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Dal 23 al 25 maggio 2025 a Torino Divine Queer Film Festival
Torna per la sua nona edizione il Divine Queer Film Festival, appuntamento annuale con il cinema indipendente queer che porta sullo schermo storie, linguaggi e immaginari capaci di rompere norme e confini. Dal 23 al 25 maggio 2025, gli spazi di Via Baltea 3 a Torino si riempiranno di film, talk, ospiti internazionali, artigianato politico e socialità transfemminista. Organizzato da Taksim APS, il festival continua a concentrarsi su tre assi tematici fondamentali: immigrazione, identità di genere e disabilità, intrecciando proiezioni e dibattiti con pratiche politiche, affettive e creative. L’edizione 2025 del Divine Queer Film Festival è dedicata a Mariasilvia Spolato, insegnante, matematica e attivista femminista, tra le prime donne in Italia ad aver fatto coming out pubblicamente come lesbica. Attraverso questa dedica, il festival intende valorizzare la memoria delle lotte invisibilizzate e dare spazio alle soggettività che ogni giorno resistono ai margini della norma. In programma 12 film in concorso provenienti da 10 paesi diversi e 4 film fuori concorso, tra cui “VALERY ALEXANDERPLATZ”: saranno presenti la regista Silvia Maggi e la protagonista Valérie Taccarelli. Sempre fuori concorso sarà proiettato “OPRE ROMA!”, opera che affronta il tema urgente e poco raccontato della ziganofobia. Tra gli ospiti internazionali, anche la regista Rosida Koyuncu, proveniente dal Kurdistan e residente in Svizzera: oltre a presentare il suo film in concorso, terrà un talk sul tema “Rappresentazione cinematografica dei corpi e delle lotte queer”. L’associazione organizzatrice del festival, Taksim Aps, anche quest’anno ha deciso di avviare una campagna di crowdfunding per la realizzazione del festival. E’ possibile accedere alla campagna usando questo link. Il Divine Queer Film Festival è uno spazio aperto, sicuro e accessibile, dove condividere visioni e pratiche di liberazione. Durante i tre giorni, oltre alle proiezioni, sarà possibile visitare i tavoli di artigianato politico queer e materiali informativi allestiti nel cortile del festival. Anche quest’anno, saranno assegnati tre premi per i film in concorso: – Premio della giuria – Premio del pubblico – Premio della direzione artistica I riconoscimenti sono realizzati in collaborazione con il Laboratorio Artemista, uno spazio artigiano e artistico impegnato nella creazione collettiva. L’ingresso agli eventi è gratuito. Il programma completo è online.   Anche quest’anno il Divine Queer Film Festival può contare su una rete di complicità politica, culturale e affettiva che sostiene e amplifica la sua visione. Tra partner, patrocinatori e sostenitori di questa nona edizione ci sono: Qoro – il primo coro LGBTQIE di Torino, Collettivo Q+, Amnesty International – Sezione Italia, Kuirfest, Coordinamento Torino Pride, Pembe Hayat, Laboratori di Barriera, Laboratorio Artemista, Orlando Magazine, Arci Torino, UCCA, Impresa Sociale Stranidea, la Chiesa Evangelica Luterana in Italia, Unicollege SSML Torino, MIT – Movimento Identità Transessuale, Laboratorio Malaerba, Maledicola, Maurice GLBTQ Torino, CasArcobaleno Torino e la Città di Torino. Una rete variegata e resistente, che condivide l’impegno per una cultura queer radicale, accessibile e intersezionale. Divine Queer Film Festival 23–25 maggio 2025 Laboratori di Barriera – Via Baltea 3 – Torino Organizzato da Taksim APS Info e programma: www.divinequeer.it Murat Cinar
Se dentro di te hai un mondo di angoscia e di rabbia
-------------------------------------------------------------------------------- unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- «Arriva un’ondata e ti porta via tutto: tutto quello che avevi in casa, i tuoi ricordi, la tua intimità, la tua vita. Dentro la tua mente che cosa resta: come esprimeresti quel pensiero, quel sentimento? Se sei una persona con disabilità cognitiva fai davvero fatica a raccontarlo o, nel caso in cui il tuo linguaggio è compromesso, non sei in grado neppure di parlare, mentre dentro di te hai un mondo di angoscia, di paura, di rabbia». Nives Baldoni, presidente della sezione di Faenza di ANFFAS, Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo, ci racconta l’impatto delle ultime alluvioni che hanno colpito la città sulle famiglie con persone con disabilità. Negli ultimi tre anni, Faenza, in provincia di Ravenna, è stata colpita da tre alluvioni. La prima si è verificata il 2 e 3 maggio 2023, seguita da un evento ancora più devastante il 16 e 17 maggio dello stesso anno. L’ultima alluvione è avvenuta tra il 18 e il 19 settembre 2024: secondo lo studio condotto dalla Commissione tecnico-scientifica istituita dall’Emilia-Romagna, dopo le inondazioni del maggio 2023 c’era l’1 per cento di probabilità che un nuovo episodio di queste proporzioni potesse verificarsi nell’arco di un anno. È accaduto dopo sedici mesi, con un’intensità ancora maggiore. È la crisi climatica, che spiazza ogni previsione, che mette a dura prova le infrastrutture esistenti (non basta certo aggiungere blocchi di cemento lungo gli argini più fragili, come a Faenza, per impedire un’inondazione) e la capacità di adattamento delle comunità locali. Durante la seconda alluvione del 2023 andò completamente distrutta la sede di ANFFAS Faenza, dove si svolgevano tutti i giorni i laboratori per le persone con disabilità e ancora adesso queste attività – sollievo per le persone con disabilità e le loro famiglie – sono portate avanti in un locale provvisorio; ma più che l’elenco dei danni è una storia, raccontata da Nives Baldoni, a rendere visibile ai nostri occhi l’impatto di questi eventi estremi sulle persone con disabilità e a farci percepire perché se sei una persona con disabilità si “riacutizza ogni cosa”, come dice la presidente dell’associazione. Luca (nome di fantasia), 34 anni, con un disturbo dello spettro autistico, insieme a sua madre ha dovuto abbandonare il proprio appartamento, dichiarato inagibile, subito dopo le alluvioni del 2023. «Questo ragazzo, dopo venti giorni trascorsi presso amici a cui la mamma aveva chiesto ospitalità, è fuggito», racconta Baldoni, «continuava a dire: non è casa mia». Stando alla presidente dell’associazione, la madre di Luca è riuscita a rientrare nel vecchio appartamento dopo una trattativa con il Comune, ma hanno vissuto per mesi senza corrente, riscaldamento e acqua calda. «Oggi, tutte le volte che piove, questo ragazzo dice: mamma noi stiamo in questa casa, non andiamo via». Se la storia di Luca ci permette di accendere una luce per vedere l’impatto della crisi climatica sulla vita quotidiana di chi è più vulnerabile, i dati confermano quanto siamo di fronte a una questione globale, che richiede risposte strutturali per non lasciare indietro nessuno. I report dell’Onu, dell‘Organizzazione Mondiale della Sanità, gli studi scientifici, tutti concordi nell’affermare che le persone con disabilità sono sproporzionatamente colpite dal cambiamento climatico. «Il cambiamento climatico sta minacciando direttamente e in modo sproporzionato il diritto alla salute delle persone con disabilità a causa delle temperature sempre più elevate, degli elevati inquinanti atmosferici e della crescente esposizione a eventi meteorologici estremi, che includono ondate di calore, inondazioni, uragani e incendi»: è un passaggio chiave dell’articolo “Climate change and the right to health of people with disabilities”, pubblicato sulla rivista scientifica Lancet a dicembre 2021: «Sorprendentemente, il tasso di mortalità globale delle persone con disabilità in caso di calamità naturali è fino a quattro volte superiore a quello delle persone senza disabilità, a causa della scarsità di pianificazione inclusiva, informazioni accessibili, sistemi di allerta precoce, trasporti e atteggiamenti discriminatori all’interno delle istituzioni e tra gli individui». Ma cosa rende queste persone così esposte ai rischi legati al cambiamento climatico? «Essendo le persone con disabilità quelle che sono state rese vulnerabili – nel senso che la nostra vulnerabilità è una costruzione sociale: noi non siamo vulnerabili, siamo resi vulnerabili, perché in questi millenni non abbiamo avuto accesso agli stessi diritti, alle stesse opportunità e servizi –, appare evidente che nel momento in cui dobbiamo rispondere a eventi estremi che richiedono evacuazioni rapide, infrastrutture e informazioni accessibili, la cosa diventa estremamente complicata», spiega Giampiero Griffo, componente del consiglio mondiale di Disabled Peoples’International (DPI), un’organizzazione per i diritti umani impegnata nella tutela dei diritti delle persone con disabilità. «Ci ritroviamo a essere meno protetti perché nell’emergenza di un evento estremo e in generale nelle situazioni di rischio si è lontani dall’aver compreso come trattare le persone con disabilità», aggiunge Griffo. In questo senso, l’esperto cita l’articolo 11 della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, che affronta le “situazioni di rischio ed emergenze umanitarie”, «anche se alla fine nessuno si attrezza». Perché è così difficile tenere conto anche delle persone con disabilità nelle politiche di mitigazione e adattamento? «Perché siamo tutti nati e cresciuti in una società abilista che appunto è pensata da e per persone abili», è la risposta chiara di Erika Moranduzzo, esperta di diritti umani nel contesto cambiamento climatico e attualmente ricercatrice presso l’Università di Leeds nel Regno Unito. «Le persone con disabilità sono circa il 15 per cento della popolazione mondiale, dunque la più ampia minoranza esistente. Ci ricordano quanto siamo vulnerabili. La disabilità non è, infatti, qualcosa di unico, ma è una parte intrinseca della vita umana. Ciò significa che siamo tutti esposti a disabilità e questo vale soprattutto nel contesto del cambiamento climatico», aggiunge l’esperta. Inoltre, «come per altri gruppi sociali, le persone con disabilità non sono solo vittime sproporzionalmente impattate dal cambiamento climatico, ma sono agenti di cambiamento», spiega ancora. In poche parole, «accendono la luce su modi di immaginare il mondo che portano beneficio a tutti, non solo alle persone con disabilità», chiosa Moranduzzo. E “agente di cambiamento” è esattamente ciò che prova a essere ogni giorno Daniele Sicherhof, in carrozzina dall’età di 18 anni a causa di un incidente sul lavoro, che in Val di Non alleva mucche della razza Grigio Alpina, completamente scomparse dopo gli anni Sessanta e oggi Presidio Slow Food. Sogna anche di ripiantare, accanto all’attuale ettaro e mezzo di classiche mele Golden, la cosiddetta mela renetta del Canada, anch’essa a rischio di scomparire perché invisa alla grande distribuzione. Insieme a suo fratello, Daniele conduce una piccola azienda biologica. «Lavorare in agricoltura vuol dire seguire la natura». Il cambiamento climatico qui si fa sentire, con inverni più miti rispetto al passato e danni alle colture causati dalle gelate primaverili. Quando parte la stagione, Daniele Sicherhof vive “con il cellulare in mano” per seguire le previsioni meteo e organizzare il lavoro di conseguenza, perché «è il tempo che comanda», dice. Nel 2008, riprendendo l’attività del nonno, Daniele ha progettato un caseificio accessibile, una stalla senza barriere architettoniche e ha adattato anche il trattore, così da poterlo guidare. Convinto sostenitore del biologico, racconta di dare alle mucche solo erba, fieno, e un po’ di cereali a mezzogiorno, perché «crediamo in un’agricoltura che dia reddito, prodotti buoni e salutari con il minor impatto ambientale possibile». Daniele critica il modello dell’allenamento intensivo, dove «devi fare quintali di latte e poi come lo fai e la qualità del latte vengono dopo» e, attraverso visite guidate nella sua azienda, cerca di sensibilizzare le persone. Perché essere un agente del cambiamento è una bella responsabilità e dare il buon esempio è un gran bel modo per iniziare a cambiare qualcosa. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Se dentro di te hai un mondo di angoscia e di rabbia proviene da Comune-info.
Intervento dell’Osservatorio all’Assemblea Nazionale NUDM a Bologna
Intervento durante la plenaria dell’Assemblea Nazionale di Non Una di Meno a Bologna, sabato 3 febbraio 2024 ETÀ DELLE PERSONE UCCISE Sebbene la stampa dia risalto, nella cronaca, ai femminicidi di giovani donne dai 20 ai 30 anni, la fascia di età più esposta ai femminicidi è tra i 40/60 anni o over 80. I 120 casi del 2023 ci offrono un quadro impressionante: nonostante i casi mediatici di Giulia Tramontano (29 anni), Giulia Cecchettin (22 anni) e Vanessa Ballan (27 anni), notiamo che le donne più grandi sono maggiormente esposte alla violenza e quindi future vittime di femminicidio. Non possiamo poi ignorare le vergognose strumentalizzazioni della destra in concomitanza con i due femminicidi di donne gestanti per imporre, per esempio, il riconoscemento della “persona in vita” dal momento del concepimento.  PERSONE DISABILIZZATE E CASI ARCHIVIATI Aumentano anche i casi di persone disabilizzate di cui il sistema continua a non farsi carico, uccise da uomini incapaci di gestire il ruolo di cura: un ruolo per cui non sono stati educati e non sono socialmente destinati. I percorsi di autonomia e liberazione non possono che essere colpiti violentemente perché il sistema familistico e capitalista si riproduca senza possibilità di cambiamento.  Quest’anno abbiamo anche rilevato casi archiviati come suicidi e riconosciuti, a distanza di troppo tempo, come femminicidi. A volte la vittima era riuscita a impiccarsi rimanendo coi piedi appoggiati, annodando il laccio al collo in una posizione altamente improbabile a seguito di un incontro con un cliente poi sparito. Ci chiediamo quindi quanti siano i casi tutt’oggi non riconosciuti e di cui non abbiamo traccia. Ad uccidere sono sempre persone che incarnano il patriarcato: uomini, mariti, padri, fratelli, ex, i chiamati “amici” o addirittura “compagni”, per imporre il dominio e punire l’autodeterminazione della persona con cui si relazionano. Persona che va bene solo fino a quando sta resta nei ruoli e nei binari previsti dalle norme imposte dal sistema. BRACCIALETTO ELETTRONICO Denunce e braccialetti elettronici: sono queste le soluzioni adottate dal/dai governi.  Quattordici le donne di cui sappiamo con certezza che avevano esposto denuncia, nessuna di loro è stata ascoltata e spesso queste informazioni non vengono nemmeno riportate negli articoli. Il braccialetto elettronico viene trattato dallo stato come se fosse l’unico mezzo per la prevenzione. Sono stati investiti 5 milioni su un dispositivo che toglie fondi ai CAV, “spacciandolo” come unico mezzo per la prevenzione alla violenza di genere.  I dati emersi sull’utilizzo del braccialetto dimostrano che spesso non funziona.  Quando non si ritiene di applicare il carcere o gli arresti domiciliari, viene ordinato il divieto di avvicinamento alla vittima applicando il braccialetto alla caviglia della persona abusante. A questo, si sommano altri due dispositivi: uno nella casa della persona minacciata e uno nella casa del minacciante. Alla vittima inoltre, viene dato un telefonino collegato alla sala operativa della società che applica i braccialetti. Quando lo stalker viola la distanza e si avvicina, se c’è copertura della linea internet, scatta l’allarme al fine di un pronto intervento. La società incaricata avvisa in tempo reale i carabinieri/polizia che intervengono. Nel caso di Concetta, infermiera di 53 anni uccisa con 42 coltellate sferrate dall’uomo che aveva nei suoi confronti un divieto di avvicinamento e che indossava un braccialetto elettronico, non ha funzionato. Come non hanno funzionato né il dispositivo in possesso della vittima che quello in possesso del figlio. Di tre dispositivi, solo uno ha funzionato ma l’assassino era già entrato nella casa della vittima. Il braccialetto risulta poco affidabile quindi, a volte suona ripetutamente nonostante il potenziale assassino non sia nelle vicinanze, altre può essere rotto, come è successo con una persona agli arresti domiciliari per reati vari. Queste misure oltre ad avere un costo elevato non fermano i femminicidi né limitano la violenza. COSA VOGLIAMO Non chiediamo il controllo delle persone potenzialmente abusanti ma interventi diversi, che vadano alla radice dei problemi: l’aumento dei centri anti-violenza aperti a tuttu, programmi educativi che promuovano la cultura del consenso, che parlino di diversità, di relazioni e di affettività ma soprattutto che mettano in discussione i capisaldi del sistema patriarcale di dominio, di possesso e di potere gerarchico.  I media scandagliano le vite delle vittime ma non quelle di chi agisce il danno costantemente giustificato da motivazioni che ci riportano al delitto d’onore scomparso dalla nostra legislazione solo nel ’95.  Per uno Stato che non muove un dito per modificare la cultura dominante, siamo soltanto numeri.  Per noi raccogliere i dati, non fermarci alle statistiche, leggere le storie è importante per rilevare i cambiamenti e gli errori del sistema che sempre più evidenzia l’inesistenza di un lavoro di prevenzione efficace. La violenza di genere è strutturale, strutturale a questo sistema patriarcale e capitalista, basato su gerarchia, potere e sudditanza.  Vogliamo ribaltare un sistema che conta le morti, gli stupri, le violenze, ma non vuole riconoscere la radice da cui provengono e risponde con la giustizia punitiva e carceraria anziché con risposte collettive e di comunità che possano realmente de-costruire il patriarcato.  Vogliamo ribaltare un sistema che strumentalizza le morti, gli stupri e la violenza per far passare il riconoscimento della vita dal concepimento, per criminalizzare le persone razzializzate e per imporre in nome di sicurezza e decoro la militarizzazione ulteriore delle nostre strade e l’aumento delle pene.  Vogliamo contarci vivə, per fare delle nostre vite ciò che desideriamo.  Share Post Share L'articolo Intervento dell’Osservatorio all’Assemblea Nazionale NUDM a Bologna proviene da Osservatorio nazionale NUDM.