Perché quanto accaduto alla “famiglia nel bosco” riguarda tutti noi
SU AUTODETERMINAZIONE, COLONIALISMO E FEMMINILE. CI SONO POCHE CERTEZZE MA TANTI
STRAORDINARI SPUNTI DI RIFLESSIONE IN QUESTO INTERVENTO DI ELISA LELLO
Cascina Santa Brera di San Giuliano Milanese: qui da diversi anni la cooperativa
Praticare il futuro promuove non singole giornate ma veri percorsi per le scuole
pubbliche e campi vacanza di educazione ambientale e alla cittadinanza globale
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Molti, a partire dalla vicenda che ha coinvolto la famiglia nei boschi di
Palmoli, si sono concentrati sui dettagli emersi dalle carte processuali. La mia
intenzione è invece di sfumarli per collocare la questione in un quadro più
ampio, che ci aiuti a capire come mai questi fatti così tanto parlano di noi
tutte/i da aver suscitato reazioni così forti e diffuse. Non pretendo certo di
fornire interpretazioni esaustive, ma proverò a fare emergere qualcosa di cui,
mi pare, sia stato detto assai poco finora.
Da una parte un’amplissima indignazione popolare, sfociata in alcune petizioni e
nell’indizione di una manifestazione di protesta, contro una decisione avvertita
come sproporzionata, violenta, di grave impatto sugli equilibri familiari e
soprattutto su quei bambini. Dall’altra una levata di scudi che ha visto come
protagoniste diverse componenti della sinistra, per una volta in accordo fra
loro, e, come invece accade regolarmente, in netta contrapposizione con la
reazione popolare. I temi sollevati da una parte della sinistra sono quelli
della privatizzazione dell’infanzia, del rifiuto “neoliberale” della scuola
pubblica, dell’individualismo egoista, della sfiducia (immaginata come
patologica) verso le istituzioni, dei genitori che pretendono di disporre dei
bambini come fossero loro proprietà; fino agli immancabili dileggi contro le
fantasie a sfondo New Age che corredano la vicenda di cronaca.
Io credo, invece, che altri siano i processi di cambiamento, che coinvolgono
tutti noi, di cui percepiamo questa vicenda come l’epitome; ed è questo, forse,
a rendercene gli esiti così visceralmente indigeribili, intollerabili. Credo che
in molti, in questa vicenda, abbiano colto l’ennesimo segnale di margini che si
ripiegano su se stessi per restringere ancora di più le possibilità di
autodeterminarci, di vivere in un qualche modo che si discosti dalla norma, di
scartare di lato; per essere invece incanalati dentro quella strada segnata che
più si rivela assurda, invivibile, asfissiante, più pretende di imporsi come
unica opzione possibile.
Quanto più facile era, anche solo venti o trent’anni fa, viaggiare in autostop,
o piantare una o più tende e vivere momenti di convivialità non mercificati
godendosi liberamente il mare, o i boschi e la montagna? Ricordo racconti epici
di un intero paese che si spostava in quella che oggi è una celebre spiaggia per
turisti, in Sardegna, per settimane, con tanto di pecore (vive) al seguito per i
banchetti serali. Ora quasi non ci stupiamo più che qualcuno ci mandi via mentre
siamo seduti a due metri dal bagnasciuga a bere una birra con un amico. Qualcuno
forse arriva anche a pensare che in fondo sia meglio così, “per la nostra
sicurezza”.
Quanto era più semplice e lecito cercare interpretazioni dietro alla malattia
che non fossero costrette nella gabbia dell’insensatezza biochimica o genetica,
e quindi praticare percorsi di guarigione dove il corpo non veniva scisso dal
vissuto individuale e collettivo? Quei percorsi, insomma, che oggi in blocco e
immediatamente vengono screditati come ignoranza e creduloneria, e guai a chi si
rende colpevole di chiedersi se magari c’è qualcosa che le nostre lenti
biomediche non ci consentono di vedere. Perché noi – noi occidentali, razionali,
scientifici… – e solo noi, tutto sappiamo (e si vedono i risultati… Ma su
questo, torno in chiusura).
Ma di questi tempi assai recenti sono molte le storie che ci parlano di veri e
propri attacchi ad ogni genere di autonomia, di un restringersi incessante dei
margini di scelta su come e dove vivere, coltivare, lavorare, partorire, curare,
educare, apprendere1. Chi vive nelle “aree rurali” o interne sa quanto è
diventato difficile decidere di rimanervi, stretti tra desertificazione dei
servizi, trasformazione dei territori – ancor più se montani – in parchi
divertimento per turisti (magari anche naturalistici), o loro conversione in
zone di sacrificio green, per fare posto a mega “parchi” eolici o fotovoltaici.
Ma poi, basta pensare a tutti i contadini e allevatori che ancora si ostinano a
produrre cibo in maniera davvero ecologica; eppure ogni giorno solerti
funzionari pretendono di applicare alle loro aziende, spesso di dimensioni
familiari, le stesse regole che valgono per l’agroindustria, con il risultato di
sotterrarli di multe e richieste burocratiche inconcepibili, obbligandoli così
ad entrare in percorsi di indebitamento necessari perché tutto sia in regola: e
che condurranno assai efficacemente all’obiettivo della morte dell’agricoltura
contadina, e con essa di ogni possibilità residua di autonomia e
autodeterminazione (a tutto ed esclusivo vantaggio delle multinazionali
dell’agrochimica, della manipolazione biotecnologica e del digitale), proprio
nell’ambito che prima di ogni altro risponde ad un nostro bisogno primario2.
La rabbia verso istituzioni che usano il pugno di ferro per punire una famiglia
che vive fuori dagli schemi ordinari, pure senza segni di illegalità, disagio,
violenza o infelicità, e anzi con evidenti segnali di attenzione, di tempo
restituito alle proprie scelte, di ecologia reale; quando quelle stesse
istituzioni non vedono, o fingono di non vedere, il disagio delle infanzie
rubate dagli schermi, o il dolore dei bambini e delle bambine che vivono in
famiglie la cui serenità è stata portata via dalle condizioni precarie,
oppresse, del lavoro dei genitori: questo, credo, un primo punto importante,
alla base, giustamente, della reazione popolare. La sensazione sempre più chiara
di un restringimento delle nostre capacità immaginative ed esistenziali, a cui
fa seguito la repressione giudiziaria; la consapevolezza che quella decisione
estrema sia un monito per tutti noi, un avvertimento che ci ricorda come gli
spazi di libertà e autodeterminazione siano sempre più ristretti, e che ogni
deviazione non verrà più tollerata.
Ma andrà pur bene la libertà individuale – dicono molti, a sinistra – però i
figli non devono subire le decisioni dei genitori, perché non sono loro
proprietà, e qui saremmo di fronte a un delirio di onnipotenza dei genitori, che
pensano di poter disporre dei figli a proprio piacimento. Eppure, tutti i
genitori “impongono” le proprie scelte educative ai figli, sia quando seguono,
più o meno, la corrente, sia quando se ne discostano. Com’è giusto che sia. La
domanda che dovremmo porci, piuttosto, è per quale ragione solo ai genitori che
si assumono il rischio di scelte controcorrente chiediamo di giustificarle. Le
scelte che non contraddicono la narrazione dominante, anche quando visibilmente
inadeguate, discutibili, o anche pericolose, non sono oggetto di giudizio:
siccome si conformano, è come se questo bastasse a giustificarle3.
Quanto, poi, alla presunta “privatizzazione dell’infanzia” e all’altrettanto
presunta onnipotenza dei genitori, mi pare che siamo di fronte piuttosto al
contrario. Da tempo assistiamo a narrazioni giornalistiche che concorrono a
dipingere genitori inadeguati e incapaci di assolvere il proprio ruolo. Madri e
padri dipinti nientemeno che come “la rovina della scuola”, che offendono
insegnanti ree/i di aver dato un brutto voto al pargolo, o che insultano
allenatori o arbitri colpevoli di non aver riconosciuto l’incredibile talento
del piccolo calciatore. Non dico che simili episodi non possano accadere: dico,
però, che chiunque abbia figli sa quanto la realtà quotidiana sia lontana da – e
opposta a – tale narrazione. Eppure sono sempre fatti come questi ad attirare
l’attenzione di giornali e Tv, contribuendo a consolidare una narrazione
unidirezionale. Narrazione che però, guarda caso, non è per nulla innocente:
perché si presta invece a delegittimare la figura dei genitori, e per questa via
a minare il loro ruolo di ultimo, per quanto fragile, baluardo rispetto alla
possibilità da parte dello Stato – e quindi oggi, sempre più, del mercato – di
disporre di bambini e ragazzi, su un’ampia varietà di questioni sanitarie,
educative etc. Per esempio, prendendo un tema massimamente tabù di cui pure
sarebbe ben ora di pretendere di poter discutere laicamente (e
scientificamente…): ricordate il precedente giuridico della recente sentenza che
ha stabilito la possibilità per i minori almeno a partire dai 16 anni di
vaccinarsi contro il Covid indipendentemente dal consenso dei genitori4 (per non
parlare delle minacce di sottrarre la patria potestà ai genitori con qualche
dubbio sul calendario vaccinale pediatrico introdotto da Lorenzin…)? Come suona
oggi, a fronte delle evidenze scientifiche finalmente davanti agli occhi di
tutte/i sull’opportunità e sul bilancio tra costi e benefici di quelle
profilassi per bambini/e e ragazzi/e?
Ma andiamo avanti. In molti, sempre a sinistra, hanno accusato la famiglia in
questione di essersi rifugiata nell’isolazionismo, senza che i bambini potessero
entrare in contatto con altri modi di vivere, negando loro, quindi, la
possibilità di “scegliere”. Non mi soffermo sull’ovvio, e cioè che si può
socializzare anche al di fuori della scuola statale (come in effetti era il
caso), o sul fatto che percorsi formativi parentali, così come quelli libertari,
alternativi alla scuola statale, sono realtà consolidate e perfettamente
riconosciute sul piano normativo, etc. Provo invece ad avventurarmi su terreni
più difficili, quasi per nulla battuti finora; su cui non ho risposte, eppure si
dovrà pure iniziare a parlarne.
Certo, sarebbe bello poter conciliare: poter crescere i figli facendo l’orto
insieme, e intanto mandarli alla scuola pubblica, così che possano entrare in
contatto con diversi modi di stare al mondo: ma è davvero possibile? È possibile
appassionarli alla cura di un orto familiare, o insegnare loro ad allevare le
api e smielare, nel momento in cui si mette loro in mano uno smartphone?
Temo che stia diventando sempre più difficile, e non è certo un caso: i
neuroscienziati della Silicon Valley sono al lavoro precisamente per fare sì che
questo non possa avvenire; per fare sì che, nel momento in cui hanno uno
smartphone in mano, la vita là fuori diventi una noiosa dilazione del momento in
cui si potrà finalmente tornare a scrollare video, reels e a controllare
notifiche5. È possibile crescere bimbi felici di assaporare i fagiolini appena
colti dall’orto, quando entrano in contatto col Mac? O quando andando a scuola
si sentiranno diversi, e magari esclusi, perché porteranno nello zaino il frutto
o la crostata al posto della merendina confezionata, e non conosceranno
l’influencer del momento da millemila visualizzazioni? E questo non, ovviamente,
perché il BigMac o lo scrolling compulsivo abbiano qualcosa di oggettivamente
migliore rispetto a imparare ad allevare le api, suonare uno strumento o
annoiarsi ascoltando il vento tra gli alberi. Ma vincono, perché sono più
facili, palatabili, passivizzanti, spossessanti.
A proposito di quest’ultimo aggettivo, “spossessante”, dai richiami chiaramente
e volutamente illichiani: Christian Raimo nei giorni scorsi ha tracciato una
linea di continuità che parte da Ivan Illich per arrivare addirittura a Thatcher
e Reagan, prima di centrare proprio il focolare della famiglia anglo-australiana
nei boschi abruzzesi; il tema è quello della delegittimazione del pubblico da
cui discenderebbe la natura neoliberista di queste “fughe nel privato”. Ebbene:
anziché continuare ad avvolgerci dentro il brandello della scuola pubblica come
in una (logora) copertina di Linus, non sarebbe più utile, per i bambini e le
bambine che la frequentano, vedere come abbiamo lasciato che mercato e digitale
la sfigurassero? Non sarebbe più utile recuperare proprio la ricchissima eredità
di Illich, che avrebbe in questa fase storica trovato “l’ora della sua
leggibilità”6, per capire la potenza devastante, colonizzatrice, uniformante di
certe “tecnologie che spossessano” acriticamente assurte a insostituibili
strumenti didattici?
Leggendo i molti commenti indignati sui diritti presuntamente lesi di questi
bambini, ho spesso pensato che forse sono piuttosto i figli come i miei – quelli
delle famiglie che, ognuna a modo suo, hanno cercato di crescerli con idee,
valori e principi diversi da quelli dominanti senza tuttavia rinunciare a
mandarli (quasi sempre) alla scuola pubblica – quelli che hanno davvero
sofferto, ben più dei bambini della vicenda abruzzese. Perché sono figli presi
in mezzo, tra famiglie che propongono valori ed esperienze (nel nostro caso,
piuttosto vicini a quelli della famiglia diventata famosa: l’orto, i Gruppi di
Acquisto Solidali, le escursioni, l’autoproduzione del cibo, le tendate, i falò,
lo scoutismo, la grande cura per la lettura e la manualità…) e messaggi che
arrivano dai media, dagli schermi ma anche dalla scuola, che vanno in direzione
spesso opposta e inconciliabile7.
Così che il peso di tutta l’inconciliabilità che si è aperta fra questi mondi si
è scaricato proprio sulle esili spalle di bambini e ragazzi, e sulle famiglie.
Mentre i media parlano di genitori inadeguati, io parlerei piuttosto di genitori
lasciati soli in trincea a gestire l’ingestibile quotidianità della prima
generazione di piccoli umani dotati di schermi onnipresenti; e dell’assurdo
tecno-ottimismo imperante, che impedisce di affrontare pubblicamente la
questione, contribuendo così alla solitudine dei genitori8. Parlerei della
fatica immane a fare funzionare quelle maledettissime app che dovrebbero
teoricamente consentire qualche possibilità di controllo e limitazione, sui
tempi e sui contenuti, della navigazione su Internet degli smartphone dei
ragazzi; e che invece costituiscono il principale fattore di inquinamento dei
rapporti familiari. Parlerei dei conflitti quotidiani nati dalla frustrazione
per tutto ciò che prima di rassegnarci a consegnare ai ragazzi uno smartphone
(rassegnazione peraltro resa necessaria proprio dalla scelta di mandarli alla
scuola pubblica) era possibile – leggere insieme o vederli leggere libri per
ore, costruire cose con le mani, chiacchierare, camminare meravigliandosi di una
certa luce che filtra tra gli alberi, annoiarsi… – e ora sempre meno, con la
loro attenzione e il loro tempo vampirizzati dagli schermi. E volendo porre dei
limiti, come pure è necessario fare, il rischio è quello di far aumentare il
valore, ai loro occhi, delle tecnologie e del tempo ad esse dedicato, fino a far
assurgere a supremo desiderio il sogno misero di un accesso illimitato.
E quindi è giusto proteggersi, arrivando anche a pensare a forme di
isolazionismo, che poi non è solitamente individualistico o solitario, ma in
comunità alternative? Non lo so, non ho risposte. So però che dove altri sono
certi di vedere solo un ripiegarsi egoistico e neoliberale io vedo piuttosto la
ricerca di coltivare possibilità altre di vita che devono essere protette
proprio per essere possibili, e poter così diventare esempi concreti,
prefigurativi, e camminabili da altre/i.
Infine, ultima grande accusa che quella parte della sinistra rivolge alla
famiglia in questione e a chi ne prende le difese: l’antistatalismo. Come se gli
apparati giudiziari e repressivi dello Stato fossero sempre un bene in sé; come
se la diffidenza fosse diventata sinonimo di patologia, anziché di sana
prudenza. Pensare che, con buona pace di chi vagheggia su Stati contemporanei
intrinsecamente buoni, e forse addirittura socialisti, proprio Marx parlava
dello Stato come comitato d’affari della borghesia: e non so cos’altro dovesse
accadere, in questi ultimi 170 anni, per fare di quella diagnosi una delle più
azzeccate, confermate e arricchite di sensi e sfumature dal corso degli eventi.
Piuttosto, il punto che mi preme, in chiusura, sottolineare, è quello del
colonialismo, che del resto è strettamente legato all’affermazione degli Stati
moderni. La sottrazione dei bambini alle famiglie, per farli educare secondo i
canoni della cultura dominante, è in effetti una pratica tipica del
colonialismo9. Però, si obietterà, qui non siamo in presenza di culture altre,
di nativi assoggettati alla dominazione coloniale da parte dell’Occidente.
Invece, credo sarebbe ora di rovesciare precisamente questo ragionamento, per
iniziare a utilizzare gli strumenti che la letteratura decoloniale ha elaborato
per utilizzarli anche “a casa nostra”10. Per utilizzarli anche nella stessa
Europa, che del resto è stata il primo continente oggetto di violenza coloniale,
nella duplice forma di genocidio ed epistemicidio, con l’avvento della modernità
industriale e capitalista e i suoi apparati di dominio, conoscenza e
giustificazione. Mi sembra, anzi, che proprio in questa ostinazione a usare le
cautele decoloniali solo in riferimento a culture altre, lontane, permanga uno
sguardo coloniale: perché “loro”, in fondo, possono essere giustificati se si
ostinano a difendere la legittimità di metodi di cura, epistemologie ed
ontologie differenti da quelli ritenuti superiori, e anzi validi in via
esclusiva, dalla cultura occidentale; perché loro credono, mica sanno. Ma noi,
che invece sappiamo per certo che il mondo è solo quello spiegato dalla nostra
scienza positivista, no! Quindi, qui in Occidente, nessuna deviazione può essere
plausibile, né giustificata…
E invece, quanto colonialismo c’è nello sguardo egemone che dà per scontato che
solo il modo di vivere civilizzato, urbano, industriale, tecnoscientifico sia il
metro di paragone che ci conferisce il diritto insindacabile di certificare
l’arretratezza (il conservatorismo, il populismo…) degli abitanti rurali? Quanto
colonialismo c’è nello screditare l’ingenuità insita nel preteso “idillio
arcadico”, addirittura associandolo necessariamente a cupe simpatie
reazionarie/naziste? O nella rozzezza quasi animalesca con cui viene descritta/o
chi ancora mantiene – nell’attaccamento alla casa familiare, alla terra, ai
propri animali, alla parola data11 – qualche traccia di fedeltà alla cultura
preindustriale? E quanto nell’arroganza di chi dà per scontato che metodi di
cura diversi dalla medicina biochimica – a prescindere dalla loro diversità, e
in alcuni casi dalla storia millenaria che li connota – siano riducibili a
ignoranza, superstizione, irrazionalismo?
Ma sotto questa storia scorre qualcosa di antico, molto antico; che
ciclicamente, carsicamente, riaffiora in superficie. A questo proposito, Paolo
Mottana ha espresso preoccupazione, su un testo pubblicato proprio qui su Comune
– Qualche riflessione sull’homeschooling – a proposito della nostra “famiglia
nei boschi”, per il pericoloso affermarsi di un tratto del femminile legato alla
vituperata “esaltazione acritica” della natura, a metodi naturali di cura, fino
a comprendere ideologie vagamente “spiritualiste ed esoteriche”. Nel rilevare la
centralità dell’elemento “femminile”, credo abbia colto un aspetto cruciale
della questione; tuttavia, la mia valutazione è diametralmente opposta: dove
Mottana vi legge qualcosa da temere in ragione della sua pericolosità, io scorgo
al contrario l’orizzonte a cui guardare per cercare possibili vie di uscita.
In effetti, l’associazione tra il principio femminile e l’elemento boschivo, la
conoscenza delle erbe e dei metodi di cura naturali, risale molto indietro nella
storia della cultura occidentale. Tra i molti che ne trattano mi riferirò, per
solidità della documentazione e delle interpretazioni storiche, alla traccia
proposta da Giorgio Galli, che in un bellissimo libro ricostruisce la storia di
un conflitto che accompagna, appunto, carsicamente, la storia dell’Occidente fin
dalle sue origini, tra culture caratterizzate da un’impronta a prevalenza
femminile o maschile: senza, per questo, farne in alcun modo una questione di
rigida distinzione individuale di genere. Già nella Grecia classica, Galli
sottolinea l’insistenza, nel teatro (una delle istituzioni che segnano e
contribuiscono a consolidare e legittimare, nella sua lettura, la vittoria della
cultura maschile sulle ribellioni femminili), sul ruolo della polis come misura
della condizione civilizzata (dove il polites è solo maschio), in
contrapposizione all’agros, contrassegnato dalla mancanza di misura (ovviamente
secondo il punto di vista della cultura vincitrice) e dall’associazione al
femminile e ai boschi, dove appunto avevano luogo i riti dionisiaci e la
ribellione femminile12.
L’associazione tra femminile e boschivo, rurale, pagus, come contrapposto
all’urbano, riemerge nella storia del Cristianesimo, dove i rituali a forte
presenza femminile, in cui riecheggiava una controcultura più antica dai tratti
libertari e anti-autoritari, pacifici, erotici, estatici, collegati a saperi e
medicine tradizionali e a forme di organizzazione sociale matrilineare, vengono
demonizzati e proibiti, a partire dal III secolo, nelle città, ma molto meno
nelle campagne. È qui, lontano dai centri abitati, che quella cultura
sotterranea viene tollerata dalle gerarchie ecclesiastiche e continua a
sopravvivere almeno fino alle soglie della modernità, quando verrà violentemente
repressa tramite l’Inquisizione13. Nel fuoco dei roghi, insieme alle “streghe”,
sono andati in fumo saperi radicati in un’epistemologia che negava la
distinzione tra spirito e materia: la loro cancellazione violenta è stata
necessaria per l’affermarsi della scienza moderna, che affonda le radici in
un’epistemologia totalmente differente – basata invece su una natura “morta”,
mero ordigno meccanico-matematico, materia inerte da quantificare, controllare,
depredare e sfruttare – senza la quale la modernità industriale e coloniale
sarebbe impensabile14.
Ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi, allora, può forse essere letto in
modo differente. Il momento di culmine della vittoria globale di quella cultura
“maschile” (ripeto, a scanso di equivoci, che stiamo parlando di culture
improntate a un principio, in cui si possono riconoscere persone al di là delle
distinzioni di genere), urbana, tecnoscientifica, è proprio il momento in cui si
svela la sua distruttività; ancor più quando non ammette più alcun riequilibrio,
alcuna mitigazione, dalla sua controparte “naturale”, ormai ridotta a stati
infantili, pre-razionali dell’umanità; e a forme di conoscenza inferiori, non
scientifiche quindi risibili.
È il dispiegarsi incontrastato e colonizzante di quella cultura a condurre alla
devastazione ecologica, nella forma di un riduzionismo tecnoscientifico15 che
apre la porta ad ogni hybris di manipolazione del vivente; e, indissolubilmente,
a dare per scontato che tutto ciò che è tecnicamente possibile debba per ciò
stesso essere perseguito, senza nemmeno darci il tempo per chiederci se sia in
effetti desiderabile – nei campi della razionalizzazione e dell’estrazione di
dati, della digitalizzazione, della sorveglianza “per la nostra sicurezza”, del
dominio sulla natura e sull’umanità reso inedito nella sua portata dalla
tecnoscienza, fino ai deliri del transumanesimo. Eppure, è quella stessa
vittoria assoluta che ci ha propinato esistenze insopportabili perché deprivate
di senso, e deprivate di senso proprio perché obbligate ad arrendersi all’unica
verità “razionale” concessa, che è quella di una disconnessione senza appello
tra microcosmo e macrocosmo, tra i nostri destini individuali e un Cosmo
diventato muto, ridotto a cieca meccanica da sfruttare per accumulare valore; in
cui sono state cancellate le corrispondenze che le culture antiche davano per
scontate tra ciò che accade qui e ciò che avviene altrove: quelle corrispondenze
da cui potevano trarre senso i concetti di limite e proporzionalità. È forse
proprio da qui che occorre partire per capire come mai questi concetti sono
diventati impronunciabili proprio nel momento in cui ne avremmo massimamente
bisogno16.
Così che chiunque cerchi di recuperare saperi e sguardi un po’ più ampi rispetto
al ristrettissimo angolo visuale autorizzato viene invariabilmente tacciato di
ignoranza e ricacciato a forza nel calderone infamante del “New Age”
spiritualista ed esoterico “un tanto al chilo”17. E questo avviene dentro
società che si pretendono talmente razionali da essersi liberate dalla magia,
senza accorgersi di essere loro stesse quelle davvero stregate, visto che il
vuoto lasciato dalla magia è stato preso, molto più che dalla ragione,
dall’incantamento del capitale, dalla fantasmagoria della merce18.
Nel culmine del trionfo di quella cultura “maschile”, urbana, industriale,
imperialista – che è anche momento del disvelamento del suo punto di arrivo, che
non può che coincidere con riarmo, ritorno alla leva obbligatoria e lugubri
marce di guerra – riemergono rigurgiti e resistenze, da parte di quella quota
insospettabile di umanità, di certo non leggibile in termini di classe, restia a
farsi carne da macello capitalista, recalcitrante a ridursi ad addestratrice di
intelligenze artificiali, indisponibile a diventare del tutto dipendente, per
ogni necessità vitale (coltivare, mangiare, orientarsi, riprodursi,
socializzare, flirtare, pensare, scrivere…), da macchine fuori da ogni nostra
possibilità di controllo; nonché perplessa rispetto a quelle proposte teoriche
che arrivano a negare l’esistenza di una natura che non sia già fin dall’inizio
ibridata con esse19.
Non è un caso (né un pericolo; questo sta semmai nella sempiterna paura del
femminile) che in queste resistenze – individuali, comunitarie e territoriali –
riecheggino e riaffiorino il femminile, il naturale, la tensione a tornare verso
forme di sussistenza materiale e a reimpadronirsi di alcune almeno fra le
competenze ad essa necessarie; la critica alla delega, alla digitalizzazione e
alle tecnologie spossessanti; il bisogno di recuperare conoscenze necessarie per
gestire collettivamente la salute in modo più autonomo e consonante con la
ciclicità della vita; e la ricerca di vie e strumenti anche “eretici” per
recuperare senso e connessione. Insieme alla consapevolezza che, se vogliamo
trovare una via di uscita dalla crisi ecologica, sociale, bellica e di senso che
attraversiamo, non possiamo guardare agli alfieri della cultura che ci ha
condotti fino a questo punto, bensì aprirci verso altri mondi e altri modi di
stare al mondo: e non per riaffermare ancora una volta la nostra insostenibile
superiorità, bensì per farci aiutare a ricordare ciò di cui la modernità
industriale ci ha mutilati. Senza però riuscire – non del tutto, per fortuna – a
sopirne la memoria.
(con il cuore rivolto a quella famiglia; e insieme a tutte/i coloro che,
come sanno sentono e possono, recalcitrano e disertano)
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PS ringrazio il caro Luigi Balsamini per la rilettura e gli utilissimi commenti.
Grazie anche ad altri cari amici ed amiche per i confronti da cui sono nati
molti degli spunti dietro a queste note.
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Note
1 Solo nel darci la morte pare che siamo rimasti liberi di autodeterminarci. Il
che, già di per sé, dovrebbe indurci a qualche dubbio. I sospetti poi si
infittiscono quando questa pretesa “autodeterminazione” collima con gli esiti e
gli interessi di questa fase del capitalismo; ma si veda Wolf Bukowski, Così fan
tutte a Salò, parte II. Imporre il piacere, somministrare la morte, reperibile
qui.
2 Sul tema, mi limito a rinviare a L’Atelier Paysan, Liberare la terra dalle
macchine. Manifesto per un’autonomia contadinaealimentare, Libreria Editrice
Fiorentina, 2024; sulle conseguenze dei nuovi OGM, rimando invece a Stefano Mori
e Francesco Paniè, Perché fermare i nuovi OGM (TerraNuova, 2024).
3 Anche in questo caso siamo, come dicono alcuni antropologi, “accecati dal
potere”: sono solo le narrazioni e i comportamenti che sfidano l’ordine
dominante quelli che sottoponiamo a infiniti esami critici, e che saranno così
tenuti a giustificarsi fino al parossismo; mentre quelli che si limitano a
riprodurre il discorso del potere è come se si giustificassero da sé, in modo
autoevidente. Cfr. Pelkmans, M., R. Machold (2011) Conspiracy theories and their
truth trajectories, in «Focaal. Journal of Global and Historical Anthropology»,
59, pp. 66-80.
4 La sentenza: “I minori, dai 16 anni in su, possono decidere in autonomia di
vaccinarsi senza il consenso dei genitori”, la Repubblica, 20/09/2021,
https://bit.ly/3KyRIPU
5 A proposito della “guerra che costringe a trascorrere la maggior parte del
nostro tempo davanti a uno schermo”, segnalo l’imminente uscita (gennaio 2026)
per le Edizioni Malamente della traduzione italiana, con il titolo La guerra
dell’attenzione. Come non perderla, dell’importante libro di Yves Marry e
Florent Souillot originariamente pubblicato da L’Echappée (2022).
6 Come ebbe a scrivere G. Agamben nella prefazione a I. Illich, Genere. Per una
critica storica dell’uguaglianza. Neri Pozza, 2023. Sulle tecnologie
spossessanti mi limito a rinviare a I. Illich, La convivialità, Mondadori, 1974.
7 Dico questo in riferimento alle normative istituzionali che dettano la
direzione dell’istituzione scolastica, e per nulla invece rispetto al lavoro
spesso prezioso e consapevole di molte/i insegnanti verso cui provo enorme stima
e gratitudine.
8 Segnalo a questo proposito l’interessante esperienza avviata dai Patti
digitali di comunità, si veda qui.
9 Peraltro tutt’altro che confinata al passato, anzi di stringente attualità:
Groenlandia, test di cultura generale ai genitori inuit: se impreparati
rischiano di perdere i figli, Tg24, 24/11/2025, https://bit.ly/4iuK31H
10 Ho iniziato a parlarne anche altrove, per esempio qui, insieme ad alcuni
colleghi/e: Bertuzzi, N., Imperatore, P., Lello, E. e Raffini, L. (2024)
Contentious Science? Democracy, Epistemologies, and Social Movements Facingthe
Scientization of Politics. Rassegna Italiana di Sociologia, 4/2024.
11 Cfr. Sorpresa!Comunicato di Tabor, su Nunatak, n.78, 2025.
12 Il riferimento è a Giorgio Galli, Cromwell eAfrodite. Democrazia e culture
alternative, Kaos (1995). Su questi temi c’è naturalmente un’amplissima
bibliografia, con contributi notevoli del femminismo e dell’ecofemminismo. Mi
limito a rimandare ai celebri Calibano e la strega. Le donne, il corpo e
l’accumulazione originaria (di Silvia Federici, Mimesis, 2020), Ecofeminism (di
Vandana Shiva e Maria Mies, Zed Books, 2024) e La morte della natura. Donne,
ecologia e rivoluzione scientifica (di Carolyn Merchant, Editrice Bibliografica,
2022).
13 Solo un paio di riferimenti, oltre a quelli già citati: Luciano Parinetto,
Streghe e politica. Dal Rinascimento italiano a Montaigne, da Bodin a Naudé, IPL
1983; e Gilberto Camilla e Fulvio Gosso, Allucinogeni e Cristianesimo. Evidenze
nell’arte sacra, Oriss, 2019.
14 Sulle correlazioni tra nascita della scienza moderna, “morte della natura” e
cancellazione della cultura e dei saperi collegati al femminile, rinvio a C.
Merchant, op.cit.,e ad Aline Rousselle, Sesso e società alle origini dell’età
cristiana (Laterza, 1985), oltre che a G. Galli, op.cit.
15 Chiarisco che la mia critica in nessun modo vuole condurre ad un rifiuto
dell’epistemologia scientifica; bensì ad evidenziare, anche in questo caso, lo
sguardo colonialista che ci conduce a ritenerla l’unico sistema di conoscenza
superiore e quindi universalmente valido, anziché una delle forme di conoscenza
esistenti ed esistite nel mondo.
16 Mi limito su questi punti a rimandare a David Cayley, Ivan Illich. I fiumi a
Nord del futuro (Quodlibet, 2009) e a Stefania Consigliere, Favole del
reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione (DeriveApprodi, 2020).
17 Con ciò non si intende negare l’esistenza del fenomeno New Age, come deriva
conseguente alla sussunzione di una parte di queste sensibilità e percorsi di
ricerca da parte del mercato, che ne svuota e devia i significati secondo la sua
logica; si vuole invece sottolineare la postura coloniale che relega la totalità
di ciò che esce dai canoni autorizzati dallo sguardo occidentale al New Age
stesso.
18 Cfr. Parinetto, op.cit.
19 Sulle critiche a un ecologismo deprivato del concetto di natura, rimando a La
nostra biblioteca verde. I maestri del pensiero ecologista-naturista (di Renaud
Garcia, Edizioni Malamente, 2025); e a La nature existe: Par-delà règne machinal
et penseurs du vivant (di Michel Blay e Renaud Garcia, L’Echappée, 2025).
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Elisa Lello è ricercatrice presso LaPolis, Laboratorio di Sudi Politici e
Sociali dell’Università di Urbino, ateneo in cui insegna Sociologia politica.
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L'articolo Perché quanto accaduto alla “famiglia nel bosco” riguarda tutti noi
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