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Un Manifesto per non morire di rendita
Dopo il caso Milano, un Manifesto per non morire di rendita  di Walter Tocci   Il caso Milano solleva temi molto più profondi di quanto raccontano le cronache. Come al solito si prende coscienza dei problemi nazionali solo dopo l’intervento della magistratura. Il diffuso conformismo, infatti, oscura le analisi eterodosse che mettono in discussione ideologie e pratiche correnti. Nella diffusa apologia dello sviluppo urbanistico milanese si è voluto oscurare la crescente potenza della valorizzazione immobiliare che travolge tutte le forme di controllo e scarica alti costi sociali e umani nella vita urbana. Questo squilibrio crea un terreno fertile per la corruzione, ma è una patologia urbana anche in assenza di comportamenti illegali. Come processo socioeconomico è stato perfezionato al massimo livello a Milano, ma riguarda anche Roma e tutte le città italiane. Il valore urbano, inteso come rendita immobiliare, era al centro del dibattito politico negli anni Sessanta. Gli storici hanno dimostrato che fu il vero movente del tentativo di colpo di stato del generale De Lorenzo contro la legge Sullo. Se ne occupava anche la cultura, dal film di Rosi Le Mani sulla città al romanzo di Calvino La Speculazione edilizia. Perfino i capitalisti la disprezzavano come fattore di arretratezza dell’economia. Contro la rendita Agnelli invocava un patto tra produttori, cioè un’alleanza tra lavoratori e capitalisti. Invece, da quando si è alleata con la finanza se ne parla meno. È invisibile perché partecipa attivamente al capitalismo contemporaneo, il quale è il regno dei rentier e dei monopoli, nonostante le favole sulla concorrenza che ci raccontano gli economisti ortodossi. Che sia diventato un fattore cruciale è dimostrato dalla grande crisi del 2008, causata proprio dai mutui subprime. Chi l’aveva previsto che il turbocapitalismo naufragasse sul sogno piccolo-borghese della casetta in proprietà? E non a caso oggi l’impero americano è guidato da un immobiliarista, e un suo sodale negli affari, l’ineffabile Witkoff, tratta su pace e guerra, tra lo sconcerto dei diplomatici di professione. Dall’invisibilità derivano dimenticanze e fraintendimenti che dominano il senso comune e alimentano politiche dannose, come dimostra il miglior libro sulla questione: B. Pizzo, Vivere o morire di rendita, Donzelli 2023. Se l’attrazione della rendita è troppo forte vengono scoraggiati gli investimenti produttivi. L’acqua va dove trova la strada. E gli effetti sono più evidenti in Italia, nella pluridecennale stagnazione della produttività, nella diminuzione del valore aggiunto e nelle crisi bancarie, causate dagli eccessivi valori immobiliari scritti in bilancio prima dell’esplosione della bolla. L’eccesso di valorizzazione immobiliare, inoltre, produce devastanti effetti sociali e culturali, che sono sotto gli occhi di tutti. A Milano la crescita degli affitti ha determinato una sostituzione di popolazione, con espulsione nell’hinterland di ceti sociali meno abbienti e attrazione di quelli ad alto reddito, come ha dimostrato Lucia Tozzi, con largo anticipo sulle attuali vicende, quando tutti celebravano i fasti ambrosiani. In tutte le grandi città ritorna una drammatica “Questione delle abitazioni”, che sembra riecheggiare il saggio di Engels sui mali della città industriale. Inoltre, gli inusitati valori immobiliari determinano una selezione negativa delle funzioni urbane. Sono scoraggiate tutte le attività di innovazione culturale e tecnologica che nella fase di incubazione non ce la fanno a sostenere gli alti costi immobiliari. Al contrario vengono attratte le ricchezze originate dai monopoli di vario tipo: gruppi finanziari (basti pensare ai capitali del Qatar), airbnb, public utilities, cordate professionali, concentrazioni dei media, ecc. La rendita chiama altra rendita e scoraggia l’ingegno, smentendo il modaiolo bla-bla sulla città creativa. Ora sembrano prenderne coscienza anche gli editorialisti del Corriere della Sera, come scrive Dario Di Vico: “La rendita sta vincendo, e questa per Milano, storica città della crescita, è la vera ferita. Un modernità che umiliasse il merito non l’avevamo prevista”. L’economia classica di Ricardo era una scienza morale, proprio come l’urbanistica, e attribuiva all’imprenditore il merito del profitto mentre stigmatizzava i guadagni immeritati dei rentiers. Oggi si parla tanto di meritocrazia, eppure si dimentica che la valorizzazione non è merito dell’immobiliarista, poiché dipende in gran parte dal prestigio, dalla qualità e dalle infrastrutture del contesto urbano, cioè viene alimentata dall’azione dei cittadini e dalle iniziative dell’amministrazione pubblica. Al merito dell’operatore si può attribuire solo il profitto di impresa nel processo di costruzione. Se un profitto vale 20, la rendita vale 100, nonostante il primo sia frutto di una impegnativa attività industriale mentre la seconda richieda solo l’attesa di un guadagno immeritato. Con la legge Berlusconi, purtroppo ratificata anche dalle amministrazioni di sinistra, è diventato normale parlare di “premio di cubatura”. Eppure, non dovrebbe essere premiata una valorizzazione già molto più alta del plusvalore di qualsiasi investimento produttivo. La trasformazione dei tessuti non dovrebbe risolversi nel gioco ristretto tra legislatore e proprietario, a prescindere da qualsiasi considerazione sul contesto urbano. Semmai il “premio” dovrebbe essere destinato ai cittadini, riservando i terreni ancora liberi ai servizi pubblici e al verde, spesso carenti proprio nelle città costruite male. E non suscita alcuna indignazione la bassissima quota di questa valorizzazione che ritorna all’interesse pubblico. In una delle più grandi operazioni urbanistiche romane, nell’area di Bufalotta, si è calcolato che l’operatore ha ottenuto una rendita del 106% rispetto ai costi di costruzione e ha versato al Comune solo il 6% della valorizzazione. Cioè l’onere per il proprietario è stato circa quattro volte più basso delle tasse che paga un operaio. L’Italia è un paradiso fiscale per l’immobiliare. In Europa gli oneri arrivano al 30%, come non si è mai stancato di dimostrare il compianto Roberto Camagni, uno dei pochi economisti ad occuparsi di rendita. La legge Bucalossi, inoltre, aggiunge effetti distorsivi calcolando gli oneri non rispetto alla valorizzazione, ma ai costi di costruzione, con il risultato che nei quartieri più ricchi, in percentuale sul valore, gli oneri sono più bassi che in periferia o addirittura sono annullati con l’alibi delle urbanizzazioni esistenti. Si arriva a turlupinare l’opinione pubblica offrendo nei piani urbanistici un’opera pubblica aggiuntiva in cambio di ulteriori aumenti di cubatura. La scuola o il parco in più sono finanziati dagli stessi bassi oneri al 6%, per rimanere all’esempio precedente, mentre il proprietario incamera oltre il 100% di valorizzazione anche sull’aumento di cubatura. È un altro regalo per lui, ma viene presentato come una generosa offerta ai cittadini. D’altronde, c’è anche un’evidente asimmetria informativa. I Comuni non hanno strutture e competenze per valutare gli effetti economici di ciò che autorizzano, non sono in grado di confutare il business plan dell’immobiliarista, non dispongono di osservatori efficaci della valorizzazione urbana. La stessa legislazione non indica chiari criteri e parametri di convenienza pubblica nella contrattazione con i privati. Al contrario, negli appalti di infrastrutture c’è un imponente corpus normativo mirato a ridurre i costi per il pubblico e a impedire illeciti arricchimenti del costruttore. Le norme sono severe con il profitto d’impresa e lascive con la rendita di posizione. Tutti questi processi favoriscono la ricchezza proprietaria e aumentano la povertà pubblica. Al contrario se una quota ben maggiore della rendita fosse incamerata dal pubblico e reinvestita nelle infrastrutture la città sarebbe nel contempo più giusta e più produttiva. La così detta “urbanistica riformista” ha studiato i processi di valorizzazione al fine di perequare le rendite differenziali nel piano urbanistico. Nell’economia di carta e di mattone, però, il valore viene estratto dal suolo e innalzato nelle eteree transazioni finanziarie. Emerge, quindi, una nuova forma di rendita pura, la quale, a differenza di quella differenziale, non solo incide sul piano urbanistico, ma determina soprattutto gli effetti macroeconomici e macrosociali di cui sopra. Da come si ripartisce il valore urbano, quindi, dipendono questioni cruciali: se le risorse vanno verso usi parassitari oppure produttivi, se il valore della città viene appropriato da pochi oppure aumenta la qualità della vita e l’inclusione sociale. Per non morire di rendita occorre una svolta nelle politiche urbane. Ma prima ancora è necessaria una mobilitazione culturale per ribaltare almeno un trentennio di narrazioni dominanti, luoghi comuni, ideologie parassitarie, pratiche pubbliche e private ormai insostenibili. Ci sono in Italia tante persone e associazioni disponibili a cambiare lo stato di cose: chi ha sempre criticato lo sviluppo estrattivo di risorse, chi pratica quotidianamente la cura di parti di città, studiosi consapevoli degli impatti negativi dei processi attuali, enti preposti alla tutela dei beni comuni, tecnici e imprenditori che riflettono criticamente sul passato e cercano di voltare pagina. E’ arrivato il momento di fare forza comune, senza settarismi, superando anche le diversità particolari, cercando un filo comune per restituire alla città il valore creato dai cittadini. Ci vorrebbero persone e associazioni capaci di prendere l’iniziativa, mobilitare altre risorse e allargare il movimento. Quelli della mia generazione possono dare una mano, ma a guidare devono essere le nuove generazioni. Perché sono soprattutto loro a sentire gli effetti nella propria vita quotidiana e professionale: nella affannosa ricerca di un’abitazione, nella difficoltà di trovare un immobile per avviare un’opera innovativa, nella ricerca di fondi per ricerche eterodosse, nella faticosa interlocuzione con le burocrazie amministrative e politiche. In mezzo a tanti fenomeni negativi, se si osservano le città italiane con animo curioso si vedono tante esperienze emblematiche di una nuova cultura urbana, nel recupero sociale di aree dismesse, nelle pratiche di riconversione ecologica, nella produzione di nuovi beni culturali, nella promozione del mutualismo sociale, ecc. Tra gli organizzatori si nota una nuova alleanza tra ricercatori sociali e attivisti urbani. Per merito loro l’azione collettiva ha preso le sembianze di una progettualità urbana ad alto grado di condivisione, ben lontana dalla partecipazione assembleare e rivendicativa della mia generazione. Da questa alleanza tra cultura d’avanguardia e impegno collettivo oggi scorga un’inedita energia politica, che surroga l’assenza dei partiti nel territorio. Finora tale energia è rimasta confinata nel locale, ma rischia di essere travolta dai padroni della rendita se non prende la parola a livello cittadino e nazionale. Spero che almeno alcuni di questi ricercatori e attivisti prendano l’iniziativa di una mobilitazione generale. Sulla base di un Manifesto “Per non morire di rendita”, da sottoporre all’approfondimento in appositi Forum nelle città, allargando l’analisi e la proposta ai diversi casi italiani, per poi confluire in un appuntamento nazionale che scoperchi la realtà davanti all’opinione pubblica e chiami la politica alle sue responsabilità. Nonostante la gravità di tanti fenomeni di crisi urbana, le nostre città dispongono delle energie morali e sociali indispensabili per la loro rinascita.     Il testo è tratto dall’intervento al Congresso INU di Roma del 23 maggio 2025, Elogio dell’Urbanistica, ora pubblicato in: Città Bene Comune della Casa della Cultura di Milano. (foto di Italo Insolera, Roma Monte Mario, 1971) L'articolo Un Manifesto per non morire di rendita proviene da Roma Ricerca Roma.
Ombre sulla città, Milano e l’urbanistica
Ombre sulla città: Milano e l’urbanistica  di Barbara Pizzo e Alessandra Valentinelli, RomaRicercaRoma La più recente fase dell’inchiesta giudiziaria che ha portato alla redazione del “Salva Milano”, tra i decreti più controversi del Governo Meloni, ha concentrato di nuovo l’attenzione pubblica sull’urbanistica e il governo delle trasformazioni urbane, un tema di solito poco frequentato, se non addirittura estraneo alla maggioranza della popolazione, nonostante i suoi effetti e i suoi impatti riguardino tutti. Ci sono due aspetti in particolare che pensiamo valga la pena discutere allontanandoci dal fragore mediatico. Il primo riguarda il modo di pensare il governo del territorio da parte di chi è chiamato specificamente ad occuparsene. Il secondo riguarda il territorio, il suo presente e il suo futuro. Riferendosi all’elusione “sistematica” del Piano regolatore di Milano, Giuseppe Marinoni, presidente della Commissione Paesaggio, parlava di “Piano Ombra” caratterizzato da “alte parcelle”. Le indagini, che pure lo riguardano (nei suoi confronti è stata richiesta la custodia cautelare) e che a marzo scorso hanno già portato ad alcuni arresti, dicono del ricorso a modalità di “semplificazione” (per lo snellimento delle procedure) delle trasformazioni urbane in cui l’intervento di singoli decisori risulta particolarmente orientato all’esercizio di quella discrezionalità che invece solo marginalmente dovrebbe caratterizzare i sistemi di regolazione, quali, appunto, quelli urbanistici. Nella nuova tornata di avvisi di metà luglio sono 74 le persone a vario titolo indagate. Tra esse spiccano l’Assessore alla “Rigenerazione” Giancarlo Tancredi, Manfredi Catella, protagonista con il suo gruppo COIMA di alcune fra le più glam delle operazioni immobiliari locali, gli scambi non proprio eleganti tra il Sindaco Sala e l’architetto Stefano Boeri. In particolare, l’indagine evidenzia dinamiche relative alle procedure autorizzative che hanno attirato l’attenzione degli inquirenti per modalità quantomeno disinvolte nell’uso degli strumenti urbanistici. Ciò che emerge è la reiterazione di tali modalità le quali, nei fatti, rendono ambigui ruoli che invece dovrebbero essere chiari e distinti: non sono solo, né tanto, le “laute parcelle per le consulenze” che preoccupano, ma il fatto che divenga consulente chi in realtà dovrebbe controllare, supervisionare, governare, ricordandoci che il tema del “conflitto di interessi”, che può assumere moltissime forme, resta un nodo cruciale, a tutti i livelli e in tutti i settori pubblici, purtroppo incredibilmente sottostimato. A colpire tuttavia, nel vortice di dichiarazioni di maggioranza e opposizione, è la pressoché unanime preoccupazione che le notizie di reato possano fermare la città: “Così si ferma Milano”, “Non si può fermare la città” sono affermazioni ripetute e rilanciate dai media, che suonano tra il terrorizzante e il minaccioso. Allora (ci) chiediamo: ma davvero la Milano che si pensa motore dello sviluppo nazionale potrebbe fermarsi per un blocco dei cantieri? Siamo certi sia la finanza del mattone a costituire la ricchezza della città? Il tema non è semmai quello tutto politico, sollevato dal consigliere Enrico Fedrighini il 17 luglio, del “controllo pubblico per interesse pubblico” delle trasformazioni urbane? Fra le rendite assicurate dai palazzi in costruzione e l’economia meneghina, le differenze non sono sottili. Il capoluogo lombardo è sede di tre prestigiose università, delle principali banche e società informatiche nazionali, della metà delle multinazionali presenti in Italia. È “capitale del design”, dei brevetti in campo energetico e biotecnologico. Milano “è” la Borsa, e detiene i primati per occupazione, concentrazione di imprese e turismo d’affari con un PIL procapite doppio della media italiana. In tale quadro stride il numero di domande in lista d’attesa per l’assegnazione degli appena 600 alloggi popolari che, dai conteggi Sicet pubblicati da Zita Dazzi su Repubblica, ogni anno tornano disponibili: 17.000 famiglie che si sommano ai 4.500 nuclei che hanno già comprato casa negli edifici sequestrati dalla magistratura, o comunque congelati dallo stallo degli uffici comunali sui permessi. Dagli arresti in primavera cui si deve anche il ritiro del discusso “Salva Milano”, non sono mancate le riflessioni sulla bontà di una rigenerazione che espelle residenti: con quotazioni crescenti che oscillano tra 5.000 e oltre 25.000 €/mq per gli appartamenti più lussuosi, “non si trova casa”, denuncia a ogni articolo Lucia Tozzi; “non si trovano tranvieri”, dicono allarmati i milanesi. Del resto se, nonostante i 17 milioni di metri cubi di licenze residenziali rilasciate in 10 anni, Nomisma stima 80.000 immobili sfitti, il 10% del totale, i dati indicano una politica che risponde non alla domanda abitativa ma ai costruttori: “dumping urbanistico” l’ha definita il Presidente dell’INU Michele Talia, ottenuta dimezzando gli oneri a standard e servizi, con scomputi e deroghe che, solo negli ultimi anni secondo la Corte dei Conti ripresa da Barbacetto sul Foglio, hanno prodotto perdite secche per le casse di Palazzo Marino di oltre 100 milioni di euro. Il giro d’affari emerso dalle odierne inchieste è pervasivo quanto la sua retorica; cattura valore dall’esistente, creando “eventi” o aree “strategiche”: nei lotti vuoti del centro, negli ex scali ferroviari, nelle opere per i Giochi invernali del 2026 (già futuro studentato da 1.400 posti), allo Stadio di San Siro (di proprietà del Comune) a rischio demolizione per far posto ad un nuovo impianto (privato) dotato di attività commerciali e terziarie, con il progetto “Milano 2050” per nove “centralità” periferiche collegate alla rete metropolitana, oggetto per la procura di “un’operazione di speculazione intensiva” da 12 miliardi. Chi ci guadagna in questa corsa al mattone? Con inquinanti fuori soglia, verde e servizi in perenne affanno, in disarmo persino Argelati e Lido, le piscine comunali vanto di una città un tempo civile, il Rapporto 2025 di Assolombarda titola implacabile: “Milano perde talenti” per la mancanza di qualità urbana, dissipando un capitale umano la cui coorte giovanile alimenta sempre più i 600.000 coetanei, emigrati all’estero negli ultimi 10 anni. Argelati e Lido riflettono bene il cedimento del pubblico ai privati che Nadia Urbinati imputa alle istituzioni “disfunzionali”. Apprezzate piscine all’aperto, attive nei tre mesi della peggior afa estiva, hanno significato per generazioni di milanesi isole di divertimento, refrigerio e sport a tariffe accessibili. L’Argelati era stata la prima inaugurata nel 1915, poi ampliata nel 1956, seguita dal Lido nel 1930 con un’unica vasca da 6.500 mq balneabili; cartoline di una Milano se non popolare, svagata, accoglievano l’una 30.000, l’altra sino a 50.000 bagnanti a stagione. Così quando la Giunta Sala, tra il 2019 e il 2022, ne ha disposto la chiusura, ha toccato un nervo sensibile del culto ambrosiano, memore degli investimenti sociali nelle vecchie periferie. Ne spiega le implicazioni Antonio Longo, cui va il merito della petizione contro il “Salva Milano” lanciata con altri colleghi del Politecnico. Il suo report sulla “operazione” piscine evidenzia l’insufficienza di risorse comunali da spendere in lavori straordinari, 15 milioni che hanno indotto il Lido all’agonia, poi la sua concessione al privato per 25 milioni e 42 anni di gestione svincolata dal mantenimento del centro balneare: una rinuncia a preservare bene storico e benefici collettivi della funzione anche e non secondariamente climatica che, per Argelati, ancora in attesa di offerte valide, suona come la condanna alla fatiscenza. Sorte analoga alle piscine ha travolto la pista verde del Trotto: anch’esso abbandonato per scarsità di fondi di manutenzione, lo spazio pubblico adiacente lo stadio è stato reso edificabile e, nel 2023, venduto agli sviluppatori di Hines. A Milano, e non solo, la si chiama densificazione e la si giustifica con la “resilienza ambientale” che deriverebbe dal non consumare suolo, ma non si soddisfa nessun equilibrio ecologico se poi si sacrificano i terreni permeabili superstiti nel tessuto costruito, peraltro contravvenendo il Regolamento europeo sul ripristino della Natura, approvato appunto per difenderli. Ci chiediamo dunque: fermare un certo modo di portare avanti lo sviluppo urbano, che estrae valore molto più di quanto non ne produca, che è troppo spesso solo “rendita che produce altra rendita” (Pizzo 2023) e che determina una città sempre più iniqua e diseguale, davvero significa “fermare la città”? E se sì, allora su cosa si basa la sua struttura socioeconomica e in cosa consiste il suo “modello di sviluppo”? Possibile che una città come Milano abbia come sola freccia al proprio arco, l’economia della rendita? Se, invece, questo tipo di economia che intreccia mattoni e finanza, è l’unico modo in cui si pensa sia possibile fare “tutto il resto”, quello che tiene assieme tutto, allora a maggior ragione, dobbiamo (finalmente) riprendere a discutere seriamente di rendita urbana (che “non è più quella di una volta” – Pizzo cit.), e (finalmente) mettere in relazione finanziarizzazione e teoria della rendita per capire esattamente come e a cosa serve, cosa produce nei vari specifici contesti (a cosa si intreccia, come è usata, cosa produce) – e valutarla conseguentemente. Lo scorso 21 luglio in Aula, il Sindaco ha rivendicato le proprie azioni e chiesto sostegno in cambio del rinvio a settembre del nodo più controverso, il Meazza. Tancredi invece si è dimesso; forse non era il momento per annunciare pure un cambio di passo, a partire da quella Commissione Paesaggio nelle cui dubbie mani sono state accentrate le scelte di trasformazione. Frutto avvelenato dell’ansia di semplificare le procedure, la Commissione ha sottratto margini di verifica all’amministrazione e prerogative al Consiglio, indebolendo l’istituzione nella contrattazione coi privati che era supposta vigilare. La semplificazione ha inoltre agito in concorso con il “dumping” sugli oneri di urbanizzazione, compressi al 5% del valore del volume edificabile contro il 20-30% che le città europee in media incassano per la gestione urbana, redistribuendoli in incrementi e conservazione del patrimonio pubblico, per garantire disponibilità ed efficienza dei servizi collettivi, il diritto all’abitare, la tutela della salute, il contrasto della vulnerabilità al clima. Colluse o indifferenti, a Milano le pratiche edilizie sono al contrario progredite senza il “peso” di un confronto con il carico di nuovi abitanti, l’impatto sulla mobilità, vincoli o salvaguardie ambientali: si è così disatteso il mandato di governo urbanistico che, il 24 luglio bocciando il ricorso contro i sigilli alle Torri “Lac” di Baggio, la Cassazione ha affermato di ritenere imperativo. Bisogna dunque ancora chiedersi: mettere in discussione e sperabilmente provare a modificare un certo modo (solo “ambrosiano”?) di fare urbanistica cosa significa esattamente? Ossia: cosa intendiamo con “fermare la città”? Se significasse fermare o rallentare un modello di sviluppo basato sulla crescita dissennata, un consumo di risorse insostenibile, un’idea di città come luogo del privilegio e dell’esclusione, piuttosto che come diritto e inclusione, allora forse si dovrebbe prendere sul serio la possibilità che una tale macchina vada fermata. Se è così, con la vicenda milanese (ma solo perché è emersa per prima) ci è data davvero l‘occasione di “fermarci”, allontanarci dagli interessi piccoli e grandi, ma immediati, dal “basso cabotaggio”, dalle idee per le città dal respiro breve e dalle prospettive anguste, e provare a chiederci: ma cosa stiamo facendo, per chi? È questa la città che desideriamo? Ed è una città vivibile? Da urbaniste, formate in un tempo in cui non si parlava d’altro che di “crisi” dell’urbanistica, della sua debolezza crescente e quasi-inutilità, ci sorprende che ora tutti i guasti messi in luce da questa inchiesta milanese siano ricondotti a quella disciplina che “improvvisamente” avrebbe invece un così grande potere; ci preoccupa l‘ulteriore delegittimazione e svilimento di una pratica nobile, socialmente rilevante, che questo ennesimo scandalo potrà produrre (e di nuovo a favore di chi vorrebbe “meno urbanistica”). Milano dimostra come una visione subalterna alle logiche della rendita e della finanza immobiliare riduca la città a congerie di eventi, opere e architetture che, per quanto possano incantare con la loro bellezza, rispondono a mire speculative in grado di logorare i luoghi, i modi e le relazioni da cui dipende la qualità della vita urbana. Perciò chiariamo che la soluzione a tutto questo non è “meno urbanistica”, e forse neppure “più urbanistica”, ma certamente un’urbanistica diversa da quella attualmente praticata, che purtroppo anche molti esponenti del così detto “riformismo” hanno più o meno direttamente ed esplicitamente contribuito ad affermare.     Per approfondimenti, si rimanda al testo di Barbara Pizzo Vivere o morire di rendita, Donzelli 2023, e al recente “Dialogo” promosso dalla SIU, tenutasi proprio a Milano il 18 e 19 giugno, intitolato “Mercato e regolazione. Processi di finanziarizzazione e rendita” tra Barbara Pizzo, Sapienza Università di Roma e Tuna Tasan Kok, dell’Università di Amsterdam, che sarà pubblicato a breve in forma di podcast sul sito della SIU; si vedano inoltre, su queste pagine, il Manifesto di Walter Tocci, tratto dal suo intervento al Congresso INU di maggio 2025 “Elogio dell’Urbanistica” e l’appello contro il Decreto “Salva Milano”   (immagine: Milano Murata di AleXandro Palombo, Milano Galleria di Arte Moderna, 21 lug.2025) L'articolo Ombre sulla città, Milano e l’urbanistica proviene da Roma Ricerca Roma.
Roma moderna. Due secoli di storia urbanistica
di Italo Insolera e Paolo Berdini Einaudi, 2024 Ritorna in un'edizione nuova e ampiamente aggiornata, sia nel testo sia nell'apparato iconografico, il classico di Italo Insolera Roma moderna, uscito per la prima volta nel 1962. Non si tratta di un saggio puramente tecnico, ma di un'opera che ricostruisce le vicende e le condizioni economiche, sociali, culturali e politiche che hanno determinato lo sviluppo urbanistico di Roma a partire dall'occupazione francese del 1809 fino a oggi (scheda editoriale). 
L'estrattivismo urbano a Roma. Il quartiere di Centocelle tra gentrificazione e rendita
di Luca Brignone LetteraVentidue, 2024 Un paradosso sembra minare l'efficacia dei processi di riqualificazione o rigenerazione nelle aree delle grandi città soggette a processi di marginalizzazione e periferizzazione: nella migliore delle ipotesi gli interventi si traducono in palliativi incapaci di incidere sui problemi strutturali. Nella peggiore, producono un'espulsione degli abitanti storici e meno abbienti acuendo le disuguaglianze che gli interventi stessi si proponevano di risolvere. Il libro, attraverso l'analisi della trasformazione recente del quartiere di Centocelle, problematizza la categoria della gentrificazione, svelando la natura profonda, radicata ed insidiosa del carattere estrattivo che contraddistingue i modelli di sviluppo urbano dominanti (leggi il libro). 
Roma. O dell'insostenibile modernità
di Enzo Scandurra DeriveApprodi, 2024 La questione romana, mai risolta, è al centro di questi saggi, scritti tra il 2013 e il 2023. Diverse amministrazioni si sono alternate alla guida della Capitale, cadendo senza suscitare alcuna nostalgia e senza riuscire a dare risposta ai mali della città: rifiuti, trasporti urbani, metropolitane, edilizia pubblica, accoglienza dei migranti, disuguaglianze, povertà. Si sono evocati progetti di modernizzazione per colmare il gap rispetto ai modelli urbani globali, da Milano a Barcellona e Dubai, dando per scontato che la "città eterna" fosse in ritardo e dunque bisognosa di grandi opere e megaeventi. Ma Roma moderna lo è di fatto, basta osservare la sua storia, i suoi gioielli di archeologia, i paesaggi dell’Agro romano. Il popolo romano, dotato di ironia e cinismo bonario, lo ha capito da tempo e ha così bocciato queste aspirazioni al nuovismo. I testi di Enzo Scandurra narrano pezzi di questa storia.