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Nuovo tavolo sulla sicurezza al Ministero del lavoro…e intanto i lavoratori continuano a morire sul lavoro
Nuova tornata del Ministero del Lavoro dei tavoli sulla sicurezza, voluti dal governo assieme alle parti sociali. In cantiere c’è un nuovo decreto, l’ennesimo, che il governo Meloni si appresta a sfornare sul tema della sicurezza sul lavoro: un nuovo provvedimento inutile, fumo negli occhi per dare la sensazione che si provi a fare qualcosa. Cgil, Cisl e Uil si sono presentate al tavolo dopo essersi incontrate sullo stesso tema nella giornata di lunedì con la Confindustria; un incontro che corrisponde ad una intesa previa tra sindacati e padroni prima della riunione odierna con il  governo. L’USB ha fatto notare che i due provvedimenti che da tempo chiediamo, l’introduzione del reato di omicidio sul lavoro ed il potenziamento degli RLS, rappresenterebbero un cambiamento di passo rilevante  per la tutela della salute-sicurezza nei luoghi di lavoro. Abbiamo ribadito il fatto  che le centinaia di migliaia di Rls,  se avessero le conoscenze-competenze e gli spazi d’azione adeguati, poiché presenti nei singoli luoghi di lavoro, potrebbero agire concretamente per costringere i datori di lavoro ad adottare misure di prevenzione dei rischi  efficaci. Il rafforzamento degli Rls rappresenta un intervento quasi ovvio, da  adottare immediatamente se si vuole agire concretamente su salute e sicurezza del lavoro ; ma le nostre proposte « ovvie » continuano ad essere disattese ed il motivo è chiaro : le misure di prevenzione-protezione hanno dei costi, e manca la volontà di costringere i datori di lavoro a sostenere questi costi. Come Usb non ci limitiamo a chiedere al Governo di adottare misure per rafforzare gli Rls; ma abbiamo adottato da anni un percorso di formazione e supporto dei nostri Rls, percorso che sta producendo effetti concreti per la tutela della salute nei luoghi di lavoro in cui siamo presenti. Unione Sindacale di Base
Migranti invisibili in fabbrica
C’è stato un giorno, a marzo del 2019, in cui un lavoratore straniero ha perso la vita all’interno di un’industria del Nord Italia. Non era un tecnico specializzato, né un dirigente. Era un operaio della carne. Non aveva un nome che i giornali abbiano mai riportato. Aveva però una madre, una figlia appena adolescente, una compagna — madre di quella bambina — e sei fratelli che lo amavano. Il suo lavoro era faticoso, ripetitivo, pericoloso, ma nessuno gli aveva mai consegnato un manuale. Nessuno lo aveva formato davvero. Gli dicevano solo di “fare in fretta”, di “fare come fanno tutti”, di “non creare problemi”. L’ingranaggio doveva girare. Sempre. E quando l’ingranaggio si è inceppato — con lui dentro — il sistema ha reagito come sa fare: ha negato. Ha detto che non era responsabilità sua. Che “forse è stato lui”, che “non doveva essere lì”. E ha continuato a produrre. Non era nemmeno un dipendente diretto. Lavorava per una cooperativa, in appalto. Un nome diverso, una scatola in più. La fabbrica vera, quella che dava ordini, firmava solo contratti con terzi. Impartiva direttive, ma non si assumeva colpe. Sei anni dopo, giustizia non è ancora arrivata. Il procedimento penale è stato archiviato dalla Procura di Milano, non perché qualcuno sia stato assolto, ma perché non si è riusciti nemmeno a individuare chi abbia azionato la macchina che ha causato la morte. L’ultima beffa: una morte senza colpevole. Una vita cancellata senza nessuno da ritenere responsabile. Nessuno ha mai detto: “Abbiamo sbagliato”. Si è preferito dire: “È stata una sua imprudenza”. Per lavarsi la coscienza, per tornare ai numeri del fatturato. Viviamo in un tempo che divora umanità. In cui la vita di un lavoratore — soprattutto se migrante, invisibile, precario — vale meno di un fermo macchina. In cui una figlia cresce senza un padre, mentre le aziende continuano indisturbate a produrre, a nascondersi dietro contratti, sigle, sigilli. Ma chi ha visto quel corpo spezzato, chi ha ascoltato il dolore di una madre, chi ha guardato negli occhi quella compagna che non ha potuto nemmeno dire addio, sa che non è stato un incidente. È stato il frutto di un sistema disumano e disumanizzante. Perché quando la vita di un uomo viene trattata come un fastidio, una variabile sacrificabile sull’altare dell’efficienza, non è solo lui a morire. È l’idea stessa di giustizia che viene sepolta sotto i macchinari. Patrizia Carteri
Morire di scuola
Si continua a morire nella “Buona Scuola” che nel 2003 istituì la “Alternanza Scuola-lavoro” e poi, a partire dal 2018, cambiò il nome in PCTO (Percorso per le Competenze Trasversali e l’Orientamento). Da non dimenticare che: LORENZO PARELLI fu il primo studente (18 anni) che, il 21 gennaio 2022, durante uno stage presso l’Azienda metalmeccanica “Burimec”, morì schiacciato sotto una trave di ferro. GIUSERPPE LENOCI, a soli 16 anni, il 14 febbraio 2022, durante un tirocinio formativo, perse la vita sul furgone di una ditta termoidraulica a Molino di Tenna (Fermo) che si schiantò contro un albero. GIULIANO DE SETA, uno studente di 18 anni, il 16 settembre del 2022, durante uno stage scolastico presso l’Azienda “Bc Service” di Noventa di Piave in provincia di Venezia, viene ucciso da una barra d’acciaio. ANNA CHITI, una studentessa di 17 anni, pochi giorni fa, e precisamente il 17 maggio del 2015, muore cadendo da un catamarano nella darsena di Venezia, proprio nel suo primo giorno di Scuola-Lavoro. Non si può continuare a morire nella Scuola di un Apprendi-Stato dello sfruttamento militarizzato. E CON GLI STUDENTI E LE STUDENTESSE GRIDIAMO INSIEME: NO ALLA SCUOLA-LAVORO NO AL PCTO (Percorso per le Competenze Trasversali e l’Orientamento) NO ALLE ARMI NO ALLE GUERRE. Pino Dicevi