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Successi e strategie antimilitariste a scuola: alcuni esempi di nonviolenza attiva
Qualcuno ricorderà il “professore sandwich” che l’anno scorso girò nei corridoi di un liceo del litorale romano con un cartellone riportante la scritta “Non farti fregare! anche dietro una scrivania sarai sempre un militare. Fuori i militari dalla scuola!“. In quell’anno scolastico, infatti, l’istituto avrebbe ospitato i militari della Scuola di artiglieria di Bracciano per fare, secondo la mente fantasiosa dei responsabili del progetto, “orientamento al lavoro”: come se il lavoro in una forza armata fosse un’attività come un’altra soprattutto di questi tempi, in cui venti di guerra soffiano impetuosi un po’ in tutte le direzioni (clicca qui per la lezione di Charlie Barnao, Il soldato non è un mestiere come un altro). Vuoi gli effetti dissacranti di quest’azione nonviolenta – ma a forte impatto anche visivo-simbolico – vuoi il dialogo diretto con gli studenti e le studentesse, con i/le quali il tema della militarizzazione è stato al centro dei temi fondamentali della pedagogia, per mesi e mesi (e spesso si ponevano esempi ispirati a queste presenze in veste di “formatori armati”) l’evento, alla fine, non ebbe luogo. Passa un anno da quel fatto, cambia il dirigente, ma non cambia l’approccio culturale militarizzante. Un docente ci avverte della presenza insolita di una pantera della Polizia davanti scuola e di poliziotti, in divisa, intenti a parlare molto probabilmente, come da copione, di bullismo e/o cyberbullismo. Il docente decide di porre delle domande direttamente ad uno dei docenti coinvolti dall’iniziativa e attraversando tutta l’aula gli si avvicina per chiedergli il motivo di quella scelta “poliziesca”: ciò provoca una reazione violenta dell’ideatore di quell’incontro, descritta nei dettagli in un nostro precedente articolo peraltro in totale contraddizione proprio con l’oggetto dell’intervento dei poliziotti, ovvero il bullismo. Come avevamo avuto modo di sottolineare, quel gesto, come del resto anche l’iniziativa dell’anno precedente, può configurarsi ed essere progettato per provocare una dissonanza cognitiva nei/lle ragazz3, ovvero un “disagio” psicologico (a fin di bene) che si prova quando si è di fronte a due o più cognizioni (idee, credenze, valori, conoscenze) in conflitto tra loro. Nel primo esempio il ruolo, a volte stereotipato, del docente, prevederebbe determinate posture che invece sono platealmente disattese: si attira in questo modo l’attenzione, si invita a riflettere, si vede il proprio docente come colui che a volte dice “no”, si espone anche ad un rischio e in qualche modo instilla il seme del dissenso o della disobbedienza civile, dimostrando che questa è (e deve essere) sempre possibile, anche in situazioni apparentemente non predisposte. Nel secondo caso la presenza dei poliziotti di cui uno in piedi e in divisa, oltretutto armato e quella dei due colleghi anch’essi in piedi dislocati agli angoli opposti dell’aula, non prevedeva la presenza di un terzo incomodo anch’esso docente, ma che dissacrava quel momento ieratico; ma forse la dissonanza cognitiva più forte l’ha provocata proprio il “proprietario” del progetto anti-bullismo, con il suo violento intervento urlato, “sei un imbecille! questo progetto è mio!”.  Anche il comportamento dei poliziotti, che dimenticando di stare a “casa d’altri” e invitati proprio in quanto portatori di esempi di modalità di risoluzione di violenze e conflitti, invece di calmare le intemperanze dell’insegnante, prendono le difese di colui che di fatto si era rivelato un bullo, cacciando il professore intruso. Queste nuove informazioni che contraddicono conoscenze pregresse sono una motivazione alla riflessione critica e alla verifica delle proprie idee. Si attua in modo rapido un aggiornamento delle conoscenze integrate dalle nuove informazioni. (…) Allo stesso tempo, la memorizzazione è più efficace perché le informazioni contrastanti restano più impresse: ciò favorisce un apprendimento profondo, critico e duraturo. Il ruolo della disobbedienza civile nelle aule e nei corridoi scolastici, il dissenso mai violento, ma sicuramente provocatorio, possono essere insomma degli strumenti quotidiani per praticare la lotta contro la militarizzazione delle menti. Interrompere questi incantesimi giocati su elementi emotivi o ludici, ma attuati in malafede dagli attori in divisa è sempre possibile: dissacrare il bellissimo cane poliziotto che trova la “droga” o la bomba, o il bellissimo e tenerone cane di Terranova che salva il manichino in acqua, ma non il migrante che affoga a causa dell’ennesimo mancato soccorso della Guardia Costiera, dovrebbero essere delle azioni doverose che in fondo costano poco, ma possono tenere grandi risultati sul lungo periodo. Non c’è più tanto tempo per agire, per passare all’azione perché le attività militarizzanti sono talmente diffuse sul territorio anche attraverso sotterfugi e tattiche sotterranee. L’ultimo 4 novembre per esempio dopo le iniziative roboanti del 2024 non si è caratterizzata per poca propaganda e militaresca, ma al contrario per una tattica di immersione e di basso profilo ma purtroppo non meno pervasiva. Le iniziative forse sono state anche più numerose, ma meno pubblicizzate e anche nelle scuole la tattiche è quella di bypassare i collegi docenti così come consigli di istituto e normalizzare questi interventi. Nel caso in questione, per esempio, il collega ha dovuto annullare l’incontro successivo ufficialmente inserito nel calendario, ma ha portato avanti lo stesso il proprio progetto, in un altro orario dribblando in questo modo eventuali azioni di boicottaggio: anche questo è pur sempre un risultato! Stefano Bertoldi, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università -------------------------------------------------------------------------------- Se come associazioni o singoli volete sostenerci economicamente potete farlo donando su questo IBAN: IT06Z0501803400000020000668 oppure qui: FAI UNA DONAZIONE UNA TANTUM Grazie per la collaborazione. Apprezziamo il tuo contributo! 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Materiale didattico del GIGA sulla questione Palestinese
Il Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati (GIGA) da anni impegnato nell’elaborazione di materiali didattici e progetti formativi sulla Questione Palestinese, nelle ultime due settimane ha realizzato un lavoro inerente l’avanzamento del processo di colonizzazione della Cisgiordania da parte di Israele (https://gigainsegnantigeografiablog.wordpress.com/2025/11/14/cisgiordania-israele-intensifica-la-pulizia-etnica-ai-danni-dei-palestinesi/) e altro che riguarda la Risoluzione ONU 2.803 per Gaza promossa da Trump nel quale ne analizziamo il testo e i possibili effetti (https://gigainsegnantigeografiablog.wordpress.com/2025/11/22/approvata-la-risoluzione-onu-2-803-per-gaza-promossa-da-trump/). Infine in occasione della 47esima Giornata di Solidarietà Internazionale per il popolo palestinese abbiamo realizzato un documento che contiene una breve analisi della situazione economica e sociale dei Territori Palestinesi con approfondimento sulla Striscia di Gaza (https://gigainsegnantigeografiablog.wordpress.com/2025/11/29/29-novembre-2025-47esima-giornata-di-solidarieta-internazionale-col-popolo-palestinese/), utilizzando i rapporti dell’Unctad e del Max Planck Institute for Demographic Research pubblicati nei giorni precedenti. Ricordiamo che il coordinamento del GIGA ha realizzato una presentazione in ppt sulla didattica della questione Israelo-Palestinese dalla Nascita del sionismo al cessate il fuoco di inizio ottobre 2025 con approfondimenti sulla Cisgiordania, Striscia di Gaza e sulle formazioni della Resistenza Palestinese. Chi fosse interessato può farne richiesta all’indirizzo mail gigamail2014@gmail.com. Il coordinamento del Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati
Massa Marittima (GR), presentazione Eirenefest 2025 all’insegna della pace
Nell’ambito dell’edizione grossetana dell’Eirenefest 2025, Massa Marittima dà il suo contributo per sostenere la cultura della Pace e della nonviolenza. Lo fa in collaborazione con la seconda edizione di “Creare la Pace”, una manifestazione che ruota attorno ad una raccolta di opere di artisti e di alunni delle scuole locali dedicate alla Pace. L’Eirenefest massetana, in particolare, si concentra sul mettere in risalto il ruolo cruciale dell’educazione e della formazione delle giovani generazioni per promuovere una società nonviolenta e solidale. Il 12 novembre, si incontreranno Pio Castagna (Pax Christi), Annabella Coiro (Rete EDUMANA- Centro di Nonviolenza Attiva) ed Ermete Ferraro (M.I.R Italia) per dialogare su “Comunicazione nonviolenta. Dai conflitti alle connessioni”, alla presenza di un pubblico composto anche da docenti, educatori, genitori. Durante la settimana dal 10 al 15 Novembre, invece, si terranno laboratori creativi con bambini e ragazzi delle scuole, con letture sulla Pace e produzione di piccoli post-it o altri piccoli messaggi scritti e grafici da affiggere all’”Albero della Pace”, fissato su una delle pareti delle sale della mostra e lì conservato per tutta la durata della stessa. La realizzazione dell’iniziativa, coordinata dal Gruppo per la Pace, è stata sostenuta anche da alcune associazioni locali, quali: Accademia Musicale Omero Martini, Associazione Dire Fare – Centro Studi Storici Agapito Gabrielli, Associazione Iride, Associazione Liber Pater.
Convegno 4 novembre: “La scuola non va alla guerra. L’educazione alla pace risponde alla repressione”
Come anticipato, dopo che il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha annullato il corso di formazione e aggiornamento che il CESTES-PROTEO (ente di formazione accreditato presso il MIM) insieme all’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università aveva organizzato per il 4 novembre 2025 con il titolo “4 novembre, la scuola non si arruola”, abbiamo deciso, come atto di dissenso e di disobbedienza, di confermare ugualmente la data dell’evento con un nuovo Convegno che, però, non potrà godere dell’accreditamento presso il MIM, per cui non è possibile chiedere un esonero per formazione per il personale scolastico. Di seguito il programma e tutte le indicazioni per seguire il Convegno dal titolo: “LA SCUOLA NON VA ALLA GUERRA. L’EDUCAZIONE ALLA PACE RISPONDE ALLA REPRESSIONE”. PROGRAMMA CONVEGNO ONLINE 4 NOVEMBRE 9.00 -13.00 Modera Serena Tusini Roberta Leoni, Militarizzazione e repressione nella scuola Presidente Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università Marco Meotto, Sguardi coloniali. Il genocidio nella didattica della storia Docente e ricercatore Antonio Mazzeo, Genocidio crimine collettivo. Verso l’israelizzazione della società italiana? Insegnante e giornalista Mjriam Abu Samra, Critica decoloniale dell’accademia neoliberale: La Conoscenza non marcia Ricercatrice e attivista italopalestinese Caterina Donattini, La scuola per la Palestina: il racconto degli ultimi mesi di lotta BDS Italia Don Andrea Bigalli,  La libertà delle coscienze e il significato della disobbedienza Facoltà Teologica dell’Italia Centrale Tommaso Marcon, La militarizzazione della formazione, tra scuola gabbia e Valditara Studente OSA Leonardo Cusmai, L’Università ai tempi della crisi tra militarizzazione, repressione e riforme Studente universitario – Cambiare Rotta Conclusioni: Roberta Leoni,  Il 4 novembre non è la nostra festa! LINK DEL CONVEGNO CLICCA QUI PER LE PIAZZE DEL 4 NOVEMBRE CLICCA QUI INVITIAMO TUTTI E TUTTE, PERSONALE DELLA SCUOLA E DELL’UNIVERSITÀ, STUDENTI E STUDENTESSE, GENITORI E GENITRICI A SEGUIRE IL CONVEGNO. RICORDIAMO A TUTTI I E A TUTTE LE DOCENTI CHE IL CORSO DI FORMAZIONE NON È COPERTO DALL’ESONERO.
La parola alle studentesse: Elaborato sulla storia della Palestina
Come abbiamo evidenziato nelle scorse settimane, le mobilitazioni studentesche iniziate con gli scioperi del 22 settembre e del 3 ottobre sono culminate in una serie di occupazioni (clicca qui) che hanno finalmente visto le/gli studenti iniziare un percorso “politico” nelle loro scuole, spesso accompagnate/i con attenzione e discrezione dalle/i loro docenti. Mentre i media mainstream fanno sociologia spicciola sull’apatia e passività della cosiddetta “Generazione Z”, le/i ragazze/i nelle nostre scuole stanno compiendo un faticoso percorso di presa di coscienza e di crescita che li vede protagonisti non solo nelle piazze, ma anche nella produzione di riflessioni e di iniziative collettive (clicca qui). Significativo è il caso di un liceo torinese, nel quale il desiderio delle/degli studenti di approfondire i temi legati non solo al genocidio, ma anche al colonialismo e all’occupazione, ha incontrato la disponibilità di una docente, che ha ben saputo interpretare il suo ruolo fornendo alla classe gli strumenti per indagare questi argomenti e per produrre una riflessione autonoma, estremamente articolata e profonda, che qui pubblichiamo in allegato, introdotta dalle parole della stessa insegnante: Questo testo è stato scritto da cinque ragazze di una quarta liceo scientifico di Torino. È frutto di una loro rielaborazione e riflessione profonda a partire da alcune lezioni tenute da me in classe sulla storia della Palestina, come storia di colonialismo insediativo e di sradicamento di un popolo, dalla terra su cui viveva da millenni. Fino al genocidio e all’espulsione di oggi. Si intrecciano termini come memoria, dolore, testimonianza, speranza, amore per la terra e per la vita, giustizia, ritorno: parole che coinvolgono pensiero ed emozioni, soprattutto perché scritte da giovani capaci di credere, ed impegnarsi per un mondo diverso di giustizia, convivenza, solidarietà e pace. Chiara, un’insegnante. ELABORATO SULLA STORIA DELLA PALESTINA È estremamente importante ricordare ciò che è accaduto, e che sta tutt’oggi succedendo, in Palestina dopo il secondo conflitto mondiale; hanno tentato di nascondere ogni cosa, ma alla fine la verità emerge sempre. Il nostro lavoro si basa sul domandarci delle questioni: può una frase cancellare un popolo? A primo impatto sembra impossibile; una frase è solo un insieme di parole, un modo per raccontare un’idea, per riassumere un progetto; tuttavia, ci accorgiamo che alcune frasi non si limitano a descrivere il mondo: lo ricreano.  “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. A prima vista è solo uno slogan politico. Ma se ci fermiamo a studiarla nel dettaglio, scopriamo che dentro nasconde un intero sistema di potere. Dire che una terra è “senza popolo” non è mai un’osservazione neutra: è un atto di cancellazione, è il gesto con cui si toglie il nome, poi la voce, e infine la casa.  Michel Foucault, filosofo e sociologo francese, ci ha insegnato che il linguaggio non è solo comunicazione, ma potere: chi definisce la realtà, la domina. E questa frase, nata nell’Europa di fine Ottocento, ha avuto la forza di plasmare il destino di un intero popolo. Ci chiediamo: cosa succede quando le parole diventano armi? Quando una frase determina che qualcuno, da un giorno all’altro, “non esiste”? Forse è da qui che dobbiamo cominciare per capire la Nakba, la catastrofe del popolo palestinese nel 1948.  Nel 1948 nasce lo Stato d’Israele e per il popolo ebraico è il momento dell’indipendenza, del ritorno, della rinascita, mentre per un altro popolo, quello palestinese, è l’inizio della catastrofe.  Oltre 700.000 persone sono costrette ad abbandonare le proprie abitazioni o vengono espulse con la forza. Centinaia di villaggi vengono distrutti e rasi al suolo. Alcuni spariscono completamente dalle mappe, altri vengono rinominati, come se cancellare il nome potesse cancellare la memoria. Gli ulivi vengono sradicati, le pietre delle case utilizzate per costruirne di nuove. Eppure, anche se la Nakba si è verificata più di settant’anni fa, non è mai finita del tutto. Ancora oggi, infatti, esistono milioni di rifugiati palestinesi, molti dei quali nati in esilio. Hannah Arendt, dopo aver vissuto in prima persona l’esilio e la persecuzione, ha scritto parole che ancora oggi ci fanno riflettere, parlando della “perdita del diritto ad avere diritti”.  Questo pensiero restituisce con schiacciante verità l’atroce sofferenza dei rifugiati, rivelando il peso della perdita dei diritti, compresi quelli umani inviolabili, come il diritto alla vita e alla libertà.  Cosa significa, davvero, perdere il diritto ad avere diritti? Significa che non si ha più luogo dove quei diritti possono essere riconosciuti, non è solo la perdita di una casa, di una terra, ma di qualcosa di più profondo: la perdita di appartenenza. Quando nessuno Stato ti riconosce come cittadino, vieni estromesso dall’esistenza politica: resti sospeso tra la memoria di ciò che eri e l’incertezza di ciò che potrai essere. Non appartieni più ad una comunità, non hai più un posto nel mondo condiviso. Sei semplicemente un essere umano, ma senza un luogo dove poter esistere. Ed è proprio questo, secondo Arendt, il più grande scandalo della modernità. E allora viene spontaneo chiedersi: Come si sopravvive a una vita senza luogo? Come si costruisce un’identità quando la terra che ti ha generato ti è stata tolta? Chi sei, se non appartieni più a nessuno spazio, se nessuno Stato pronuncia il tuo nome come “uno dei nostri”? Per i palestinesi, dopo quanto avvenuto nel 1948, questo è diventato la quotidianità, non si tratta solo della nostalgia per la casa perduta, ma anche del fatto di essere continuamente “fuori posto”, rifugiati nei campi, sospesi tra frontiere, tra documenti provvisori e identità frammentate. È un’esistenza fatta di limiti che possiamo definirli invisibili: non poter tornare, non poter appartenere, non poter dire “questa è la mia terra”.   Arendt direbbe che in quella perdita non c’è solo ingiustizia, ma è un segnale d’allarme: quando un popolo perde il diritto ad avere diritti, tutti noi siamo più fragili. Ciò significa che i diritti non sono davvero universali, ma dipendono dal riconoscimento politico, dal potere, dalle mappe, dai confini. E allora i diritti non sono più “dell’uomo”, ma del cittadino, e chi resta fuori da quella categoria, resta invisibile.  E allora ci chiediamo: può esistere l’umanità se ci sono persone senza diritti? Può una civiltà definirsi giusta se accetta che milioni di individui vivano senza patria, senza protezione, senza nome? La riflessione di Arendt, in fondo, è un invito a guardare il mondo con occhi più responsabili. Non basta dire “poveri rifugiati”: bisogna capire che ciò che accade a loro riguarda anche a noi; ogni volta che un popolo viene reso invisibile, la nostra idea stessa di umanità si indebolisce. Perciò la Nakba non è solo un evento storico: è una ferita aperta per i palestinesi ma anche per l’intera cittadinanza umana. Ogni campo profughi, ogni documento negato, ogni bambino che cresce senza patria, ci ricorda che i diritti non sono mai garantiti per sempre, che vanno difesi ogni giorno, per tutti. E forse è proprio da qui che nasce la vera domanda: non è solo “come si vive senza radici?” ma anche “cosa succede al mondo quando lascia che qualcuno le perda?”. Cerchiamo di immaginare un villaggio palestinese prima del 1948. Le case in pietra, gli ulivi che fanno ombra, le donne che stendono il bucato, i bambini che corrono tra le strade. Tutto sembra immobile, quotidiano. Poi, in pochi giorni, tutto cambia. Le case si svuotano, le famiglie scappano, i nomi spariscono. Molti di quei villaggi oggi non esistono più. Non sono stati solo distrutti, ma anche cancellati: rasi al suolo, ricoperti, rinominati. Al loro posto sorgono nuove città e basi militari. Come se cancellare il passato potesse rendere più “puro” il presente.  E qui nasce la domanda difficile: perché si cancella? Forse per paura. Forse perché è più facile costruire qualcosa di nuovo se si finge che prima non ci sia stato niente. Forse perché accettare che qualcuno c’era, che viveva, amava, pregava, sperava, obbligherebbe a fare i conti con una colpa. Ma cancellare non è mai qualcosa di neutro. È una violenza che lascia silenzio. Togliere un nome, cambiare una mappa, sradicare un ulivo: sono gesti che vogliono dire “non sei mai esistito”.  Eppure, proprio in quel tentativo di cancellazione, nasce la resistenza della memoria. Anche se le mappe non li segnano più, quei villaggi vivono ancora nella mente di chi li ha abitati. I genitori raccontano ai figli dove stava la casa, dove passava la strada, dove crescevano i fichi. Le chiavi delle porte, portate via durante la fuga, vengono considerate come reliquie. Sono pezzi di un mondo scomparso, ma anche prove di un’esistenza che nessuno può mai negare, neanche Netanyahu.  E allora ci chiediamo: può davvero sparire un luogo se qualcuno continua a ricordarlo? Forse no. Forse la memoria è più potente della geografia. C’è qualcosa di profondamente ingiusto in questa logica del “cancellare per esistere”.  Per un popolo nuovo, costruire la propria identità è diventato possibile solo togliendo quella dell’altro e questo dovrebbe farci riflettere: può un’esistenza fondarsi sull’assenza di un altro? Può esserci vera libertà se nasce dalla negazione di qualcun’altro?  La verità è che cancellare non distrugge, lascia solo ferite aperte. Le pietre dei villaggi demoliti, riutilizzate per costruire case nuove, sono come testimoni muti. Le radici degli ulivi sradicati crescono, a volte in mezzo all’asfalto, come se la terra stessa rifiutasse di dimenticare. La cancellazione, alla fine, non è solo fisica: è anche simbolica. È un tentativo di riscrivere la storia, di dire “qui non c’era nessuno”. Ma ogni volta che un nome viene tolto da una mappa, resta una voce che lo pronuncia a voce bassa, una memoria che si lascia cancellare. E forse è proprio per questo che spaventa chi cancella: il fatto che la memoria, anche quando sembra fragile, sopravvive.  Ci sono storie che restano sepolte per anni, come se il tempo potesse davvero coprirle. Tantura è una di queste. Un piccolo villaggio palestinese, come tanti altri, cancellato nel 1948. Case distrutte, famiglie disperse e, secondo molte testimonianze, un massacro che per decenni nessuno ha voluto ricordare.  Per molto tempo, Tantura è stata rimossa dalla memoria collettiva: assente dai libri di storia e ignorata nei discorsi ufficiali, come se non fosse mai esistita. Ma la memoria, si sa, non obbedisce alle regole del silenzio. Resta lì, nascosta, pronta a riemergere quando qualcuno trova il coraggio di ascoltarla. È quello che è successo con il documentario “Tantura”.  Un documentario che non urla, ma dice la verità. Racconta di come lo storico israeliano Teddy Katz, raccogliendo testimonianze di ex soldati e sopravvissuti, ha scoperto una vita scomoda: che in quel villaggio è avvenuto un massacro, poi negato, dimenticato, riscritto.  Quando Katz lo ha raccontato, venne screditato, messo a tacere. Perché? Forse perché riconoscere il dolore dell’altro è la cosa più difficile che si possa fare.  Ammettere che un’ingiustizia è avvenuta non è solo un atto storico, ma anche umano. Significa guardarsi dentro e accettare che la propria identità può avere delle ombre.  E non tutti riescono a farlo. Non tutti riescono a dire: “Sì, anche noi abbiamo fatto del male” per non danneggiare la propria immagine di Paese più morale del Mondo. Come spiega Ilan Pappé, la storia che Israele ha sempre raccontato a sé stesso e agli altri è quella di una nazione pura, nata dal bisogno di giustizia, un piccolo Davide coraggioso che si è sempre difeso da un mondo ostile. Ma questa storia nasconde una verità difficile da ammettere. Mentre Israele celebrava la sua nascita, oltre 750.000 palestinesi venivano cacciati dalle loro case e dalle loro terre. Questo evento, che i palestinesi chiamano Nakba, è la parte della storia che manca in quella ufficiale israeliana. Pappé sostiene che, per mantenere intatta la propria immagine di nazione morale, Israele ha dovuto cancellare questo ricordo, trattandolo come se non fosse mai accaduto o come se fosse stato necessario per difendersi dagli Arabi che loro chiamano animali. Ammettere di essere nati da un atto di “pulizia etnica”, come lo definisce lui, farebbe crollare l’intero edificio morale su cui si basa lo Stato. Pappé spiega che l’identità ebraico-israeliana è costruita sull’essere stati vittime per secoli. La paura più grande è guardarsi allo specchio e scoprire di essere diventati il contrario: degli oppressori. Perdere lo status di vittima e riconoscere di essere la causa della sofferenza di un altro popolo sarebbe, secondo Pappé, psicologicamente devastante per la coscienza dell’intero Paese.  Come ci si sente a sentirsi sempre nella parte della ragione mentre si occupa militarmente un altro popolo? Pappé spiega che si attiva un meccanismo di difesa molto potente: la disumanizzazione. Se si smette di vedere i palestinesi come persone con sogni, famiglie, diritti e una storia, e si inizia a descriverli solo come un “problema demografico”, una “minaccia per la sicurezza” o “terroristi”, diventa molto più semplice giustificare quelle azioni e in questo modo la coscienza può rimanere pulita e l’idea di nazione “pura” può continuare a vivere.  E allora ci chiediamo: perché è così difficile ascoltare il dolore dell’altro? Forse perché la memoria non è mai neutrale, infatti Israele sceglie cosa ricordare (la propria sofferenza) e cosa cancellare (il dolore altrui).  Ricordare significa scegliere da che parte stare, o almeno ammettere che una parte è rimasta fuori dal racconto. Ma è solo accettando anche quella parte che possiamo davvero capire.  Il documentario su Tantura ci insegna una cosa semplice ma fondamentale: il silenzio non guarisce, nasconde, negare la memoria non protegge, ma avvelena e la verità, anche se fa paura, è l’unica strada per la riconciliazione. Forse il senso più profondo di questa storia è proprio questo: la memoria non appartiene a un popolo solo. È qualcosa che ci riguarda tutti. Ogni volta che un dolore viene taciuto, la nostra umanità si spegne un po’. Ogni volta che qualcuno trova il coraggio di raccontare, la storia torna a respirare. Mentre tutto questo accadeva, il mondo guardava. O forse faceva finta di vedere.  Nel 1948, quando è nato lo Stato di Israele, gran parte dell’Occidente ha visto in esso una risposta giusta dopo l’orrore della Shoah. Ma nel tentativo di riparare un dolore, ne hanno ignorato un altro. La nascita di un popolo significa, per un altro, l’inizio dell’esilio. Così, la gioia di alcuni è diventata il silenzio di altri. Dopo la Seconda guerra mondiale le tensioni tra Israele e Palestina si sono trasformate in qualcosa di più grande: un campo di battaglia politico, perfino ideologico. Durante la Guerra Fredda, il conflitto in Medio Oriente è diventato una scacchiera su cui le grandi potenze giocano le loro mosse.  Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica non videro più persone, ma alleati e nemici e gli stessi USA, per contenere l’influenza sovietica, decisero di legarsi ad Israele. Lo armarono, lo finanziarono, lo raccontarono come il “Paese della libertà” in una regione instabile.  Dall’altra parte, l’Unione Sovietica cercò appoggio nei Paesi Arabi, spingendoli contro Israele, ma senza mai impegnarsi davvero a difenderli. Così, anche la tragedia è diventata uno strumento nelle mani dei potenti.  I Paesi Arabi stessi, come Egitto, Siria, Iraq, usarono a volte il conflitto per rafforzare il consenso interno, per distrarre i propri cittadini da crisi e ingiustizie. Il risultato è stato che, mentre i governi discutevano, i palestinesi continuavano a vivere nei campi profughi, senza casa, senza diritti, senza voce. E oggi, dopo più di settant’anni, la situazione non è così diversa. Il conflitto è diventato anche un’arma mediatica. Politici, aziende e persino miliardari usano il tema di Israele e Palestina per guadagnare voti, influenza, visibilità. Si creano campagne pubblicitarie, messaggi mirati, parole che cambiano forma a seconda di chi le deve ascoltare. È lo stesso meccanismo di allora: cambiare il linguaggio per cambiare la verità.  E allora viene spontaneo chiedersi: il mondo guarda davvero, o guarda solo ciò che gli conviene vedere? Perché mentre le potenze parlano di “alleanze”, “sicurezza” o “stabilità”, milioni di persone continuano ad essere bombardate, a vivere tra i muri, check-point e campi profughi. Come si può parlare di pace, se non si parla mai di giustizia? Forse la pace non è solo la fine della guerra, ma il ritorno alle radici. Il ritorno a quel legame invisibile che ognuno di noi ha con la sua terra, con i luoghi che ci hanno cresciuto. Perché, quando perdi la tua casa, non perdi solo dei semplici muri: perdi una parte di te. Perdi i suoni, gli odori, le abitudini. Perdi l’appartenenza e senza di essa, la vita si spezza in due: da una parte c’è ciò che eri, dall’altra ciò che non puoi più essere.  Simone Weil, filosofa francese, dice che l’essere umano ha bisogno delle radici come gli organi del corpo. Le radici non sono solo terra, sono il senso, sono la dignità. Essere “radicati” significa sapere da dove vieni e sentire che quel luogo ti riconosce. Perdere le radici, invece, significa smettere di esistere agli occhi del mondo. È quello che accade ai rifugiati palestinesi: sono vivi, ma spesso invisibili. Non hanno un luogo da cui trarre forza, eppure continuano a portarlo dentro.  E allora ci chiediamo: come si vive sapendo di appartenere a un posto che non ti appartiene più? Come si fa a restare umani quando tutto intorno ti dice che non conti, che non esisti, che la tua storia non vale? Qui entra in gioco anche Frantz Fanon, psichiatra francese, che ci ha insegnato che la colonizzazione non è solo occupazione di terre, ma anche della mente. Quando viene sottratta la terra, si insinua anche l’idea di non averla mai meritata. Si comincia a dubitare di sé, della propria lingua, della propria cultura. Ma Fanon ci ricorda anche un’altra cosa: la liberazione inizia quando il silenzio si rompe, quando cioè chi è stato colonizzato smette di credere alla voce del dominatore e torna a credere alla propria. È solo adesso che la memoria diventa un’arma non violenta, ma potentissima. Non per vendicarsi, ma per guarire.  Simone Weil e Fanon, pur venendo da mondi diversi, ci parlano della stessa verità: che un essere umano senza radici è come un albero tagliato alla base, può ancora vivere un po’, ma prima o poi si secca. I palestinesi, con la loro lingua, le loro poesie, le chiavi conservate, ne sono la prova. Le radici non servono solo a ricordare il passato, ma a resistere nel presente. E la ferita più grande non è quella del corpo, ma quella dell’anima: quella di chi è consapevole di appartenere a un luogo che gli è stato tolto. Forse allora la giustizia non è solo restituire una terra, ma riconoscere un’esistenza.  Riconoscere che ogni popolo, ogni persona, ha diritto di sentirsi “a casa” da qualche parte.  Perché non c’è pace possibile se qualcuno, ancora oggi, è costretto a vivere senza radici e senza voce. E allora la memoria diventa l’unico luogo dove poter tornare. quando la terra ti viene tolta, la memoria diventa la tua casa. È lì che continui a esistere, anche se il mondo finge di non vederti. La memoria è una forma di resistenza silenziosa. Non ha bisogno di armi, ma di parole, di ricordi, di gesti. È tramandare una storia, un profumo, una lingua. È dire “io c’ero” anche quando ti vogliono cancellare.  Frantz Fanon ci ha insegnato che la colonizzazione non toglie solo la terra, ma anche la fiducia in sé stessi. Ti fa credere di non meritare la libertà, ti convince che la tua cultura valga meno, che la tua voce sia troppo piccola per essere ascoltata. È una violenza che entra dentro, che spegne la persona piano piano. Ma la liberazione inizia proprio lì, quando quel silenzio si rompe. Quando chi è stato cancellato ricomincia a raccontarsi. E come già detto prima, la memoria non serve per vendicarsi, ma per guarire. E in questa guarigione entra la poesia. Perché la poesia è la memoria che respira, è la parola che tiene in vita ciò che la storia prova a dimenticare.  Mahmoud Darwish, poeta palestinese, ha scritto versi che non parlano di odio o di guerra, ma di amore per la vita. Nella sua poesia “Su questa terra/علَى ھَذِهِ الأرَْض”, ricorda che, anche nel dolore più grande, esistono ancora cose che meritano di essere vissute: l’aroma del pane fresco, il ricordo del primo amore, una madre che canta, la bellezza di settembre, una donna che ride.  Tutte le cose piccole, ma immense.  E poi, alla fine, Darwish scrive:  “Su questa terra c’è ciò che merita la vita… Si chiamava Palestina. Continua a chiamarsi Palestina” È un verso che non chiede pietà, ma riconoscimento. Non parla di vendetta, ma di dignità. Dice che anche chi è stato privato di tutto merita di vivere, di amare, di appartenere. La poesia, in questo senso, diventa una casa per chi non ha una casa, una patria fatta di parole, un modo per dire che loro esistono ancora. E forse è proprio per questo il valore più profondo della memoria: non lasciare che il dolore cancelli la bellezza, non lasciare che la rabbia uccida la speranza, non lasciare che la storia venga scritta solo dai vincitori.  Ricordare non significa restare fermi nel passato, ma continuare a scegliere la vita, anche quando la vita sembra ingiusta. Significa credere che, nonostante tutto, su questa terra c’è ancora qualcosa che merita di essere amato. Finché ricordiamo e le parole non si perdono, c’è la possibilità di ottenere una giustizia migliore.  Concludiamo dicendo che, forse, la storia non si misura solo con le date o con le guerre vinte, ma con le ferite che restano aperte. La Nakba non è solo un evento del passato, è una condizione dell’anima. È l’impossibilità di tornare, ma anche la forza di non smettere di ricordare.È la prova che un popolo può essere scacciato dalla sua terra, ma non dal suo nome.  E allora ci chiediamo: che cosa significa davvero “avere una patria”? È solo un confine, una bandiera, un documento? O è qualcosa che ci portiamo dentro, che fa parte di noi, del nostro modo di amare, sognare e resistere? Forse avere una patria significa avere un posto dove non devi giustificare la tua esistenza. E finché anche una sola persona non ha quel posto, nessuno può dirsi davvero libero.  Il mondo continua a parlare di “pace”, ma a volte sembra che non sappia più cosa significhi. Perché la pace non è solo assenza di guerra, è la presenza di giustizia, di ascolto, di riconoscimento. È poter dire “io esisto” senza paura.  E ci chiediamo: quante persone nel mondo, oggi, non possono ancora dirlo? Ci siamo abituati a vedere la sofferenza come qualcosa di lontano, come immagini da uno schermo. Ma ogni volto che vediamo, ogni casa distrutta, ogni nome cancellato, è una storia che ci riguarda. Perché la disumanizzazione di una persona diventa, lentamente, la disumanizzazione di tutti. E se impariamo a voltare lo sguardo di fronte a un’ingiustizia, finiamo per non vedere più nessuna.  La memoria, allora, non serve solo a ricordare ciò che è accaduto, ma a capire chi vogliamo essere. Ci obbliga a fare i conti con la nostra responsabilità. A chiederci: cosa significa stare a guardare? Cosa significa restare in silenzio? E cosa accade quando la storia viene raccontata solo da chi ha il potere di scriverla? Forse ricordare la Nakba, oggi, significa imparare a guardare con occhi più umani. Significa non lasciarsi convincere che esistano vite che valgono meno. Significa dare valore alle piccole cose, come fa Darwish nella sua poesia: il pane caldo, una madre che canta, una risata che rompe il silenzio. Sono questi gesti che tengono viva l’umanità anche nei luoghi più feriti. E allora sì, la memoria diventa un atto d’amore. Non per restare nel dolore, ma per riconoscere la vita anche dove sembra scomparsa. Perché ricordare è dire che tu sei esistito e la tua storia conta. È un modo per restituire dignità a chi l’ha persa, per ridare nome a chi è stato dimenticato.  Forse, in fondo, è questo il nostro compito: non smettere mai di vedere. Non smettere di ascoltare le voci che non si sentono più. Non smettere di credere che, anche dopo la distruzione, qualcosa di bello possa ancora crescere. E allora la vera domanda diventa: cosa ne facciamo di tutto questo dolore? Lo lasciamo marcire dentro di noi, o lo trasformiamo in un modo nuovo di guardare? Possiamo scegliere di non ripetere gli stessi errori e di scegliere la compassione al posto dell’indifferenza.  Perché come scrive Darwish, “su questa terra c’è ciò che merita la vita.” E forse il primo passo per meritarla davvero è imparare a non dimenticare. A ricordare non per restare chiusi nel passato, ma per rendere il presente più giusto, più umano, più vero.  E allora sì, concludiamo dicendo che finché qualcuno, da qualche parte, lotta per essere visto, ascoltato e ricordato, la storia non è finita. Non lo sarà finché qualcuno, in qualsiasi luogo, continuerà a lottare per avere un volto, una voce e un ricordo. È una lotta che chiede giustizia. Che chiede di riscrivere il passato. Che chiede, semplicemente, di essere umani. ILARIA, SARA, AMINA, BIANCA, MIRANDA CLASSE: 4^D
Verona, 8 novembre: Seconda Edizione forum nazionale per l’Educazione nonviolenta 2025
VERONA – 8 NOVEMBRE 2025 IN COLLABORAZIONE CON IL COMUNE DI VERONA EVENTO IN PRESENZA PRESSO L’ISTITUTO COMPRENSIVO 06 CHIEVO-BASSONA-BORGO NUOVO – VIA PUGLIE 7/E – 37139 VERONA Partecipazione di Elisa La Paglia, Assessora con delega a Politiche educative e scolastiche, Biblioteche, Edilizia scolastica, Salute e servizi di prossimità L’iscrizione è possibile solo per tutta la giornata. Le persone  iscritte riceveranno successivamente informazioni dettagliate sui tavoli di lavoro – titoli, argomenti e le fasce d’età di riferimento, dentro le aree di interesse scelte che troverete qui di seguito. L’evento è aperto esclusivamente al personale di istituzioni educative (scuole pubbliche, paritarie, associazioni educative, cooperative, ecc.) Descrizione dell’evento di formazione in presenza dell’8 Novembre 2025 Il Forum nazionale “Scuole per un’educazione nonviolenta” riunisce reti scolastiche, scuole, docenti, dirigenti e istituzioni educative che credono in una scuola pubblica, democratica e orientata alla pace, una scuola che coltiva relazioni nonviolente e riparative, valorizza l’interconnessione, promuove il benessere collettivo, rigetta militarizzazione e autoritarismo e si fonda su pratiche inclusive e sostenibili. 9.00 ingresso e registrazione Ore 9.15 *  Benvenuto della Dirigente scolastica I.C. 06 Gemma Lanzaretta e del Comitato promotore del Forum * Presentazione del progetto Horizon Europe “Let’s Care” – Stefano Cobello – Rete Polo Europeo della Conoscenza Ore 9.30 * Presentazione del Forum permanente “Scuole per un’Educazione Nonviolenta” A un anno di lavoro, la seconda edizione: significato, obiettivi e sviluppi di comunità  – Annabella Coiro – Rete Edumana Ore 9.45 * I bambini sono davvero difficili? L’approccio nonviolento nella formazione della psiche e del cervello dei bambini –  Prof. Alberto Oliverio – Università “La Sapienza” Ore 10.25 * Tavola rotonda Come le istituzioni (scuole e territorio) possono contribuire allo sviluppo di un ambiente nonviolento in una visione di scuola sconfinata. Intervengono: Alessio Perpolli, Dirigente I.C. Bosco-Chiesanuova.  10.50 * Coffee break a cura degli/delle studenti  della Scuola Alberghiera Luigi Carnacina di Bardolino ore 11.15                                               LABORATORI / DIBATTITI PARALLELI Area: Analisi della violenza implicita a scuola * “Maestro, ma tu ci sogni?” Come riconoscere la violenza implicita a scuola? (tutti i gradi di scuola) conduce Tiziana Rita Morgante * Link scheda laboratorio Area: Attività per gestire i conflitti e le relazioni in classe * Contrastare e prevenire il bullismo a scuola (tutti i gradi di scuola) – conduce prof.ssa Anna Ferraris * Link scheda laboratorio * Conflitti che insegnano (scuola dell’infanzia) – conduce Patrizia Granata  * Link scheda laboratorio * Il manifesto delle parole ostili secondo me (scuola secondaria di primo grado) – conducono Andrea Brusoni, Giacomo Boffa, Gianluca Cirulli, Giorgio Costa  * Link scheda laboratorio Area: Educazione civica e cittadinanza partecipata * I giorni che contano: memoria e pace nel calendario civile (secondaria di primo grado) – conduce Simonetta Muzio  * Link scheda laboratorio Area: Letture, cinema e musica per educare alla pace * Gli albi illustrati come strumento per educare alla pace e alla nonviolenza nella scuola primaria (scuola primaria) – conduce Isabella Gallotta  * Link scheda laboratorio Area: La nonviolenza è salute * Il curricolo di promozione della salute orientato alla nonviolenza (tutti i gradi di scuola)– conducono Angela Rinaldi e Nicola Iannaccone * Link scheda laboratorio Area: Laboratori espressivi per la nonviolenza * Svuotare la guerra, riempire la pace – L’immaginario dei bambini nei disegni di guerra e pace  (scuola primaria) – conducono Claudio Tosi e Maria Grazia Cotugno * Link scheda laboratorio Area: Pace e nonviolenza nei contenuti disciplinari * Dalla pace perpetua al Lamento della Pace. Come parlare di Pace e Nonviolenza a partire dalla filosofia (scuole secondarie di secondo grado) – conduce Michele Lucivero * Link scheda laboratorio Ore 13.00 – Pranzo a cura degli/delle studenti  della Scuola Alberghiera Luigi Carnacina di Bardolino 14.30 – LABORATORI / DIBATTITI PARALLELI Area: Attività per gestire i conflitti e le relazioni in classe * Giocare alla guerra serve alla pace? – conduce Luciano Franceschi * Link scheda laboratorio Area: Educazione civica e cittadinanza partecipata * Come si può parlare di femminismo e violenza di genere in classe. Laboratorio di scrittura (secondarie di primo e secondo grado) – conduce Valeria Russo  * Link scheda laboratorio * Quando la classe è un’esperienza di nonviolenza e democrazia dal primo giorno. Percorsi partecipati di una scuola sconfinata (scuola primaria) – conduce Annabella Coiro  * Link scheda laboratorio Area: Letture, cinema e musica per educare alla pace * Fare pace col cinema – La pedagogia dello sguardo per l’educazione nonviolenta (tutti i gradi di scuola) – conduce Carlo Ridolfi * Link scheda laboratorio Area: La natura e l’ambiente come percorsi di nonviolenza * Il diario autobiografico sulla pace e la nonviolenza – Prendersi cura di sé, degli altri, del mondo – (tutti i gradi di scuola) conduce Dino Mancarella * Link scheda laboratorio Area: La nonviolenza è salute * La nonviolenza ti fa star bene! (tutti i gradi di scuola)– Conducono Federica Fratini e Noemi Toni * Link scheda laboratorio Area: Laboratori espressivi per la nonviolenza * Educare nella Nonviolenza: ritrovare l’essenza del proprio agire (tutti i gradi di scuola)– Jaqueline Mera e Stefano Colonna * Link scheda laboratorio Area: Riflessioni e pratiche contro la militarizzazione della scuola * E se un militare entrasse nella mia classe a fare lezione sulla Pace? Strumenti e sostrato culturale per fermare la militarizzazione delle scuole (tutti i gradi di scuola) – Michele Lucivero * Link scheda laboratorio Area: Trasformare la classe in uno spazio di dialogo * Attività ludiche per imparare a dialogare alla scuola primaria (scuola primaria) – Gabriella Fanara  * Link scheda laboratorio 16.30 – Sottogruppi di ricerca paralleli –  Divisione in gruppi di lavoro tematici * Analisi critica della violenza implicita nella scuola * Attività per gestire i conflitti e le relazioni * Educazione civica e percorsi di cittadinanza partecipata * Ho letto un libro… ho visto un film… ho sentito una canzone… * La natura e l’ambiente come percorso nonviolento * La nonviolenza ha a che fare con la salute * Laboratori espressivi per la nonviolenza (arte, corpo, musica) * Pace e nonviolenza nei contenuti delle discipline * Quale contrasto alla militarizzazione della scuola? * Trasformare la classe in uno spazio di dialogo (anche fisico) 18.15 – Plenaria con performance di chiusura 18.30 – Saluti di chiusura Il Forum nasce per condividere pratiche e costruire una cultura pedagogica per la pace e la nonviolenza, sostenuta dall’Agenda ONU, dall’UNESCO e dalla Costituzione. Il Forum è uno spazio in crescita che ogni anno organizza un incontro nazionale per valorizzare le esperienze dei territori, diffonderne le buone pratiche e rafforzare la voce collettiva della scuola pubblica per la pace e la nonviolenza. La scadenza per le iscrizioni per poter partecipare al forum è il 2 Novembre 2025 La giornata costituisce iniziativa di formazione ai sensi della Direttiva n. 170 del 2016. I docenti partecipanti hanno diritto all’esonero dal servizio e all’attestato di partecipazione. I certificati di partecipazione saranno emessi nei mesi di Gennaio e Febbraio 2026  LInk per l’iscrizione COMITATO PROMOTORE Rete ED.UMA.NA  www.edumana.it Rete Polo Europeo della Conoscenza www.europole.org/ Rete Scuole che Promuovono Salute  www.scuolapromuovesalute.it Osservatorio contro la Militarizzazione delle Scuole e dell’Università –osservatorionomilscuola.com IC Nazario Sauro – Rinascita-Livi icnazariosauro.edu.it/
Presentazione “Comprendere i conflitti. Educare alla pace” a Molfetta
Una pace vera non può essere piena se non è una pace giusta. Ad una pace giusta però occorre educarsi prima di scatenare i conflitti. Occorre attivare un’educazione che possa contrastare quella che viene chiamata con orgoglio la “Cultura della Difesa”, ma che, in fondo, non è che una dilagante retorica ideologica funzionale al tentativo di “normalizzare” la guerra e il sostegno ai gruppi economici dell’industria degli armamenti, agendo anche nei luoghi apparentemente “neutrali” come le scuole. Questa la sintesi dell’appassionato incontro con le testimonianze di Mons. Giovanni Ricchiuti, Vescovo e presidente di Pax Christi Italia e di Michele Lucivero docente e responsabile nazionale dell’ Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. Fonte: Pagina Facebook Città dell’uomo. Il video della serata e disponibile anche al seguente link:
Convegno a Napoli del 17 ottobre: Educazione alla pace e critica al militarismo
Grande la partecipazione al convegno dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università che si è tenuto il 17 ottobre a Napoli, organizzato dall’Assemblea di Autoformazione della scuola presso il Liceo Statale Villari in collaborazione con alcuni suoi docenti. La mattina è iniziata con l’introduzione di un portavoce del collettivo organizzatore, che ha inquadrato la prospettiva generale della giornata di formazione e l’idea di autoformazione che la sottende in un mondo, quello della scuola, sempre più incardinato sul militarismo sia implicito sia in divisa.  Il prof. Charlie Barnao – sociologo e docente dell’Università di Palermo – è intervenuto sul tema del militarismo culturale e dei processi di socializzazione ad esso connessi, partendo da un’autoetnografia sui sistemi addestrativi militari; la prof.ssa Daniela Tafani – ricercatrice in Filosofia politica presso l’Università di Pisa – sulle relazioni tra il complesso militare industriale e i giganti del Big Tech e sull’incompatibilità tra democrazia ed enormi concentrazioni di capitale che questi ultimi rappresentano; Barbara Bertani – docente di scuola primaria e attivista nella Rete Alfabeti Ecologici – ha illustrato il modo in cui un approccio ecologico alla pedagogia, basato sulla costruzione di una comunità di ricerca che si pone domande, che discute, e in cui il conflitto emerge e viene rielaborato, possa contribuire alla crescita di soggetti capaci di immaginare altri mondi possibili e di incidere sulla realtà per trasformarla. Infine Roberta Leoni – docente di scuola secondaria e attuale presidente dell’Osservatorio – ha relazionato sul fenomeno della militarizzazione delle scuole e delle menti, dagli accordi tra il mondo della formazione e quello dei corpi armati e dell’industria bellica, alle norme nazionali e comunitarie che lo promuovono, dall’invasione più o meno sottile delle menti attraverso i media, l’editoria scolastica, i prodotti culturali per bambini/e e adolescenti; l’intervento è stato accompagnato da una carrellata di immagini tratte dalle numerose segnalazioni dell’Osservatorio e dalla testimonianza delle più significative campagne finora portate avanti. Video dell’intervento di Roberta Leoni a Napoli. Nel pomeriggio i presenti si sono divisi in gruppi coordinati dai docenti dell’Assemblea di autoformazione che hanno discusso a partire da domande-guida su temi desunti dalle relazioni mattutine: pedagogia e guerra, cultura della militarizzazione, pervasività del digitale; gli spunti che ne sono scaturiti sono stati poi esposti e riportati in plenaria da un rappresentante per gruppo. Ringraziamo le relatrici e i relatori, il Liceo Statale Villari che ci ha ospitati, le colleghe e i colleghi che hanno collaborato all’organizzazione, tutti quanti hanno partecipato e che ci hanno dato feedback che rafforzano la convinzione della necessità di questi momenti di approfondimento orientato alla lotta. Qui alcuni scatti della giornata. Assemblea di autoformazione della scuola di Napoli Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
4 novembre 2025: Convegno nazionale – formazione online “La Scuola non si arruola”
IL 4 NOVEMBRE NON È LA NOSTRA FESTA! CONTRO LA MILITARIZZAZIONE DELLA CULTURA, CONTRO IL RIARMO E LE POLITICHE DI GUERRA, PER SOSTENERE LA PALESTINA. COSTRUIAMO L’ALTERNATIVA. CONVEGNO NAZIONALE ONLINE ISCRIVERSI SU PIATTAFORMA SOFIA (ID CORSO 101607) O TRAMITE LINK: HTTPS://FORM.JOTFORM.COM/USB_SCUOLA/CONVEGNO-4-NOVEMBRE Con la legge n. 27 del 1 marzo 2024 è stata istituita, il 4 novembre, la Giornata dell’unità nazionale e delle forze armate, data in cui i/le docenti delle scuole di ogni ordine e grado vengono invitati/e ad accompagnare i propri studenti e studentesse a celebrazioni che esaltano i valori della patria e del sacrificio, con particolare riferimento al primo conflitto mondiale. «Si intende ricordare, in special modo, tutti coloro che, anche giovanissimi molto giovani, hanno sacrificato il bene supremo della vita per un ideale di Patria e di attaccamento al dovere: valori immutati nel tempo, per i militari di allora e quelli di oggi», recita la legge. Si tratta invece, a nostro avviso, di un salto di qualità della ideologia militarista che porta dentro le scuole di ogni ordine e grado una forte ventata di nazionalismo, attraverso la retorica del compimento dell’unità nazionale, e di militarismo, con ampio ricorso alla retorica del sacrificio. La storia ci ricorda invece che la Prima Guerra Mondiale fu, per il nostro Paese, oltre che un atto di aggressione, una vera e propria carneficina. Simili celebrazioni – la prima guerra Mondiale venne preceduta da aggressioni coloniali dell’Italia monarchica e liberale che cercava di entrare nel novero delle grandi potenze – rappresentano dunque un ulteriore passo avanti rispetto al processo di normalizzazione della guerra, in un contesto Europeo e mondiale che, con i progetti di riarmo e l’investimento di ingentissime risorse nella difesa e nella sicurezza, avrà presto ripercussioni dirette sulle spese sociali, sul welfare, sull’istruzione, sulla sanità. Questo anno poi è purtroppo tragicamente automatico parlare del genocidio in Palestina, espressione più evidente di quel riordinamento economico-politico-militare mondiale che non può prescindere dalla guerra e dal colonialismo. Un Genocidio in diretta e in corso, che il mondo della scuola non vuole appoggiare ma vuole anzi in ogni modo contrastare. Come Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle Università consideriamo il 4 novembre non una giornata di festa e da celebrare, ma piuttosto una giornata di lutto. Una narrazione falsa che tace sulla violenza e le distruzioni della guerra, che marginalizza la cultura della pace e l’educazione improntata sulla risoluzione pacifica dei conflitti. Ci opponiamo con forza e determinazione al militarismo e alla guerra e a gran voce diciamo “Il 4 novembre non è la nostra festa!”, invitando così i/le docenti a disertare le iniziative ad esso legate, a denunciarle e a partecipare al convegno che abbiamo organizzato per il mattino e alle mobilitazioni previste per il pomeriggio in tutta Italia. PER QUESTI MOTIVI, INSIEME AL CESTES, L’OSSERVATORIO CONTRO LA MILITARIZZAZIONE DELLE SCUOLE E DELLE UNIVERSITÀ HA ORGANIZZATO PER IL 4 NOVEMBRE 2025 UN CONVEGNO NAZIONALE ONLINE VALIDO COME CORSO DI AGGIORNAMENTO E FORMAZIONE CON IL SEGUENTE PROGRAMMA: 8.15-8.30 ACCOGLIENZA IN PIATTAFORMA Roberta Leoni, docente e presidente Osservatorio contro la militarizzazione
delle scuole e delle università Cultura della difesa e militarizzazione dell’istruzione Luciano Vasapollo, direttore CESTES, Università La Sapienza Roma Una politica culturale del sociale per il mondo multipolare della pace Antonio Mazzeo, docente e giornalista Rearm Europe e militarizzazione
del sapere Marco Meotto, docente e ricercatore Sguardi coloniali. Il genocidio
nella didattica della storia: dall’inizio del Novecento
alla Palestina odierna Mjriam Abu Samra, ricercatrice e attivista italo-palestinese Critica decoloniale dell’accademia neoliberale: la conoscenza
non marcia Raffaele Spiga, BDS Italia Boicottare il pensiero unico militare Tommaso Marcon, studente, OSA La militarizzazione della formazione, tra scuola gabbia e Valditara Leonardo Cusmai, studente universitario Cambiare Rotta L’università ai tempi della crisi
tra militarizzazione, repressione
e riforme Roberta Leoni Conclusioni Modera: Lorenzo Giustolisi, CESTES MODALITÀ DI ISCRIZIONE: È POSSIBILE ISCRIVERSI SU PIATTAFORMA SOFIA (ID CORSO 101607) O TRAMITE LINK: HTTPS://FORM.JOTFORM.COM/USB_SCUOLA/CONVEGNO-4-NOVEMBRE MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE: IL LINK CON CUI CONNETTERSI VERRÀ INVIATO VIA MAIL. Il CESTES è ente accreditato al MIM, per il corso si può fruire di un permesso giornaliero
 per formazione ai sensi del’ art. 36 del CCNL 2019/21 Per info:
 scrivere a info@formazione-cestes.it
 o telefonare a Silvia Bisagna 349/7221900 FUORI I MILITARI, IL MILITARISMO E LA GUERRA DALLA SCUOLA! COSA POSSIAMO FARE SE IL 4 NOVEMBRE SIAMO INDIVIDUATI COME ACCOMPAGNATORI/TRICI A INIZIATIVE PER LA GIORNATA DELLE FORZE ARMATE? 1) Iscriverci al convegno organizzato dall’Osservatorio per la mattina del 4 novembre (consulta il sito dell’Osservatorio per prendere visione del programma e scaricare il modulo di domanda da produrre alla scuola); la formazione è un diritto: come docenti abbiamo 5 giorni all’anno di permesso retribuito per la formazione e se il preside dovesse fare problemi nella concessione del permesso, si può scrivere all’Osservatorio (osservatorionomili@gmail.com) e avrete il supporto, anche normativo, necessario; 2) Presentare una dichiarazione di indisponibilità o una rimostranza (in allegato o da scaricare dal sito dell’Osservatorio); si tratta di un documento in cui si ribadisce la propria obiezione di coscienza relativamente alla presenza dei militari in ambiente scolastico; il preside potrebbe o individuare un/a sostituto/a oppure procedere con ordine di servizio oppure tacere; nel secondo e terzo caso consigliamo di procedere con la procedura prevista per la rimostranza che comunque può essere presentata anche indipendentemente dalla dichiarazione di indisponibilità. Ricordiamo che, in ogni caso, se l’attività prevista per il 4 novembre si tenesse fuori dalla scuola, non sussiste alcun obbligo per il docente di accompagnare la classe (le uscite didattiche sono svolte sempre su base volontaria); Presentare un atto di rimostranza, un atto perfettamente legale e previsto dalla normativa in base al quale un dirigente della pubblica amministrazione non può impartire ordini con vizi legislativi. Se vi viene chiesto di accompagnare una classe a una qualche forma di parata militare senza che questa attività sia stata deliberata dal Collegio Docenti e/o dal Consiglio di Classe, potete opporvi. Di fronte a una circolare che vi individua come accompagnatori/trici dovete richiedere (per scritto) un ordine di servizio; quando arriva l’ordine di servizio potete utilizzare il modello di atto di rimostranza scaricabile dal sito dell’Osservatorio (meglio protocollare il tutto nella segreteria della scuola). Di fronte a una rimostranza, il preside ha due strade: a) Non risponde; a questo punto la rimostranza si intende accolta e non sussiste più l’obbligo previsto dalla circolare o dall’ordine di servizio su cui la rimostranza stessa è stata prodotta; b) Il preside reitera l’ordine di servizio; a questo punto il lavoratore ha due scelte: o ottempera oppure decide di resistere con la consapevolezza che può incorrere in provvedimenti disciplinari (sui quali l’Osservatorio dà la massima disponibilità a dare l’eventuale copertura legale). A4-LA-SCUOLA-NON-SI-ARRUOLADownload
Siracusa, 30 ottobre: Convegno Osservatorio “La Scuola, la Palestina, le Guerre: educhiamo alla Pace”
CONVEGNO NAZIONALE DI AGGIORNAMENTO/FORMAZIONE IN PRESENZA E ON LINE LA SCUOLA, LA PALESTINA, LE GUERRE: EDUCHIAMO ALLA PACE Facebook Giovedì 30 ottobre 2025 dalle ore 8,30 alle ore 13,30 e poi per il laboratori dalle 14,30 alle 16,30 si svolgerà nell’Aula Magna MADE via Cairoli, 20 a Siracusa un convegno organizzato dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università in collaborazione con il Coordinamento siracusano per la Palestina e l’ente di formazione CESP (Centro Studi per la Scuola Pubblica). Il Convegno prevede l’esonero dal servizio per tutto il personale Docente e Ata (art. 36 CCNL 2019/2021), al termine del quale sarà rilasciato regolare Attestato di Partecipazione. Progarmma: Ore 8,45 Introduce e coordina: Eleonora Pannuzzo (docente, Comitato Siracusano per la Palestina) Intervengono Antonino De Cristofaro (docente, E.N. Cobas Scuola) Palestina, dal cessate il fuoco alla pace Laura Marchetti (docente di Antropologia e Pedagogia, Università di Reggio Calabria) Antropologia della guerra Antonio Mazzeo (docente, Peace researcher) Fra venti di guerra e diritto al disarmo Lorenzo Perrona (docente, Cesp Sicilia) Decolonizzare il pensiero per educare alla pace Ore 12,00/13,30 Dibattito Ore 14,30/16,30 Laboratori PER ISCRIVERSI: HTTPS://FORMS.GLE/ES1GJNBDNND5J5ZK8 Il Corso si svolgerà sia in presenza che on line (solo per chi non abita nella provincia di Siracusa) In entrambi i casi occorre iscriversi e attendere la conferma. Il CESP, Centro Studi per la Scuola Pubblica, è Ente accreditato/qualificato per la formazione del personale della scuola (Dir. MIUR n. 170/2016). In allegato la locandina e il modulo per la richiesta dell’esonero. SROttobre25Download