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Otto giovani su dieci a disagio nel proprio corpo
Otto giovani su 10 criticano il proprio corpo, più del 50% modifica il modo di vestirsi per paura dei giudizi, quasi 6 adolescenti su 10 subiscono provocazioni e prese in giro legate a peso, altezza, colore della pelle, capelli o altro. È quanto rivela l’indagine Affettività e stereotipi di genere. Come gli adolescenti vivono relazioni, genere e identità”condotta da Webboh Lab per ActionAid e realizzata attraverso i fondi 8×1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, che racconta le nuove generazioni, i loro bisogni urgenti e le criticità che affrontano quotidianamente fuori e dentro la scuola. Sono 14.700 gli adolescenti tra i 14 e i 19 anni che hanno partecipato alla ricerca, divisi tra il 51% maschi, il 43% femmine e il 6% di identità fluide, non binarie o alternative, tutti uniti da una forte domanda di ascolto da parte degli adulti. La pressione estetica esercitata dai social media ha un impatto fortissimo sulla vita di ragazze e ragazzi: oltre 7 su 10 riconoscono come i corpi perfetti o ritoccati proposti online siano irreali, ma nonostante questo sempre 7 su 10 vogliono cambiare il proprio aspetto per apparire all’altezza di questi standard di bellezza irraggiungibili. Le ragazze, più dei ragazzi, sono bersaglio di aspettative rigide. All’80% degli adolescenti viene detto costantemente quali sono le cose giuste da fare “per essere maschi e femmine”. Ancora 7 su 10 non sanno a chi rivolgersi per dubbi su sesso e relazioni. Troppo spesso il porno diventa l’unica “scuola” per loro. Dalla ricerca emerge come oltre il 71% del campione abbia assistito a situazioni di derisione, di discriminazione di una persona per come si veste, si esprime o si muove, perché considerata “troppo femminile” o “troppo maschile”. Allo stesso tempo tra i più giovani c’è crescente consapevolezza critica verso i modelli di genere rigidi e giudicanti che gli vengono imposti anche online: le frasi “Alcuni/e influencer danno messaggi sbagliati su come deve essere una ragazza o un ragazzo” e “Molte canzoni e video musicali fanno sembrare normale che il ragazzo comandi” hanno forte consenso tra la maggioranza dei giovani interrogati. Aspettative digitali e giudizio sociale si intrecciano e rivelano come sia complesso lo spettro dell’esclusione e della violenza. Sono 5 i profili degli e delle adolescenti italiane che scaturiscono dall’analisi di 17 caratteristiche che riguardano stereotipi di genere, pressione sociale, emozioni, media e cultura. Un quadro variegato tra oppositori/sostenitori del cambiamento, ma anche di figure ambigue. I due gruppi più numerosi sono gli Adolescenti anti-stereotipi e i Vigili Culturali, che rappresentano insieme il 46% del campione: una generazione pronta ad accogliere la parità di genere in modo attivo, critico, empatico. “Questi giovani, si legge nel Report, rifiutano con chiarezza la violenza, la disuguaglianza morale e le imposizioni culturali e mostrano consapevolezza dei modelli tossici trasmessi da media e tradizione.” Un gruppo ampio, ma silenzioso invece – i Tradizionalisti Inconsapevoli che rappresentano il 21% del campione – aderisce a ruoli predefiniti in modo apparentemente innocuo, ma riproduce a livello personale gli stereotipi di genere della società patriarcale, sui ruoli definiti nelle relazioni tra uomo e donna. I Giustificazionisti, che rappresentano il 16% del campione, esprimono il lato più problematico, giustificando la violenza come forma d’amore, colpevolizzando le vittime, a riprova di quanto il sessismo interiorizzato sia ancora presente anche tra i più giovani. Infine, il cluster più ambiguo – i Progressisti Distorti che si attestano al 17% – dimostra quanto la cultura digitale possa generare confusione, producendo ragazzi e ragazze che rifiutano gli stereotipi più visibili (differenze nei doveri familiari e di cura, doppio standard e divisione tra maschi forti e ragazze emotive), ma legittimano quelli più gravi: credenze pericolose legate al controllo, alla violenza e al giudizio. Ma gli adolescenti di cosa vorrebbero parlare nei percorsi educativi sulla sessualità? “Al primo posto, si sottolinea nella ricerca, ci sono il consenso e il piacere (32,2%); al secondo una guida su come costruire relazioni positive (25,3%); al terzo posto un percorso su orientamenti sessuali e identità di genere (16,5%); al quarto la richiesta di informazioni su malattie sessualmente trasmissibili (9,8%) e per ultimo una riflessione sugli aspetti biologici della sessualità (5,4%)”. Ma da chi vorrebbero ricevere informazioni i nostri giovani? Per quasi la metà di ragazze e ragazzi sono gli esperti sul tema (educatori, psicologi, medici…) a dover entrare nelle scuole per fare formazione (48,2%), affiancati da persone che hanno vissuto esperienze personali su questi temi (42,2%). I docenti, col 28,5% delle risposte, sono davanti alla famiglia, che resta al 25,6% di chi ha risposto. Coetanei formati (21%) e influencer affidabili (19,6%) sono al fondo della classifica. “Dalle risposte, si legge nella ricerca promossa da ActionAid, emerge con forza la necessità di affrontare a scuola sessualità, affettività e relazioni anche come prevenzione della violenza (punteggio medio 8,25). Oltre la metà dei partecipanti al sondaggio dichiara di non sapere a chi rivolgersi nel caso di dubbi sul sesso, pur riconoscendo l’utilità dei consultori. È il porno a dare risposte per mancanza di alternative sicure. Circa 7 su 10 riconoscono che il porno influenza negativamente l’immaginario su relazioni e consenso, evidenziando la necessità di un’educazione come strumento di consapevolezza, non di censura”. Qui il Report realizzato da Webboh Lab per ActionAid:  https://s3.eu-central-1.amazonaws.com/actionaid.it/uploads/2025/09/Affettivita_e_stereotipi_di_genere.pdf Giovanni Caprio
Autodifesa femminile non è contrasto alla violenza di genere
Leggo con sgomento della presentazione (da parte di un movimento politico femminile) dell’ennesimo corso di autodifesa per donne che viene presentato come “un passo concreto nel contrasto alla violenza di genere” aggiungendo che si tratta di “un cammino volto a rafforzare consapevolezza, fiducia e sicurezza”. Proviamo ad analizzare i diversi concetti che emergono: 1. Le donne devono imparare a difendersi, questo è il loro ineluttabile destino a cui non possono sottrarsi perché non sono meritevoli di rispetto al pari degli uomini e, quindi, si devono attrezzare. 2. La violenza di genere che intendono contrastare è la violenza fisica che un uomo può fare ad una donna. Ma sappiamo benissimo che la violenza di genere è ben altro, ha molteplici componenti e, soprattutto, che i percorsi da intraprendere per intervenire in modo concreto sono ben più complessi. 3. Le donne sono deboli infatti lo scopo del corso è di rafforzarle in consapevolezza, fiducia e sicurezza perché il problema sono le donne (vittime) e non gli uomini (aggressori). Insomma, l’ennesima occasione in cui le donne sono considerate i soggetti deboli da proteggere perché hanno poca autostima e vanno protette e aiutate… Si tratta di un approccio al tema maschile e maschilista come l’idea che ad atti di forza si debba rispondere con forza. Aggiungiamo, poi, che le tecniche di autodifesa possono risultare utili in situazioni uno contro uno pressoché paritarie come in tentate rapine mentre le aggressioni a scopo sensuale vengono agite in gruppo o contro vittime che sono state offuscate con alcool o droghe. La libertà che le donne, invece, devono avere è che ogni NO deve essere rispettato a prescindere dal contesto, dalla situazione o dall’abbigliamento. La violenza di genere a cui si riferisco (fisica a scopo sessuale) sarà sconfitta solo quando il NO sarà riconosciuto e rispettato. Infatti il contrasto alla violenza di genere si realizza mediante interventi multidisciplinari finalizzati a cambiare l’approccio culturale degli uomini, delle giovani generazioni e delle donne che subiscono i retaggi patriarcali.   Paola Petrucci Esperta in tematiche di genere Redazione Italia
UDIPalermo: “Le parole hanno conseguenze”
Di fronte alle parole della presidente del Consiglio, che hanno trasformato l’assassinio di un uomo negli Stati Uniti in un pretesto per criminalizzare un’intera parte del Paese, sentiamo l’urgenza di intervenire. Ancora una volta si tenta di imporre una narrazione in cui il dissenso è ridotto a odio, la critica politica viene equiparata a violenza, e milioni di cittadine e cittadini vengono rappresentati come una minaccia. Questa distorsione non è neutra: è un tassello nella costruzione di un clima che vuole avvelenare le relazioni, instillare paura e dividere la società. Da anni assistiamo a una politica che normalizza il disprezzo verso chi non si conforma: migranti, minoranze, persone LGBTQ+, attiviste e attivisti. In questo schema, l’altro o l’altra non è riconosciuto come interlocutore ma come nemico da schiacciare. È la stessa logica che giustifica l’uso dell’odio come strumento di potere. Non accettiamo che la tragedia di una vita spezzata diventi il palcoscenico per l’ennesimo attacco contro chi chiede più giustizia sociale e più diritti. La violenza che oggi minaccia le democrazie non nasce dalle voci critiche, ma dalla legittimazione quotidiana del linguaggio d’odio, dall’esaltazione della forza armata, dal rifiuto ostinato di costruire convivenza. Ciò che serve, oggi più che mai, non è alimentare divisioni ma prendersi cura del corpo vivo della società, fatto di differenze, fragilità e pluralità. La responsabilità di chi governa non è incendiare il dibattito, ma creare condizioni perché il conflitto politico non degeneri in guerra culturale permanente. Noi sappiamo che la libertà non si difende mettendo a tacere chi pensa diversamente. La libertà si difende coltivando spazi di parola, di ascolto, di confronto radicale ma rispettoso. È questo il compito della politica. È questa la misura della civiltà.   principio#6 Manifesto della Comunicazione non Ostile Redazione Palermo
E anche questo nuovo anno scolastico parte senza educazione affettiva
Il nuovo anno scolastico ricomincia, ma resta ancora inascoltata la richiesta dei giovani di una vera educazione alla sessualità e all’affettività in classe. Come evidenzia la ricerca di ActionAid “Affettività e stereotipi di genere. Come gli adolescenti vivono relazioni, genere e identità”, condotta da Webboh Lab su un campione di adolescenti tra i 14 e i 19 anni e finanziata attraverso i fondi 8×1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, i giovani e le giovani chiedono con forza che la scuola offra momenti di informazione, riflessione e scambio guidati da esperti indipendenti (educatori, psicologi, medici, etc.) su temi come il consenso, il piacere, su come costruire relazioni positive e su identità e orientamenti. Un’educazione, dunque, che non si soffermi solo sul funzionamento del corpo, ma che li aiuti a stare bene con se stessi e con gli altri. Le giovani e i giovani si trovano infatti sempre più soli ad affrontare aspettative sociali rigide, etichette di genere e pressioni che arrivano dai social: otto su dieci dichiarano di non sentirsi a proprio agio nel proprio corpo, più della metà racconta di aver cambiato il proprio modo di vestire per timore delle critiche, sei su dieci raccontano di aver subito prese in giro o provocazioni legate a peso, altezza, colore della pelle o capelli. E gli stereotipi pesano ancora moltissimo: il 93% dei ragazzi e delle ragazze intervistate sente ancora dire che esistono “cose da maschi” e “cose da femmine” e otto su dieci hanno dichiarato di ricevere spesso commenti su come “dovrebbero” comportarsi in base al genere. Allo stesso tempo però cresce il senso critico: le giovani e i giovani riconoscono infatti che i modelli proposti on line sono irrealistici e chiedono più spazi sicuri di confronto. I risultati dell’indagine di ActionAid dimostrano la persistenza di una cultura e di una società patriarcale e discriminante nei confronti di soggetti che non si riconoscono nel binarismo maschio/femmina e nei ruoli di genere tradizionalmente attribuiti. Ragazzi e ragazze sentono e percepiscono ancora una società che distingue rigidamente tra generi, in particolare nelle espressioni del linguaggio e nei comportamenti quotidiani, che rinforza aspettative e stereotipi e minaccia l’autodeterminazione personale. Oltre a questo, denunciano frequentemente una correlazione tra stereotipi e rischio di discriminazioni. Quasi la totalità, e cioè il 93% del campione, dichiara di sentire ancora spesso l’affermazione secondo cui “ci sono cose da maschi e cose da femmine”. Quasi l‘80% dichiara di aver sentito con una certa frequenza (spesso o qualche volta) battute o commenti anche nel gruppo di pari su come “dovrebbe” comportarsi in base al proprio genere. Intorno al 70% ragazzi e ragazze reputano che frequentemente (spesso o qualche volta) si è soggetti a discriminazioni a causa di scelte sul vestiario e modalità espressive considerate o troppo “femminili” o troppo “maschili”. Interrogati rispetto a comportamenti e modelli personali, ragazzi e ragazze, al contrario, dimostrano che le giovani generazioni possiedono una crescente consapevolezza critica verso i modelli di genere rigidi e imposti, nonostante alcune idee restino radicate, in particolare riguardo ai ruoli nella coppia e nelle relazioni affettive. “Le ragazze e i ragazzi non solo ci parlano con grande consapevolezza di una società sessista e discriminante, ma anche di quanto il giudizio e stereotipi provochino disagio e malessere psicologico: un campanello d’allarme considerata la fragilità in questa fase delicata di crescita e di scoperta, sottolinea Maria Sole Piccioli, Responsabile Education di ActionAid. Ancora una volta torniamo sui banchi di scuola, senza una riforma organica che introduca l’educazione alla sessualità e all’affettività nelle scuole. Questo Governo e il Ministro Valditara rispondono in modo discontinuo o inopportuno alle richieste di studenti, docenti e società civile, applicando una lettura di genere binaria e strutturando dei passi indietro su questi temi nell’ambito di alcune proposte politiche, come ad esempio il recente decreto sul consenso informato preventivo dei genitori e l’esclusione di infanzia e primaria da programmi didattici sull’educazione sessuale e affettiva, questioni pedagogicamente inscindibili tra loro.” ActionAid avanza alcune raccomandazioni al Parlamento, al Ministero dell’Istruzione e del Merito e al Ministero della Salute. In particolare, chiede Parlamento di approvare una legge che preveda l’inserimento dell’educazione all’affettività e alla sessualità rispettosa delle caratteristiche per età secondo quanto indicato dalle Linee guida UNESCO e dagli standard OMS, all’interno del percorso curricolare fin dalla scuola dell’infanzia. Al Ministero dell’Istruzione e del Merito chiede invece: di prevedere percorsi formativi per il personale docente e ATA rispetto alla CSE, garantendo un approccio multidisciplinare e quindi, con il coinvolgimento degli organi collegiali, degli Uffici scolastici territoriali, dei presidi socio-sanitari territoriali, degli ordini e delle associazioni professionali e del Terzo settore; di approvare un decreto che disciplini le carriere Alias in modo tale da assicurare la corretta equità di trattamento a prescindere dall’adozione del regolamento da parte dell’Istituto scolastico o meno. Qui per scaricare la sintesi dell’indagine di ActionAid: https://www.actionaid.it/a-scuola-senza-educazione-affettiva/ Giovanni Caprio
Non Una di Meno e la Campeggia transfemminista 1975-2025
Dopo cinquant’anni dalla prima vacanza femminista svoltasi a Carloforte, si è deciso di organizzare una Campeggia transfemminista per celebrare una ricorrenza irrinunciabile. La vacanza del ‘75 prese forma su invito e stimolo di un gruppo di attiviste fra cui Lea Melandri ed Elisabetta (Betta) Manca, che giovedì 11 alle 18.00 hanno raccontato di quella “prima volta”; assieme a loro altre donne sarde e italiane che si ritrovarono in quell’occasione, e per alcuni mesi, a vivere un momento storico unico nel suo genere. L’esigenza e il desiderio di stare insieme, in uno spazio che inevitabilmente assume una forma politica, in maniera spontanea, sono ancora presenti e necessari. Ritrovarsi dopo cinquant’anni, ritrovarsi dopo aver attraversato nuove ondate e passaggi difficili, per i movimenti femministi e i femminismi che hanno preso forma negli ultimi anni, per ragionare insieme sullo stato dell’arte e su come possiamo immaginare connessioni e alleanze per rinvigorire il femminismo che nel frattempo per NUDM è diventato transfemminismo*. Lea Melandri dice che “ad ogni nuova ondata il femminismo ringiovanisce”, e possiamo aggiungere che ad ogni nuova occasione il femminismo si nutre di rinnovate energie, e questo può accadere solo mettendo insieme le diverse parti che rappresentano la società attuale, nella sua pluralità. Le parole chiave e i temi di questa settimana saranno: la cura, lo stare insieme, la scoperta, le storie esemplari, oltre a passaggi imprescindibili sull’occupazione militare in Sardegna, e la situazione Palestinese. Se vi state chiedendo cosa succede in una Campeggia Transfemminista, scorrete il programma allegato. Programma Campeggia transfemminista 1075 – 2025 L’invito è aperto a tutte/3 e tutti coloro che volessero partecipare. Saremo presenti sui social con aggiornamenti, racconti per immagini e qualche video per chi non potrà essere presente. Nudum – Cagliari *Il transfemminismo  riposiziona radicalmente il femminismo alla luce della diversità delle esperienze di genere e delle lotte contemporanee contro l’oppressione sistemica. Adotta un approccio intersezionale e trasversale, riconoscendo che le oppressioni basate su genere, identità sessuale, razza, classe sociale, età, abilità e altri fattori si intrecciano e si rinforzano a vicenda Redazione Cagliari
Tanti “Punti Viola” per strade e luoghi più sicuri
La sicurezza è diventata una componente essenziale del benessere e della qualità della vita degli italiani, che vogliono sentirsi liberi di vivere la propria quotidianità senza timori né preoccupazioni eccessive e senza correre il rischio di incorrere in eventi spiacevoli che possano mettere a repentaglio la loro incolumità. Se, come dice Freud, “l’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza”, bisogna allora adoperarsi affinché l’insicurezza e il conseguente senso di allarme non prendano il sopravvento e non originino comportamenti quotidiani ispirati alla rinuncia e alla chiusura, piuttosto che alla apertura e alla partecipazione, con il risultato di avere una società forse meno allarmata, ma sempre più triste e sempre più isolata. E anche se i reati continuano a diminuire (https://www.pressenza.com/it/2025/08/i-reati-in-calo-contraddicono-il-decreto-sicurezza/), gli italiani si sentono insicuri: il 75,8%, che sale all’81,8% tra le donne, afferma che negli ultimi 5 anni girare per strada è diventato più pericoloso e il 67,3% delle donne ha paura quando torna a casa di sera o di notte. La paura condiziona la vita degli italiani al punto che quasi 4 cittadini su 10 (38,1%) hanno rinunciato ad uscire per timore che gli capitasse qualcosa di grave. È quanto emerge dal 1° Rapporto Univ-Censis “La sicurezza fuori casa”. Si tratta di una percezione che con ogni probabilità è alimentata e gonfiata, sottolineano i ricercatori del CENSIS, dalla centralità che il tema della sicurezza ha nell’attuale dibattito pubblico nonché dall’eco mediatica che hanno taluni fatti di sangue che riempiono le cronache per giorni, mesi e talvolta anni sino a diventare dei veri e propri case oggetto di documentari e serie televisive. Tanto rumore porta con sé inevitabilmente il rischio di acuire la percezione collettiva dell’intensità della diffusione dei fenomeni criminali e la paura di rimanerne vittima. Le donne hanno più paura degli uomini, una paura giustificata dal fatto che una serie di reati che vengono declinati prevalentemente al femminile sono tutti in crescita: tra questi, le violenze sessuali, che nel 2024 sono state 6.587, in aumento del 34,9% negli ultimi cinque anni. Del resto, il 25,6% delle donne intervistate dichiara di aver subito almeno una molestia sessuale, il 23,1% uno scippo oppure un borseggio e il 29,5% è stata seguita per strada da uno sconosciuto (https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/SintesiUNIV-CENSISdef_0.pdf). Secondo un rapporto dell’ISTAT, circa il 30% delle donne ha subito molestie in luoghi pubblici, tra cui la strada, i mezzi di trasporto e i locali pubblici. Una realtà che troppe donne conoscono fin dalla giovane età. La strada e i luoghi pubblici non sempre quindi sono luoghi sicuri, soprattutto per le donne.  Per questo, DONNEXSTRADA, un’Associazione non profit che si occupa di violenza contro le donne e sicurezza in strada (https://donnexstrada.org/), da qualche anno promuove il progetto Punti Viola con l’obiettivo di creare luoghi sicuri per le persone. Per luoghi sicuri si intende qualsiasi esercizio commerciale aperto al pubblico, sensibilizzato e formato contro la violenza di genere e per la sicurezza in strada delle persone. L’obiettivo generale è quello di attivare il singolo cittadino nel contrastare la violenza partendo proprio dal territorio e dalla costruzione di una rete che possa sostenere le vittime. Un Punto Viola di DonneXStrada è quindi un luogo di riferimento nel territorio, che ha la sensibilità e gli strumenti per accogliere la persona nelle diverse situazioni di difficoltà. Attualmente sono stati attivati i primi 800 punti viola di DonneXStrada. La gestione, il coordinamento ed il monitoraggio di ogni fase del progetto per l’attivazione dei punti viola vengono svolte dal team DONNEXSTRADA e da ricercatrici specializzate, mentre la selezione e la formazione del personale del locale commerciale viene svolta da avvocati e psicologi esperti in violenza di genere. Un altro interessante progetto di DONNEXSTRADA è Safe Taxi, che ha come fine la creazione di taxi sicuri per le persone. Un Safe Taxi è quindi un taxi di riferimento nel territorio, che ha la sensibilità e gli strumenti per accogliere la persona nelle diverse situazioni di difficoltà.  Qui per verificare i Punti Viola attivi: https://donnexstrada.org/punti-viola/.    Giovanni Caprio
Ti ricordi il Cicip? Riflessione femmina sugli spazi sociali autonomi di Milano
Della Milano che amiamo, non per rimpianto o nostalgia ma perché nutre la nostra immaginazione presente, fa senza dubbio parte l’esperienza del circolo femminista separatista Cicip&Ciciap, fondato nel 1981 da Nadia Riva e Daniela Pellegrini, nella casa occupata di via Morigi 8. Questo riconoscimento si innesta da vicino sui ragionamenti che stanno circolando in questi giorni dopo lo sgombero del Leoncavallo. Si tratta di riflettere sugli spazi sociali e sulle forme di vita, di cultura e di politica, di creazione di legami e comunità, insomma su modalità della riproduzione sociale create in autonomia dai tessuti sociali per i tessuti sociali, senza intermediazioni di alcun tipo. Oggi questo tipo di processi è grandemente a rischio. In parte sono stati espropriati e convogliati altrove da “operazioni di capitale” (cambi di paradigma produttivo, allargamento delle forme di accumulazione e sfruttamento, finanziarizzazione, gentrificazione), oppure sono diventati porzioni sussidiarie dello stato sociale che si immiserisce, un passo dopo l’altro. Ma per quasi cinquant’anni hanno arricchito esclusivamente le relazioni e l’incontro, il sapere collettivo, la creatività e il piacere, la produzione di pensiero critico. Daniela Pellegrini mi invita a insistere non sulla teoria e sul pensiero ma sulla vita e niente più, sulla materialità, sulle pratiche. Un fare per la vita, semplicemente vivendo: bastano poche, trasparenti, parole. L’esperienza del Cicip è, al di là dei termini infilati in un articolo, parte integrante, fondamentale, di questo fare e dei riferimenti delle donne della metropoli lombarda e non solo. Eppure viene spesso dimenticata, rimossa. Insieme alla storia del Cicip si scopre quella del palazzo di via Morigi 8, situato non nella periferia, locazione tipica degli spazi occupati, ma nel cuore del centro cittadino e occupata nel 1976. Per chi non conosce la città, siamo nella Milano romana e nelle cosiddette, dai milanesi, “Cinque vie”, vicino a piazza Borromeo, a pochissima distanza da Piazza degli Affari, tra il Carrobbio, piazza Cordusio e piazza Duomo. Negli anni Settanta e Ottanta una zona storica, con antichi palazzi dal fascino délabrée, oggi contesto trasformato, con ristrutturazioni di lusso, locali eleganti, gallerie d’arte. Nadia Riva e Daniela Pellegrini determinate a creare “spazi liberi per nuove scoperte”, dopo vari mesi di ricerche scelsero, infatti, l’ultima porzione rimasta libera al piano terra della torre e case dei Morigi, che si affaccia su via Gorani, proprietà del Comune di Milano. “Spazio allora davvero fatiscente e nel più completo abbandono e che è stato ristrutturato (sarebbe meglio dire ricreato, dal pavimento al soffitto mancanti) in prima persona e con il pervicace olio di gomito e autofinanziamento” da chi lo fondò, come si può leggere ancora sul sito del Cicip, dove si raccontano gli esordi ma non la fine di questa avventura.   Daniela e Nadia sul portone del futuro Cicip&Ciciap   Con tutta l’energia e la passione che ci riversano, in cinque o sei mesi Nadia e Daniela riescono a dare una forma a ciò che diverrà il Cicip, Circolo culturale e politico delle donne, bar e ristorante. Rifanno con le loro mani il pavimento, tirano su i muri, imbiancano, inchiodano, abbelliscono.   Manca il soffitto…   Il Cicip fiorì in quella sede per trent’anni, festeggiati in loco il 22 giugno 2011. Qual era l’obiettivo di fondo lo spiegano le fondatrici, alle quali, in un primo periodo, si aggiunse Giorgia Reiser che scelse poi altri percorsi. Si desidera “uno spazio apparentemente informale dove l’incontrarsi delle donne possa creare consapevolezza di sé e aprire loro strade insospettabili”. Strade, scrivono, che possano stupire anche loro stesse. In quel luogo, invero piccolo ma molto accogliente, tutti i giorni si organizzano incontri, presentazioni di libri, gruppi di discussione per riflettere su temi dirimenti, come la guerra, gruppi di autocoscienza. Il Cicip è mosso “dalla fiducia e la speranza di un movimento delle donne che modifichi le regole del ‘gioco di potere e di guerra maschile’ […] E per cominciare a costruire questo nostro sguardo, è molto importante saper vedere, capire e valorizzare l’agire di quelle donne che sembrano ‘invisibili’ alle trombe dei media e che non se ne preoccupano, occupate a costruire materialità e senso nuovo ovunque si trovino, pur nella fatica di affrontare tutte le contraddizioni che ciò comporta”. Un programma che vorremmo varare anche adesso, poiché sentiamo, assai più di allora, come lo “spaesamento confusionale” e divisivo di fronte alla realtà si stia, con maggior forza, facendo strumento di azzeramento di ogni alternativa e opposizione, strumento di controllo. Mentre le trombe dei media starnazzano o nascondono notizie, a seconda delle necessità, e tutti siamo sommersi e indirizzati dallo spettacolo del potere. Nel 1986 al Cicip nasce anche una rivista, Fluttuaria. Ne verranno pubblicati 17 numeri. Ci sono un bar e un ottimo ristorante, serate di musica, danze, feste. “A proposito di politica… ci sarebbe qualcosa da mangiare?” ed è Sabina Moroni a prendere, per diversi anni, la guida della cucina. Nel tempo si sono allestite mostre e mercatini, avviati corsi di tango e di drammaturgia, si son fatti concerti di musica classica, ingaggiate gare di cucina con Stefania Giannotti, è stato sede di una squadra di calcio femminile o delle “cercatrici d’oro” che andavano a setacciare fiumi e torrenti, anche a scopo di finanziamento. Da qui sono passate, tra le altre, anche Anna Del Bo Boffino e Angela Finocchiaro, Rosi Bindi e Gianna Nannini, Barbara Alberti e Lella Artesi. Di casa, al Cicip, erano Ida Farè, Laura Lepetit, Tiziana Villani, Giuliana Peyronel, Rosella Simone, Francesca Pasini, Renata Molinari, Sandra Bonfiglioli, Antonella Nappi, Chiara Martucci e tante altre. Insomma, in questo luogo “si sono incontrate intellettuali e sottoproletarie, artiste e calciatrici, musiciste e poete, tutte quelle che cercavano un luogo per esercitare la propria libertà”[1].   Lea Melandri, Laura Lepetit, Francesca Pasini a una festa al Cicip   Nonostante fosse diventato, grazie a tutta questa vita e a tutti questi corpi, un punto di riferimento (insieme ad altri) per il femminismo milanese, nel 2011 viene sfrattato. Le donne non provarono a resistere, impacchettano idee, pentole e ricordi e se ne vanno (da un’altra parte, ma non si ritroverà la medesima alchimia). L’esperienza dell’intero stabile, risalente al 1400, occupato nel 1976 dopo 12 anni di assoluto abbandono da parte del demanio pubblico, termina nel 2011, come da accordi con il Comune, con una s-vendita da parte di BNL Paribas Real Estate Investment Management Italy a privati per 10 milioni di euro (una cifra ridicola vista la dimensione e la posizione del palazzo). La delega per l’operazione era stata data a BNL Paribas nel 2010, dalla giunta Moratti. L’elezione a sindaco di Giuliano Pisapia, nel 2011, aveva riacceso qualche speranza negli abitanti e nelle associazioni occupanti, speranza che si rivelerà mal riposta[2]. È chiara ormai, da questa data o giù di lì, la svolta verso la Milano affarista con la quale ci confrontiamo pienamente adesso. Il problema non riguarda solo il capoluogo lombardo ma appare chiaro che nel presente il territorio è esplicito luogo di accaparramento e destrutturazione del vivente e della forza simbolica delle sue forme di invenzione, protezione, collegamento, autorganizzazione. Deve prevalere non solo un modello di metropoli, ma deve anche sparire una soggettività pensante, non egoista ed ego-riferita, capace di spendersi per la collettività e la civiltà senza che ciò venga subito iscritto nelle strutture politiche tradizionali, traducendo il proprio fare in eredità culturale per tutti. Cosicché, la politica assolve la funzione governamentale di favorire la speculazione e il guadagno del privato a spese di ciò che è pubblico, con estromissione, anche violenta, di tutto ciò che può essere d’inciampo a tale logica: eccedenze, devianze ma anche cooperazione, collaborazione, sostegno reciproco. Si direbbe, biopolitica. Il sacrificio di questo processo è, infatti, la vita del Cicip&Ciciap e di tante altre associazioni che, dopo aver contribuito alla salvaguardia del palazzo con ininterrotti interventi di manutenzione a proprie spese, verranno sacrificati. Ricordiamo che in via Morigi avevano sede anche il Punto Rosso, Attac, Greenpeace, Survival, Servizio Civile Internazionale, Donne Internazionali. Oltre alle associazioni la casa era abitata da 23 nuclei famigliari. Primi occupanti, nel ‘76 erano stati un gruppo di ragazzi del COM, Collettivo di liberazione omosessuale, vicini a Mario Mieli. Nel ‘78 arrivarono le “Bororo” che danno vita a una comune femminista. Il Cicip dopo via Morigi approderà in via Col di Lana, grazie anche alla sovvenzione personale di Genevieve Vaughan, ma non riuscirà a ritrovare quel tipo di clima e ambiente favorevoli che ne avevano agevolato lo sviluppo. Nessun Comune si mai fatto vivo e questa storia, come scrivevo all’inizio, è, per lo più, trascurata. Viceversa, altre associazioni hanno trovato nuovi spazi. Alcune sono diventate estremamente note e solide. La morale di questa vicenda, proprio ricostruendo quanta vita, quanto movimento, quanti affetti, quanto divenire siano coinvolti, con-mossi in tutta la miriade di imprese sociali su cui poggia l’ossatura di Milano, è che questa città, in forza della sua storia e della composizione sociale che l’ha sempre contraddistinta, non è Citylife, non è il laboratorio della rigenerazione urbana che si vuole trapiantare contro la sua natura. È stata, ed è, una città colma di senso, di cultura e di politica, sempre avanguardia di tutte le sperimentazioni sociali (nel bene e nel male). Identica rimane ancora oggi la ricerca, poiché tale è l’ineludibile propensione dello stare al mondo, la meraviglia che ancora si fa largo tra le macerie, anche nei periodi bui della storia come questo. La traccia marcata, citando Daniela Pellegrini, dalla “materia sapiente”. La manifestazione nazionale del 6 settembre a difesa del Leoncavallo e di tutti gli spazi sociali, tenendo conto degli insegnamenti del passato ma puntando soprattutto al futuro, deve servire a difendere un’idea di condivisione tra corpi e perciò non può dimenticare la densità storica dell’esperienza femminile. Questo significa scavare al fondo dell’oppressione più marcata dalla società per rivendicare la costruzione di comunità autonome dove ritrovare una parola politica che non sia solo una tecnica come le altre. Politica come pensare e sentire collettivo, ma nella libertà di ciascuna, che concepisce, dà vita e cura ciò che è disconosciuto, sottoutilizzato o assente o non garantito o depauperato e sfruttato dal mondo presente. Fuori da identitarismi e autoreferenzialità. Un’altra, o meglio una nuova politica, non astratta ma incarnata, che valorizzi la differenza e l’unicità di ogni essere umano. Una riconquista faticosa, al fondo delle cose, che il punto di vista femminile conosce bene e che gli uomini, forse, debbono ancora imparare a riconoscere. NADIA RIVA È STATA UNA FIGURA DI PRIMO PIANO DEL MOVIMENTO FEMMINISTA MILANESE E INTERNAZIONALE. È MORTA NEL 2021 NELLA SUA CASA DI MILANO, IN VIA COL DI LANA. NEL 1981 FONDÒ INSIEME A DANIELA PELLEGRINI IL CIRCOLO CULTURALE E POLITICO DELLE DONNE CICIP&CICIAP E LA RIVISTA “FLUTTUARIA”. È STATA UNA VIAGGIATRICE, UNA DONNA DI GRANDE SPIRITO CON UN LINGUAGGIO SEMPRE IRONICO E ROCK, UNA AMABILE PROVOCATRICE, CAPACE DI SOVVERTIRE OGNI REGOLA E DI USCIRE SEMPRE DA OGNI CONFORMISMO. DANIELA PELLEGRINI TRA LE PRINCIPALI FIGURE DEL FEMMINISMO MILANESE E NON SOLO, NEL 1964 HA L’INTUIZIONE DI RIUNIRE UN GRUPPO DI DONNE, CON LE QUALI SENTE DI AVERE UN “TERRENO COMUNE”, PER INIZIARE A RAGIONARE INSIEME. DA QUESTA INIZIATIVA NASCE IL PRIMO GRUPPO DEL NEOFEMMINISMO ITALIANO, IL DACAPO (DONNE CONTRO L’AUTORITARISMO PATRIARCALE), CHE PRESTO CAMBIERÀ NOME IN DEMAU (DEMISTIFICAZIONE AUTORITARISMO PATRIARCALE). NEGLI ANNI SETTANTA FA PARTE DELLA COMUNE DI SAN MARTINO, DEL COLLETTIVO DI VIA CHERUBINI, DELLA CASA DELLE DONNE DI VIA COL DI LANA E PARTECIPA AI GRANDI CONVEGNI NAZIONALI DI PINARELLA DI CERVIA E PAESTUM. NEL 1981, INSIEME A NADIA RIVA E GIORGIA REISER, FONDA IL CICIP & CICIAP: IL PRIMO CIRCOLO CULTURALE E POLITICO FEMMINISTA DI MILANO, E L’UNICO A RIMANERE SEPARATISTA NEL TEMPO. NEL 1986 FONDA LA RIVISTA FLUTTUARIA. HA SCRITTO UNA DONNA DI TROPPO. STORIA DI UNA VITA POLITICA SINGOLARE, FRANCO ANGELI EDITORE, MILANO 2012; LIBERIAMOCI DALLA BESTIA. OVVERO DI UNA CULTURA DEL CAZZO, VANDA EDIZIONI, MILANO 2016; LA MATERIA SAPIENTE DEL RELATIVO PLURALE. OVVERO IL LUOGO TERZO DELLA PARZIALITÀ, VANDA EDIZIONE, MILANO 2017. NOTE [1] NECROLOGIO DI NADIA RIVA, CASA DELLE DONNE DI MILANO, FEBBRAIO 2021. HTTPS://WWW.CASADONNEMILANO.IT/CI-HA-LASCIATO-NADIA-RIVA/ [2] PER CHI VOLESSE APPROFONDIRE LA STORIA DEL PALAZZO E DELL’OCCUPAZIONE DELLO STABILE SI RIMANDA A FABIO ANTONIOTTI, CASA MORIGI. TRENTASEI ANNI DI ABITARE SOCIALE A MILANO, POLITECNICO DI MILANO, FACOLTÀ DI ARCHITETTURA, 2011/2012. TUTTE LE IMMAGINI PUBBLICATE SONO UNA GENTILE CONCESSIONE DEL CICIP&CICIAP E DI DANIELA PELLEGRINI CHE L’AUTRICE RINGRAZIA, ANCHE PER UNA SERIE DI INFORMAZIONI CHE HANNO RESO POSSIBILE LA STESURA DI QUESTO ARTICOLO.   Redazione Italia
Mia moglie: ritratto di fallocrazia di gruppo
Cosa succederebbe se per ipotesi, in risposta al gruppo Facebook Mia moglie, salito recentemente e tristemente alla cronaca nei giorni scorsi, venisse creato il gruppo Mio Marito, con le foto di quei consorti che avevano condiviso immagini intime, e nella maggior parte dei casi non consenzienti, delle proprie metà? Potremmo assistere al disvelamento delle grazie di questi signori, che verrebbero sottoposti al commento e al giudizio femminile, che spesso sa essere tagliente; ma non solo: finalmente si conoscerebbero i loro volti, tra i quali magari riconosceremmo quelli del nostro vicino di casa, di un nostro amico o peggio ancora, di mariti e compagni. Ma non sarebbe questa la giusta via da seguire per punire quanti hanno pubblicato foto di donne invitando a commentarne il corpo e l’appetibilità sessuale, in una sorta di rituale patriarcale, misogino e fallocentrico. Ci penserà la legge, almeno si spera. Se non si tratta di odio e violenza di genere, così come affermano alcuni signori, direttamente o indirettamente coinvolti nella questione, cercando di minimizzare la vicenda riconducendola a una goliardata, allora bisogna chiedersi a cosa stiamo assistendo. E’ facile adottare un atteggiamento di disimpegno morale, riducendo tutto allo scherzo: qui si tratta di altro, perché le mogli e le compagne in questione sono state oggettificate, mostrate come fossero proprietà personale, senza nessuno scrupolo, senza nessun rispetto non solo per la persona ma anche per la legge, accumulando reati che vanno dalla violazione dalla privacy alla violenza privata e oltre. Alcuni si sono difesi attaccando e dando la colpa alle ficcanaso e alle solite femministe represse, a quelle che parlano sempre di parità e di patriarcato, a quelle che non si fanno gli affari loro perché, in fin dei conti, gli scambi di fotografie esistevano già ai tempi delle caselle postali. Ma quello che questi individui non comprendono è che oggi la comunicazione è diventata capillare e globalizzata: qualsiasi parola, immagine, suono viene amplificato e rimbalzato dalla rete. Così, anche se esiste il diritto all’oblio, che si può esercitare per eliminare dati sensibili finiti sul web, può succedere che alcune tracce permangano. Anche le loro, compresi volti, nomi e cognomi. Nella società dell’interconnessione nulla si cancella mai definitivamente. Gruppi simili esistono, soprattutto in luoghi virtuali pressoché quasi inesplorabili come Telegram. Scoprirne uno significa scorgere la punta di un iceberg enorme e ramificato. L’unica difesa resta la denuncia . Non bisogna restare in silenzio, bensì pensare che ogni segnalazione è un atto di ribellione, di interruzione della catena di odio e violenza che inizia dal web e al web ritorna, in un eterno girone infernale. E stavolta, speriamo che siano gli uomini, a protestare. Stefania Catallo
Due morti, una sola sconfitta
Il 6 agosto, nel carcere di Gazzi a Messina, Stefano Argentino si è tolto la vita. Era detenuto con l’accusa di aver ucciso, il 31 marzo scorso, Sara Campanella, aggredita e accoltellata all’uscita dell’università. Un delitto avvenuto in pieno giorno, nel cuore della città, nei pressi di un luogo di formazione e pertanto simbolo di conoscenza, libertà, futuro. Messina ne è rimasta sconvolta, colpita nella sua identità di città universitaria, di luogo che avrebbe dovuto essere sicuro, accogliente, vitale. Sara è stata uccisa a 22 anni da un suo coetaneo che conosceva e che aveva mostrato segnali di ossessione e controllo: era suo compagno di studi, non era uno “sconosciuto”. E Sara era una ragazza dentro una rete fitta, silenziosa e sistemica: quella della violenza di genere. Non l’abbiamo protetta. Come accade troppo spesso, non abbiamo letto i segnali, non abbiamo costruito una rete di prevenzione e sostegno sufficiente. Non è stato solo Stefano a fallire: è stato anche il contesto che lo ha lasciato agire. La morte di Stefano ha suscitato un’ondata emotiva di reazioni sui social e molte sono state di esultanza. Ma dietro l’apparente liberazione collettiva, dietro la fine prematura del “carnefice”, non c’è giustizia. C’è solo una nuova ferita. C’è solo una seconda sconfitta. Come ricorda Stefania Prandi, nel libro “Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta”, ‘Quando una donna muore per mano di un uomo non viene distrutta soltanto una vita…’, sottolineando quanto il trauma del femminicidio si estenda ben oltre la donna uccisa, penetrando nella quotidianità di chi resta — figli, genitori e fratelli. Quando si parla di chi resta si pensa anche a figli, genitori e fratelli del femminicida. La morte di Stefano, avvenuta poco prima dell’inizio del processo, ha interrotto il percorso giudiziario, ha cancellato la possibilità per i familiari di Sara di guardare in faccia la verità e ha impedito allo Stato di rendere giustizia attraverso il diritto, non attraverso l’abbandono. Il carcere non è solo un luogo di detenzione. È o dovrebbe essere un presidio di responsabilità collettiva, anche per chi ha commesso reati gravissimi. Quando un detenuto si suicida, lo Stato fallisce. Quando la società esulta, falliamo tutti. Chi applaude alla morte del colpevole dimentica che la giustizia non serve ai morti, ma ai vivi. Serve a stabilire verità, responsabilità, riparazione. Serve a insegnare, anche ai colpevoli, che la violenza non è accettabile. Quando ci limitiamo ad augurare la morte a chi uccide, riproduciamo la stessa logica che vorremmo condannare: una logica binaria, spietata, incapace di vedere l’essere umano. Non esiste una giustizia fatta di vendetta. Esiste solo la giustizia come atto di civiltà, come processo condiviso, come limite alla barbarie. Quando muore l’autore di un femminicidio, non è il cerchio che si chiude. È il sistema che si spezza. Il femminicidio non è un raptus. Non è un caso isolato. È l’espressione finale di una cultura che tollera, giustifica, banalizza la violenza maschile contro le donne. Una cultura che cresce in famiglia, nella scuola, nei tribunali, nei media. Se rispondiamo con la stessa violenza, esultando per il suicidio di un uomo, non stiamo combattendo quella cultura. Stiamo solo cambiando bersaglio. Ma l’odio resta. Il femminicidio è un crimine sistemico e come tale, coinvolge tutti: uomini e donne, genitori e figli, insegnanti e operatori, giudici e giornalisti. Non possiamo pensare di uscirne col pugno di ferro, con la morte in carcere, con la gogna pubblica. Dobbiamo entrarci, sporcarci le mani, chiederci dove e quando avremmo potuto fare qualcosa di diverso. E poi iniziare a farlo. La morte di Sara Campanella è una tragedia che non doveva accadere. Il suicidio di Stefano Argentino è un’altra tragedia che si poteva evitare. La prima è colpa della violenza maschile e della mancanza di prevenzione. La seconda è colpa di un sistema penale che punisce ma non cura, che isola ma non ascolta. Entrambe le morti sono anche una responsabilità collettiva. Di una comunità che non ha ancora compreso che la violenza di genere non si estirpa con l’odio, né con la sola logica punitiva. Si contrasta con l’educazione, con la consapevolezza di sé e degli altri, con la prevenzione e la trasformazione culturale. Venera Leto
Un nuovo portale digitale per la Biblioteca delle Donne di Palermo
La storia delle donne femministe in Sicilia a portata di clic. E’ on line il nuovo portale digitale della Biblioteca delle donne e Centro di consulenza legale UDIPALERMO, una piattaforma pubblica dedicata alla tutela e diffusione del patrimonio femminista siciliano. E’ realizzato nell’ambito di un progetto sostenuto dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, attraverso l’investimento “Transizione digitale degli organismi culturali e creativi (TOCC)” previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). L’investimento TOCC promuove in modo trasversale la sostenibilità ambientale e il rispetto del principio europeo “Do No Significant Harm (DNSH)”, che garantisce interventi culturali e tecnologici non impattanti sull’ambiente. Il portale costituisce il fulcro di un intervento di digitalizzazione volto a valorizzare, conservare e rendere fruibile la memoria storica dei movimenti femminili e femministi in Sicilia, una memoria spesso frammentaria e resa invisibile a causa della scarsa disponibilità e accessibilità delle fonti. Attraverso un’interfaccia pubblica, accessibile e in costante aggiornamento, il portale mette a disposizione: gli inventari informatizzati dei fondi archivistici conservati da UDIPALERMO, riconosciuti nel 2008 dalla Soprintendenza archivistica della Sicilia come di interesse storico particolarmente importante; nonché una selezione significativa di materiali digitalizzati che documentano decenni di attivismo, pratiche e cultura politica delle donne in Sicilia. Le sezioni del portale includono: Archivio storico: documenti, corrispondenze, dattiloscritti, atti; Archivio fotografico: immagini che raccontano manifestazioni, incontri, quotidianità e relazioni; Archivio iconografico: manifesti, volantini e materiali visivi prodotti nel contesto dell’attivismo femminista; Archivio sonoro e audiovisivo: registrazioni, interviste, convegni, voci di protagoniste e testimoni. Il progetto risponde all’obiettivo di rendere accessibile un patrimonio spesso marginalizzato, offrendo strumenti di consultazione sia per la ricerca storica e accademica sia per il lavoro educativo, culturale e politico. Il portale è disponibile all’indirizzo: http://udipalermo.thearchives.cloud Per informazioni e contatti: bibliotecadonneudipalermo@gmail.com https://www.bibliotecadelledonnecentrodiconsulenzalegale-… Redazione Palermo