Migranti invisibili in fabbrica
C’è stato un giorno, a marzo del 2019, in cui un lavoratore straniero ha perso
la vita all’interno di un’industria del Nord Italia. Non era un tecnico
specializzato, né un dirigente. Era un operaio della carne. Non aveva un nome
che i giornali abbiano mai riportato. Aveva però una madre, una figlia appena
adolescente, una compagna — madre di quella bambina — e sei fratelli che lo
amavano.
Il suo lavoro era faticoso, ripetitivo, pericoloso, ma nessuno gli aveva mai
consegnato un manuale. Nessuno lo aveva formato davvero. Gli dicevano solo di
“fare in fretta”, di “fare come fanno tutti”, di “non creare problemi”.
L’ingranaggio doveva girare. Sempre.
E quando l’ingranaggio si è inceppato — con lui dentro — il sistema ha reagito
come sa fare: ha negato. Ha detto che non era responsabilità sua. Che “forse è
stato lui”, che “non doveva essere lì”. E ha continuato a produrre.
Non era nemmeno un dipendente diretto. Lavorava per una cooperativa, in appalto.
Un nome diverso, una scatola in più. La fabbrica vera, quella che dava ordini,
firmava solo contratti con terzi. Impartiva direttive, ma non si assumeva colpe.
Sei anni dopo, giustizia non è ancora arrivata. Il procedimento penale è stato
archiviato dalla Procura di Milano, non perché qualcuno sia stato assolto, ma
perché non si è riusciti nemmeno a individuare chi abbia azionato la macchina
che ha causato la morte. L’ultima beffa: una morte senza colpevole. Una vita
cancellata senza nessuno da ritenere responsabile.
Nessuno ha mai detto: “Abbiamo sbagliato”. Si è preferito dire: “È stata una sua
imprudenza”. Per lavarsi la coscienza, per tornare ai numeri del fatturato.
Viviamo in un tempo che divora umanità. In cui la vita di un lavoratore —
soprattutto se migrante, invisibile, precario — vale meno di un fermo macchina.
In cui una figlia cresce senza un padre, mentre le aziende continuano
indisturbate a produrre, a nascondersi dietro contratti, sigle, sigilli.
Ma chi ha visto quel corpo spezzato, chi ha ascoltato il dolore di una madre,
chi ha guardato negli occhi quella compagna che non ha potuto nemmeno dire
addio, sa che non è stato un incidente. È stato il frutto di un sistema disumano
e disumanizzante.
Perché quando la vita di un uomo viene trattata come un fastidio, una variabile
sacrificabile sull’altare dell’efficienza, non è solo lui a morire. È l’idea
stessa di giustizia che viene sepolta sotto i macchinari.
Patrizia Carteri