Il lavoro povero aumenta le diseguaglianze di genere, territoriali e intergenerazionali
Una ricerca inedita dell’IREF, l’Istituto di ricerca delle Acli, realizzata
grazie ai dati di circa 800 mila dichiarazioni anonime dei redditi fornite dal
Caf Acli, mette in luce ancora una volta come la diseguaglianza retributiva e i
lavori a basso reddito siano due fenomeni strettamente correlati, che hanno
visto un trend di crescita negli ultimi 15 anni. I dati raccolti, rigorosamente
anonimi, che riguardano 785.466 contribuenti che si sono rivolti al Caf Acli per
la compilazione e la consegna del modello 730 del 2024, evidenziano che quasi il
90% ha un lavoro continuo, cioè almeno 9 mesi di lavoro nell’anno dichiarato e
ci raccontano di un Paese dove l’uguaglianza salariale di genere è ancora molto
lontana: le donne con lavoro a basso reddito sono il 54% in più rispetto agli
uomini. Le diseguagliane, oltre che di genere, sono anche tra generazioni: gli
under30 con un lavoro povero sono il 70% in più rispetto agli under50. E il
divario tra Nord e Sud purtroppo permane anche a livello di salario: la
probabilità di firmare un contratto a bassa retribuzione in Basilicata è tre
volte più probabile che firmarlo in Lombardia. Questa differenza può diventare
ancora più significativa se da un polo urbano si va verso le aree interne.
Un altro dato significativo riguarda i single: la percentuale di occupati a
basso reddito è del 11,3%, quasi doppia rispetto ai coniugati (6,5%). Su questo
gruppo pesa l’impossibilità di compensare la condizione individuale con le forme
di solidarietà economica tra partner. Ovviamente la condizione dei single è
connotata in termini generazionali. Ma il lavoro a bassa retribuzione, come si
diceva, è soprattutto una questione meridionale: sono soprattutto le regioni del
Sud a mostrare una quota di lavoratori che percepiscono retribuzioni sotto la
soglia dei 726 euro al mese. Nella Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI), le
“aree Interne” sono territori caratterizzati da una significativa distanza dai
Poli, intesi come centri di offerta di servizi essenziali (salute, istruzione,
mobilità). Questi territori sono caratterizzati da declino demografico e scarso
sviluppo socio-economico. Risulta quindi probante verificare la consistenza del
lavoro a basso reddito in queste zone. Ci sono circa 4.000 € di differenza tra i
redditi medi da lavoro nell’Italia dei “poli”, ossia nei comuni che hanno una
dotazione di servizi essenziali tale da attrarre i flussi di popolazione dalle
altre aree, e i comuni interni, l’Italia dei paesi dalla quale occorre spostarsi
per avere accesso a salute, educazione e mobilità. Occupazione remunerative e
buoni servizi vanno, dunque, di pari passo. “L’interazione tra territorio e
penalizzazioni retributive delle donne, si legge nel Report, origina una
differenza di 14.000 € di reddito medio tra una lavoratrice che risiede
nell’Italia “interna” e un lavoratore che vive nell’Italia “dei poli”. Per una
lavoratrice donna spostarsi da un paese in città produce un guadagno di salario
medio di circa 3.500 euro, pur non annullando il differenziale con i lavoratori
di sesso maschile. La combinazione di territorio e genere è la disuguaglianza
maggiore nei redditi da lavoro registrati nella base dati Caf Acli”.
Ma quali sono le conseguenze del lavoro “a basso reddito”? E’ il
contingentamento della spesa per la salute la conseguenza più grave. L’accesso
alle detrazioni sanitarie rappresenta un altro importante indicatore delle
disuguaglianze economiche e sociali. Secondo l’Osservatorio dei conti pubblici
italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, i contribuenti con redditi
più bassi (fino a 15.000 € annui) costituiscono il 44% del totale, ma
beneficiano solo dell’11% delle detrazioni sanitarie complessive, con una media
di 196 € di spese sostenute per dichiarazione. Al contrario, i contribuenti con
redditi più alti (oltre 120.000 € annui) usufruiscono dell’85% delle detrazioni
totali. Inoltre, solo il 20% dei contribuenti con redditi fino a 15.000 €
usufruisce delle detrazioni, rispetto all’85% dei contribuenti con redditi
superiori a 120.000 €.
“Questo squilibrio, sottolinea l’IREF, riflette non solo la disparità economica,
ma anche un accesso problematico ai benefici fiscali legati alla salute. Una
divaricazione simile si riscontra considerando i dati messi a disposizione da
Caf Acli. I lavoratori del 1° quintile di reddito portano, in media 749 € in
dichiarazione dei redditi per spese sanitarie; i lavoratori più ricchi (5°
quintile) quasi il doppio, 1.369 €. L’andamento del grafico mostra in modo
evidente come, tra i lavoratori dipendenti, la capacità di portare in detrazione
le spese sanitarie sia legata al reddito disponibile; tuttavia, la salute non è
un costo “elastico”, ossia dipendente dalle risorse del consumatore, ma una
spesa che secondo i casi della vita riguarda in maniera indistinta tanto i
lavoratori a basso reddito quanto quelli con retribuzioni più alte. A queste
differenze, si aggiungono poi i consueti fattori territoriali. Nel volume di
spese sanitarie portate in detrazione dai lavoratori che hanno presentato il
Mod. 730 al Caf Acli, si osserva una proporzione di 1,5 a 1 tra Lombardia (1.134
€ di spesa media portata in detrazione al 19%) e Basilicata (809 €)”.
In conclusione, la ricerca dell’IREF mette in evidenza come la povertà
lavorativa non sia un fenomeno isolato, ma interconnesso con questioni
generazionali, di genere e territoriali: le donne e i giovani sono i più
vulnerabili per i redditi che riescono a ottenere nel mercato del lavoro, mentre
le aree interne soffrono di un progressivo abbandono e di una crescente
difficoltà a trattenere i giovani talenti. Per contrastare efficacemente le
disuguaglianze e migliorare le condizioni di vita di milioni di italiani,
occorrerebbero – è l’auspicio dei ricercatori dell’IREF – misure mirate sul
reddito, sulle opportunità lavorative, sull’accesso ai servizi e sulla
valorizzazione del capitale umano.
Qui la ricerca dell’IREF
Giovanni Caprio