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Per una critica radicale alla perfezione del corpo e alla chirurgia estetica
Il corpo è sempre stato un terreno di scontro, segnato dall’antica visione della paura e del sospetto nei suoi confronti in quanto origine di seduzione, desiderio, sregolatezza, terreno di perdizione, mozione delle pulsioni, sessualità, sensualità carnale, sessualizzazione, qualcosa di incontrollabile, origine di peccato e quindi oggetto di penitenza. “Controllerai i ventri e controllerai le genti” è il motto all’origine di quello che hanno attuato i regimi autoritari e che viviamo anche noi oggi in Occidente tanto con le retoriche allucinanti del natalismo, del familismo, del parto di Stato, degli imbarazzanti Fertility Day quanto sui temi etici riguardanti l’aborto legale, il suicidio assistito e l’eutanasia. La cristianità, ovvero la cultura sorta intorno al cristianesimo, ha tramandato un’idea rigida del corpo, come una “prigione della nostra anima”, un “sacco di sterco” come lo ha definito Teresa D’Avila, un mero “involucro” da abbandonare quando diventerà inservibile. Questo è stato il pensiero dualistico e gerarchico occidentale, tramandato anche dalla teologia tradizionale cristiana, che differisce totalmente dal cuore del cristianesimo (e dalla mistica cristiana) che si presenta – nonostante tutto – come l’unica, tra le religioni abramitiche, a dare una grande importanza alla corporeità: “Il Verbo si fece carne” si legge nel Vangelo secondo Giovanni (1:14). Il cristianesimo onora il corpo come principio dell’individualità senza cui l’anima non raggiungerebbe mai la sua pienezza. Come ci ricorda la teologa femminista Teresa Forcades: “Tommaso d’Aquino ha affermato che non possiamo essere “persone” senza il corpo. La sola anima non costituisce una persona. L’amore tra esseri umani non può esistere senza il corpo, perché l’essere umano non può esistere senza di esso. C’è un corpo terreno e un corpo celeste, un corpo fisico e un corpo spirituale. Ma rimane sempre il bisogno di avere un corpo come principio che personalizza la nostra identità.” – ed aggiungo io, la nostra unicità, la nostra diversità. Il cristianesimo parla dell’incarnazione di Gesù Cristo e di “resurrezione della carne” nello stesso modo in cui ha posto fine a qualunque iconoclastia, facendo fiorire l’incommensurabile arte nei suoi luoghi di culto fatta di statue carnali, corpi formosi, affreschi di angeli nudi, quadri di corpi nudi eleganti vestiti solo di veli, per non parlare dei corpi straziati e martoriati come San Sebastiano Martire sanguinante attraversato da frecce e Santa Giulia legata ad un palo mentre una forca le raspa il seno. L’arte cristiana, pur essendo in balia contrastante tra la teologia rigorista e il messaggio cristiano, ha esaltato il corpo sia nella sua bellezza sia nella sua crudezza. Nonostante ciò, la visione patriarcale è quella che ha continuato a vigere nella cristianità come nel capitalismo dei consumi di oggi dove utilitarismo, efficientismo ed apparenza vanno di pari passo con una cultura della competizione, della prestazione, della mercificazione e dello scarto. Come direbbe Papa Francesco, la “cultura dello scarto” è una “cultura della morte”. Ciò che non serve viene scartato, a meno che lo “scartato” si adegui/rispetti/rispecchi precisi canoni e può quindi tornare utile. Nella visione contemporanea, il corpo è ridotto a merce, oggetto di desiderio, desiderabile e commercializzabile, utilizzabile e usufruibile, discriminato e controllato. Il corpo deve essere prestante secondo precisi canoni/convenzioni di bellezza: esaltato quando “giovane”, scartato quando “vecchio” e recuperabile quando può ancora essere funzionale all’industria dell’immagine, a costo di essere medicalizzato e ritoccato. Nel 2023 è uscito il film Barbie, con protagonista Margot Robbie. Un “film in rosa” che ha incassato cifre astronomiche cercando di “combattere i pregiudizi sulle donne”, venendo addirittura definito assurdamente “femminista” e rivolto all’empowerment femminile. Nulla di più falso e intriso di purplewashing. Come ha dichiarato giustamente la comica Valentina Persia: “Barbie è un fake, un’illusione ottica, una menzogna. La prima che ha fatto bodyshaming a tutte noi, facendoci sentire inadeguate, grasse, povere e poco bionde…. Tutta apparenza e ostentazione, ma guadagnati come?  Chiedetelo a Ken che nel frattempo è sparito perché la signorina in questione gli ha fottuto tutto per fare la bella vita…” – afferma Persia sollevando una polemica – “Fate una bambola più vicina alle donne vere, quelle che si fanno il mazzo tutto il giorno, quelle donne che sorridono nonostante le chiappe e le tette cadenti, quelle donne che sanno essere donne nonostante siano nate in un corpo maschile, quelle donne che scappano spesso proprio da quel Ken che a differenza tua, invece di donare ville, roulotte o macchine rosa, picchia e picchia forte… Spostati biondina che siamo un esercito!” – concludeva la Persia. Interessante che a dire queste parole di estrema verità sia stata proprio la Persia che, non accettandosi fisicamente per come era, ha fatto ricorso alla chirurgia estetica. Il rincorrere le aspettative di questi canoni, nella nostra società attuale, ha preso di mira tutti, uomini e donne. Se Barbie ha fatto danni, ora è Ken a infliggere l’ennesima ansia da prestazione: sempre più ragazzi sono ossessionati dal mito del corpo palestrato, dalla pesistica, dal cross-fit, dal mito del virilismo, dal corpo apparentemente forte e muscoloso, ma in realtà reso tale solo dal gonfiore dato dalla ritenzione di liquidi e dall’assunzione spropositata di creatina in barba a qualunque attenzione per la propria salute. Anche se questo è un fenomeno in drastico aumento tra gli uomini, ad essere presi di mira sono la vecchiaia e il corpo delle donne attraverso la tossicità di tre strumenti: il photoshop, che ritocca o altera un’immagine di una persona espropriandola delle sue caratteristiche reali; l’intelligenza artificiale, vittima di bias cognitivi legati agli stessi stereotipi ageisti e di genere, oltre che alle norme/convenzioni e canoni di bellezza di cui noi stessi siamo vittima; e la chirurgia estetica, che alimenta un’industria dell’apparenza sulla pelle di migliaia di ragazze, adulte ed anziane, medicalizzandone e colonizzandone il corpo con sostanze chimiche e protesi artificiali per rincorrere canoni desiderabili e irraggiungibili su modello pubblicitario, ma funzionali alla norma vigente. Il grande psicanalista e filosofo argentino Miguel Benasayag, in Funzionare o esistere?, parla del concetto di plasticità: il vivente deve trasformarsi in un senza-forma iperplastico che si lascia plasmare, contro ogni forma di pensiero complesso. Nella “cultura dello scarto” gli anziani sono considerati “vecchi”, fuori dal ciclo produttivo, di sviluppo e di consumo e – per questo motivo – “inutili”, “senza funzione”, ovvero che non possono più funzionare. Lo stesso subiscono le donne a causa delle gravi ed ataviche connotazioni di genere dei canoni di bellezza, stratificati nella nostra cultura e funzionali al desiderio maschile: fino a quando sono giovani, belle, formose, fertili vengono considerate prestanti e utili; ma quando l’età avanza, arrivano la menopausa e le rughe, il corpo subisce degli sbalzi ormonali, ecco che la donna viene considerata non funzionale ad un sistema che – nutrendosi di maschilismo interiorizzato – rincorre il desiderio maschile. In una società consumistica, come la nostra, che ti obbliga ad inseguire questo flusso senza fine, le persone si sentono spinte ad inseguire il mito dell’eterna giovinezza, per essere utili, e dell’eterna bellezza, per essere prestanti e desiderabili. È la desacralizzazione dei corpi, come la chiamava Gandhi: il proprio corpo non è più un’entità che unisce spirito e fisico, un mezzo per esprimere i propri principi e per influenzare gli altri, o uno strumento di lotta politica e di resistenza, ma bensì un’immagine tra le altre che spesso viene trasformata plasticamente per compiacere qualcosa di esterno, in funzione degli altri, per trovare una falsa accettazione di Sé nella tendenza perversa di questa società post-moderna o ipermoderna. Nel marzo 2025, parlando del suo libro Il corpo gioia di Dio (Gabrielli editori) , in una interessantissima intervista di Ritanna Armeni per L’Osservatore Romano contenuta nell’ inserto Donne Chiesa Mondo, Teresa Forcades affermava: “Nella nostra cultura tardo capitalistica esiste lo sfruttamento e la mercificazione del corpo. Ragazze sempre più giovani (e anche ragazzi) vengono sessualizzati e sottoposti a standard di bellezza irrealistici e in costante mutamento.  L’età di chi si ammala di anoressia si è abbassata e la percentuale dei casi è aumentata. La chirurgia estetica è diventata comune e viene applicata alle parti più intime del corpo. C’è tanto da criticare nella nostra cultura per quanto riguarda il modo in cui tratta il corpo. (…) È l’ineludibile e irrisolvibile contraddizione del patriarcato: le donne sono viste come oggetto di desiderio (sono pure, ispirano, curano, guariscono) e al tempo stesso come inferiori (son malvage, bisognose di guida e di controllo, inaffidabili). È impossibile essere entrambe le cose. Il corpo delle donne deve essere “perfetto” secondo standard di bellezza sempre più irrealistici e deve essere controllato attraverso la violenza psicologica e fisica.” Spesso, attraverso i canoni di bellezza imposti dal mercato, dalla pubblicità e dalle illusorie manie di perfezione, assistiamo a una prepotente medicalizzazione dei corpi attraverso i più vari rami della chirurgia estetica che, in quanto frutto dei canoni propri delle società patriarcali, si trovano ad avere una forte connotazione di genere che vede nelle donne il bersaglio principale, il consumatore da conquistare fino ad arrivare a interventi chirurgici come la labioplastica, l’intervento di chirurgia estetica che consiste nel taglio delle piccole labbra della vulva per renderle uguali. È così che la medicalizzazione del corpo femminile diventa il braccio armato del nuovo capitalismo cognitivo fondato su omologazione, perfezione, competizione per l’immagine e il conformismo. Questa mentalità maniacale per la perfezione sta mettendo in serio pericolo anni e anni di conquiste femministe, oltre che la cultura della cura e dell’allattamento nelle giovani ragazze e madri. Purtroppo oggi, l’esterofilia americana dei “corpi perfetti” ha fatto dell’allattamento non più una conquista in nome dei diritti delle donne, dei bambini e della salute di entrambi, ma bensì un qualcosa di “obsoleto”, sostituibile con le nuove tecnologie e con i latti artificiali. Negli USA il seno è oggetto primariamente sessuale, a causa dell’uso distorto e sessualizzato che ne fanno l’industria cinematografica, l’industria pornografica e la pubblicità televisiva, intrise di eterosessismo. Spesso ciò porta le donne a non ricorrere all’allattamento naturale proprio per rincorrere i canoni di bellezza introiettati dalla società patriarcale secondo cui i loro corpi devono essere belli, perfetti, proporzionati ma soprattutto sessualizzati come nelle sfilate di moda e nella pubblicità. L’arrivo di un bambino e delle sue necessità vengono visti come un fenomeno di degradazione del seno: visione influenzata anche dall’atteggiamento dei partner che disincentivano le donne all’allattamento per motivi puramente estetici. La donna che allatta deve negoziare continuamente fra un ruolo sessuale e un ruolo materno, generando tensione, stress, difficoltà e ostacolo all’allattamento. Questo, a lungo andare porta culturalmente all’abbandono dell’allattamento, alla perdita della cultura della cura e a trovare la soluzione più semplice: il ricorso ai latti artificiali che fanno gola all’industria. Sicuramente la televisione, la pubblicità, l’industria cinematografica, il capitalismo cognitivo[1] hanno influito molto – dagli anni del riflusso in poi – a consolidare questi canoni tossici e un ricorso sempre più massivo alla chirurgia estetica. Attrici di successo, donne dello spettacolo, cantanti, showgirl, modelle, pornostar, ballerine, veline sono state rispettivamente – su modello di Hollywood – le prime a ricorrere alla chirurgia estetica con modificazioni sostanziali del viso, degli zigomi, delle labbra, delle gambe, dei glutei, del seno anche con mastoplastica additiva, dando inizio ad un effetto domino che oggi sembra inarrestabile soprattutto tra le giovani generazioni di ragazze. Ed ecco la dilagante moda della liposuzione per non parlare del filler in bellissime ragazze giovanissime, delle “labbra a canotto”, del botox, dei precocissimi “nasi da fata” in adolescenti e della ormai decennale guerra alle rughe inaugurata con botulino, acido ialuronico e lifting. Un’epidemia di non-accettazione e alienazione tra le donne, che non riescono ad essere loro stesse a causa delle forti pressioni delle convenzioni sociali, di mercato, e dei canoni tossici di bellezza. «Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. Le ho pagate tutte care. C’ho messo una vita a farmele!» –  è la celebre frase che la grande attrice Anna Magnani disse al suo truccatore parecchi anni fa, quasi ad ironizzare sulla moda dilagante di fermare il tempo, partendo dal trucco fino ad arrivare a ritocchini o interventi chirurgici. Il concetto di bellezza è associato, nell’immaginario comune, alla giovane età e a una pelle liscia, elastica e luminosa, ma anche il viso di una persona matura esprime bellezza disarmante: la pelle e le rughe sanno raccontare la nostra storia e la nostra evoluzione, che passa attraverso esperienze diverse, disagi, gioie, dolori, lotte quotidiane e successi. Credo che nessuno possa smentire il fascino della cicatrice sul viso di Paola Turci. Come non definire tutto questo, bellezza? Anna Magnani più di mezzo secolo fa parlava di bodypositive quando ancora nessuno ne conosceva il significato. Un’estetica, la sua, basata sulla trasformazione dell’unicità in punto di forza, meravigliosamente descritta dalle sue stesse parole: «Ce metti una vita intera per piacerti, e poi, arrivi alla fine e te rendi conto che te piaci. Che te piaci perché sei tu, e perché per piacerti c’hai messo na vita intera: la tua. Ce metti una vita intera per accorgerti che a chi dovevi piacè, sei piaciuta… E a chi no, mejo così. Ce metti na vita per contà i difetti e riderce sopra, perché so belli, perché so i tuoi. Perché senza tutti quei difetti, e chi saresti? Nessuno. Quante volte me sò guardata allo specchio e me so vista brutta, terrificante. Co sto nasone, co sti zigomi e tutto il resto. E quando la gente me diceva pe strada “bella Annì! Anvedi quanto sei bona!” io nun capivo e tra me e me pensavo “bella de che?”. Eppure, dopo tanti anni li ho capiti. C’ho messo na vita intera per piacermi. E adesso, quando me sento dì “bella Annì, quanto sei bona!”, ce rido sopra come na matta e lo dico forte, senza vergognarmi, ad alta voce “Anvedi a sto cecato!”». Sulla stessa lunghezza d’onda la grandissima attrice statunitense Jamie Lee Curtis, 67 anni, vincitrice del premio alla miglior attrice non protagonista per Everything Everywhere All at Once, che in una recente intervista a The Guardian ha dichiarato: «mi sto auto-pensionando da 30 anni. Mi sto preparando a uscire di scena, in modo da non dover soffrire come ha fatto la mia famiglia. Voglio lasciare la festa prima di non essere più invitata». L’attrice ha avuto infatti la sua serie di ostacoli da affrontare sulla strada verso la fama fin dal suo esordio nel 1978 in Halloween, ma il colpo più duro è arrivato dall’ageismo di Hollywood quando ha assistito al declino della carriera dei suoi celebri genitori, gli attori Tony Curtis e Janet Leigh, in tarda età, a causa del fatto che Hollywood dà valore alla giovinezza sopra ogni altra cosa. «Ho visto i miei genitori perdere proprio ciò che ha dato loro fama, vita e sostentamento, quando a una certa età il settore li ha rifiutati» – dice Curtis a The Guardian – «Li ho visti raggiungere un successo incredibile per poi vederlo lentamente svanire fino a scomparire. E questo è molto doloroso». Proprio per questo Curtis non è disposta a rimanere in gioco ricorrendo alla chirurgia estetica. La star ha applaudito pubblicamente la famosa decisione di Pamela Anderson di ridurre il trucco nel 2023, proclamando via Instagram che «La rivoluzione della bellezza naturale è ufficialmente iniziata!». Curtis afferma di «credere che abbiamo cancellato una o due generazioni di aspetto umano naturale. L’idea che si possa alterare il proprio aspetto attraverso sostanze chimiche, interventi chirurgici, filler, sta sfigurando generazioni di persone, soprattutto donne». Com’è noto, la star ha accettato orgogliosamente i suoi capelli grigi e si è fatta fotografare senza indumenti intimi modellanti o ritocchi, due mosse che hanno aiutato le donne a capire che gli ideali da red carpet sono irraggiungibili come obiettivi quotidiani. La consapevolezza e la sicurezza di sé espressa, purtroppo non rispecchia quella delle nuove generazioni che –  dopo aver cavalcato per un breve periodo l’onda del bodypositive – sembrano oggi non riuscire a sfondare il muro delle convenzioni, scendendo a compromessi ed aderendo passivamente a canoni vecchi per paura di non essere accettati e di precludersi a varie possibilità anche lavorative e di carriera. Ciò che mi domando è se veramente c’è consapevolezza di quello che significa sfigurarsi il volto per opportunismo, o perché il mercato lo richiede, o perché il settore lavorativo lo richiede, o perché la convenzione sociale lo richiede, o perché il partner lo richiede, o perché la paura di invecchiare lo richiede, o perché le manie di perfezione lo richiedono. La domanda che sorge è: se non ci fossero tutte queste richieste esterne, voi come vi vorreste? Vi vorreste come siete o vorreste mostrare ciò che non siete? Mi domando cosa direbbe il grande filosofo Emmanuel Levinas difronte all’attuale modificazione sistematica del “volto”: lui che sul “volto”, inteso come “nudità dell’anima”, ha fondato tutta la sua teoria dell’etica della società. L’essere umano, come lo chiamavano i greci, è sia θάνατον (mortale), ma anche πρόσωπον, il “volto che ho di fronte”: l’essere umano che in relazione con gli esseri umani si riconosce tale. Per Levinas è nel volto che abbiamo di fronte che è racchiuso il segreto supremo della vita e che mai riusciremo ad afferrare per intero. Mi domando dunque oggi quale impatto possa avere la modificazione del viso. Quanto è difficile “il faccia a faccia con l’altro”, in un mondo che presenta non più “volti”, ma “maschere” (altro significato negativo di πρόσωπον) ricostruite omologate, sformate e trapiantate in un corpo. La domanda è chi abbiamo di fronte? Cosa nascondono queste maschere? Quale immensa fragilità e vulnerabilità abbiamo di fronte? Quale enorme smarrimento, confusione e perdita del Sé abbiamo di fronte in un mondo nichilistico che punta a somigliare al viso piallato di un avatar digitale piuttosto che ambire, come direbbero gli indù, alla condizione di avatara[2] reale? La paura della vecchiaia e il voler essere ciò che non si è, aspirando a modelli esterni, è una caratteristica assolutamente occidentale che l’occidentalizzazione ha diffuso nel mondo. Come direbbe Benasayag, “la nostra è la prima società che non sa cosa farsene del negativo. Le società ‘non moderne’, non occidentali, incorporano il negativo (inteso in senso generale, cioè la morte, la malattia, la tristezza, in una parola: la perdita) in modo organico, come qualcosa che fa parte del tutto.” In Occidente reprimiamo il “negativo” perchè lo definiamo tale e non lo concepiamo come parte integrante dei meccanismi di autoregolazione del mondo e della vita. Ecco dunque che ci fa paura la vecchiaia e il fatto di non essere considerati in base a fattori esterni esattamente come abbiamo paura della morte perché non accettiamo la caducità della vita. Concepiamo cristianamente e scientificamente il tempo come una linea retta infinita, un presente eterno, vivendo come se alcune cose non debbano mai cambiare, non debbano mai finire, per scombussolare la nostra comfort-zone mentale. “L’uomo, nella sua ricerca di gioia e di felicità, fugge dal proprio Essere, dal proprio Sè, che è la vera fonte di ogni gioia. Si considera molto brutto e noioso perché non è in grado di stabilire un rapporto intimo col proprio Essere. L’uomo cerca la gioia nel denaro, nelle proprietà materiali, nel potere, nell’amore egoista ed infine nella religione, che ugualmente lo attira al di fuori di se. Il problema è: che cosa si deve fare per interiorizzare la propria attenzione? Questo Essere interiore che è la nostra consapevolezza è energia.” – disse Shri Mataji Nirmala Devi in un suo celebre discorso sul Sahaja Yoga. La medicalizzazione del corpo, il nostro cambiamento fenomenologico, la chirurgia estetica, il rincorrere i modelli di perfezioni irreali e irraggiungibili, la repressione della vecchiaia e la cancellazione del volto nascono dall’alienazione e dalla non-accettazione di Sè perchè non siamo consapevoli della cosa più naturale di tutte: la caducità della vita. Siamo “volti”; siamo chi siamo; siamo autentici e non copie; siamo coloro che si guardano in faccia e si vedono per quello che sono; siamo il dettaglio che ci contraddistingue. Spesso ci comportiamo da “maschere” per nasconderci, ma non lasciamo che un parte del “negativo” ci totalizzi. Non siamo “maschere” perchè per ogni cosa che facciamo “ci mettiamo la faccia”.   Altre info: Lorenzo Poli, Guerra al latte materno: tra esterofilia, industria alimentare e medicalizzazione (pag 60) https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/04/lavoroesalute4aprile2023_lastlast.pdf Francesca Rigotti, De senectute, Giulio Einaudi Editore, 2018 Maria Rita Parsi, Noi siamo bellissimi. Elogio della vecchiaia adolescente, Mondadori novembre 2023 Paolo Mantegazza, Elogio della vecchiaia, Angelo Pontecorboli Editore, luglio 2017   [1] Il capitalismo cognitivo è un concetto che descrive un’evoluzione del capitalismo in cui la produzione di conoscenza e le capacità cognitive diventano elementi centrali per la creazione di valore e l’accumulazione di capitale. In questo contesto, il lavoro non è più limitato alle attività manuali o industriali, ma si estende alla sfera cognitiva, includendo la produzione di idee, informazioni, e competenze. [2] Nell’induismo, un avatara (in sanscrito) è la discesa di una divinità, in particolare Vishnu o Shiva, sulla Terra in forma fisica, per ristabilire l’ordine cosmico (dharma) e aiutare l’umanità. Gli avatara sono considerati manifestazioni divine che appaiono quando il male minaccia di prevalere sul bene. Lorenzo Poli
Un nuovo portale digitale per la Biblioteca delle Donne di Palermo
La storia delle donne femministe in Sicilia a portata di clic. E’ on line il nuovo portale digitale della Biblioteca delle donne e Centro di consulenza legale UDIPALERMO, una piattaforma pubblica dedicata alla tutela e diffusione del patrimonio femminista siciliano. E’ realizzato nell’ambito di un progetto sostenuto dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, attraverso l’investimento “Transizione digitale degli organismi culturali e creativi (TOCC)” previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). L’investimento TOCC promuove in modo trasversale la sostenibilità ambientale e il rispetto del principio europeo “Do No Significant Harm (DNSH)”, che garantisce interventi culturali e tecnologici non impattanti sull’ambiente. Il portale costituisce il fulcro di un intervento di digitalizzazione volto a valorizzare, conservare e rendere fruibile la memoria storica dei movimenti femminili e femministi in Sicilia, una memoria spesso frammentaria e resa invisibile a causa della scarsa disponibilità e accessibilità delle fonti. Attraverso un’interfaccia pubblica, accessibile e in costante aggiornamento, il portale mette a disposizione: gli inventari informatizzati dei fondi archivistici conservati da UDIPALERMO, riconosciuti nel 2008 dalla Soprintendenza archivistica della Sicilia come di interesse storico particolarmente importante; nonché una selezione significativa di materiali digitalizzati che documentano decenni di attivismo, pratiche e cultura politica delle donne in Sicilia. Le sezioni del portale includono: Archivio storico: documenti, corrispondenze, dattiloscritti, atti; Archivio fotografico: immagini che raccontano manifestazioni, incontri, quotidianità e relazioni; Archivio iconografico: manifesti, volantini e materiali visivi prodotti nel contesto dell’attivismo femminista; Archivio sonoro e audiovisivo: registrazioni, interviste, convegni, voci di protagoniste e testimoni. Il progetto risponde all’obiettivo di rendere accessibile un patrimonio spesso marginalizzato, offrendo strumenti di consultazione sia per la ricerca storica e accademica sia per il lavoro educativo, culturale e politico. Il portale è disponibile all’indirizzo: http://udipalermo.thearchives.cloud Per informazioni e contatti: bibliotecadonneudipalermo@gmail.com https://www.bibliotecadelledonnecentrodiconsulenzalegale-… Redazione Palermo
Mille splendidi fiori, storie di cura, coraggio e comunità tra Afghanistan e Alto Adige
Martedì 5 agosto 2025 alle ore 21:00 Pavillon di San Vigilio di Marebbe (Provincia autonoma di Bolzano, Alto Adige) Evento organizzato da Costa Family Foundation, Insieme si può, Rawa, Gea, Dolomites San Vigilio Una serata per ascoltare voci spesso invisibili: donne che resistono, custodiscono e si fidano. Dall’Afghanistan dell’Associazione RAWA, dove anche una tisana può diventare gesto politico, all’Alto Adige, dove la violenza di genere si nasconde dietro porte chiuse e silenzi troppo lunghi. Un dialogo aperto tra mondi apparentemente distanti – impresa e sociale, poesia e attivismo – uniti dalla stessa tensione verso la dignità e la trasformazione. Parole, musica, volti e storie si intrecciano in un racconto collettivo. A chiudere, un gesto semplice: una tisana condivisa. Perché far fiorire, in fondo, è un atto rivoluzionario.     Redazione Italia
Stereotipi di genere e tolleranza verso forme di violenza ancora radicati tra i giovani
Il 36% dei giovanissimi considera accettabile che un ragazzo controlli abitualmente il cellulare o i social network della propria ragazza, l’11,1% che in una relazione di coppia sia “normale che ci scappi uno schiaffo ogni tanto” e il 7,3% che “un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perché ha flirtato con un altro ragazzo” (dati 2023). Il 15,6% pensa che la violenza sia provocata dal modo di vestire delle ragazze, il 13,7% è d’accordo che “di fronte a una proposta sessuale le ragazze spesso dicono no, ma in realtà intendono sì”. Sono ancora troppo forti gli stereotipi tra i giovani: dalla maggiore importanza della bellezza in una ragazza rispetto ad un ragazzo (56,4%), alle maggiori capacità dei ragazzi negli studi tecnologici, scientifici e ingegneristici (21,2%), fino alla minore capacità degli uomini di occuparsi delle faccende domestiche (24,9%). E’ quanto merge dal recente focus dell’ISTAT “Stereotipi sui ruoli di genere: il punto di vista di ragazze e ragazzi”, messo a punto nell’ambito dell’Accordo con il Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.  Dal Report dell’ISTAT emerge come il rapporto di coppia sia immaginato soprattutto come un sostegno: Infatti, quando si chiede ai giovani di 14-19 anni quali siano gli aspetti più importanti in un rapporto sentimentale, la maggior parte (il 48,1%) segnala “il sostenersi a vicenda nei momenti difficili”, seguono la sincerità, la fedeltà, il capirsi, mentre appaiono residuali, intorno al 10%, l’attrazione fisica, l’avere gli stessi interessi e la bellezza fisica. Solo la bellezza fisica supera il 14% per i maschi. La visione dei ragazzi e delle ragazze non è particolarmente diversa, sebbene le ragazze apprezzino di più il sostenersi reciprocamente, la sincerità e la fedeltà. Tra le affermazioni proposte ai giovani sulla coppia vi è anche “la gelosia è un modo per dimostrare amore”, un’idea ancora importante per i ragazzi e le ragazze, che riguarda poco meno di un terzo dei giovanissimi (29,1%), raggiunge il massimo per i ragazzi di 14-16 anni (41,3%) ed è minima (15,4%) per le ragazze di 17 anni e più. Altro stereotipo è quello per cui la donna trova realizzazione solo nella cura della casa e della famiglia, l’idea tradizionale che le responsabilità domestiche, come cucinare, pulire o prendersi cura dei figli, siano compiti esclusivamente femminili. “Questo stereotipo, si sottolinea nel focus, trova consenso presso il 24,9% degli intervistati (30,4% dei maschi e 19,2% delle femmine), a testimonianza di quanto possa essere lungo il cammino che sfata questo pregiudizio presso le donne stesse. Al crescere dell’età diventa progressivamente meno condivisa l’idea che gli uomini siano meno adatti alle faccende domestiche (27,6%, 25,8% e 21,8% l’accordo nelle tre classi di età considerate, 11-13, 14-16, 17 anni e più). Se si ha una madre laureata il grado di accordo è minore (22,5%)”. Così come avere successo nel lavoro è più importante per l’uomo che per la donna: uno stereotipo che sottintende che la realizzazione personale di una donna debba passare principalmente attraverso la famiglia, la maternità o la cura degli altri, piuttosto che attraverso l’ambizione professionale o la carriera. “Secondo questa visione, si legge nel report, il lavoro per la donna non è una priorità, ma qualcosa di secondario, utile solo per occupare il tempo, contribuire parzialmente al bilancio familiare o sentirsi realizzata in modo marginale. È questo, come si vedrà, lo stereotipo più connesso all’accettabilità della violenza contro le donne. Questo stereotipo, che è il meno diffuso (14,6%), è il più divisivo tra i ragazzi e le ragazze: è d’accordo il 22,0% dei maschi e il 6,7% delle femmine”. Ma a colpire particolarmente sono i dati dell’ISTAT sul pregiudizio che la “donna è responsabile della violenza sessuale subita”: pregiudizio diffuso anche tra i giovani di 14 anni e più. Il 15,6% dei ragazzi e ragazze di 14-19 anni è molto o abbastanza d’accordo con l’idea che “le ragazze possono provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire” (23,5% per i maschi contro il 7,2% delle femmine). Persistono anche stereotipi rispetto al consenso, con il 13,7% dei giovanissimi d’accordo sul fatto che “di fronte a una proposta sessuale le ragazze spesso dicono no, ma in realtà intendono sì”, idea condivisa da circa un ragazzo su cinque (19,5%), contro il 7,6% delle coetanee femmine. “Una ragazza che subisce una violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe è almeno in parte responsabile” è un’affermazione che raccoglie il consenso del 12,1% dei 14-19enni, dato che raggiunge il 18,9% tra i maschi e scende al 4,9% delle femmine “Questi stereotipi – sottolinea l’ISTAT –  minano la credibilità delle vittime, portano a minimizzare o ignorare le loro esperienze, instillando l’idea che solo certi tipi di persone possano essere vittime di violenza sessuale; colpevolizzano le vittime e non permettono di evidenziare la colpa dell’aggressore. Inoltre, la colpevolizzazione della vittima alimenta il suo senso di vergogna e di isolamento e le rende ancora più difficile intraprendere il percorso della denuncia. Basti pensare ai rischi di essere vittimizzate due volte (la cosiddetta vittimizzazione secondaria) che spesso si verifica al momento della denuncia e nelle aule dei tribunali”. Qui il Report https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/07/Stereotipi-di-genere-1.pdf.      Giovanni Caprio
Violenza di genere, un debito ancora da saldare
L’Honduras continua a essere uno dei paesi più violenti della regione, soprattutto nei confronti delle donne. È ciò che afferma il recente rapporto dell’Osservatorio sui diritti umani delle donne (Odhm, per la sua sigla in spagnolo) del Centro per i diritti delle donne (Cdm). Nel 2024, l’Osservatorio ha registrato 231 morti violente di donne, 156 delle quali sono femminicidi (67,5%). La maggior parte delle vittime (48%) erano donne adulte (di età compresa tra i 30 e i 59 anni) che lavoravano come domestiche. Il 26% erano giovani donne (di età compresa tra i 19 e i 29 anni) e il 13% erano minorenni, tra cui 5 bambine di età inferiore ai 9 anni. A questa violenza femminicida si aggiungono altri reati contro la vita delle donne, come i 158 casi di tentato omicidio e le 149 denunce di scomparsa. Parallelamente, il Ministero dell’Interno segnala 342 denunce di donne e ragazze scomparse, il 44,1% delle quali di età inferiore ai 18 anni. L’Osservatorio sulla parità di genere in America Latina e nei Caraibi, della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal) avverte che nel 2023 l’Honduras continuava a essere in cima alla lista dei paesi della regione con il più alto tasso di femminicidio pro capite. Secondo la prima indagine nazionale specializzata sulla violenza contro le donne e le ragazze di età pari o superiore a 15 anni, condotta alla fine del 2022 dall’Istituto nazionale di statistica (Ine), 24 donne honduregne su 100 hanno subito violenza sessuale. Nel 2024, il Pubblico ministero ha segnalato 3.350 casi di denuncia per violenza sessuale contro le donne, il 62% delle vittime sono minorenni, per lo più studentesse e lavoratrici domestiche. “Le donne in Honduras sono esposte a subire un continuum di violenze, ovvero, nel corso della loro vita subiscono molteplici forme di violenza in diversi ambiti sociali”, sottolinea il rapporto dell’Osservatorio del CDM. Nel 2025 la situazione non sembra migliorare. Sono già 127 le donne uccise in modo violento nel primo semestre. Fino al 30 aprile, il Sistema Nazionale di Emergenza (SNE-911) ha registrato 13.034 denunce di violenza domestica e 15.647 di maltrattamenti familiari. Un’impunità infinita Secondo l’Osservatorio sulla violenza dell’IUDPAS-UNAH, negli ultimi due decenni (2005-2024) sono stati registrati almeno 7.736 casi di morti violente di donne e femminicidi, con una media annuale di 387 vittime. Di tutti questi casi, 904 sono stati portati in tribunale e solo 197 (21,7%) hanno ottenuto una condanna. Nel 2024, lo SNE-911 ha segnalato 37.879 chiamate per violenza domestica contro le donne e 50.757 per maltrattamenti familiari. Di questo totale, solo 12.673 segnalazioni si sono convertite in denunce formali. Per quanto riguarda i vari tipi di violenza sessuale, nel 2024 sono stati presentati ai tribunali 854 casi, ovvero il 25,4% di quelli segnalati al Pubblico Ministero. Di questi, solo 298 hanno ottenuto una sentenza di condanna (35%). “La grave carenza di risposta nei casi di femminicidio, violenza domestica e violenza sessuale ha un impatto diretto sulla vita delle vittime, dei sopravvissuti e dei loro familiari”, avverte l’Odhm. “Oltre all’aggressione subita”, continua il rapporto, “le vittime devono continuare a lottare per ottenere giustizia, riparazione e garanzia dei propri diritti. In questo percorso, devono affrontare molteplici ostacoli e violenza istituzionale. La mancanza di struttura nei diversi organismi pubblici e l’assenza di un coordinamento integrale generano burocrazia nei processi, rivittimizzazione e danni all’ambiente individuale, familiare e comunitario”. Fonte: Rel UITA (spagnolo) Giorgio Trucchi
Siria: rapimenti delle donne alauite
Amnesty International ha sollecitato il governo siriano ad agire con urgenza per prevenire la violenza di genere, ad avviare indagini rapide, approfondite e imparziali sui rapimenti di donne e ragazze alauite e ad accertarne e punirne i responsabili. Da febbraio Amnesty International ha ricevuto informazioni attendibili su almeno 36 rapimenti di alauite di età compresa tra i tre e i 40 anni, avvenuti nelle province di Latakia, Tartus, Homs e Hama ad opera di individui non identificati. Di questi casi, Amnesty International ha documentato i rapimenti, avvenuti in pieno giorno, di cinque donne adulte e di tre minorenni. Salvo in un caso, le autorità di polizia e la Sicurezza generale (i servizi di sicurezza) non hanno svolto indagini efficaci per accertare la sorte e il luogo in cui si trovano le persone rapite. Il 22 luglio il comitato d’inchiesta istituito dal presidente al-Sharaa per indagare sulle uccisioni avvenute lungo la costa siriana ha dichiarato di non aver ricevuto alcuna segnalazione di rapimenti di donne o ragazze. “Le autorità siriane affermano da tempo di voler costruire una Siria per tutte e tutti ma continuano a non intervenire per fermare i rapimenti di donne e ragazze, prevenire violenze e matrimoni forzati, contrastare la probabile tratta di esseri umani, indagare e perseguire i responsabili. La comunità alauita, già colpita da precedenti massacri, è stata profondamente scossa da questa ondata di rapimenti. Le donne e le ragazze hanno paura di uscire di casa o di camminare da sole”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. In tutti gli otto casi documentati da Amnesty International le famiglie hanno denunciato il rapimento delle proprie parenti alla polizia o alla Sicurezza generale. In quattro casi, nuove prove fornite dalle famiglie sono state respinge o mai prese in considerazione. In nessuno degli otto casi le famiglie hanno ricevuto aggiornamenti sullo stato delle indagini. In due casi la responsabilità del rapimento è stata addossata alla famiglia stessa. In un caso il sequestratore ha inviato alla famiglia una foto della persona rapita, visibilmente percossa. In due casi i sequestratori hanno chiesto, direttamente o tramite intermediari, riscatti compreso tra i 9000 e i 13.000 euro. Solo una delle famiglie è riuscita a pagare ma la donna non è stata liberata. In almeno tre casi, uno dei quali riguarda una minorenne, la rapita è stata probabilmente costretta a un matrimonio forzato. Molte delle persone intervistate da Amnesty International hanno riferito che le donne e le ragazze, soprattutto della comunità alauita, ma anche di altri gruppi residenti nelle province interessate dal fenomeno, ora evitano o affrontano con estrema cautela ogni spostamento, come ad esempio per andare a scuola, all’università o al lavoro. Un’attivista della società civile, che ha recentemente visitato la regione costiera della Siria, ha raccontato: “Tutte le donne sono in stato d’allerta. Non possiamo prendere un taxi da sole, camminare da sole, fare nulla senza provare paura. Anche se non sono alauita e se inizialmente la mia famiglia era scettica rispetto ai rapimenti, mi hanno comunque chiesto di non uscire da sola e di fare molta attenzione”. “Chiediamo alle autorità siriane di agire con rapidità e trasparenza per localizzare le donne e le ragazze scomparse, portare i responsabili davanti alla giustizia e fornire alle famiglie coinvolte informazioni credibili e tempestive, basate su una prospettiva di genere, oltre al necessario sostegno”, ha aggiunto Callamard. Amnesty International
Un appello per i profughi afghani espulsi dall’Iran
Riceviamo e volentieri diffondiamo È in corso un’ondata di deportazioni forzate e disumane di migranti afghani dall’Iran. Migliaia di famiglie vengono espulse con violenza, costrette a lasciare in Iran i propri averi, e, una volta varcata la frontiera, padri e figli vengono portati in prigione senza alcun contatto o informazione, mentre madri e bambini vengono abbandonati sotto il sole cocente, senza protezione. Sono esposti a un caldo estremo, senza accesso ad acqua potabile, cibo o riparo. I bambini si ammalano di disidratazione, diarrea e spossatezza. Sia HAWCA – Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan (Associazione Umanitaria per l’Assistenza alle Donne e ai Bambini dell’Afghanistan) che OPAWC – Organization Promoting Afghan Women’s Capabilities (Organizzazione per la promozione delle abilità delle donne afghane) si stanno impegnando a sostenere queste famiglie e chiedono il nostro aiuto per fornire: cibo, acqua pulita e prodotti per l’igiene. La situazione sta rapidamente peggiorando ed è diventata un’emergenza su vasta scala, si sta ripetendo quanto già avvenuto con le espulsioni dal Pakistan. L’agenzia dell’ONU per le migrazioni stima che a giugno oltre 250.000 persone, tra cui migliaia di donne sole, siano tornate in Afghanistan dall’Iran. Condividiamo l’appello inviatoci dalle associazioni che sosteniamo e vi chiediamo uno sforzo per poter raccogliere fondi che, come CISDA, ci impegniamo a far arrivare in Afghanistan. Con il vostro aiuto riusciremo a trovare il modo di aiutare queste associazioni che da sempre si prodigano per la popolazione afghana e poterle sostenere anche in questa occasione. Cisda, Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane L’IBAN del CISDA è: IT74Y0501801600000011136660 Causale: “Emergenza deportati afghani Iran”. Redazione Italia
La guerra è una scelta economica, non una fatalità geopolitica
FUORI LA GUERRA DALLA STORIA In questi giorni, mentre a Gaza si continua a morire di fame e di bombe e in Ucraina la guerra si trascina nel silenzio diplomatico, diventa sempre più chiaro che la pace viene attivamente ostacolata, rallentata, sabotata. E a farlo non sono i popoli coinvolti nei conflitti, ma i governi, le industrie, le potenze che traggono vantaggio da ogni ulteriore giorno di guerra e vedono nella “ricostruzione” futura una promessa di futuro lucro. Occorre dire con chiarezza che la pace non c’è perché è resa impraticabile da chi ha interesse a non farla. Nel 2025 l’UE stanzierà fino a 100 miliardi di euro per le armi. NATO e governi nazionali aumentano le spese militari e costruiscono nuovi sistemi d’arma, inclusi scudi spaziali e arsenali nucleari. La corsa al riarmo globale è già in atto, guidata da interessi economici e strategici. La guerra è una scelta economica, non una fatalità geopolitica. “Per alcuni, il genocidio è redditizio” è la lucida diagnosi economica pronunciata da Francesca Albanese nell’ultimo rapporto al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, una delle tante denunce documentate con le quali la relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi ha smascherato complicità e profitti dietro il massacro a Gaza, diventando così bersaglio politico e vittima di sanzioni da parte degli USA che hanno cercato di delegittimare il suo lavoro. Lo gridano le attiviste israeliane e palestinesi che chiedono la fine dei bombardamenti e il ritorno dei prigionieri. Lo denunciano le femministe ucraine che rifiutano tanto la logica della resa quanto quella del sacrificio infinito, pretendendo invece un futuro autodeterminato, non deciso da mercati e arsenali. Come femministe rifiutiamo la logica binaria che ci viene imposta: o con la guerra o con il nemico. Noi siamo per la vita, non per i governi che alimentano la guerra e la morte; per l’etica delle relazioni, non per le diplomazie che barattano corpi e verità; per la giustizia incarnata, non per l’impunità armata. Oggi, immaginare la pace significa affrontare una realtà strutturalmente ostile alla sua realizzazione. La pace non verrà concessa da chi trae vantaggio dal conflitto: richiede un lavoro collettivo, paziente e consapevole. Va costruita dal basso, smascherando l’ipocrisia dei governi che predicano diritti e commerciano morte. Va costruita nel tempo, attraverso relazioni di solidarietà che superino i confini nazionali e tengano insieme esperienze diverse — tra donne, popoli, movimenti. Va costruita fuori dall’ordine simbolico patriarcale con strumenti nuovi, linguaggi capaci di nominare l’ingiustizia senza riprodurre le logiche del potere. La guerra non è un incidente inevitabile, ma una forma di organizzazione del mondo. Interrogarla, disinnescarla, rifiutarla è un compito politico e, oggi più che mai, un compito femminista. Il 24 luglio saremo in piazza Massimo dalle ore 18.30 alle 20.00 UDIPALERMO – Le Rose Bianche – Donne CGIL Palermo- Coordinamento Donne ANPI – Emily – Governo di Lei – CIF – Le Onde – Arcilesbica – Donne della Comunità dell’Arca – Donne del Movimento nonviolento – Donne del Circolo Laudato si’ https://www.facebook.com/people/Presidio-donne-per-la-pace-Palermo/61575679581058/?_rdr https://www.facebook.com/people/10-1001000-Piazze-di-Donne-per-la-PACE/61577566614538/ https://www.instagram.com/presidiodonne_palermo/– https://www.instagram.com/100piazze_pace Redazione Palermo
“Femminismi nemici”: il caso italiano
Pubblichiamo l’intervento tenuto da Viola Carofalo alla sesta edizione della scuola femminista delle Asturie AMA (10-13 luglio 2025). Ciao a tutte compagne, in questo mio intervento vorrei provare a raccontarvi del contesto che, come femministe italiane, stiamo vivendo in particolare dell’avanzata dei cosiddetti femminismi di destra, quelli che Sophie Lewis chiama femminismi nemici, e della strumentalizzazione di molte delle nostre istanze. Come certamente sapete dal 2022 la Presidente del Consiglio – lei ci tiene moltissimo e ha sottolineato più volte che vuole essere chiamata IL Presidente – è Giorgia Meloni leader di un partito, Fratelli d’Italia, di stampo neofascista, che si è orgogliosamente definita: “Donna, madre e cristiana”. Nel suo discorso di insediamento, Meloni ha fatto un vero e proprio capolavoro, non ha rimosso il suo essere donna, la prima in assoluto In Italia ad essere a capo di un Governo, ma l’ha rivendicato in una maniera molto specifica: “Tra i tanti pesi che sento gravare sulle mie spalle oggi, non può non esserci anche quello di essere la prima donna a capo del governo in questa Nazione. Quando mi soffermo sulla portata di questo fatto, mi ritrovo inevitabilmente a pensare alla responsabilità che ho di fronte alle tante donne che in questo momento affrontano difficoltà grandi e ingiuste per affermare il proprio talento o il diritto di vedere apprezzati i loro sacrifici quotidiani. Ma penso anche, con riverenza, a coloro che hanno costruito con le assi del proprio esempio la scala che oggi consente a me di salire e rompere il pesante tetto di cristallo posto sulle nostre teste”. Di qui in avanti Meloni inizia a citare una serie di italiane famose dalla pedagoga Maria Montessori, alla scienziata Rita Levi Montalcini, alla giornalista dalle posizioni islamofobe Oriana Fallaci, fino ad arrivare a Nilde Iotti, tra le più note politiche italiane della prima Repubblica, partigiana, membro del Partito Comunista Italiano e dell’Assemblea Costituente. Quello che fa trasalire non è soltanto il richiamo a Iotti, che chiaramente sarebbe stata sua avversaria politica, ma un altro particolare e si rivela tutt’altro che un dettaglio. In questo lunghissimo elenco di donne illustri tutte le protagoniste sono chiamate con il solo nome proprio: Rita, Tina, Maria, Nilde, etc. È una provocazione, neanche tanto sottile. Il presidente Meloni mette subito le cose in chiaro: lei non rifiuta le istanze femministe anzi le fa sue e, a differenza delle forze parlamentari di centrosinistra, vuole difendere non soltanto poche privilegiate, ma tutte le donne soprattutto delle classi popolari. Però non si occupa di questioni “poco serie” come quelle legate al linguaggio e nemmeno “private” come considera essere quelle riguardanti l’orientamento sessuale. Lei si occupa di cose concrete: lavoro, sanità. E appare credibile, a differenza di molti populisti di destra, anche grazie alle sue origini realmente popolari e militanti la aiutano. Parla chiaro e senza tanti fronzoli. È celebre uno scambio con una delle parlamentari dell’opposizione che la criticava per non avere abbastanza a cuore la libertà delle donne e per aver promosso i movimenti pro-vita. Meloni risponde: “Ho sentito dire che io vorrei le donne un passo dietro agli uomini (risate in Parlamento) mi guardi onorevole Serracchiani le sembra che io stia un passo dietro agli uomini? (…) Io stamattina ho parlato di lavoro di welfare di una società che non costringa a scegliere tra lavoro e maternità”, sono una donna privilegiata per la posizione che ricopro, sottolinea, ma non tutte lo sono come me e io penso e provvedo a quelle donne. A questo punto direte voi: ma stiamo ascoltando un elogio di Giorgia Meloni? Ovviamente no! Quello che sto provando a fare, nei limiti di un breve intervento, è capire come mai il suo discorso riesca ad essere così popolare, efficace e guadagnare terreno. Soprattutto perché mi sembra che in molti altri contesti, quello francese in primis, ma anche negli Stati Uniti, sia sempre più chiara una capacità di affermarsi dei femminismi nemici, ovvero punitivisti, transfobici, neoliberisti, nazionalisti. E allora piuttosto che dipingere le nostre nemiche come delle rozze imbonitrici è forse più utile capire come mai il loro discorso riesce a fare così tanta presa. Vorrei fare altri due esempi molto recenti per mostrare quali siano le strategie del Governo  italiano, strategie che rischiano di rivelarsi vincenti, e di conquistare alla loro parte anche molti dei “nostri”. Il 7 marzo di quest’anno il governo Meloni in conferenza stampa ha annunciato un disegno di legge “contro la violenza sulle donne e il femminicidio”, vantandosi di essere il primo governo In Europa a introdurre questo specifico reato nel codice penale (non solo come aggravante ma come reato a sé stante) e di renderlo punibile con l’ergastolo, ovvero il carcere a vita. Inutile dire che in un paese nel quale viene uccisa una donna ogni tre giorni e in cui le notizie dei femminicidi sono particolarmente discusse (spesso con una buona dose di voyerismo e morbosità) soprattutto quando le vittime sono giovani studentesse carine la cui foto può essere sbattuta in prima pagina, o quando gli assassini sono soggetti razzializzati, immigrati, appartenenti alle classi disagiate e più povere (il ministro dell’Interno Piantedosi non manca mai di ripeterci che la violenza contro le donne “fa parte intrinsecamente della ‘loro’ cultura”). Il giorno seguente, l’otto marzo sembrava non si riuscisse a parlare d’altro (e si diceva, più o meno sottovoce, anche in ambienti femministi: “eh però non male questo governo Meloni…”). Il secondo episodio è di soltanto pochi giorni fa: nell’unico municipio di Roma governato dalla destra, quello di Tor Bella Monaca, viene aperto, in un momento nel quale i centri antiviolenza per le donne scarseggiano e non vengono finanziati né sostenuti con fondi pubblici, un centro antiviolenza specifico per uomini molestati, che hanno subito violenza fisica ma che sono anche vittime della fantomatica “alienazione parentale”. Ovviamente si tratta di un’operazione propagandistica, dell’utilizzo di una “falsa equivalenza” come metodo di delegittimazione per le rivendicazioni femministe. Forse qualche anno fa ci sarebbe sembrata surreale e ci avremmo riso su. Oggi scatena un gran dibattito perché, si dice, “tutte le violenze sono uguali! Non si capisce perché gli uomini non dovrebbero essere protetti e supportati proprio come le donne!”. Evidentemente nessuno nega che ci possano essere degli uomini che subiscono violenza, le donne non sono angeli, ma fino a poco tempo fa forse sarebbe stato chiaro a tutti che si tratta di casi isolati, di dinamiche interpersonali, relazionali, ma che non hanno natura sistemica. Bisogna prendere sul serio quello che un tempo avremmo detto essere solo una mossa pubblicitaria, ma mi sembra che la strumentalizzazione, la svalutazione delle battaglie transfemministe o addirittura la loro criminalizzazione, stiano diventando sempre di più nel mio paese un mezzo per costruire consenso. E soprattutto per nascondere quella che a ben vedere è un’evidenza: ovvero che dal punto di vista materiale, delle politiche di contrasto alla povertà, per il lavoro e per la sanità, questo governo non sta facendo assolutamente nulla. Alle persone deprivate, delle periferie, soprattutto uomini, giovani uomini (tra i quali il consenso per “Fratelli d’Italia” è in forte crescita) questi discorsi rischiano di dare, attraverso la rabbia e l’odio, consolazione e soprattutto identità e visibilità pubblica. A quello che un tempo in Italia era il Nero – l’immigrato da iper sfruttare e su cui riversare disgusto e rancore – oggi sembra essersi affiancata la Donna (o meglio, la femminista) che non sa “stare al suo posto”. Non si può non sottolineare che se le parole della destra funzionano è proprio perché ad esse è contrapposta l’inconsistenza di un centrosinistra, del Partito Democratico, che da sempre si presenta come poco concreto, “umanitario” nel senso peggiore del termine, e soprattutto estremamente elitario. Che negli ultimi 30 anni ha avuto un ruolo determinante nella distruzione del welfare e dei diritti, anche e soprattutto delle donne, concentrandosi solo su battaglie formali e “di facciata”. Come sottolinea Houria Bouteldja (Beaufs et barbares: Le pari du nous, 2024), ci sono molti uomini nelle periferie, nelle classi popolari che devono essere riconquistati al fronte delle persone oppresse se non vogliamo che pensino di trovare il loro posto altrove, perpetuando forme più o meno microscopiche di violenza e dominio nei confronti di chi sta peggio di loro – le donne, le persone razzializzate, etc. – e questo non può farlo un progressismo moralista, astratto e lontano dalla realtà. Questo dobbiamo farlo noi. È, mi sembra, uno dei nostri compiti per gli anni a venire. La falsa contrapposizione tra maschi poveri, talvolta razzializzati, che vivono in condizioni di precarietà, e donne e persone della comunità queer, serve solo a spaccare un fronte che sarebbe altrimenti naturalmente unito da interessi simili. Quelli legati alla necessità uscire da una condizione di oppressione e di abbandono, di trovare un proprio posto nel mondo. Catherine Malabou [Changer de différence. Le féminin et la question philosophique, 2009] propone un concetto minimale di donna o, meglio, di femminile, che credo possa esserci utile, che non riguarda sole le persone assegnate come tali dalla nascita, nemmeno quelle che procedono in un percorso di transizione, ma che tiene assieme tutti quei soggetti che sono implicati in un processo di femminilizzazione. (Si parla a proposito della precarizzazione, del lavoro ‘nero’, della mancanza di tutele, di ‘femminilizzazione del lavoro’, processo che evidentemente riguarda moltissimi maschi, persone trans, non binarie etc. europee, straniere). Un processo di esposizione alla violenza materiale e simbolica senza protezioni esterne né tutele che riguarda la maggioranza delle persone sulla terra. Anche interi popoli. Sto pensando alla Palestina. Dire che la precarizzazione del lavoro, che il colonialismo e la guerra, che la Palestina sono questioni femministe, non significa parlare del femminile come plasmato solo dall’oppressione ma anche e soprattutto dalla capacità di rispondere e di resistere. Significa trovare il minimo comun denominatore per costruire un fronte comune. Il 30 novembre 2023 (Giornata contro la violenza sulle donne) ci sono state a Roma e in tutta Italia, come ogni anno, manifestazioni di piazza molto partecipate. C’era stato da poco il femminicidio di Giulia Cecchettin per mano dell’ex fidanzato, un caso che aveva fortemente colpito l’opinione pubblica. Alcune intellettuali e gruppi femministi (potremmo definirli nemici? Non so, certamente non alleati), per fortuna minoritari, si sono battuti perché NON fossero portate in piazza bandiere palestinesi per due ragioni: – per “rispetto” alle donne israeliane alle quali era stata fatta violenza il 7 ottobre, perché Israele rappresenta la punta avanzata dei diritti civili e invece la Palestina, l’Islam (facendo per altro un’assurda equazione e generalizzazione) perseguita le donne e le persone queer1; – per non politicizzare una questione, quella della violenza, che riguarda tutte e che non ha parte o colore politico (!) e non distogliere l’attenzione dal tema dei femminicidi. Sul primo argomento non mi soffermo nemmeno. Sul secondo tutto quello che ho da dire è che la depoliticizzazione delle battaglie femministe, sostenere che riguardano le donne in generale, in astratto, e non le donne in carne e ossa (sfruttate, colonizzate, oppresse dalla guerra) rende facile il compito ai nostri nemici: ai femminismi di destra, al femonazionalismo, a un’idea della politica completamente separata dai bisogni materiali delle persone che vogliamo difendere e del fronte di cui facciamo parte. La strada da percorrere per ricostruire un femminismo realmente popolare, materialista, internazionalista è ancora molto lunga, dissestata e tutta da spianare. Ma questo giugno, dopo quasi due anni di battaglia su questo tema, al Pride, in tutta Italia, sventolavano migliaia di bandiere della Palestina.   1. Su questo rimandiamo a https://www.progettometi.org/analisi/rage-sense-and-sensibility/ ︎ Potere Al Popolo
“Senza confronto, senza trasparenza, senza donne”: un incontro on line di Di.Re
D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza aggrega oltre 200 donne tra attiviste e rappresentanti politiche per dare il via alla mobilitazione sul Piano Strategico del Governo D.i.Re – Donne in Rete ha dato il via ieri, 11 luglio 2025, alla mobilitazione sul Piano Strategico del Governo. All’incontro on line hanno partecipato oltre 200 donne che hanno espresso collettivamente la loro preoccupazione per il rischio che questo Piano del Governo porta con sé: disperdere un bagaglio importante di conoscenze ed esperienze che garantiscono percorsi con le donne centrati sui loro bisogni e desideri, nel rispetto dei loro tempi. Tra le presenze, diverse associazioni e movimenti che già avevano sottoscritto l’appello di D.i.Re (direcontrolaviolenza.it-Appello_mobilitazione_Piano-Strategico-e-Intesa). Interessante la presenza di parlamentari (hanno preso parola Cecilia D’Elia e Valeria Valente) che si sono impegnate a sostenere i contenuti dell’appello. “Siamo molto soddisfatte di questa prima fase di un confronto collettivo allargato che mira alla costruzione di un movimento plurale – dichiara Cristina Carelli, presidente D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza – finalizzato al riconoscimento del fondamentale apporto dei Centri antiviolenza per la costruzione di politiche davvero efficaci per i percorsi di libertà dalla violenza. Continueremo a lavorare insieme, per arrivare anche a una mobilitazione comune, condivisa e allargata per il 25 novembre” prosegue Carelli. “La libertà delle donne è sempre più sotto attacco e le donne lo sanno: nessuna ha intenzione di subire. Le attiviste dei Centri antiviolenza non possono e non vogliono accettare passivamente questo Piano, che presenta tante criticità per le donne” conclude la presidente. D.i.Re. – Donne in rete contro la violenza è la rete nazionale antiviolenza e si compone di 89 organizzazioni dislocate sul territorio nazionale, che gestiscono Centri antiviolenza e Case rifugio, affiancando oltre 23.000 donne ogni anno. D.i.Re e le organizzazioni socie sono attive politicamente per determinare il cambiamento culturale necessario per l’eliminazione della violenza maschile alle donne. Ufficio stampa Stefania Rossi – 3922643807 stefania.rossi@koinoe.it press@direcontrolaviolenza.it Redazione Italia