Pratiche internazionaliste per un (nuovo) diritto globale
di GISO AMENDOLA.
Il diritto internazionale è sempre stato una terra ambigua, non a caso s’è
sempre portato dietro una discussione secolare sulla sua stessa esistenza.
Predica l’eguaglianza strutturale e formale degli stati e poi ne legittima in
mille modi la gerarchia tra tati egemoni e canaglie. Mira alla repubblica
mondiale contro la sovranità statale e intanto incorona lo stato sovrano come
unico soggetto sulla scena, riducendo tutte le soggettività non-sovrane a
“pirateria” o giù di lì. Reclama come propria fondazione l’universalismo e si
costituisce esattamente come specchio del colonialismo, e resta sempre
attraversato dalla colonia come suo momento costitutivo. Carl Schmitt, che con
il suo Nomos della Terra elevò un ideologico inno al diritto internazionale
moderno, celebrandolo addirittura come una sorta di monumento inimitabile di
tutta la razionalità occidentale, paradossalmente fu anche uno dei più grandi e
chiari disvelatori del nesso costitutivo tra la creazione giuridica occidentale
e la colonia: il mondo degli stati ha prodotto l’idea di un ordinamento fondato
sull’uguaglianza formale tra loro, proprio nel momento in cui proclamava il
resto del mondo terra di conquista, fuori da ogni regola giuridica che non fosse
quella dell’appropriazione.
Più che di promesse non mantenute, o di tradimenti, si dovrebbe quindi parlare
di una tensione originaria che anima il diritto internazionale, e che non farà
che approfondirsi, riproducendosi continuamente. Da un lato, il diritto
internazionale è irrimediabilmente legato ai rapporti di forza, che sacralizza e
riproduce in nome del principio di effettività, parola magica da sempre per
l’ordine internazionale: è l’obbedienza che si ottiene nei fatti, a decidere, in
ultima analisi, ogni questione. Dall’altro lato, contiene lo slancio progettuale
a dare una regola anche agli stati, ad affermare l’inesistenza di poteri
assoluti, a rompere con lo stesso principio di sovranità per affermare una
regola al di là dei rapporti di pura forza. Indistricabilmente diviso tra
apologia (dell’esistente) e utopia (del progetto), come nel titolo di uno dei
libri di un maestro degli studi critici sul diritto internazionale, Martti
Koskenniemi.
Questa tensione costitutiva ha prodotto una critica del diritto internazionale
altrettanto ambivalente. La prima faccia della critica è quella dei cinici:
l’umanità è una menzogna, e la forza è l’unica ultima istanza, l’unica legge
delle relazioni internazionali. Oggi vediamo questa critica completamente
dispiegata: al ritiro dalle istituzioni sovranazionali, Trump fa seguire
l’irrisione delle regole globali, neanche più il finto ossequio. Israele da anni
oscilla tra l’ostinata ignoranza del diritto internazionale, e tentativi di
utilizzarlo per legittimare l’azione criminale, evocando il diritto a una difesa
sempre più preventiva e infrangendo ogni misura di proporzionalità. Dei due lati
del diritto internazionale, qui è decisamente quello apologetico che ormai
occupa tutto il campo.
Dall’altro lato, però, c’è una critica opposta, che guarda alle tensioni del
diritto internazionale per aprire una breccia nella logica strettamente
“realistica” dell’efficacia e della sovranità. È la critica che decostruisce il
nucleo coloniale, e con esso la logica di potenza che attraversa le istituzioni
internazionali, per ritrovare l’ingiunzione a rompere la logica degli stati (e
oggi diremmo ancor più dei blocchi), per risvegliare la tensione verso l’oltre
dello stato sovrano, che è il lato “utopico” del diritto internazionale. Jacques
Derrida, nell’ultima parte della sua opera (da Spettri di Marx a Cosmopoliti di
tutti i paesi, ancora uno sforzo!), ha affermato questo lato non cinico,
tutt’altro che semplicemente “realistico”, della critica alle istituzioni
internazionali: con grande forza, Derrida insisteva sul fatto che l’esercizio
decostruttivo della critica avrebbe incontrato il nucleo “indecostruibile” di
una promessa, di una lotta per la giustizia globale oltre la logica dei blocchi,
della violenza degli stati come unica e ultima ratio.
Oggi, non è difficile scorgere nell’azione di Francesca Albanese il segno di
questo nucleo indecostruibile, che, proprio mentre la crisi delle istituzioni
internazionali si fa, dal lato della loro efficacia, irrimediabile, ne rilancia
la funzione ora non solo di orizzonte etico, ma anche di arma politica. Così
Albanese si muove sempre in una tensione aperta tra la radicalità nel denunciare
la matrice coloniale dell’oppressione e nel decifrare la logica sistemica del
genocidio, e un’uguale radicalità nel richiamare sempre la funzione giuridica
dei suoi atti, nel rivendicare il ruolo delle istituzioni sovranazionali e i
loro doveri di intervento. Non è un caso che, nella vergognosa campagna mediale
che hanno tentato di orchestrare contro di lei, i servi delle amministrazioni
israeliane e statunitensi insistono continuamente sui toni “ambigui” dei suoi
rapporti, che sarebbero oscillanti tra il dovere della “neutralità” scientifica
del diritto, e la militanza postcoloniale o decoloniale. Non sanno, questi
sciacalli, che in realtà centrano esattamente quella relazione tra critica al
portato coloniale e uso del diritto internazionale, che sta tracciando la strada
per un ruolo del tutto inedito della giustizia internazionale. Nel grande
sostegno popolare a Francesca Albanese, in questo momento, risuona anche questo
suo essersi collocata con coraggio – da militante e, in tensione mai
risolvibile, da giurista – esattamente nel punto in cui la solidarietà alla
lotta palestinese e la denuncia del genocidio si saldano alla spinta
internazionalistica per una giustizia globale e per nuove istituzioni
transnazionali per la pace e i diritti, oltre ogni sguardo cinico sulla crisi
del diritto internazionale.
È lo stesso nuovo uso decoloniale della giustizia internazionale che ha animato,
per esempio, il ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia del Sudafrica
sulla natura genocidiaria dell’azione israeliana. Nella stessa direzione vanno
nuovi esperimenti di coalizione internazionale come il “gruppo dell’Aja”, che
qualche giorno fa si è riunito a Bogotà, con la presenza e l’intervento
significativo della stessa Albanese: una coalizione che dà voce a quel “resto”
del mondo che proprio la matrice coloniale del diritto internazionale vorrebbe
ridurre al silenzio, e che invece ha scelto anche le istituzioni internazionali
come terreno di lotta, pur dentro la crisi dell’ordine globale. È evidentemente
una strada durissima, nel regime di guerra feroce che attraversa il mondo: ma si
intravede la possibilità di un’alleanza tra i movimenti sociali, come quello di
solidarietà con la Palestina, e istituzioni internazionali, vecchie e nuove,
che, fallite nella loro storia di “apologete” dell’ordine occidentale, trovano
oggi una nuova possibilità politica come strumenti di chi, attraversando i
confini, vuole costruire una nuova stagione di lotte internazionaliste per la
pace e la giustizia globale.
questo testo, versione ampliata di un post pubblicato sul profilo Facebook
dell’autore, è stato pubblicato sul sito del Centro per la Riforma dello Stato
(CRS)
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