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Perché quanto accaduto alla “famiglia nel bosco” riguarda tutti noi
SU AUTODETERMINAZIONE, COLONIALISMO E FEMMINILE. CI SONO POCHE CERTEZZE MA TANTI STRAORDINARI SPUNTI DI RIFLESSIONE IN QUESTO INTERVENTO DI ELISA LELLO Cascina Santa Brera di San Giuliano Milanese: qui da diversi anni la cooperativa Praticare il futuro promuove non singole giornate ma veri percorsi per le scuole pubbliche e campi vacanza di educazione ambientale e alla cittadinanza globale -------------------------------------------------------------------------------- Molti, a partire dalla vicenda che ha coinvolto la famiglia nei boschi di Palmoli, si sono concentrati sui dettagli emersi dalle carte processuali. La mia intenzione è invece di sfumarli per collocare la questione in un quadro più ampio, che ci aiuti a capire come mai questi fatti così tanto parlano di noi tutte/i da aver suscitato reazioni così forti e diffuse. Non pretendo certo di fornire interpretazioni esaustive, ma proverò a fare emergere qualcosa di cui, mi pare, sia stato detto assai poco finora. Da una parte un’amplissima indignazione popolare, sfociata in alcune petizioni e nell’indizione di una manifestazione di protesta, contro una decisione avvertita come sproporzionata, violenta, di grave impatto sugli equilibri familiari e soprattutto su quei bambini. Dall’altra una levata di scudi che ha visto come protagoniste diverse componenti della sinistra, per una volta in accordo fra loro, e, come invece accade regolarmente, in netta contrapposizione con la reazione popolare. I temi sollevati da una parte della sinistra sono quelli della privatizzazione dell’infanzia, del rifiuto “neoliberale” della scuola pubblica, dell’individualismo egoista, della sfiducia (immaginata come patologica) verso le istituzioni, dei genitori che pretendono di disporre dei bambini come fossero loro proprietà; fino agli immancabili dileggi contro le fantasie a sfondo New Age che corredano la vicenda di cronaca. Io credo, invece, che altri siano i processi di cambiamento, che coinvolgono tutti noi, di cui percepiamo questa vicenda come l’epitome; ed è questo, forse, a rendercene gli esiti così visceralmente indigeribili, intollerabili. Credo che in molti, in questa vicenda, abbiano colto l’ennesimo segnale di margini che si ripiegano su se stessi per restringere ancora di più le possibilità di autodeterminarci, di vivere in un qualche modo che si discosti dalla norma, di scartare di lato; per essere invece incanalati dentro quella strada segnata che più si rivela assurda, invivibile, asfissiante, più pretende di imporsi come unica opzione possibile. Quanto più facile era, anche solo venti o trent’anni fa, viaggiare in autostop, o piantare una o più tende e vivere momenti di convivialità non mercificati godendosi liberamente il mare, o i boschi e la montagna? Ricordo racconti epici di un intero paese che si spostava in quella che oggi è una celebre spiaggia per turisti, in Sardegna, per settimane, con tanto di pecore (vive) al seguito per i banchetti serali. Ora quasi non ci stupiamo più che qualcuno ci mandi via mentre siamo seduti a due metri dal bagnasciuga a bere una birra con un amico. Qualcuno forse arriva anche a pensare che in fondo sia meglio così, “per la nostra sicurezza”. Quanto era più semplice e lecito cercare interpretazioni dietro alla malattia che non fossero costrette nella gabbia dell’insensatezza biochimica o genetica, e quindi praticare percorsi di guarigione dove il corpo non veniva scisso dal vissuto individuale e collettivo? Quei percorsi, insomma, che oggi in blocco e immediatamente vengono screditati come ignoranza e creduloneria, e guai a chi si rende colpevole di chiedersi se magari c’è qualcosa che le nostre lenti biomediche non ci consentono di vedere. Perché noi – noi occidentali, razionali, scientifici… – e solo noi, tutto sappiamo (e si vedono i risultati… Ma su questo, torno in chiusura). Ma di questi tempi assai recenti sono molte le storie che ci parlano di veri e propri attacchi ad ogni genere di autonomia, di un restringersi incessante dei margini di scelta su come e dove vivere, coltivare, lavorare, partorire, curare, educare, apprendere1. Chi vive nelle “aree rurali” o interne sa quanto è diventato difficile decidere di rimanervi, stretti tra desertificazione dei servizi, trasformazione dei territori – ancor più se montani – in parchi divertimento per turisti (magari anche naturalistici), o loro conversione in zone di sacrificio green, per fare posto a mega “parchi” eolici o fotovoltaici. Ma poi, basta pensare a tutti i contadini e allevatori che ancora si ostinano a produrre cibo in maniera davvero ecologica; eppure ogni giorno solerti funzionari pretendono di applicare alle loro aziende, spesso di dimensioni familiari, le stesse regole che valgono per l’agroindustria, con il risultato di sotterrarli di multe e richieste burocratiche inconcepibili, obbligandoli così ad entrare in percorsi di indebitamento necessari perché tutto sia in regola: e che condurranno assai efficacemente all’obiettivo della morte dell’agricoltura contadina, e con essa di ogni possibilità residua di autonomia e autodeterminazione (a tutto ed esclusivo vantaggio delle multinazionali dell’agrochimica, della manipolazione biotecnologica e del digitale), proprio nell’ambito che prima di ogni altro risponde ad un nostro bisogno primario2. La rabbia verso istituzioni che usano il pugno di ferro per punire una famiglia che vive fuori dagli schemi ordinari, pure senza segni di illegalità, disagio, violenza o infelicità, e anzi con evidenti segnali di attenzione, di tempo restituito alle proprie scelte, di ecologia reale; quando quelle stesse istituzioni non vedono, o fingono di non vedere, il disagio delle infanzie rubate dagli schermi, o il dolore dei bambini e delle bambine che vivono in famiglie la cui serenità è stata portata via dalle condizioni precarie, oppresse, del lavoro dei genitori: questo, credo, un primo punto importante, alla base, giustamente, della reazione popolare. La sensazione sempre più chiara di un restringimento delle nostre capacità immaginative ed esistenziali, a cui fa seguito la repressione giudiziaria; la consapevolezza che quella decisione estrema sia un monito per tutti noi, un avvertimento che ci ricorda come gli spazi di libertà e autodeterminazione siano sempre più ristretti, e che ogni deviazione non verrà più tollerata. Ma andrà pur bene la libertà individuale – dicono molti, a sinistra – però i figli non devono subire le decisioni dei genitori, perché non sono loro proprietà, e qui saremmo di fronte a un delirio di onnipotenza dei genitori, che pensano di poter disporre dei figli a proprio piacimento. Eppure, tutti i genitori “impongono” le proprie scelte educative ai figli, sia quando seguono, più o meno, la corrente, sia quando se ne discostano. Com’è giusto che sia. La domanda che dovremmo porci, piuttosto, è per quale ragione solo ai genitori che si assumono il rischio di scelte controcorrente chiediamo di giustificarle. Le scelte che non contraddicono la narrazione dominante, anche quando visibilmente inadeguate, discutibili, o anche pericolose, non sono oggetto di giudizio: siccome si conformano, è come se questo bastasse a giustificarle3. Quanto, poi, alla presunta “privatizzazione dell’infanzia” e all’altrettanto presunta onnipotenza dei genitori, mi pare che siamo di fronte piuttosto al contrario. Da tempo assistiamo a narrazioni giornalistiche che concorrono a dipingere genitori inadeguati e incapaci di assolvere il proprio ruolo. Madri e padri dipinti nientemeno che come “la rovina della scuola”, che offendono insegnanti ree/i di aver dato un brutto voto al pargolo, o che insultano allenatori o arbitri colpevoli di non aver riconosciuto l’incredibile talento del piccolo calciatore. Non dico che simili episodi non possano accadere: dico, però, che chiunque abbia figli sa quanto la realtà quotidiana sia lontana da – e opposta a – tale narrazione. Eppure sono sempre fatti come questi ad attirare l’attenzione di giornali e Tv, contribuendo a consolidare una narrazione unidirezionale. Narrazione che però, guarda caso, non è per nulla innocente: perché si presta invece a delegittimare la figura dei genitori, e per questa via a minare il loro ruolo di ultimo, per quanto fragile, baluardo rispetto alla possibilità da parte dello Stato – e quindi oggi, sempre più, del mercato – di disporre di bambini e ragazzi, su un’ampia varietà di questioni sanitarie, educative etc. Per esempio, prendendo un tema massimamente tabù di cui pure sarebbe ben ora di pretendere di poter discutere laicamente (e scientificamente…): ricordate il precedente giuridico della recente sentenza che ha stabilito la possibilità per i minori almeno a partire dai 16 anni di vaccinarsi contro il Covid indipendentemente dal consenso dei genitori4 (per non parlare delle minacce di sottrarre la patria potestà ai genitori con qualche dubbio sul calendario vaccinale pediatrico introdotto da Lorenzin…)? Come suona oggi, a fronte delle evidenze scientifiche finalmente davanti agli occhi di tutte/i sull’opportunità e sul bilancio tra costi e benefici di quelle profilassi per bambini/e e ragazzi/e? Ma andiamo avanti. In molti, sempre a sinistra, hanno accusato la famiglia in questione di essersi rifugiata nell’isolazionismo, senza che i bambini potessero entrare in contatto con altri modi di vivere, negando loro, quindi, la possibilità di “scegliere”. Non mi soffermo sull’ovvio, e cioè che si può socializzare anche al di fuori della scuola statale (come in effetti era il caso), o sul fatto che percorsi formativi parentali, così come quelli libertari, alternativi alla scuola statale, sono realtà consolidate e perfettamente riconosciute sul piano normativo, etc. Provo invece ad avventurarmi su terreni più difficili, quasi per nulla battuti finora; su cui non ho risposte, eppure si dovrà pure iniziare a parlarne. Certo, sarebbe bello poter conciliare: poter crescere i figli facendo l’orto insieme, e intanto mandarli alla scuola pubblica, così che possano entrare in contatto con diversi modi di stare al mondo: ma è davvero possibile? È possibile appassionarli alla cura di un orto familiare, o insegnare loro ad allevare le api e smielare, nel momento in cui si mette loro in mano uno smartphone? Temo che stia diventando sempre più difficile, e non è certo un caso: i neuroscienziati della Silicon Valley sono al lavoro precisamente per fare sì che questo non possa avvenire; per fare sì che, nel momento in cui hanno uno smartphone in mano, la vita là fuori diventi una noiosa dilazione del momento in cui si potrà finalmente tornare a scrollare video, reels e a controllare notifiche5. È possibile crescere bimbi felici di assaporare i fagiolini appena colti dall’orto, quando entrano in contatto col Mac? O quando andando a scuola si sentiranno diversi, e magari esclusi, perché porteranno nello zaino il frutto o la crostata al posto della merendina confezionata, e non conosceranno l’influencer del momento da millemila visualizzazioni? E questo non, ovviamente, perché il BigMac o lo scrolling compulsivo abbiano qualcosa di oggettivamente migliore rispetto a imparare ad allevare le api, suonare uno strumento o annoiarsi ascoltando il vento tra gli alberi. Ma vincono, perché sono più facili, palatabili, passivizzanti, spossessanti. A proposito di quest’ultimo aggettivo, “spossessante”, dai richiami chiaramente e volutamente illichiani: Christian Raimo nei giorni scorsi ha tracciato una linea di continuità che parte da Ivan Illich per arrivare addirittura a Thatcher e Reagan, prima di centrare proprio il focolare della famiglia anglo-australiana nei boschi abruzzesi; il tema è quello della delegittimazione del pubblico da cui discenderebbe la natura neoliberista di queste “fughe nel privato”. Ebbene: anziché continuare ad avvolgerci dentro il brandello della scuola pubblica come in una (logora) copertina di Linus, non sarebbe più utile, per i bambini e le bambine che la frequentano, vedere come abbiamo lasciato che mercato e digitale la sfigurassero? Non sarebbe più utile recuperare proprio la ricchissima eredità di Illich, che avrebbe in questa fase storica trovato “l’ora della sua leggibilità”6, per capire la potenza devastante, colonizzatrice, uniformante di certe “tecnologie che spossessano” acriticamente assurte a insostituibili strumenti didattici? Leggendo i molti commenti indignati sui diritti presuntamente lesi di questi bambini, ho spesso pensato che forse sono piuttosto i figli come i miei – quelli delle famiglie che, ognuna a modo suo, hanno cercato di crescerli con idee, valori e principi diversi da quelli dominanti senza tuttavia rinunciare a mandarli (quasi sempre) alla scuola pubblica – quelli che hanno davvero sofferto, ben più dei bambini della vicenda abruzzese. Perché sono figli presi in mezzo, tra famiglie che propongono valori ed esperienze (nel nostro caso, piuttosto vicini a quelli della famiglia diventata famosa: l’orto, i Gruppi di Acquisto Solidali, le escursioni, l’autoproduzione del cibo, le tendate, i falò, lo scoutismo, la grande cura per la lettura e la manualità…) e messaggi che arrivano dai media, dagli schermi ma anche dalla scuola, che vanno in direzione spesso opposta e inconciliabile7. Così che il peso di tutta l’inconciliabilità che si è aperta fra questi mondi si è scaricato proprio sulle esili spalle di bambini e ragazzi, e sulle famiglie. Mentre i media parlano di genitori inadeguati, io parlerei piuttosto di genitori lasciati soli in trincea a gestire l’ingestibile quotidianità della prima generazione di piccoli umani dotati di schermi onnipresenti; e dell’assurdo tecno-ottimismo imperante, che impedisce di affrontare pubblicamente la questione, contribuendo così alla solitudine dei genitori8. Parlerei della fatica immane a fare funzionare quelle maledettissime app che dovrebbero teoricamente consentire qualche possibilità di controllo e limitazione, sui tempi e sui contenuti, della navigazione su Internet degli smartphone dei ragazzi; e che invece costituiscono il principale fattore di inquinamento dei rapporti familiari. Parlerei dei conflitti quotidiani nati dalla frustrazione per tutto ciò che prima di rassegnarci a consegnare ai ragazzi uno smartphone (rassegnazione peraltro resa necessaria proprio dalla scelta di mandarli alla scuola pubblica) era possibile – leggere insieme o vederli leggere libri per ore, costruire cose con le mani, chiacchierare, camminare meravigliandosi di una certa luce che filtra tra gli alberi, annoiarsi… – e ora sempre meno, con la loro attenzione e il loro tempo vampirizzati dagli schermi. E volendo porre dei limiti, come pure è necessario fare, il rischio è quello di far aumentare il valore, ai loro occhi, delle tecnologie e del tempo ad esse dedicato, fino a far assurgere a supremo desiderio il sogno misero di un accesso illimitato. E quindi è giusto proteggersi, arrivando anche a pensare a forme di isolazionismo, che poi non è solitamente individualistico o solitario, ma in comunità alternative? Non lo so, non ho risposte. So però che dove altri sono certi di vedere solo un ripiegarsi egoistico e neoliberale io vedo piuttosto la ricerca di coltivare possibilità altre di vita che devono essere protette proprio per essere possibili, e poter così diventare esempi concreti, prefigurativi, e camminabili da altre/i. Infine, ultima grande accusa che quella parte della sinistra rivolge alla famiglia in questione e a chi ne prende le difese: l’antistatalismo. Come se gli apparati giudiziari e repressivi dello Stato fossero sempre un bene in sé; come se la diffidenza fosse diventata sinonimo di patologia, anziché di sana prudenza. Pensare che, con buona pace di chi vagheggia su Stati contemporanei intrinsecamente buoni, e forse addirittura socialisti, proprio Marx parlava dello Stato come comitato d’affari della borghesia: e non so cos’altro dovesse accadere, in questi ultimi 170 anni, per fare di quella diagnosi una delle più azzeccate, confermate e arricchite di sensi e sfumature dal corso degli eventi. Piuttosto, il punto che mi preme, in chiusura, sottolineare, è quello del colonialismo, che del resto è strettamente legato all’affermazione degli Stati moderni. La sottrazione dei bambini alle famiglie, per farli educare secondo i canoni della cultura dominante, è in effetti una pratica tipica del colonialismo9. Però, si obietterà, qui non siamo in presenza di culture altre, di nativi assoggettati alla dominazione coloniale da parte dell’Occidente. Invece, credo sarebbe ora di rovesciare precisamente questo ragionamento, per iniziare a utilizzare gli strumenti che la letteratura decoloniale ha elaborato per utilizzarli anche “a casa nostra”10. Per utilizzarli anche nella stessa Europa, che del resto è stata il primo continente oggetto di violenza coloniale, nella duplice forma di genocidio ed epistemicidio, con l’avvento della modernità industriale e capitalista e i suoi apparati di dominio, conoscenza e giustificazione. Mi sembra, anzi, che proprio in questa ostinazione a usare le cautele decoloniali solo in riferimento a culture altre, lontane, permanga uno sguardo coloniale: perché “loro”, in fondo, possono essere giustificati se si ostinano a difendere la legittimità di metodi di cura, epistemologie ed ontologie differenti da quelli ritenuti superiori, e anzi validi in via esclusiva, dalla cultura occidentale; perché loro credono, mica sanno. Ma noi, che invece sappiamo per certo che il mondo è solo quello spiegato dalla nostra scienza positivista, no! Quindi, qui in Occidente, nessuna deviazione può essere plausibile, né giustificata… E invece, quanto colonialismo c’è nello sguardo egemone che dà per scontato che solo il modo di vivere civilizzato, urbano, industriale, tecnoscientifico sia il metro di paragone che ci conferisce il diritto insindacabile di certificare l’arretratezza (il conservatorismo, il populismo…) degli abitanti rurali? Quanto colonialismo c’è nello screditare l’ingenuità insita nel preteso “idillio arcadico”, addirittura associandolo necessariamente a cupe simpatie reazionarie/naziste? O nella rozzezza quasi animalesca con cui viene descritta/o chi ancora mantiene – nell’attaccamento alla casa familiare, alla terra, ai propri animali, alla parola data11 – qualche traccia di fedeltà alla cultura preindustriale? E quanto nell’arroganza di chi dà per scontato che metodi di cura diversi dalla medicina biochimica – a prescindere dalla loro diversità, e in alcuni casi dalla storia millenaria che li connota – siano riducibili a ignoranza, superstizione, irrazionalismo? Ma sotto questa storia scorre qualcosa di antico, molto antico; che ciclicamente, carsicamente, riaffiora in superficie. A questo proposito, Paolo Mottana ha espresso preoccupazione, su un testo pubblicato proprio qui su Comune – Qualche riflessione sull’homeschooling – a proposito della nostra “famiglia nei boschi”, per il pericoloso affermarsi di un tratto del femminile legato alla vituperata “esaltazione acritica” della natura, a metodi naturali di cura, fino a comprendere ideologie vagamente “spiritualiste ed esoteriche”. Nel rilevare la centralità dell’elemento “femminile”, credo abbia colto un aspetto cruciale della questione; tuttavia, la mia valutazione è diametralmente opposta: dove Mottana vi legge qualcosa da temere in ragione della sua pericolosità, io scorgo al contrario l’orizzonte a cui guardare per cercare possibili vie di uscita. In effetti, l’associazione tra il principio femminile e l’elemento boschivo, la conoscenza delle erbe e dei metodi di cura naturali, risale molto indietro nella storia della cultura occidentale. Tra i molti che ne trattano mi riferirò, per solidità della documentazione e delle interpretazioni storiche, alla traccia proposta da Giorgio Galli, che in un bellissimo libro ricostruisce la storia di un conflitto che accompagna, appunto, carsicamente, la storia dell’Occidente fin dalle sue origini, tra culture caratterizzate da un’impronta a prevalenza femminile o maschile: senza, per questo, farne in alcun modo una questione di rigida distinzione individuale di genere. Già nella Grecia classica, Galli sottolinea l’insistenza, nel teatro (una delle istituzioni che segnano e contribuiscono a consolidare e legittimare, nella sua lettura, la vittoria della cultura maschile sulle ribellioni femminili), sul ruolo della polis come misura della condizione civilizzata (dove il polites è solo maschio), in contrapposizione all’agros, contrassegnato dalla mancanza di misura (ovviamente secondo il punto di vista della cultura vincitrice) e dall’associazione al femminile e ai boschi, dove appunto avevano luogo i riti dionisiaci e la ribellione femminile12. L’associazione tra femminile e boschivo, rurale, pagus, come contrapposto all’urbano, riemerge nella storia del Cristianesimo, dove i rituali a forte presenza femminile, in cui riecheggiava una controcultura più antica dai tratti libertari e anti-autoritari, pacifici, erotici, estatici, collegati a saperi e medicine tradizionali e a forme di organizzazione sociale matrilineare, vengono demonizzati e proibiti, a partire dal III secolo, nelle città, ma molto meno nelle campagne. È qui, lontano dai centri abitati, che quella cultura sotterranea viene tollerata dalle gerarchie ecclesiastiche e continua a sopravvivere almeno fino alle soglie della modernità, quando verrà violentemente repressa tramite l’Inquisizione13. Nel fuoco dei roghi, insieme alle “streghe”, sono andati in fumo saperi radicati in un’epistemologia che negava la distinzione tra spirito e materia: la loro cancellazione violenta è stata necessaria per l’affermarsi della scienza moderna, che affonda le radici in un’epistemologia totalmente differente – basata invece su una natura “morta”, mero ordigno meccanico-matematico, materia inerte da quantificare, controllare, depredare e sfruttare – senza la quale la modernità industriale e coloniale sarebbe impensabile14. Ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi, allora, può forse essere letto in modo differente. Il momento di culmine della vittoria globale di quella cultura “maschile” (ripeto, a scanso di equivoci, che stiamo parlando di culture improntate a un principio, in cui si possono riconoscere persone al di là delle distinzioni di genere), urbana, tecnoscientifica, è proprio il momento in cui si svela la sua distruttività; ancor più quando non ammette più alcun riequilibrio, alcuna mitigazione, dalla sua controparte “naturale”, ormai ridotta a stati infantili, pre-razionali dell’umanità; e a forme di conoscenza inferiori, non scientifiche quindi risibili. È il dispiegarsi incontrastato e colonizzante di quella cultura a condurre alla devastazione ecologica, nella forma di un riduzionismo tecnoscientifico15 che apre la porta ad ogni hybris di manipolazione del vivente; e, indissolubilmente, a dare per scontato che tutto ciò che è tecnicamente possibile debba per ciò stesso essere perseguito, senza nemmeno darci il tempo per chiederci se sia in effetti desiderabile – nei campi della razionalizzazione e dell’estrazione di dati, della digitalizzazione, della sorveglianza “per la nostra sicurezza”, del dominio sulla natura e sull’umanità reso inedito nella sua portata dalla tecnoscienza, fino ai deliri del transumanesimo. Eppure, è quella stessa vittoria assoluta che ci ha propinato esistenze insopportabili perché deprivate di senso, e deprivate di senso proprio perché obbligate ad arrendersi all’unica verità “razionale” concessa, che è quella di una disconnessione senza appello tra microcosmo e macrocosmo, tra i nostri destini individuali e un Cosmo diventato muto, ridotto a cieca meccanica da sfruttare per accumulare valore; in cui sono state cancellate le corrispondenze che le culture antiche davano per scontate tra ciò che accade qui e ciò che avviene altrove: quelle corrispondenze da cui potevano trarre senso i concetti di limite e proporzionalità. È forse proprio da qui che occorre partire per capire come mai questi concetti sono diventati impronunciabili proprio nel momento in cui ne avremmo massimamente bisogno16. Così che chiunque cerchi di recuperare saperi e sguardi un po’ più ampi rispetto al ristrettissimo angolo visuale autorizzato viene invariabilmente tacciato di ignoranza e ricacciato a forza nel calderone infamante del “New Age” spiritualista ed esoterico “un tanto al chilo”17. E questo avviene dentro società che si pretendono talmente razionali da essersi liberate dalla magia, senza accorgersi di essere loro stesse quelle davvero stregate, visto che il vuoto lasciato dalla magia è stato preso, molto più che dalla ragione, dall’incantamento del capitale, dalla fantasmagoria della merce18. Nel culmine del trionfo di quella cultura “maschile”, urbana, industriale, imperialista – che è anche momento del disvelamento del suo punto di arrivo, che non può che coincidere con riarmo, ritorno alla leva obbligatoria e lugubri marce di guerra – riemergono rigurgiti e resistenze, da parte di quella quota insospettabile di umanità, di certo non leggibile in termini di classe, restia a farsi carne da macello capitalista, recalcitrante a ridursi ad addestratrice di intelligenze artificiali, indisponibile a diventare del tutto dipendente, per ogni necessità vitale (coltivare, mangiare, orientarsi, riprodursi, socializzare, flirtare, pensare, scrivere…), da macchine fuori da ogni nostra possibilità di controllo; nonché perplessa rispetto a quelle proposte teoriche che arrivano a negare l’esistenza di una natura che non sia già fin dall’inizio ibridata con esse19. Non è un caso (né un pericolo; questo sta semmai nella sempiterna paura del femminile) che in queste resistenze – individuali, comunitarie e territoriali – riecheggino e riaffiorino il femminile, il naturale, la tensione a tornare verso forme di sussistenza materiale e a reimpadronirsi di alcune almeno fra le competenze ad essa necessarie; la critica alla delega, alla digitalizzazione e alle tecnologie spossessanti; il bisogno di recuperare conoscenze necessarie per gestire collettivamente la salute in modo più autonomo e consonante con la ciclicità della vita; e la ricerca di vie e strumenti anche “eretici” per recuperare senso e connessione. Insieme alla consapevolezza che, se vogliamo trovare una via di uscita dalla crisi ecologica, sociale, bellica e di senso che attraversiamo, non possiamo guardare agli alfieri della cultura che ci ha condotti fino a questo punto, bensì aprirci verso altri mondi e altri modi di stare al mondo: e non per riaffermare ancora una volta la nostra insostenibile superiorità, bensì per farci aiutare a ricordare ciò di cui la modernità industriale ci ha mutilati. Senza però riuscire – non del tutto, per fortuna – a sopirne la memoria. (con il cuore rivolto a quella famiglia; e insieme a tutte/i coloro che, come sanno sentono e possono, recalcitrano e disertano) -------------------------------------------------------------------------------- PS ringrazio il caro Luigi Balsamini per la rilettura e gli utilissimi commenti. Grazie anche ad altri cari amici ed amiche per i confronti da cui sono nati molti degli spunti dietro a queste note. -------------------------------------------------------------------------------- Note 1 Solo nel darci la morte pare che siamo rimasti liberi di autodeterminarci. Il che, già di per sé, dovrebbe indurci a qualche dubbio. I sospetti poi si infittiscono quando questa pretesa “autodeterminazione” collima con gli esiti e gli interessi di questa fase del capitalismo; ma si veda Wolf Bukowski, Così fan tutte a Salò, parte II. Imporre il piacere, somministrare la morte, reperibile qui. 2 Sul tema, mi limito a rinviare a L’Atelier Paysan, Liberare la terra dalle macchine. Manifesto per un’autonomia contadinaealimentare, Libreria Editrice Fiorentina, 2024; sulle conseguenze dei nuovi OGM, rimando invece a Stefano Mori e Francesco Paniè, Perché fermare i nuovi OGM (TerraNuova, 2024). 3 Anche in questo caso siamo, come dicono alcuni antropologi, “accecati dal potere”: sono solo le narrazioni e i comportamenti che sfidano l’ordine dominante quelli che sottoponiamo a infiniti esami critici, e che saranno così tenuti a giustificarsi fino al parossismo; mentre quelli che si limitano a riprodurre il discorso del potere è come se si giustificassero da sé, in modo autoevidente. Cfr. Pelkmans, M., R. Machold (2011) Conspiracy theories and their truth trajectories, in «Focaal. Journal of Global and Historical Anthropology», 59, pp. 66-80. 4 La sentenza: “I minori, dai 16 anni in su, possono decidere in autonomia di vaccinarsi senza il consenso dei genitori”, la Repubblica, 20/09/2021, https://bit.ly/3KyRIPU 5 A proposito della “guerra che costringe a trascorrere la maggior parte del nostro tempo davanti a uno schermo”, segnalo l’imminente uscita (gennaio 2026) per le Edizioni Malamente della traduzione italiana, con il titolo La guerra dell’attenzione. Come non perderla, dell’importante libro di Yves Marry e Florent Souillot originariamente pubblicato da L’Echappée (2022). 6 Come ebbe a scrivere G. Agamben nella prefazione a I. Illich, Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza. Neri Pozza, 2023. Sulle tecnologie spossessanti mi limito a rinviare a I. Illich, La convivialità, Mondadori, 1974. 7 Dico questo in riferimento alle normative istituzionali che dettano la direzione dell’istituzione scolastica, e per nulla invece rispetto al lavoro spesso prezioso e consapevole di molte/i insegnanti verso cui provo enorme stima e gratitudine. 8 Segnalo a questo proposito l’interessante esperienza avviata dai Patti digitali di comunità, si veda qui. 9 Peraltro tutt’altro che confinata al passato, anzi di stringente attualità: Groenlandia, test di cultura generale ai genitori inuit: se impreparati rischiano di perdere i figli, Tg24, 24/11/2025, https://bit.ly/4iuK31H 10 Ho iniziato a parlarne anche altrove, per esempio qui, insieme ad alcuni colleghi/e: Bertuzzi, N., Imperatore, P., Lello, E. e Raffini, L. (2024) Contentious Science? Democracy, Epistemologies, and Social Movements Facingthe Scientization of Politics. Rassegna Italiana di Sociologia, 4/2024. 11 Cfr. Sorpresa!Comunicato di Tabor, su Nunatak, n.78, 2025. 12 Il riferimento è a Giorgio Galli, Cromwell eAfrodite. Democrazia e culture alternative, Kaos (1995). Su questi temi c’è naturalmente un’amplissima bibliografia, con contributi notevoli del femminismo e dell’ecofemminismo. Mi limito a rimandare ai celebri Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (di Silvia Federici, Mimesis, 2020), Ecofeminism (di Vandana Shiva e Maria Mies, Zed Books, 2024) e La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica (di Carolyn Merchant, Editrice Bibliografica, 2022). 13 Solo un paio di riferimenti, oltre a quelli già citati: Luciano Parinetto, Streghe e politica. Dal Rinascimento italiano a Montaigne, da Bodin a Naudé, IPL 1983; e Gilberto Camilla e Fulvio Gosso, Allucinogeni e Cristianesimo. Evidenze nell’arte sacra, Oriss, 2019. 14 Sulle correlazioni tra nascita della scienza moderna, “morte della natura” e cancellazione della cultura e dei saperi collegati al femminile, rinvio a C. Merchant, op.cit.,e ad Aline Rousselle, Sesso e società alle origini dell’età cristiana (Laterza, 1985), oltre che a G. Galli, op.cit. 15 Chiarisco che la mia critica in nessun modo vuole condurre ad un rifiuto dell’epistemologia scientifica; bensì ad evidenziare, anche in questo caso, lo sguardo colonialista che ci conduce a ritenerla l’unico sistema di conoscenza superiore e quindi universalmente valido, anziché una delle forme di conoscenza esistenti ed esistite nel mondo. 16 Mi limito su questi punti a rimandare a David Cayley, Ivan Illich. I fiumi a Nord del futuro (Quodlibet, 2009) e a Stefania Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione (DeriveApprodi, 2020). 17 Con ciò non si intende negare l’esistenza del fenomeno New Age, come deriva conseguente alla sussunzione di una parte di queste sensibilità e percorsi di ricerca da parte del mercato, che ne svuota e devia i significati secondo la sua logica; si vuole invece sottolineare la postura coloniale che relega la totalità di ciò che esce dai canoni autorizzati dallo sguardo occidentale al New Age stesso. 18 Cfr. Parinetto, op.cit. 19 Sulle critiche a un ecologismo deprivato del concetto di natura, rimando a La nostra biblioteca verde. I maestri del pensiero ecologista-naturista (di Renaud Garcia, Edizioni Malamente, 2025); e a La nature existe: Par-delà règne machinal et penseurs du vivant (di Michel Blay e Renaud Garcia, L’Echappée, 2025). -------------------------------------------------------------------------------- Elisa Lello è ricercatrice presso LaPolis, Laboratorio di Sudi Politici e Sociali dell’Università di Urbino, ateneo in cui insegna Sociologia politica. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Perché quanto accaduto alla “famiglia nel bosco” riguarda tutti noi proviene da Comune-info.
Autodeterminazione e qualità della vita: a Bassano Bresciano il primo incontro del ciclo “Percorsi di vita e diritti” promosso da Ambito 9 e Ambito 7
Si è aperto ieri, martedì 25 novembre, presso l’Auditorium di Bassano Bresciano, il ciclo di incontri “Percorsi di vita e diritti”, una proposta culturale e territoriale condivisa tra Ambito 9 e Ambito 7 dedicata ai temi dell’autodeterminazione, del diritto di scelta e dei percorsi di vita delle persone con disabilità. Un appuntamento molto partecipato, che ha dato avvio a un percorso che proseguirà fino al 2 dicembre e che già guarda al 2026 con l’obiettivo di creare spazi pubblici di confronto aperti, accessibili e capaci di far dialogare famiglie, operatori e cittadinanza. Ad aprire la serata, il saluto del Sindaco di Bassano Bresciano, Michele Sbaraini, che ha sottolineato l’impegno dell’amministrazione: «Il nostro Comune è molto sensibile al tema della disabilità. Abbiamo accolto con convinzione l’invito dei due Ambiti, certi dell’importanza di promuovere momenti come questo, utili all’intera comunità». Protagoniste dell’incontro tre voci del territorio: Ivana Ferrazzoli (vice presidente – Associazione Insieme), dottoressa Virna Barbieri (responsabile area disabilità – Cooperativa Il Gabbiano) e la dottoressa Roberta Ravelli (Assistente Sociale di Ambito 9). Autodeterminazione: che cosa significa davvero? La prima domanda ha aperto un confronto intenso. «L’autodeterminazione non è un concetto astratto, ma un percorso che si costruisce», ha spiegato la dottoressa Virna Barbieri. «È scelta, ascolto, paura, adultità. È un diritto inalienabile riconosciuto dalle norme e non richiede un livello cognitivo elevato: appartiene a tutti. Per questo dobbiamo creare contesti in cui ogni persona possa scegliere». La dottoressa Roberta Ravelli ha aggiunto il ruolo delle comunità: «Abbiamo un potenziale enorme: istituzioni, cittadini e servizi possono rendere la scelta una possibilità concreta. Il contesto deve adattarsi alla persona, non il contrario. Non parliamo di utenti, parliamo di persone: sembra banale, ma cambia tutto». Ivana Ferrazzoli ha portato lo sguardo della quotidianità: «Autodeterminarsi significa anche decidere quando alzarsi o andare a letto. Spesso le rigidità dei servizi lo impediscono. È una responsabilità che si impara e che coinvolge tutti: famiglie, operatori, comunità. Nessuno è estraneo al tema: l’autodeterminazione riguarda ogni età e ogni fragilità». Dal proteggere al permettere: un passaggio possibile? La seconda domanda ha toccato il nodo più delicato: come permettere senza rinunciare alla tutela. «Il primo passo è culturale», ha ribadito Barbieri. «Proteggere a volte significa proteggere noi stessi dalle nostre paure. Ma il rischio fa parte della libertà. Possiamo creare condizioni di sicurezza, non annullare la possibilità di sperimentare». Per Ravelli, la chiave è il lavoro condiviso: «La solitudine — delle famiglie o degli operatori — spinge verso strade note, più controllabili. Servono luoghi in cui condividere responsabilità e accettare l’errore come parte del percorso». Ferrazzoli ha evidenziato la centralità delle relazioni: «Le relazioni fanno crescere la capacità di scegliere. Come Associazione Insieme, da 30 anni promuoviamo gruppi di auto mutuo aiuto che sono veri laboratori. È lì che si superano barriere, stereotipi e paure reciproche». Il passo più urgente Nella domanda conclusiva, Barbieri ha indicato la priorità: «Serve un linguaggio nuovo, condiviso. La centralità della persona non è uno slogan: è un modo di guardare, di lavorare, di progettare insieme». Carlotta Bragadina, Presidente dell’Assemblea dei Sindaci di Ambito 9, ha voluto sottolineare la portata culturale e politica dell’incontro: «Quando parliamo di autodeterminazione non affrontiamo un tema “di settore”, ma una questione che riguarda la dignità umana nel suo nucleo più profondo. Ogni persona deve poter esercitare il diritto di scegliere la propria vita, e questo richiede comunità capaci di mettersi in discussione, amministrazioni pronte a sostenere percorsi innovativi e servizi che sappiano uscire dai propri confini tradizionali. L’incontro di ieri ha mostrato con chiarezza che la qualità della vita non è un risultato individuale, ma un’opera collettiva: si costruisce insieme, passo dopo passo, assumendo la responsabilità di non lasciare indietro nessuno. Come Assemblea dei Sindaci sosteniamo convintamente questo percorso, perché una comunità che permette a tutti di autodeterminarsi è una comunità più giusta, più forte e più consapevole». Una partecipazione viva e un impegno che continua Molte le domande del pubblico, segno della necessità di affrontare apertamente questi temi. In chiusura, la direttrice di Ambito 9, Claudia Pedercini, ha confermato che il percorso continuerà: «Questa è solo la prima tappa. Nei prossimi mesi porteremo gli incontri in diversi Comuni dell’Ambito, con format diversi e con l’obiettivo di raggiungere sempre più persone. L’autodeterminazione non è un tema per pochi: è un diritto che riguarda tutti». Ufficio Stampa – Ambito 9 Bassa Bresciana Redazione Sebino Franciacorta
Libertà educativa, cura ed autodeterminazione possono salvarci dal vuoto pedagogico della società consumista
“Mi sento totalmente vuoto. È una cosa ingiusta, perché togliere i bambini da un luogo dove c’è felicità, dove la famiglia vive felice, nella natura. Non capisco perché, si sta distruggendo la vita di cinque persone. I bambini hanno sofferto, tolti così velocemente da casa per andare a dormire in un posto che non conoscono”. Sono le prime parole con cui Nathan – il padre dei tre bambini strappati a lui e a sua moglie – commenta il provvedimento in un’intervista di Daniele Cristofani pubblicata oggi sul quotidiano Il Centro (L’intervista integrale è stata trasmessa ieri sera, in due puntate speciali di “Zoom, storie del nostro tempo”, alle 18.50 e alle 23.15, sull’emittente televisiva Rete8). L’ordinanza cautelare del Tribunale dei Minori de L’Aquila non si è fondata sul pericolo di lesione del diritto dei minori all’istruzione – in quanto giustamente i bambini seguivano il metodo unschooling – ma sul pericolo di “lesione del diritto alla vita di relazione” – previsto dall’articolo 2 della Costituzione – “produttiva di gravi conseguenze psichiche ed educative a carico del minore”. Secondo il tribunale “la deprivazione del confronto fra pari in età da scuola elementare può avere effetti significativi sullo sviluppo del bambino, che si manifestano sia in ambito scolastico che non scolastico”. Fra le folli motivazioni “sentenziate” dal tribunale dei minori de L’Aquila, si legge anche che sarebbe necessario allontanare i minori dall’abitazione familiare, “in considerazione del pericolo per l’integrità fisica derivante dalla condizione abitativa, nonché dal rifiuto da parte dei genitori di consentire le verifiche e i trattamenti sanitari obbligatori per legge”. Inoltre, “l’assenza di agibilità e pertanto di sicurezza statica, anche sotto il profilo del rischio sismico e della prevenzione di incendi, degli impianti elettrico, idrico e termico e delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità dell’abitazione, comporta la presunzione ex lege dell’esistenza del periodo di pregiudizio per l’integrità e l’incolumità fisica dei minori”. Quindi il tribunale ha disposto la sospensione della potestà genitoriale a padre e madre che con tre figli minori, fra i 6 e gli 8 anni, oltre che l’allontanamento dei bambini dalla dimora familiare e il loro collocamento in una casa famiglia e nominato un tutore provvisorio dei minori, l’avvocata Maria Luisa Palladino. Il tribunale parla di “lesione del diritto alla vita di relazione”, senza nemmeno accorgersi che il diritto alla vita di relazione nelle nostre società industrializzate e opulente viene violato ogni giorno perchè abbiamo dimenticato come vivere. Il diritto alla relazione viene violato in nome della crescita economica, della competizione, dell’efficientismo e dell’utilitarismo, dell’incomprensione e l’incapacità di dialogare sul posto di lavoro: tutti pronti a correre pregando di arrivare prima degli altri per qualche salto di carriera, per qualche soldo in più che sia esso per profitto o per sopravvivenza, ma non sicuramente per vivere in pace. Il diritto alla relazione è violato dalla virtualizzazione delle relazioni, dall’espropriazione delle relazioni umani, dagli smartphone dati in mano ai bambini di 3 anni, dal diffondersi dell’apatia, dal non distinguere il valore delle proprie azioni e dal non capire il senso del limite. Per non parlare dell’individualismo epidemico, dell’atomizzazione indotta dal consumismo, della diffusione capillare di un linguaggio sempre più violento e che induce alla violenza, dai crescenti fenomeni di bullismo e autolesionismo nei giovanissimi, dalla crescita esorbitante dell’abuso di psicofarmaci nei bambini e negli adolescenti; dal dilagare di uomini che uccidono le donne per possesso o senso di proprietà e dal dilagare di giovani ragazzi adolescenti che molestano o stuprano le loro coetanee. Questo è quello che vivono costantemente i nostri giovani in un brutale circolo vizioso, perchè non si dà il giusto valore alle cose e si finisce nella disumanizzazione: le persone cessano di essere considerate un fine e diventano un mezzo. Il tribunale si dimentica che tutte queste situazioni provengono da persone che vivono la nostra società e da essa continuano a imparare l’incapacità di relazionarsi. Quindi, nella nostra società, il problema è pedagogico e culturale. Ma al posto di vederlo e di mettere a fuoco il lassismo pedagogico e il vuoto educativo che si sta generando in questa “modernità liquida”, come direbbe Zigmunt Bauman, si punta il dito contro chi sta fornendo a tutti noi un esempio drastico, estremo ma alternativo di educazione e di vita. Siamo davvero sicuri che i figli di Nathan e Catherine abbiano problemi di relazione? Siamo davvero sicuri che il loro diritto a relazionarsi sia stato leso? Bisogna vedere che tipo di relazione si intende. Sicuramente il tribunale ha interiorizzato, da tradizione e cultura giuridico-istituzionale liberale, una prospettiva antropocentrica di relazione per la quale relazionarsi vuol dire che gli umani si relazionano con gli umani. Si potrebbe adottare un prospettiva eco-centrica più amplia, affermando che relazionarsi significa relazionarsi al mondo, non inteso – come direbbe Ulrich Beck – “al sistema-mondo”, inteso come “alle cose della Natura”. Una domanda sorge spontanea: i nostri figli si sanno relazionare come i figli di Nathan e Catherine si relazionano alla Natura, alle piante, agli animali, ai sassi, all’acqua, ai torrenti, al suolo e ai lombrichi? La risposta è drammaticamente negativa, nonostante il Tribunale de L’Aquila si preoccupi dei “rischi igienici” a cui andrebbero incontro i figli di Nathan e Catherine in un stile di vita rurale. Il tutto mentre i figli della nostra società sono schizzinosi nei confronti di tutto ciò che è naturale, inseguiti da genitori ancora più schizzinosi di loro che vorrebbero una Natura sterile –  priva di microbi, batteri e virus – per non farli ammalare. Eppure sono gli stessi genitori schizzinosi pronti ad accompagnare i loro figli a mangiare da BurgerKing, McDonald, RoadHouse e altre catene di junk food. Questo è il risultato di una società che ha perso la cultura dell’igiene naturale per lasciar spazio all’igienismo. Conclusione: generazioni di giovani illusoriamente felici, malnutriti e medicalizzati che non sopravvivrebbero nemmeno venti minuti ad un blackout mondiale. Mi risulta che queste situazioni non siano nemmeno concepibili dai figli di Nathan e Catherine, i quali invece saprebbero benissimo cosa fare nel bel mezzo di un blackout totale e non avrebbero problemi ad intrattenersi con i propri animali o fare un bagno nel torrente. La risposta è ancora più cruda: i nostri figli non solo non sanno relazionarsi alle cose della Natura, ma non sanno nemmeno relazionarsi al “sistema mondo” che invece vivono. Spesso, i nostri figli, vivono vite per procura di fronte ai dispositivi tecnologici e digitali (ma anche tv) a guardare serie tv, videogiochi, film stupidi, fiction americane e reality. Il fenomeno sempre più diffuso degli hikikomori non è fantascienza, ma un trend in aumento nella nostra società. Anche per quanto riguarda la sessualità, la mancanza di relazioni nella nostra società è un problema non indifferente. Come afferma il grande psicanalista Luigi Zoja, la presunta “sessualità disinibita” nei giovani di oggi è pura apparenza, segnata invece da una crisi del desiderio che teme corpo, emozioni e sentimenti. La psicanalista Laura Pigozzi, riflettendo sulla deriva dell’erotismo tra i giovani, ha parlato di iposessualità nei giovani: c’è grande disponibilità di erotismo e di corpi offerta dalla Rete (OnlyFan), ma ciò non fa crescere il desiderio nella realtà. I ragazzi diffidano sempre più delle relazioni sentimentali e fisiche perché sono stati educati ad avere paura del mondo esterno, del diverso, sono iperprotetti; questo ha reso la sessualità meno reale. Il sesso viene percepito sempre più come una performance, da maschi e femmine, che genera ansia. I giovani che si chiudono nelle loro stanze rifiutando ogni contatto sociale. È un approccio rarefatto al desiderio in cui ci si espone sempre meno all’altro: al suo corpo e al rischio delle emozioni. Oggi stiamo crescendo una società di bambini etichettati fin dalla nascita, dove la diversità o è vista come un problema, o come un disagio, o come vittimismo o come autocompiacimento e mai come valore intramontabile. Un società malata che imbottisce i propri figli di psicofarmaci, che dà a loro smartphone senza i giusti strumenti, che investe nelle “competenze” e sempre meno sulla conoscenza, sull’esercitare il pensiero e il senso critico. Mi risulta che tutti questi problemi di relazione siano presenti – nella nostra società odierna – tra soggetti che in questa società sono nati e cresciuti senza conoscere alcuna “estraniazione rurale”. In questo contesto, bisognerebbe capire se la relazione deve essere intesa come “obbligo” (come sembra intenderlo il Tribunale) o come “diritto” (come dovrebbe essere) e, nel caso fosse considerato un “diritto”, dovremmo essere in grado – come società – di garantirlo, e di una certa qualità. Cosa che non mi pare siamo in grado di fare. Qual è dunque la logica che ci spinge a voler insegnare agli altri come fare relazione e a relazionarsi, se siamo noi i primi a non riuscire a concepire un futuro nelle nostre relazioni? Alla nostra società manca una cultura che sia in grado di educare alle relazioni, mentre invece è molto brava a spiattellare sui media mainstream nazionali il caso di una famiglia che non vuole saperne nulla di questa modernità futile, effimera e anti-educativa. Questa famiglia è stata presa mediaticamente come capro espiatorio affinchè l’opinione pubblica la brutalizzasse, si indignasse di loro e puntasse il dito. Anche se questo era l’intento, fortunatamente non è avvenuto. Per evitare di analizzare come il potere disciplinare (citando Foucault), l’istruzione – quella riduzionista occidentale – e le sue istituzioni – ovvero la società e la cultura di mercato – stiano oggi massacrando le relazioni, si addita chi nella propria semplicità si dedica alla creazione autentica di relazioni. Perchè questo è il fulcro del discorso. Qual è la colpa di questa coppia di genitori anglo-australiani che hanno deciso di vivere in semplicità nei boschi abruzzesi? Educare liberamente i loro figli in mezzo alla Natura e al contatto con essa, con un maestro privato; vivere secondo un stile di vita ecologico e naturalistico in una bellissima casetta in mezzo al bosco a Palmoli, in provincia di Chieti; vivere secondo il ritmo lento della Natura, trascorrendo una vita serena e tranquilla lontano dal caos, dal rumore e dalla frenesia della società industrializzata; autosostenersi totalmente con pannelli solari, pozzo di acqua privato, legna a volontà, tanti animali e tanto amore. I media hanno parlato della famiglia di Nathan e Catherine come di una “famiglia neorurale”, come se il ruralismo fosse qualcosa di vecchio e antico da ripudiare. In realtà il ruralismo è vivere l’essenza della vita lontano dalle mode, dai consumi, dall’effimero, dai veleni dell’esistenza come l’avidità, la stupidità e la collera… che immancabilmente generano sofferenza a lungo tempo. Questa famiglia – secondo il Tribunale e una fetta dell’opinione pubblica – dovrebbe forse fare come tutte le altre famiglie medie italiane: insegnare ai propri figli a guardare Uomini e Donne, Temptation Island, L’Isola dei Famosi, il Grande Fratello; a guardare cartoni animati stupidi e diseducativi o addirittura a piazzarli davanti a videogame volto allo sviluppo estremo di adrenalina e serotonina. Si chiama schizofrenia ontologica: mentre il vuoto educativo e la rarefazioni delle relazioni imperversano nella società di oggi, inaugurando un’epidemia di apatia, le istituzioni di questa stessa società reprimono modelli alternativi proprio di educazione, di pedagogia, di società ecologica e di crescita umana. La schizofrenia ontologica è arrivata a livelli tali che una famiglia che vive in una casa in un bosco è percepita come un pericolo, forse perché può essere un modello da seguire… E questo fa ancora più paura al potere. Nell’epoca in cui si esaltano sviluppo e progresso, chi prova ad allontanarsene deve essere punito. Come osi non sottometterti alle bollette? Come osi privarti della tv, dell’auto a rate, dello smog incensante? Come puoi impedire ai tuoi figli di far scoprire il tossico mondo dei social media? Come puoi non ambire nel vedere i tuoi figli che girano video su TikTok? Come osi non sottometterti alla dittatura dell’algoritmo? Come osi cercare uno stile di vita che abbandona il materialismo della società capitalista e consumista per dedicarti ad un risveglio politico, etico e spirituale? Come osi non allacciarti alla corrente, usufruendo di un panello solare costruito artigianalmente? Come osi non allacciarti all’acquedotto, preferendo usare l’acqua di fonte gratuita dal pozzo sul proprio terreno? Come osi non allacciarti al gas in questo periodo storico dove, con la guerra in Ucraina, abbiamo fatto di tutto per boicottare il North Stream russo per rimpinguare le casse USA con il gas liquido? Come osa questa gente usare la loro legna come negli ultimi 170.000 anni di storia? Questi sono gli interrogativi che si pone il necropotere della società del controllo. Chi sceglie l’autodeterminazione, la libertà educativa, le relazioni di cura autentiche ed evita di crescere i propri figli come lo fa la massa, ovvero a suon di cellulari, antidepressivi, influencer, centri commerciali, omologazione e conformismo, rappresenta da un lato una vera minaccia per il quieto vivere del gregge al macello, ma dall’altro rappresenta un esempio concreto di come si possa portare bellezza nella propria vita fuori dagli schemi effimeri della società consumista ed industriale di massa. A tal proposito credo che sia interessante il pensiero esposto in un post Facebook dalla sociologa Elisa Lello, dicente di Sociologia politica all’Università di Urbino e ricercatrice presso LaPolis, Laboratorio di Sudi Politici e Sociali dello stesso ateneo: Quelle che arrivano a portare via dei bambini ai loro genitori per insegnare con le brutte, a tutti noi, che non si può scappare alla vita impossibile e insopportabile che ci è stata apparecchiata; e che pure dobbiamo ritenere superiore a ogni altra possibilità immaginabile, per via dell’insindacabile primato di un impianto elettrico. Le stesse mani che stanno ricostruendo grandi eserciti, che vogliono reintrodurre la leva obbligatoria, che vogliono fare di noi carne da cannone, ancora una volta. E… sì, proprio le stesse mani che apparecchiano sontuose operazioni mediatiche per presentare il suicidio assistito dallo Stato come nientemeno che diritto e conquista, e addirittura: “autodeterminazione”. Come se davvero avessimo qualche margine di autodeterminazione nello scegliere come e dove vivere, come coltivare il nostro cibo, come curare ed educare i nostri figli e noi stessi; come se avessimo davvero il diritto e le possibilità reali di accompagnare nella vita e nella malattia, e sì anche nella morte, i nostri cari. Quello che accade invece è che ogni possibilità reale di autodeterminazione ci viene ogni giorno sottratta, un metro alla volta, in un cerchio che si chiude: i tagli al Welfare; la rinuncia ad affrontare diseguaglianze e povertà; la soppressione di reparti ed ospedali e di servizi pubblici in quelli che vengono definiti territori “senza futuro”; la vera e propria persecuzione infierita contro le piccole produzioni contadine ed ecologiche che si ostinano a mostrare al mondo che eppur si potrebbe ancora coltivare e produrre cibo senza essere dipendenti dai giganti delle biotecnologie e del digitale… Mentre ogni anfratto più intimo della nostra esistenza viene spiato e trasformato in dati che serviranno a spingerci ancora più dentro l’incubo di un’esistenza ridotta a bisogni indotti da soddisfare per il trionfo del mercato, mentre ci dicono esplicitamente che vogliono prelevare i nostri corpi per mandarli a nuovi fronti di guerra, davvero possiamo esultare credendo che il diritto di darsi la morte – e solo quello – sia “autodeterminazione”? Mi rendo conto della delicatezza della questione, e mai mi azzarderei a commentare scelte private di fronte a cui l’unica opzione per me è il silenzio – sia chiaro, ciò di cui parlo è semmai di come queste scelte vengono utilizzate per costruirci sopra operazioni propagandistiche. E posso capire, anche, la diffidenza di molte/i verso la sacralità della vita di matrice religiosa. Il rischio però è che, per criticare quella, si finisca per precipitare, senza nemmeno accorgercene, in un dogmatismo non certo migliore, che è quello della mercificazione capitalista. Dove la vita non ha più nulla di assoluto, e diventa quasi un bene di consumo, da valutare di volta in volta (in base ai criteri del mercato), così che finché sulla bilancia tra costi e benefici sono i secondi a pesare di più vale la pena di mandarla avanti, ma quando i loro pesi si invertono, allora perché non affidarsi alle cliniche della “dolce morte”? Dove, quando non sei più produttivo, diventi anche inutile, e allora perché lo Stato dovrebbe farsi carico dei costi per la tua assistenza, quando potrebbe più utilmente convogliare quelle risorse sempre scarsissime per prendersi cura piuttosto di giovani belli e pieni di energie da immettere nel circuito di produzione del valore? E occhio, perché – guarda caso – la particolarità di questa fase del capitalismo è proprio quella di creare, e di poter convivere più agevolmente rispetto al passato, con quote sempre più ampie di “superflui” (quindi esclusi) rispetto ai processi di produzione.   Lorenzo Poli
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Lo sciopero italiano del 22 settembre per la Palestina è stato uno sciopero sociale. Da anni non si vedeva la società ribellarsi all’unisono in questo modo. Alla chiamata Blocchiamo Tutto, una moltitudine di persone si è riversata in strada, abbandonando il posto di lavoro, i banchi di scuola, i negozi e le case. Abbiamo [...]