La battaglia dei Masai per la terraI Masai di Loliondo, brutalmente sfrattati dalle loro terre per fare spazio a
una riserva di caccia, vedono la loro battaglia legale naufragare dopo il
verdetto della Corte Suprema tanzaniana. La sentenza apre la strada a nuovi
sgomberi, mentre in Kenya altre comunità indigene affrontano lotte simili contro
riserve di conservazione imposte senza consenso.
«Ci stanno portando via tutto: la nostra terra, la nostra storia, il nostro
futuro», denuncia Ole Nadoy, leader della comunità masai di Loliondo. Parole che
riecheggiano come un grido di disperazione e resistenza. Nel giugno 2022, oltre
96.000 Masai sono stati sgomberati con la forza dalle loro terre ancestrali per
fare spazio alla riserva di caccia Pololeti. Lo scorso ottobre, la Corte suprema
di Dodoma ha respinto la richiesta di rientro nelle loro terre, un verdetto che,
secondo l’Oakland Institute, rappresenta un pericoloso precedente per i diritti
dei popoli indigeni in Tanzania e oltre. Survival International denuncia che i
Masai non sono stati consultati né risarciti, benché le loro terre fossero
legalmente riconosciute. «Le comunità colpite vivevano in villaggi regolarmente
registrati secondo il regime fondiario tanzaniano, eppure la Corte ha ritenuto
che il loro diritto alla terra fosse secondario rispetto alle esigenze
economiche del Paese», riferisce l’organizzazione che difende i popoli indigeni.
E ancora: «La decisione rischia di creare un pericoloso precedente, legittimando
sfratti forzati di comunità native a favore di progetti governativi legati al
turismo e alla conservazione ambientale».
«I motivi su cui si fonda la sentenza», sostengono gli attivisti, «fanno
fortemente dubitare dell’indipendenza del potere giudiziario in questo momento
storico della Tanzania, Paese ormai ben avviato a diventare un regime
autocratico dove la legge non è più uguale per tutti e gli oppositori vengono
perseguitati». Vittime della repressione sarebbero anche «i leader masai e
quelli delle organizzazioni della società civile che hanno difeso i loro
diritti, imprigionati per mesi con accuse pretestuose».
La sentenza e le sue conseguenze
Il tribunale ha motivato la decisione sostenendo che la riserva è necessaria per
la conservazione della fauna selvatica (“le riserve di caccia tutelano
l’ambiente e l’equilibrio dell’ecosistema – hanno spiegato i giudici –
permettendo l’abbattimento degli animali vecchi o in eccesso”), principale fonte
di valuta estera del Paese. Tuttavia, la sentenza contraddice un precedente
verdetto della stessa Corte suprema del 2023, che aveva dichiarato illegale la
creazione della riserva Pololeti proprio perché i Masai non erano stati
coinvolti.
Gli attivisti parlano di un grave segnale di deriva autoritaria: «Non solo la
giustizia sembra piegata agli interessi economici del governo, ma chi difende i
diritti delle comunità indigene viene perseguitato. Leader masai e attivisti
della società civile sono stati imprigionati con accuse pretestuose, mentre le
forze di sicurezza hanno represso con la violenza le proteste locali». «Il
dietrofront evidenzia il peso politico della vicenda e la volontà del governo di
piegare le decisioni giudiziarie ai propri interessi economici», chiosano i
rappresentanti delle comunità pastorali di Loliondo.
La battaglia legale – di cui si annunciano nuovi capitoli – è solo l’ultimo
risvolto di un’annosa contesa che da molti anni contrappone le autorità di
Dodoma ai Masai. Questi ultimi, uno dei gruppi indigeni più noti dell’Africa
orientale, vivono nel nord della Tanzania, e nei territori confinanti del Kenya,
e sono tradizionalmente pastori nomadi. Il loro stile di vita dipende fortemente
dalla possibilità di accedere a vaste aree di pascolo per il bestiame, una
risorsa sempre più minacciata dalla pressione dello sviluppo economico e
turistico. Nel corso del tempo, il governo tanzaniano ha progressivamente
limitato l’accesso dei Masai alle loro terre, sostenendo che le aree in
questione sono necessarie per la conservazione della fauna selvatica o lo
sviluppo turistico. Uno degli epicentri del conflitto è proprio la regione di
Loliondo, al confine con il Parco Nazionale del Serengeti. Il governo tanzaniano
ha a lungo cercato di trasformare questa zona in una riserva naturale. E ciò ha
comportato lo sfratto forzato di numerose famiglie masai.
Turismo e neocolonialismo
La situazione ha raggiunto un punto critico quando il governo, nel 2022, ha
inviato le forze di sicurezza per delimitare 1.500 chilometri quadrati come area
protetta, scatenando proteste e scontri con le comunità locali. Decine di
attivisti sono stati arrestati, alcuni sono stati costretti all’esilio e molte
comunità hanno subito violenze durante gli sgomberi forzati. Le immagini degli
scontri hanno suscitato reazioni internazionali, con organizzazioni come Amnesty
International e Human Rights Watch a denunciare presunte violazioni dei diritti
umani, chiedendo alla Tanzania di rispettare gli accordi internazionali sulla
tutela dei popoli indigeni.
Il governo giustifica gli sfratti con la necessità di tutelare l’ecosistema, ma
i Masai e le organizzazioni per i diritti umani accusano le autorità di usare la
conservazione come pretesto per favorire il turismo di lusso e la caccia
sportiva. Secondo fonti di stampa, alcune delle terre sottratte sarebbero già
state concesse a compagnie straniere legate agli Emirati Arabi, che organizzano
safari esclusivi e battute di caccia per clienti facoltosi. La vicenda ha
suscitato indignazione internazionale: l’Unione Europea ha condannato duramente
l’accaduto, arrivando a sospendere finanziamenti destinati alla conservazione
ambientale in Tanzania, mentre la Banca mondiale ha interrotto l’erogazione di
fondi per lo sviluppo turistico a causa delle violazioni dei diritti umani.
Lotta senza confini
Le conseguenze del caso di Loliondo si fanno sentire anche oltre confine. Il
Kenya ha accolto un numero crescente di Masai in fuga, privati dei loro mezzi di
sussistenza. Nel gennaio scorso, la giustizia kenyota ha emesso una sentenza
storica, dichiarando illegali le riserve di conservazione create dal governo in
collaborazione con il Northern Rangelands Trust (Nrt), un’organizzazione che
gestisce milioni di ettari vendendo crediti di carbonio a multinazionali come
Meta, Netflix e British Airways. Il tribunale ha appurato che quelle aree sono
state istituite senza consultare le comunità locali, in maggioranza di etnia
borana, samburu e rendille, alimentando il sospetto che dietro la conservazione
si nascondano interessi economici globali a discapito dei popoli indigeni. La
missione di Nrt sarebbe, in teoria, quella di istituire riserve comunitarie
resilienti, trasformare vite e garantire la pace e la conservazione delle
risorse naturali.
A finire sotto accusa è un progetto del valore potenziale di svariati milioni di
dollari (l’importo esatto non è noto poiché l’organizzazione non pubblica
bilanci finanziari), da tempo criticato dagli attivisti indigeni perché sarebbe
stato istituito a danno delle popolazioni locali. La sentenza, in
particolare, riguarda un caso intentato da 165 membri delle comunità presenti in
quei territori e sancisce che le riserve sono state istituite
incostituzionalmente, senza base giuridica. La Corte ha inoltre ordinato che i
guardaparco dell’Nrt, armati pesantemente e accusati dai popoli indigeni della
zona, lascino quelle riserve.
Interessi stranieri
«La sentenza è anche l’ultima di una serie di stoccate alla credibilità di
Verra, il principale organismo utilizzato per verificare e validare i progetti
di crediti di carbonio», fa sapere Survival International. «Purtroppo questo
fenomeno è lungi dall’essere un problema isolato», fa presente Caroline Pearce,
direttrice generale dell’organizzazione. «Troppi programmi di compensazione
delle emissioni di carbonio si basano sullo stesso modello obsoleto della
“conservazione fortezza” e sostengono di “proteggere” la terra mentre calpestano
i diritti dei suoi proprietari indigeni e realizzano ingenti profitti strada
facendo».
Gli interessi stranieri nella gestione di quei territori appaiono evidenti.
Secondo l’Oakland Institute, dietro la politica tanzaniana sulla conservazione e
il turismo si nasconderebbero ingerenze di rilievo, in particolare statunitensi.
Un rapporto pubblicato ad aprile da ricercatori californiani (intitolato Pulling
Back the Curtain: How the US Drives Tanzania’s War on the Indigenous) ha messo
in luce come Washington abbia esercitato un ruolo determinante nell’influenzare
le strategie di gestione del territorio in Tanzania, sostenendo progetti
finanziati da Usaid a scapito delle comunità locali. E malgrado l’Agenzia degli
Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale sia stata praticamente chiusa nei
mesi scorsi da Donald Trump, in pochi si illudono che la nuova amministrazione
americana imprimerà o favorirà un cambio di rotta nelle politiche
ambientali… Mentre il governo di Dodoma prosegue con le politiche di esproprio,
i Masai si trovano a combattere una battaglia sempre più difficile per la
salvaguardia dei propri diritti e per il controllo delle loro terre ancestrali.
Africa Rivista