logistica e apertura dei mercati mondiali persistono… scricchiolano, ma persistono. «La fase nichilista è la condizione in cui si trova la lotta di classe in questo momento. La lotta di classe non sparisce, ma viene rimossa, essa è inconsapevole, non cosciente, spesso derisa e maledetta, rinnegata dai suoi stessi attori. Ma non per questo scompare. La lotta di classe, per fare un parallelismo con la psicanalisi, viene rimossa, ma questo rimosso ritorna come una rimozione traumatica, continua a perturbare il sonno della pace sociale. Torna come sintomo, come nevrosi, come irrazionalismo di massa. La sua espressione principale per anni è stata nella forma sintomatica della resistenza di massa contro lo sviluppo scientifico» Per un panoramica, tutt’altro che esauriente, sulle determinazioni della lotta di classe internazionale contemporanea rimando al già citato Bussole impazzite. Mi limito a sottolineare alcune contraddizioni individuate nel testo. Inizialmente l’autore ci invita a diffidare delle lotte interclassiste, per poi sostenere che la resistenza di massa contro lo sviluppo scientifico coincide con la lotta di classe. Quest’ultima presuppone un certo grado di autonomia del polo proletario nello scontro col capitale e, stando a quanto si è verificato globalmente negli ultimi cinque anni durante le manifestazioni di opposizione allo sviluppo scientifico, come per esempio le lotte contro il green-pass e l’obbligo vaccinale anti-Covid in Europa, sarebbe del tutto falso, al di là delle valutazioni che possono essere fatte in merito a quelle stesse lotte, affermare che in esse la componente proletaria sia stata dominante e, men che meno, dotata di una propria autonomia sia in termini di obiettivi, se non in sparuti casi, che di organizzazione, ecc. Non a caso si trattava di classici esempi di lotte interclassiste. È vero, la lotta di classe non è mai pura, ma non la si può cercare nemmeno dove non è effettivamente presente. Rintracciare manifestazioni delle lotta di classe in tutto il mondo è, data l’autoevidenza di fenomeni difficilmente analizzabili nel dettaglio in questa sede, chiaramente possibile e necessario. Tuttavia, ciò che risulta essenziale evidenziare è che esse, oggi più che mai, sono direttamente legate alla crisi della riproduzione del proletariato e delle classi medie impoverite, quindi alla crisi della riproduzione del rapporto capitale-lavoro-popolazione eccedente. Il green-pass, per alcuni settori di proletariato europeo, come di classe media, ha costituito motivo di mobilitazione in primo luogo perché molto frequentemente il rifiuto della vaccinazione comportava immediate difficoltà nel mantenere un’occupazione relativamente stabile e portare a casa un salario che consentisse di sopravvivere in tempi di pandemia. Principi, etica, passione per la libertà, ecc, declinati in maniera più o meno democratoide, borghese o bottegaia – non si può negare che l’influsso ideologico delle mezze classi sia stato evidente – e molto più raramente libertaria, sono motivazioni secondarie. Un altro modo per dire che sotto il capitalismo, se sei un senza riserve, con le dichiarazioni di principio non ci fai uno stracazzo di niente, non ci paghi l’affitto, la spesa, le bollette, le rette per i tuoi figli, se puoi permetterti di averne, ecc. Bordiga, per cui emmeffe sembra avere un’incomprensibile passione, era solito ripetere che dai bei principi, dall’etica, dalle pure volontà individuali e dalla loro somma non può derivare quel fenomeno di ionizzazione sociale delle molecole proletarie, fattore necessario perché possa prodursi un violento scontro di classe generalizzato. Per il comunista partenopeo, la rivoluzione sociale non è un fatto tanto diverso dall’evoluzione della specie umana: prima la pancia, poi la mano, infine il cervello; una visione che poco si adatta al volontarismo anarchico, e che deve molto al metodo scientifico, pur essendo assai critica della scienza e delle teorie della conoscenza proprie della civiltà borghese. Per Bordiga l’ortodosso, non esisteva una mezza misura: il marxismo, concezione monistica del mondo e della realtà materiale, o si accettava in toto o non si era altro che dei ciarlatani. Inoltre, e qui concludo la parentesi sul primo segretario del PCd’I – difensore dell’anonimato e acerrimo nemico di quella che definiva la peste individualista, nettamente contrapposta al comunismo, che a sua volta non ha niente a che vedere col comunismo anarchico, non movimento reale ma ideale da realizzare, di cui parla il nostro autore – egli nutriva un sincero disprezzo per certo anarchismo, e per qualsiasi forma di ”proudhonismo”e idealismo. Avversario della bolscevizzazione e critico della cosiddetta degenerazione della Terza Internazionale, era fermamente convinto che il processo di autorganizzazione del proletariato in soviet dovesse essere comunque subordinato all’azione del partito di classe. Alla difesa dei meccanismi democratici opponeva la dittatura proletaria e il centralismo organico. Emmeffe, hai voglia a parlare di anarco-bordighismo! Tornando a noi, le lotte portate avanti tra il 2020 e il 2021 in una serie di fabbriche e magazzini in Italia per la chiusura degli stabilimenti, la tutela della propria salute, per imporre un’immediata diminuzione dei ritmi di lavoro e dei rischi di contagio, più pause per uscire all’aperto e respirare senza mascherina, ecc (cfr. AA.VV, Loco19, Colibrì), non si sono certo verificate a causa di un diffuso, consapevole o meno, sentimento di ribellione verso la scienza e la civiltà industriale. Se fosse stato così, la messa in questione della società industriale, della medicina, dei dispositivi di tracciamento, difficilmente sarebbe tornata in maniera repentina sui propri passi ad emergenza sanitaria rientrata. Fa specie allora che il nostro autore inviti i lettori a non cadere nel tranello che porta chi si fa eccessivamente condizionare dalle proprie convinzioni a cercare nelle manifestazioni di opposizione sociale e nelle lotte ciò che desidera ardentemente scorgervi. Negli USA l’assassinio di Floyd da parte degli sbirri – con gli effetti della pandemia che premevano duramente sul proletariato, soprattutto su quello razzializzato, sotto attacco da decenni, uniti alla disastrosa situazione sanitaria e sociale – ha fatto da detonatore ad un accumulo di fattori pronti a deflagrare nello scontro diretto con lo Stato. I risultati sono noti: prolungati disordini, sommosse, blocchi, attacchi a commissariati, stazione e mezzi di polizia, espropri, occupazioni di aree urbane sottratte al controllo delle autorità, saccheggi e rivolte tendenti a superare i confini etnici per acquisire contorni chiaramente classisti. Infatti, inizialmente il movimento aveva incontrato la solidarietà e la partecipazione attiva di consistenti fette di proletariato bianco – deluso e arrabbiato per le disattese aspettative di aumento dell’occupazione e reindustrializzazione delle aree depresse del Paese promosse da Trump nel 2016 – e latinos; solo in un secondo momento, con il recupero operato dal variegato monnezzaio post-moderno, ha acquisito tratti identitari, democratoidi ed infine elettorali. La rabbia della popolazione ghettizzata, delle lavoratrici e dei lavoratori essenziali, spesso occupati in occupazioni e mansioni richiedenti livelli minimi di specializzazione, ha fatto da catalizzatore e ha trascinato altre fette di proletariato, anche quelle con qualche ”garanzia” in più, fino alle classi medie proletarizzate e in via di rapida proletarizzazione. Sarebbe impossibile poi elencare e riassumere le caratteristiche delle rivolte, definite dai media, piuttosto superficialmente (ma che vuoi mai), della GenZ, avvenute in tutto il mondo nel 2025, figuriamoci durante gli ultimi cinque anni. La scienza e la tecnologia però non sembrano essere stati affatto al centro di tutti questi episodi. Toccherà forse tirare fuori l’inconscio freudiano? «La fase nichilista di cui parliamo noi avviene in un contesto storico nel quale il dibattito pubblico è scisso fra la corrente sovranista e quella liberista del capitale, e oltretutto dove la scienza ha fatto passi giganteschi in termini di espulsione di forza lavoro, di controllo, di rimbecillimento. Il nostro anonimo interlocutore continua a ripetere che in quel che accade non c’è nessuna svolta, «ma è frutto di quella ristrutturazione permanente […] iniziata negli anni Settanta»; mi sembra una puntualizzazione sterile, perché di ogni fenomeno storico è dimostrabile la provenienza da un altro fenomeno storico del passato (peraltro contiene almeno un equivoco, dato che il compagno parla di «delocalizzazioni» mentre la fase nichilista di cui parliamo noi inizia appunto con la crisi della globalizzazione). Eppure negli anni Settanta – per favore compagni non prendiamoci per i fondelli – per quanto vi raccontavate di essere brutti, sporchi e cattivi, vi era comunque una geografia politica dentro la quale il partito comunista era meno peggio della democrazia cristiana e la democrazia cristiana era meno peggio dei neofascisti. Nella fase nichilista, viceversa, non esistono più i partiti riformisti di classe». Partendo da una brevissima sintesi dello stato attuale della globalizzazione, si è visto come essa abbia subito un rallentamento, di cui le politiche protezioniste, il ristagno degli accordi commerciali multilaterali, la restrizione degli investimenti diretti esteri a livello produttivo rappresentano solo alcune manifestazioni. Il contesto storico presente non è fondamentalmente caratterizzato dallo scontro politico tra sovranismo e liberismo, come sostiene il nostro autore. Tale contrapposizione, al massimo, è riflesso delle contraddizioni, brevemente presentate sopra e realmente centrali, di un modo di produzione capitalistico che, in alcune aree del pianeta più di altre, soprattutto in Occidente, versa in condizioni particolarmente difficili; tali da far pensare, nel medio-lungo termine, ad una disarticolazione parziale dell’attuale assetto geoeconomico e ad un’inevitabile riarticolazione del capitalismo mondiale. Il termine disarticolazione richiama senza dubbio l’emersione di fenomeni come le guerre commerciali e guerreggiate, simmetriche o meno, ma anche sconquassi sociali generalizzati, ovvero una ripresa della lotta di classe a varie latitudini passibile di sfuggire al controllo degli stati e delle classi dominanti. Bisogna però tenere presente che la globalizzazione non è una politica che si possa scegliere di abbracciare o abbandonare volontaristicamente – quelle che l’autore chiama élite sovraniste e liberali, i singoli amministratori del capitale, non dispongono delle forze per incidere politicamente su processi globali altamente complessi, sedimentati e ramificati – ma uno stadio del mercato mondiale come unità di produzione e circolazione di merci. Questo stadio, si è cercato di mostrarlo in poche righe, se certamente ha generato contraddizioni gigantesche tendenti a metterlo in questione nella sua totalità, non ha esaurito tutte le sue carte. Lo scontro politico tra élite di cui parla l’autore non va quindi assolutizzato. Le delocalizzazioni, contrariamente a quanto viene affermato in questo passaggio del testo, non sono affatto venute meno; anzi la tendenza degli ultimi decenni è riassumibile in un ulteriore processo di concentrazione e differenziazione di gerarchie e funzioni all’interno delle catene globali del valore, con paesi basati sull’esportazione di materie prime, paesi manifatturieri con larga disponibilità di forza lavoro a basso costo, paesi a manifattura avanzata, ma estremamente settorializzata e, infine, paesi caratterizzati da attività economica volta allo sviluppo di tecnologie e servizi all’avanguardia e ad alto contenuto tecnologico, perciò al vertice della gerarchia, ma comunque dipendenti dalle altre economie su più piani. Dunque, Emmeffe dà la globalizzazione per spacciata troppo presto. Per quanto riguarda la sua parentesi sugli anni Settanta, beh, non so di chi stia parlando, sono nato a PCI definitivamente morto da qualche anno. Ma l’anagrafe è noiosa tanto quanto l’autoreferenzialità, meglio concludere. «Quando dico che bisogna prestare attenzione ai movimenti populisti, se mi si consente un parallelismo storico tanto forzato quanto grandioso, io intendo che dovremmo spingere l’attuale populismo verso i suoi fallimenti, per aiutare la nascita di un nuovo movimento nichilista, prodromo del socialismo rivoluzionario del ventunesimo secolo. Sempre mia nonna diceva che il pane si fa con la farina che si ha, se vogliamo rivoluzionare la realtà dobbiamo partire, appunto, dalla realtà. In questo momento il populismo/nichilismo è l’espressione irrazionale e non cosciente (ovvero, incosciente!) della lotta di classe. L’unico modo in cui essa si esprime a livello di massa in Occidente» L’autore vorrebbe far risorgere un cadavere, quello del nichilismo russo della seconda metà dell’Ottocento, putrescente tanto quanto lo zarismo. Non è possibile sorvolare sul parallelismo con la situazione di un impero alla cui morte convivevano ancora almeno tre modi di produzione: feudale, asiatico e capitalistico, oltre a vestige di antichissimo comunismo, rilevabili nella comunità di villaggio o Obscina. La lotta di classe è una dinamica, invarianza storica all’interno delle società di classe, non una ricetta, una formula o un modello organizzativo trasponibile a piacimento, al di fuori del tempo e dello spazio, sulla base dei gusti personali, delle aspettative e dei principi etici. Le forme della lotta classe, le modalità di autorganizzazione degli sfruttati mutano perché è il modo di produzione a trasformarsi nel tempo e la classe dei senza riserve a scomporsi e ricomporsi in funzione di quelle. In questo senso, ciò che più conta è la spontaneità del proletariato: l’unica forza capace di dare corpo agli organismi dell’autonomia proletaria. La teoria rivoluzionaria ha il dovere di sintonizzarsi con questa spontaneità, laddove e quando emerga, senza illudersi di sostituirsi ad essa, pensando di bruciare tappe che non possono essere bruciate da individui singoli o gruppi, imboccando presunte scorciatoie che portano solo all’autoreferenzialità, all’autocompiacimento e all’autocelebrazione delle proprie gesta militanti, che si fa beffa della vigliaccheria e dell’attendismo degli schiavi sonnolenti. Che tale sintonizzazione sia finalizzata a prendere il controllo del movimento rivoluzionario onde dirigerlo, piuttosto che assecondarne l’autonoma spinta verso la trasformazione dei rapporti sociali che incatenano l’umanità intera è altra faccenda da affrontare necessariamente, quella dell’organizzazione rivoluzionaria.
Opuscolo sulla lotta contro Tap
Riceviamo e diffondiamo:  Segnaliamo la pubblicazione dell’opuscolo: Una storia. Il gasdotto TAP, l’aggressione a un territorio e l’esperienza di una lotta locale. Il Trans Adriatic Pipeline, segmento adriatico di un gasdotto che attraversa Asia ed Europa, è stato messo in funzione nel dicembre 2020. Questo equivale al fallimento della lotta contro la sua costruzione? Chi ha realizzato questo opuscolo è stato parte integrante di quella lotta vivendo notte e giorno la realtà del presidio nato nelle vicinanze del cantiere, partecipando attivamente alle assemblee, all’organizzazione delle iniziative, alle situazioni di contrapposizione e ai tanti momenti di socialità disorganizzata. Abbiamo raccolto un po’ dei materiali prodotti in quegli anni, tra manifesti, volantini e fogli periodici con cui abbiamo provato a diffondere le nostre idee, informare su ciò che stava accadendo, incoraggiare alla lotta. Aggiungendo alcuni spunti per ragionare su quali sono state le criticità e quali invece le pratiche, le argomentazioni e le idee che possono essere utili in altre circostanze, per continuare a lottare con perseveranza per strade, montagne e campagne che viviamo ogni giorno. L’intento è anche quello di raccontare quali sono state le dinamiche messe in campo dalla repressione, per combatterle al meglio in futuro. Un presupposto ci ha spinto all’epoca a mobilitarci: successo o fallimento non sarebbero stati i termini della nostra contrapposizione. E difatti lottare contro Tap non ci ha costretti a giocare sul suo stesso campo ma ci ha consentito di dissodare campi nuovi, quelli della complicità con individui che altrimenti mai avremmo conosciuto. Se questi sono ancora i nostri compagni allora vuol dire che quel campo era fertile. Infine, non volevamo lasciare l’ultima parola a giudici e tribunali. Oltre ai numerosi procedimenti penali “più piccoli” arrivati a conclusione, conseguenza delle molte denunce con cui la procura leccese ha cercato di fermare la lotta, va ricordato che anche i tre grossi processi imbastiti a partire dal 2020, che coinvolgono a vario titolo e in più circostanze una cinquantina di imputati con condanne previste dai quattro mesi ai due anni – manifestazione non autorizzata, accensioni pericolose, travisamento, danneggiamento, getto pericoloso di cose, violenza, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio, violazione del foglio di via, violenza e minaccia privata –, sono oramai nelle fasi conclusive. A chi vi è coinvolto, va tutta la nostra solidarietà. Per contatti e richieste: unastoria@autistiche.org Qui il PDF scaricabile: Una storia Tap – Web