Per una critica radicale alla perfezione del corpo e alla chirurgia estetica
Il corpo è sempre stato un terreno di scontro, segnato dall’antica visione della
paura e del sospetto nei suoi confronti in quanto origine di seduzione,
desiderio, sregolatezza, terreno di perdizione, mozione delle pulsioni,
sessualità, sensualità carnale, sessualizzazione, qualcosa di incontrollabile,
origine di peccato e quindi oggetto di penitenza. “Controllerai i ventri e
controllerai le genti” è il motto all’origine di quello che hanno attuato i
regimi autoritari e che viviamo anche noi oggi in Occidente tanto con le
retoriche allucinanti del natalismo, del familismo, del parto di Stato, degli
imbarazzanti Fertility Day quanto sui temi etici riguardanti l’aborto legale, il
suicidio assistito e l’eutanasia.
La cristianità, ovvero la cultura sorta intorno al cristianesimo, ha tramandato
un’idea rigida del corpo, come una “prigione della nostra anima”, un “sacco di
sterco” come lo ha definito Teresa D’Avila, un mero “involucro” da abbandonare
quando diventerà inservibile. Questo è stato il pensiero dualistico e gerarchico
occidentale, tramandato anche dalla teologia tradizionale cristiana, che
differisce totalmente dal cuore del cristianesimo (e dalla mistica cristiana)
che si presenta – nonostante tutto – come l’unica, tra le religioni abramitiche,
a dare una grande importanza alla corporeità: “Il Verbo si fece carne” si legge
nel Vangelo secondo Giovanni (1:14). Il cristianesimo onora il corpo come
principio dell’individualità senza cui l’anima non raggiungerebbe mai la sua
pienezza. Come ci ricorda la teologa femminista Teresa Forcades: “Tommaso
d’Aquino ha affermato che non possiamo essere “persone” senza il corpo. La sola
anima non costituisce una persona. L’amore tra esseri umani non può esistere
senza il corpo, perché l’essere umano non può esistere senza di esso. C’è un
corpo terreno e un corpo celeste, un corpo fisico e un corpo spirituale. Ma
rimane sempre il bisogno di avere un corpo come principio che personalizza la
nostra identità.” – ed aggiungo io, la nostra unicità, la nostra diversità. Il
cristianesimo parla dell’incarnazione di Gesù Cristo e di “resurrezione della
carne” nello stesso modo in cui ha posto fine a qualunque iconoclastia, facendo
fiorire l’incommensurabile arte nei suoi luoghi di culto fatta di statue
carnali, corpi formosi, affreschi di angeli nudi, quadri di corpi nudi eleganti
vestiti solo di veli, per non parlare dei corpi straziati e martoriati come San
Sebastiano Martire sanguinante attraversato da frecce e Santa Giulia legata ad
un palo mentre una forca le raspa il seno. L’arte cristiana, pur essendo in
balia contrastante tra la teologia rigorista e il messaggio cristiano, ha
esaltato il corpo sia nella sua bellezza sia nella sua crudezza.
Nonostante ciò, la visione patriarcale è quella che ha continuato a vigere nella
cristianità come nel capitalismo dei consumi di oggi dove utilitarismo,
efficientismo ed apparenza vanno di pari passo con una cultura della
competizione, della prestazione, della mercificazione e dello scarto.
Come direbbe Papa Francesco, la “cultura dello scarto” è una “cultura della
morte”. Ciò che non serve viene scartato, a meno che lo “scartato” si
adegui/rispetti/rispecchi precisi canoni e può quindi tornare utile.
Nella visione contemporanea, il corpo è ridotto a merce, oggetto di desiderio,
desiderabile e commercializzabile, utilizzabile e usufruibile, discriminato e
controllato. Il corpo deve essere prestante secondo precisi canoni/convenzioni
di bellezza: esaltato quando “giovane”, scartato quando “vecchio” e recuperabile
quando può ancora essere funzionale all’industria dell’immagine, a costo di
essere medicalizzato e ritoccato.
Nel 2023 è uscito il film Barbie, con protagonista Margot Robbie. Un “film in
rosa” che ha incassato cifre astronomiche cercando di “combattere i pregiudizi
sulle donne”, venendo addirittura definito assurdamente “femminista” e rivolto
all’empowerment femminile. Nulla di più falso e intriso di purplewashing. Come
ha dichiarato giustamente la comica Valentina Persia: “Barbie è un fake,
un’illusione ottica, una menzogna. La prima che ha fatto bodyshaming a tutte
noi, facendoci sentire inadeguate, grasse, povere e poco bionde…. Tutta
apparenza e ostentazione, ma guadagnati come? Chiedetelo a Ken che nel
frattempo è sparito perché la signorina in questione gli ha fottuto tutto per
fare la bella vita…” – afferma Persia sollevando una polemica – “Fate una
bambola più vicina alle donne vere, quelle che si fanno il mazzo tutto il
giorno, quelle donne che sorridono nonostante le chiappe e le tette cadenti,
quelle donne che sanno essere donne nonostante siano nate in un corpo maschile,
quelle donne che scappano spesso proprio da quel Ken che a differenza tua,
invece di donare ville, roulotte o macchine rosa, picchia e picchia forte…
Spostati biondina che siamo un esercito!” – concludeva la Persia. Interessante
che a dire queste parole di estrema verità sia stata proprio la Persia che, non
accettandosi fisicamente per come era, ha fatto ricorso alla chirurgia estetica.
Il rincorrere le aspettative di questi canoni, nella nostra società attuale, ha
preso di mira tutti, uomini e donne. Se Barbie ha fatto danni, ora è Ken a
infliggere l’ennesima ansia da prestazione: sempre più ragazzi sono ossessionati
dal mito del corpo palestrato, dalla pesistica, dal cross-fit, dal mito del
virilismo, dal corpo apparentemente forte e muscoloso, ma in realtà reso tale
solo dal gonfiore dato dalla ritenzione di liquidi e dall’assunzione
spropositata di creatina in barba a qualunque attenzione per la propria salute.
Anche se questo è un fenomeno in drastico aumento tra gli uomini, ad essere
presi di mira sono la vecchiaia e il corpo delle donne attraverso la tossicità
di tre strumenti: il photoshop, che ritocca o altera un’immagine di una persona
espropriandola delle sue caratteristiche reali; l’intelligenza artificiale,
vittima di bias cognitivi legati agli stessi stereotipi ageisti e di genere,
oltre che alle norme/convenzioni e canoni di bellezza di cui noi stessi siamo
vittima; e la chirurgia estetica, che alimenta un’industria dell’apparenza sulla
pelle di migliaia di ragazze, adulte ed anziane, medicalizzandone e
colonizzandone il corpo con sostanze chimiche e protesi artificiali per
rincorrere canoni desiderabili e irraggiungibili su modello pubblicitario, ma
funzionali alla norma vigente.
Il grande psicanalista e filosofo argentino Miguel Benasayag, in Funzionare o
esistere?, parla del concetto di plasticità: il vivente deve trasformarsi in un
senza-forma iperplastico che si lascia plasmare, contro ogni forma di pensiero
complesso. Nella “cultura dello scarto” gli anziani sono considerati “vecchi”,
fuori dal ciclo produttivo, di sviluppo e di consumo e – per questo motivo –
“inutili”, “senza funzione”, ovvero che non possono più funzionare. Lo stesso
subiscono le donne a causa delle gravi ed ataviche connotazioni di genere dei
canoni di bellezza, stratificati nella nostra cultura e funzionali al desiderio
maschile: fino a quando sono giovani, belle, formose, fertili vengono
considerate prestanti e utili; ma quando l’età avanza, arrivano la menopausa e
le rughe, il corpo subisce degli sbalzi ormonali, ecco che la donna viene
considerata non funzionale ad un sistema che – nutrendosi di maschilismo
interiorizzato – rincorre il desiderio maschile.
In una società consumistica, come la nostra, che ti obbliga ad inseguire questo
flusso senza fine, le persone si sentono spinte ad inseguire il mito dell’eterna
giovinezza, per essere utili, e dell’eterna bellezza, per essere prestanti e
desiderabili.
È la desacralizzazione dei corpi, come la chiamava Gandhi: il proprio corpo non
è più un’entità che unisce spirito e fisico, un mezzo per esprimere i propri
principi e per influenzare gli altri, o uno strumento di lotta politica e di
resistenza, ma bensì un’immagine tra le altre che spesso viene trasformata
plasticamente per compiacere qualcosa di esterno, in funzione degli altri, per
trovare una falsa accettazione di Sé nella tendenza perversa di questa società
post-moderna o ipermoderna.
Nel marzo 2025, parlando del suo libro Il corpo gioia di Dio (Gabrielli editori)
, in una interessantissima intervista di Ritanna Armeni per L’Osservatore Romano
contenuta nell’ inserto Donne Chiesa Mondo, Teresa Forcades affermava:
“Nella nostra cultura tardo capitalistica esiste lo sfruttamento e la
mercificazione del corpo. Ragazze sempre più giovani (e anche ragazzi) vengono
sessualizzati e sottoposti a standard di bellezza irrealistici e in costante
mutamento.
L’età di chi si ammala di anoressia si è abbassata e la percentuale dei casi è
aumentata. La chirurgia estetica è diventata comune e viene applicata alle parti
più intime del corpo. C’è tanto da criticare nella nostra cultura per quanto
riguarda il modo in cui tratta il corpo. (…)
È l’ineludibile e irrisolvibile contraddizione del patriarcato: le donne sono
viste come oggetto di desiderio (sono pure, ispirano, curano, guariscono) e al
tempo stesso come inferiori (son malvage, bisognose di guida e di controllo,
inaffidabili). È impossibile essere entrambe le cose. Il corpo delle donne deve
essere “perfetto” secondo standard di bellezza sempre più irrealistici e deve
essere controllato attraverso la violenza psicologica e fisica.”
Spesso, attraverso i canoni di bellezza imposti dal mercato, dalla pubblicità e
dalle illusorie manie di perfezione, assistiamo a una prepotente
medicalizzazione dei corpi attraverso i più vari rami della chirurgia estetica
che, in quanto frutto dei canoni propri delle società patriarcali, si trovano ad
avere una forte connotazione di genere che vede nelle donne il bersaglio
principale, il consumatore da conquistare fino ad arrivare a interventi
chirurgici come la labioplastica, l’intervento di chirurgia estetica che
consiste nel taglio delle piccole labbra della vulva per renderle uguali. È così
che la medicalizzazione del corpo femminile diventa il braccio armato del nuovo
capitalismo cognitivo fondato su omologazione, perfezione, competizione per
l’immagine e il conformismo.
Questa mentalità maniacale per la perfezione sta mettendo in serio pericolo anni
e anni di conquiste femministe, oltre che la cultura della cura e
dell’allattamento nelle giovani ragazze e madri. Purtroppo oggi, l’esterofilia
americana dei “corpi perfetti” ha fatto dell’allattamento non più una conquista
in nome dei diritti delle donne, dei bambini e della salute di entrambi, ma
bensì un qualcosa di “obsoleto”, sostituibile con le nuove tecnologie e con i
latti artificiali. Negli USA il seno è oggetto primariamente sessuale, a causa
dell’uso distorto e sessualizzato che ne fanno l’industria cinematografica,
l’industria pornografica e la pubblicità televisiva, intrise di eterosessismo.
Spesso ciò porta le donne a non ricorrere all’allattamento naturale proprio per
rincorrere i canoni di bellezza introiettati dalla società patriarcale secondo
cui i loro corpi devono essere belli, perfetti, proporzionati ma soprattutto
sessualizzati come nelle sfilate di moda e nella pubblicità. L’arrivo di un
bambino e delle sue necessità vengono visti come un fenomeno di degradazione del
seno: visione influenzata anche dall’atteggiamento dei partner che
disincentivano le donne all’allattamento per motivi puramente estetici. La donna
che allatta deve negoziare continuamente fra un ruolo sessuale e un ruolo
materno, generando tensione, stress, difficoltà e ostacolo all’allattamento.
Questo, a lungo andare porta culturalmente all’abbandono dell’allattamento, alla
perdita della cultura della cura e a trovare la soluzione più semplice: il
ricorso ai latti artificiali che fanno gola all’industria.
Sicuramente la televisione, la pubblicità, l’industria cinematografica, il
capitalismo cognitivo[1] hanno influito molto – dagli anni del riflusso in poi –
a consolidare questi canoni tossici e un ricorso sempre più massivo alla
chirurgia estetica. Attrici di successo, donne dello spettacolo, cantanti,
showgirl, modelle, pornostar, ballerine, veline sono state rispettivamente – su
modello di Hollywood – le prime a ricorrere alla chirurgia estetica con
modificazioni sostanziali del viso, degli zigomi, delle labbra, delle gambe, dei
glutei, del seno anche con mastoplastica additiva, dando inizio ad un effetto
domino che oggi sembra inarrestabile soprattutto tra le giovani generazioni di
ragazze. Ed ecco la dilagante moda della liposuzione per non parlare del filler
in bellissime ragazze giovanissime, delle “labbra a canotto”, del botox, dei
precocissimi “nasi da fata” in adolescenti e della ormai decennale guerra alle
rughe inaugurata con botulino, acido ialuronico e lifting. Un’epidemia di
non-accettazione e alienazione tra le donne, che non riescono ad essere loro
stesse a causa delle forti pressioni delle convenzioni sociali, di mercato, e
dei canoni tossici di bellezza.
«Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. Le ho pagate tutte
care. C’ho messo una vita a farmele!» – è la celebre frase che la grande
attrice Anna Magnani disse al suo truccatore parecchi anni fa, quasi ad
ironizzare sulla moda dilagante di fermare il tempo, partendo dal trucco fino ad
arrivare a ritocchini o interventi chirurgici.
Il concetto di bellezza è associato, nell’immaginario comune, alla giovane età e
a una pelle liscia, elastica e luminosa, ma anche il viso di una persona matura
esprime bellezza disarmante: la pelle e le rughe sanno raccontare la nostra
storia e la nostra evoluzione, che passa attraverso esperienze diverse, disagi,
gioie, dolori, lotte quotidiane e successi. Credo che nessuno possa smentire il
fascino della cicatrice sul viso di Paola Turci. Come non definire tutto questo,
bellezza?
Anna Magnani più di mezzo secolo fa parlava di bodypositive quando ancora
nessuno ne conosceva il significato. Un’estetica, la sua, basata sulla
trasformazione dell’unicità in punto di forza, meravigliosamente descritta dalle
sue stesse parole: «Ce metti una vita intera per piacerti, e poi, arrivi alla
fine e te rendi conto che te piaci. Che te piaci perché sei tu, e perché per
piacerti c’hai messo na vita intera: la tua. Ce metti una vita intera per
accorgerti che a chi dovevi piacè, sei piaciuta… E a chi no, mejo così. Ce metti
na vita per contà i difetti e riderce sopra, perché so belli, perché so i
tuoi. Perché senza tutti quei difetti, e chi saresti? Nessuno. Quante volte me
sò guardata allo specchio e me so vista brutta, terrificante. Co sto nasone, co
sti zigomi e tutto il resto. E quando la gente me diceva pe strada “bella Annì!
Anvedi quanto sei bona!” io nun capivo e tra me e me pensavo “bella de che?”.
Eppure, dopo tanti anni li ho capiti. C’ho messo na vita intera per piacermi. E
adesso, quando me sento dì “bella Annì, quanto sei bona!”, ce rido sopra come na
matta e lo dico forte, senza vergognarmi, ad alta voce “Anvedi a sto cecato!”».
Sulla stessa lunghezza d’onda la grandissima attrice statunitense Jamie Lee
Curtis, 67 anni, vincitrice del premio alla miglior attrice non protagonista
per Everything Everywhere All at Once, che in una recente intervista a The
Guardian ha dichiarato: «mi sto auto-pensionando da 30 anni. Mi sto preparando a
uscire di scena, in modo da non dover soffrire come ha fatto la mia famiglia.
Voglio lasciare la festa prima di non essere più invitata». L’attrice ha avuto
infatti la sua serie di ostacoli da affrontare sulla strada verso la fama fin
dal suo esordio nel 1978 in Halloween, ma il colpo più duro è
arrivato dall’ageismo di Hollywood quando ha assistito al declino della carriera
dei suoi celebri genitori, gli attori Tony Curtis e Janet Leigh, in tarda età, a
causa del fatto che Hollywood dà valore alla giovinezza sopra ogni altra cosa.
«Ho visto i miei genitori perdere proprio ciò che ha dato loro fama, vita e
sostentamento, quando a una certa età il settore li ha rifiutati» – dice Curtis
a The Guardian – «Li ho visti raggiungere un successo incredibile per poi
vederlo lentamente svanire fino a scomparire. E questo è molto doloroso».
Proprio per questo Curtis non è disposta a rimanere in gioco ricorrendo alla
chirurgia estetica. La star ha applaudito pubblicamente la famosa decisione
di Pamela Anderson di ridurre il trucco nel 2023, proclamando via Instagram che
«La rivoluzione della bellezza naturale è ufficialmente iniziata!». Curtis
afferma di «credere che abbiamo cancellato una o due generazioni di aspetto
umano naturale. L’idea che si possa alterare il proprio aspetto attraverso
sostanze chimiche, interventi chirurgici, filler, sta sfigurando generazioni di
persone, soprattutto donne». Com’è noto, la star ha accettato orgogliosamente i
suoi capelli grigi e si è fatta fotografare senza indumenti intimi modellanti o
ritocchi, due mosse che hanno aiutato le donne a capire che gli ideali da red
carpet sono irraggiungibili come obiettivi quotidiani.
La consapevolezza e la sicurezza di sé espressa, purtroppo non rispecchia quella
delle nuove generazioni che – dopo aver cavalcato per un breve periodo l’onda
del bodypositive – sembrano oggi non riuscire a sfondare il muro delle
convenzioni, scendendo a compromessi ed aderendo passivamente a canoni vecchi
per paura di non essere accettati e di precludersi a varie possibilità anche
lavorative e di carriera.
Ciò che mi domando è se veramente c’è consapevolezza di quello che significa
sfigurarsi il volto per opportunismo, o perché il mercato lo richiede, o perché
il settore lavorativo lo richiede, o perché la convenzione sociale lo richiede,
o perché il partner lo richiede, o perché la paura di invecchiare lo richiede, o
perché le manie di perfezione lo richiedono. La domanda che sorge è: se non ci
fossero tutte queste richieste esterne, voi come vi vorreste? Vi vorreste come
siete o vorreste mostrare ciò che non siete?
Mi domando cosa direbbe il grande filosofo Emmanuel Levinas difronte all’attuale
modificazione sistematica del “volto”: lui che sul “volto”, inteso come “nudità
dell’anima”, ha fondato tutta la sua teoria dell’etica della società. L’essere
umano, come lo chiamavano i greci, è sia θάνατον (mortale), ma anche πρόσωπον,
il “volto che ho di fronte”: l’essere umano che in relazione con gli esseri
umani si riconosce tale. Per Levinas è nel volto che abbiamo di fronte che è
racchiuso il segreto supremo della vita e che mai riusciremo ad afferrare per
intero. Mi domando dunque oggi quale impatto possa avere la modificazione del
viso. Quanto è difficile “il faccia a faccia con l’altro”, in un mondo che
presenta non più “volti”, ma “maschere” (altro significato negativo di πρόσωπον)
ricostruite omologate, sformate e trapiantate in un corpo. La domanda è chi
abbiamo di fronte? Cosa nascondono queste maschere? Quale immensa fragilità e
vulnerabilità abbiamo di fronte? Quale enorme smarrimento, confusione e perdita
del Sé abbiamo di fronte in un mondo nichilistico che punta a somigliare al viso
piallato di un avatar digitale piuttosto che ambire, come direbbero gli indù,
alla condizione di avatara[2] reale?
La paura della vecchiaia e il voler essere ciò che non si è, aspirando a modelli
esterni, è una caratteristica assolutamente occidentale che
l’occidentalizzazione ha diffuso nel mondo.
Come direbbe Benasayag, “la nostra è la prima società che non sa cosa farsene
del negativo. Le società ‘non moderne’, non occidentali, incorporano il negativo
(inteso in senso generale, cioè la morte, la malattia, la tristezza, in una
parola: la perdita) in modo organico, come qualcosa che fa parte del tutto.” In
Occidente reprimiamo il “negativo” perchè lo definiamo tale e non lo concepiamo
come parte integrante dei meccanismi di autoregolazione del mondo e della vita.
Ecco dunque che ci fa paura la vecchiaia e il fatto di non essere considerati in
base a fattori esterni esattamente come abbiamo paura della morte perché non
accettiamo la caducità della vita. Concepiamo cristianamente e scientificamente
il tempo come una linea retta infinita, un presente eterno, vivendo come se
alcune cose non debbano mai cambiare, non debbano mai finire, per scombussolare
la nostra comfort-zone mentale.
“L’uomo, nella sua ricerca di gioia e di felicità, fugge dal proprio Essere, dal
proprio Sè, che è la vera fonte di ogni gioia. Si considera molto brutto e
noioso perché non è in grado di stabilire un rapporto intimo col proprio Essere.
L’uomo cerca la gioia nel denaro, nelle proprietà materiali, nel potere,
nell’amore egoista ed infine nella religione, che ugualmente lo attira al di
fuori di se. Il problema è: che cosa si deve fare per interiorizzare la propria
attenzione? Questo Essere interiore che è la nostra consapevolezza è energia.” –
disse Shri Mataji Nirmala Devi in un suo celebre discorso sul Sahaja Yoga.
La medicalizzazione del corpo, il nostro cambiamento fenomenologico, la
chirurgia estetica, il rincorrere i modelli di perfezioni irreali e
irraggiungibili, la repressione della vecchiaia e la cancellazione del volto
nascono dall’alienazione e dalla non-accettazione di Sè perchè non siamo
consapevoli della cosa più naturale di tutte: la caducità della vita.
Siamo “volti”; siamo chi siamo; siamo autentici e non copie; siamo coloro che si
guardano in faccia e si vedono per quello che sono; siamo il dettaglio che ci
contraddistingue. Spesso ci comportiamo da “maschere” per nasconderci, ma non
lasciamo che un parte del “negativo” ci totalizzi. Non siamo “maschere” perchè
per ogni cosa che facciamo “ci mettiamo la faccia”.
Altre info:
Lorenzo Poli, Guerra al latte materno: tra esterofilia, industria alimentare e
medicalizzazione (pag 60)
https://www.blog-lavoroesalute.org/wp-content/uploads/2023/04/lavoroesalute4aprile2023_lastlast.pdf
Francesca Rigotti, De senectute, Giulio Einaudi Editore, 2018
Maria Rita Parsi, Noi siamo bellissimi. Elogio della vecchiaia adolescente,
Mondadori novembre 2023
Paolo Mantegazza, Elogio della vecchiaia, Angelo Pontecorboli Editore, luglio
2017
[1] Il capitalismo cognitivo è un concetto che descrive un’evoluzione del
capitalismo in cui la produzione di conoscenza e le capacità cognitive diventano
elementi centrali per la creazione di valore e l’accumulazione di capitale. In
questo contesto, il lavoro non è più limitato alle attività manuali o
industriali, ma si estende alla sfera cognitiva, includendo la produzione di
idee, informazioni, e competenze.
[2] Nell’induismo, un avatara (in sanscrito) è la discesa di una divinità, in
particolare Vishnu o Shiva, sulla Terra in forma fisica, per ristabilire
l’ordine cosmico (dharma) e aiutare l’umanità. Gli avatara sono considerati
manifestazioni divine che appaiono quando il male minaccia di prevalere sul
bene.
Lorenzo Poli