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Un Manifesto per non morire di rendita
Dopo il caso Milano, un Manifesto per non morire di rendita  di Walter Tocci   Il caso Milano solleva temi molto più profondi di quanto raccontano le cronache. Come al solito si prende coscienza dei problemi nazionali solo dopo l’intervento della magistratura. Il diffuso conformismo, infatti, oscura le analisi eterodosse che mettono in discussione ideologie e pratiche correnti. Nella diffusa apologia dello sviluppo urbanistico milanese si è voluto oscurare la crescente potenza della valorizzazione immobiliare che travolge tutte le forme di controllo e scarica alti costi sociali e umani nella vita urbana. Questo squilibrio crea un terreno fertile per la corruzione, ma è una patologia urbana anche in assenza di comportamenti illegali. Come processo socioeconomico è stato perfezionato al massimo livello a Milano, ma riguarda anche Roma e tutte le città italiane. Il valore urbano, inteso come rendita immobiliare, era al centro del dibattito politico negli anni Sessanta. Gli storici hanno dimostrato che fu il vero movente del tentativo di colpo di stato del generale De Lorenzo contro la legge Sullo. Se ne occupava anche la cultura, dal film di Rosi Le Mani sulla città al romanzo di Calvino La Speculazione edilizia. Perfino i capitalisti la disprezzavano come fattore di arretratezza dell’economia. Contro la rendita Agnelli invocava un patto tra produttori, cioè un’alleanza tra lavoratori e capitalisti. Invece, da quando si è alleata con la finanza se ne parla meno. È invisibile perché partecipa attivamente al capitalismo contemporaneo, il quale è il regno dei rentier e dei monopoli, nonostante le favole sulla concorrenza che ci raccontano gli economisti ortodossi. Che sia diventato un fattore cruciale è dimostrato dalla grande crisi del 2008, causata proprio dai mutui subprime. Chi l’aveva previsto che il turbocapitalismo naufragasse sul sogno piccolo-borghese della casetta in proprietà? E non a caso oggi l’impero americano è guidato da un immobiliarista, e un suo sodale negli affari, l’ineffabile Witkoff, tratta su pace e guerra, tra lo sconcerto dei diplomatici di professione. Dall’invisibilità derivano dimenticanze e fraintendimenti che dominano il senso comune e alimentano politiche dannose, come dimostra il miglior libro sulla questione: B. Pizzo, Vivere o morire di rendita, Donzelli 2023. Se l’attrazione della rendita è troppo forte vengono scoraggiati gli investimenti produttivi. L’acqua va dove trova la strada. E gli effetti sono più evidenti in Italia, nella pluridecennale stagnazione della produttività, nella diminuzione del valore aggiunto e nelle crisi bancarie, causate dagli eccessivi valori immobiliari scritti in bilancio prima dell’esplosione della bolla. L’eccesso di valorizzazione immobiliare, inoltre, produce devastanti effetti sociali e culturali, che sono sotto gli occhi di tutti. A Milano la crescita degli affitti ha determinato una sostituzione di popolazione, con espulsione nell’hinterland di ceti sociali meno abbienti e attrazione di quelli ad alto reddito, come ha dimostrato Lucia Tozzi, con largo anticipo sulle attuali vicende, quando tutti celebravano i fasti ambrosiani. In tutte le grandi città ritorna una drammatica “Questione delle abitazioni”, che sembra riecheggiare il saggio di Engels sui mali della città industriale. Inoltre, gli inusitati valori immobiliari determinano una selezione negativa delle funzioni urbane. Sono scoraggiate tutte le attività di innovazione culturale e tecnologica che nella fase di incubazione non ce la fanno a sostenere gli alti costi immobiliari. Al contrario vengono attratte le ricchezze originate dai monopoli di vario tipo: gruppi finanziari (basti pensare ai capitali del Qatar), airbnb, public utilities, cordate professionali, concentrazioni dei media, ecc. La rendita chiama altra rendita e scoraggia l’ingegno, smentendo il modaiolo bla-bla sulla città creativa. Ora sembrano prenderne coscienza anche gli editorialisti del Corriere della Sera, come scrive Dario Di Vico: “La rendita sta vincendo, e questa per Milano, storica città della crescita, è la vera ferita. Un modernità che umiliasse il merito non l’avevamo prevista”. L’economia classica di Ricardo era una scienza morale, proprio come l’urbanistica, e attribuiva all’imprenditore il merito del profitto mentre stigmatizzava i guadagni immeritati dei rentiers. Oggi si parla tanto di meritocrazia, eppure si dimentica che la valorizzazione non è merito dell’immobiliarista, poiché dipende in gran parte dal prestigio, dalla qualità e dalle infrastrutture del contesto urbano, cioè viene alimentata dall’azione dei cittadini e dalle iniziative dell’amministrazione pubblica. Al merito dell’operatore si può attribuire solo il profitto di impresa nel processo di costruzione. Se un profitto vale 20, la rendita vale 100, nonostante il primo sia frutto di una impegnativa attività industriale mentre la seconda richieda solo l’attesa di un guadagno immeritato. Con la legge Berlusconi, purtroppo ratificata anche dalle amministrazioni di sinistra, è diventato normale parlare di “premio di cubatura”. Eppure, non dovrebbe essere premiata una valorizzazione già molto più alta del plusvalore di qualsiasi investimento produttivo. La trasformazione dei tessuti non dovrebbe risolversi nel gioco ristretto tra legislatore e proprietario, a prescindere da qualsiasi considerazione sul contesto urbano. Semmai il “premio” dovrebbe essere destinato ai cittadini, riservando i terreni ancora liberi ai servizi pubblici e al verde, spesso carenti proprio nelle città costruite male. E non suscita alcuna indignazione la bassissima quota di questa valorizzazione che ritorna all’interesse pubblico. In una delle più grandi operazioni urbanistiche romane, nell’area di Bufalotta, si è calcolato che l’operatore ha ottenuto una rendita del 106% rispetto ai costi di costruzione e ha versato al Comune solo il 6% della valorizzazione. Cioè l’onere per il proprietario è stato circa quattro volte più basso delle tasse che paga un operaio. L’Italia è un paradiso fiscale per l’immobiliare. In Europa gli oneri arrivano al 30%, come non si è mai stancato di dimostrare il compianto Roberto Camagni, uno dei pochi economisti ad occuparsi di rendita. La legge Bucalossi, inoltre, aggiunge effetti distorsivi calcolando gli oneri non rispetto alla valorizzazione, ma ai costi di costruzione, con il risultato che nei quartieri più ricchi, in percentuale sul valore, gli oneri sono più bassi che in periferia o addirittura sono annullati con l’alibi delle urbanizzazioni esistenti. Si arriva a turlupinare l’opinione pubblica offrendo nei piani urbanistici un’opera pubblica aggiuntiva in cambio di ulteriori aumenti di cubatura. La scuola o il parco in più sono finanziati dagli stessi bassi oneri al 6%, per rimanere all’esempio precedente, mentre il proprietario incamera oltre il 100% di valorizzazione anche sull’aumento di cubatura. È un altro regalo per lui, ma viene presentato come una generosa offerta ai cittadini. D’altronde, c’è anche un’evidente asimmetria informativa. I Comuni non hanno strutture e competenze per valutare gli effetti economici di ciò che autorizzano, non sono in grado di confutare il business plan dell’immobiliarista, non dispongono di osservatori efficaci della valorizzazione urbana. La stessa legislazione non indica chiari criteri e parametri di convenienza pubblica nella contrattazione con i privati. Al contrario, negli appalti di infrastrutture c’è un imponente corpus normativo mirato a ridurre i costi per il pubblico e a impedire illeciti arricchimenti del costruttore. Le norme sono severe con il profitto d’impresa e lascive con la rendita di posizione. Tutti questi processi favoriscono la ricchezza proprietaria e aumentano la povertà pubblica. Al contrario se una quota ben maggiore della rendita fosse incamerata dal pubblico e reinvestita nelle infrastrutture la città sarebbe nel contempo più giusta e più produttiva. La così detta “urbanistica riformista” ha studiato i processi di valorizzazione al fine di perequare le rendite differenziali nel piano urbanistico. Nell’economia di carta e di mattone, però, il valore viene estratto dal suolo e innalzato nelle eteree transazioni finanziarie. Emerge, quindi, una nuova forma di rendita pura, la quale, a differenza di quella differenziale, non solo incide sul piano urbanistico, ma determina soprattutto gli effetti macroeconomici e macrosociali di cui sopra. Da come si ripartisce il valore urbano, quindi, dipendono questioni cruciali: se le risorse vanno verso usi parassitari oppure produttivi, se il valore della città viene appropriato da pochi oppure aumenta la qualità della vita e l’inclusione sociale. Per non morire di rendita occorre una svolta nelle politiche urbane. Ma prima ancora è necessaria una mobilitazione culturale per ribaltare almeno un trentennio di narrazioni dominanti, luoghi comuni, ideologie parassitarie, pratiche pubbliche e private ormai insostenibili. Ci sono in Italia tante persone e associazioni disponibili a cambiare lo stato di cose: chi ha sempre criticato lo sviluppo estrattivo di risorse, chi pratica quotidianamente la cura di parti di città, studiosi consapevoli degli impatti negativi dei processi attuali, enti preposti alla tutela dei beni comuni, tecnici e imprenditori che riflettono criticamente sul passato e cercano di voltare pagina. E’ arrivato il momento di fare forza comune, senza settarismi, superando anche le diversità particolari, cercando un filo comune per restituire alla città il valore creato dai cittadini. Ci vorrebbero persone e associazioni capaci di prendere l’iniziativa, mobilitare altre risorse e allargare il movimento. Quelli della mia generazione possono dare una mano, ma a guidare devono essere le nuove generazioni. Perché sono soprattutto loro a sentire gli effetti nella propria vita quotidiana e professionale: nella affannosa ricerca di un’abitazione, nella difficoltà di trovare un immobile per avviare un’opera innovativa, nella ricerca di fondi per ricerche eterodosse, nella faticosa interlocuzione con le burocrazie amministrative e politiche. In mezzo a tanti fenomeni negativi, se si osservano le città italiane con animo curioso si vedono tante esperienze emblematiche di una nuova cultura urbana, nel recupero sociale di aree dismesse, nelle pratiche di riconversione ecologica, nella produzione di nuovi beni culturali, nella promozione del mutualismo sociale, ecc. Tra gli organizzatori si nota una nuova alleanza tra ricercatori sociali e attivisti urbani. Per merito loro l’azione collettiva ha preso le sembianze di una progettualità urbana ad alto grado di condivisione, ben lontana dalla partecipazione assembleare e rivendicativa della mia generazione. Da questa alleanza tra cultura d’avanguardia e impegno collettivo oggi scorga un’inedita energia politica, che surroga l’assenza dei partiti nel territorio. Finora tale energia è rimasta confinata nel locale, ma rischia di essere travolta dai padroni della rendita se non prende la parola a livello cittadino e nazionale. Spero che almeno alcuni di questi ricercatori e attivisti prendano l’iniziativa di una mobilitazione generale. Sulla base di un Manifesto “Per non morire di rendita”, da sottoporre all’approfondimento in appositi Forum nelle città, allargando l’analisi e la proposta ai diversi casi italiani, per poi confluire in un appuntamento nazionale che scoperchi la realtà davanti all’opinione pubblica e chiami la politica alle sue responsabilità. Nonostante la gravità di tanti fenomeni di crisi urbana, le nostre città dispongono delle energie morali e sociali indispensabili per la loro rinascita.     Il testo è tratto dall’intervento al Congresso INU di Roma del 23 maggio 2025, Elogio dell’Urbanistica, ora pubblicato in: Città Bene Comune della Casa della Cultura di Milano. (foto di Italo Insolera, Roma Monte Mario, 1971) L'articolo Un Manifesto per non morire di rendita proviene da Roma Ricerca Roma.
Ombre sulla città, Milano e l’urbanistica
Ombre sulla città: Milano e l’urbanistica  di Barbara Pizzo e Alessandra Valentinelli, RomaRicercaRoma La più recente fase dell’inchiesta giudiziaria che ha portato alla redazione del “Salva Milano”, tra i decreti più controversi del Governo Meloni, ha concentrato di nuovo l’attenzione pubblica sull’urbanistica e il governo delle trasformazioni urbane, un tema di solito poco frequentato, se non addirittura estraneo alla maggioranza della popolazione, nonostante i suoi effetti e i suoi impatti riguardino tutti. Ci sono due aspetti in particolare che pensiamo valga la pena discutere allontanandoci dal fragore mediatico. Il primo riguarda il modo di pensare il governo del territorio da parte di chi è chiamato specificamente ad occuparsene. Il secondo riguarda il territorio, il suo presente e il suo futuro. Riferendosi all’elusione “sistematica” del Piano regolatore di Milano, Giuseppe Marinoni, presidente della Commissione Paesaggio, parlava di “Piano Ombra” caratterizzato da “alte parcelle”. Le indagini, che pure lo riguardano (nei suoi confronti è stata richiesta la custodia cautelare) e che a marzo scorso hanno già portato ad alcuni arresti, dicono del ricorso a modalità di “semplificazione” (per lo snellimento delle procedure) delle trasformazioni urbane in cui l’intervento di singoli decisori risulta particolarmente orientato all’esercizio di quella discrezionalità che invece solo marginalmente dovrebbe caratterizzare i sistemi di regolazione, quali, appunto, quelli urbanistici. Nella nuova tornata di avvisi di metà luglio sono 74 le persone a vario titolo indagate. Tra esse spiccano l’Assessore alla “Rigenerazione” Giancarlo Tancredi, Manfredi Catella, protagonista con il suo gruppo COIMA di alcune fra le più glam delle operazioni immobiliari locali, gli scambi non proprio eleganti tra il Sindaco Sala e l’architetto Stefano Boeri. In particolare, l’indagine evidenzia dinamiche relative alle procedure autorizzative che hanno attirato l’attenzione degli inquirenti per modalità quantomeno disinvolte nell’uso degli strumenti urbanistici. Ciò che emerge è la reiterazione di tali modalità le quali, nei fatti, rendono ambigui ruoli che invece dovrebbero essere chiari e distinti: non sono solo, né tanto, le “laute parcelle per le consulenze” che preoccupano, ma il fatto che divenga consulente chi in realtà dovrebbe controllare, supervisionare, governare, ricordandoci che il tema del “conflitto di interessi”, che può assumere moltissime forme, resta un nodo cruciale, a tutti i livelli e in tutti i settori pubblici, purtroppo incredibilmente sottostimato. A colpire tuttavia, nel vortice di dichiarazioni di maggioranza e opposizione, è la pressoché unanime preoccupazione che le notizie di reato possano fermare la città: “Così si ferma Milano”, “Non si può fermare la città” sono affermazioni ripetute e rilanciate dai media, che suonano tra il terrorizzante e il minaccioso. Allora (ci) chiediamo: ma davvero la Milano che si pensa motore dello sviluppo nazionale potrebbe fermarsi per un blocco dei cantieri? Siamo certi sia la finanza del mattone a costituire la ricchezza della città? Il tema non è semmai quello tutto politico, sollevato dal consigliere Enrico Fedrighini il 17 luglio, del “controllo pubblico per interesse pubblico” delle trasformazioni urbane? Fra le rendite assicurate dai palazzi in costruzione e l’economia meneghina, le differenze non sono sottili. Il capoluogo lombardo è sede di tre prestigiose università, delle principali banche e società informatiche nazionali, della metà delle multinazionali presenti in Italia. È “capitale del design”, dei brevetti in campo energetico e biotecnologico. Milano “è” la Borsa, e detiene i primati per occupazione, concentrazione di imprese e turismo d’affari con un PIL procapite doppio della media italiana. In tale quadro stride il numero di domande in lista d’attesa per l’assegnazione degli appena 600 alloggi popolari che, dai conteggi Sicet pubblicati da Zita Dazzi su Repubblica, ogni anno tornano disponibili: 17.000 famiglie che si sommano ai 4.500 nuclei che hanno già comprato casa negli edifici sequestrati dalla magistratura, o comunque congelati dallo stallo degli uffici comunali sui permessi. Dagli arresti in primavera cui si deve anche il ritiro del discusso “Salva Milano”, non sono mancate le riflessioni sulla bontà di una rigenerazione che espelle residenti: con quotazioni crescenti che oscillano tra 5.000 e oltre 25.000 €/mq per gli appartamenti più lussuosi, “non si trova casa”, denuncia a ogni articolo Lucia Tozzi; “non si trovano tranvieri”, dicono allarmati i milanesi. Del resto se, nonostante i 17 milioni di metri cubi di licenze residenziali rilasciate in 10 anni, Nomisma stima 80.000 immobili sfitti, il 10% del totale, i dati indicano una politica che risponde non alla domanda abitativa ma ai costruttori: “dumping urbanistico” l’ha definita il Presidente dell’INU Michele Talia, ottenuta dimezzando gli oneri a standard e servizi, con scomputi e deroghe che, solo negli ultimi anni secondo la Corte dei Conti ripresa da Barbacetto sul Foglio, hanno prodotto perdite secche per le casse di Palazzo Marino di oltre 100 milioni di euro. Il giro d’affari emerso dalle odierne inchieste è pervasivo quanto la sua retorica; cattura valore dall’esistente, creando “eventi” o aree “strategiche”: nei lotti vuoti del centro, negli ex scali ferroviari, nelle opere per i Giochi invernali del 2026 (già futuro studentato da 1.400 posti), allo Stadio di San Siro (di proprietà del Comune) a rischio demolizione per far posto ad un nuovo impianto (privato) dotato di attività commerciali e terziarie, con il progetto “Milano 2050” per nove “centralità” periferiche collegate alla rete metropolitana, oggetto per la procura di “un’operazione di speculazione intensiva” da 12 miliardi. Chi ci guadagna in questa corsa al mattone? Con inquinanti fuori soglia, verde e servizi in perenne affanno, in disarmo persino Argelati e Lido, le piscine comunali vanto di una città un tempo civile, il Rapporto 2025 di Assolombarda titola implacabile: “Milano perde talenti” per la mancanza di qualità urbana, dissipando un capitale umano la cui coorte giovanile alimenta sempre più i 600.000 coetanei, emigrati all’estero negli ultimi 10 anni. Argelati e Lido riflettono bene il cedimento del pubblico ai privati che Nadia Urbinati imputa alle istituzioni “disfunzionali”. Apprezzate piscine all’aperto, attive nei tre mesi della peggior afa estiva, hanno significato per generazioni di milanesi isole di divertimento, refrigerio e sport a tariffe accessibili. L’Argelati era stata la prima inaugurata nel 1915, poi ampliata nel 1956, seguita dal Lido nel 1930 con un’unica vasca da 6.500 mq balneabili; cartoline di una Milano se non popolare, svagata, accoglievano l’una 30.000, l’altra sino a 50.000 bagnanti a stagione. Così quando la Giunta Sala, tra il 2019 e il 2022, ne ha disposto la chiusura, ha toccato un nervo sensibile del culto ambrosiano, memore degli investimenti sociali nelle vecchie periferie. Ne spiega le implicazioni Antonio Longo, cui va il merito della petizione contro il “Salva Milano” lanciata con altri colleghi del Politecnico. Il suo report sulla “operazione” piscine evidenzia l’insufficienza di risorse comunali da spendere in lavori straordinari, 15 milioni che hanno indotto il Lido all’agonia, poi la sua concessione al privato per 25 milioni e 42 anni di gestione svincolata dal mantenimento del centro balneare: una rinuncia a preservare bene storico e benefici collettivi della funzione anche e non secondariamente climatica che, per Argelati, ancora in attesa di offerte valide, suona come la condanna alla fatiscenza. Sorte analoga alle piscine ha travolto la pista verde del Trotto: anch’esso abbandonato per scarsità di fondi di manutenzione, lo spazio pubblico adiacente lo stadio è stato reso edificabile e, nel 2023, venduto agli sviluppatori di Hines. A Milano, e non solo, la si chiama densificazione e la si giustifica con la “resilienza ambientale” che deriverebbe dal non consumare suolo, ma non si soddisfa nessun equilibrio ecologico se poi si sacrificano i terreni permeabili superstiti nel tessuto costruito, peraltro contravvenendo il Regolamento europeo sul ripristino della Natura, approvato appunto per difenderli. Ci chiediamo dunque: fermare un certo modo di portare avanti lo sviluppo urbano, che estrae valore molto più di quanto non ne produca, che è troppo spesso solo “rendita che produce altra rendita” (Pizzo 2023) e che determina una città sempre più iniqua e diseguale, davvero significa “fermare la città”? E se sì, allora su cosa si basa la sua struttura socioeconomica e in cosa consiste il suo “modello di sviluppo”? Possibile che una città come Milano abbia come sola freccia al proprio arco, l’economia della rendita? Se, invece, questo tipo di economia che intreccia mattoni e finanza, è l’unico modo in cui si pensa sia possibile fare “tutto il resto”, quello che tiene assieme tutto, allora a maggior ragione, dobbiamo (finalmente) riprendere a discutere seriamente di rendita urbana (che “non è più quella di una volta” – Pizzo cit.), e (finalmente) mettere in relazione finanziarizzazione e teoria della rendita per capire esattamente come e a cosa serve, cosa produce nei vari specifici contesti (a cosa si intreccia, come è usata, cosa produce) – e valutarla conseguentemente. Lo scorso 21 luglio in Aula, il Sindaco ha rivendicato le proprie azioni e chiesto sostegno in cambio del rinvio a settembre del nodo più controverso, il Meazza. Tancredi invece si è dimesso; forse non era il momento per annunciare pure un cambio di passo, a partire da quella Commissione Paesaggio nelle cui dubbie mani sono state accentrate le scelte di trasformazione. Frutto avvelenato dell’ansia di semplificare le procedure, la Commissione ha sottratto margini di verifica all’amministrazione e prerogative al Consiglio, indebolendo l’istituzione nella contrattazione coi privati che era supposta vigilare. La semplificazione ha inoltre agito in concorso con il “dumping” sugli oneri di urbanizzazione, compressi al 5% del valore del volume edificabile contro il 20-30% che le città europee in media incassano per la gestione urbana, redistribuendoli in incrementi e conservazione del patrimonio pubblico, per garantire disponibilità ed efficienza dei servizi collettivi, il diritto all’abitare, la tutela della salute, il contrasto della vulnerabilità al clima. Colluse o indifferenti, a Milano le pratiche edilizie sono al contrario progredite senza il “peso” di un confronto con il carico di nuovi abitanti, l’impatto sulla mobilità, vincoli o salvaguardie ambientali: si è così disatteso il mandato di governo urbanistico che, il 24 luglio bocciando il ricorso contro i sigilli alle Torri “Lac” di Baggio, la Cassazione ha affermato di ritenere imperativo. Bisogna dunque ancora chiedersi: mettere in discussione e sperabilmente provare a modificare un certo modo (solo “ambrosiano”?) di fare urbanistica cosa significa esattamente? Ossia: cosa intendiamo con “fermare la città”? Se significasse fermare o rallentare un modello di sviluppo basato sulla crescita dissennata, un consumo di risorse insostenibile, un’idea di città come luogo del privilegio e dell’esclusione, piuttosto che come diritto e inclusione, allora forse si dovrebbe prendere sul serio la possibilità che una tale macchina vada fermata. Se è così, con la vicenda milanese (ma solo perché è emersa per prima) ci è data davvero l‘occasione di “fermarci”, allontanarci dagli interessi piccoli e grandi, ma immediati, dal “basso cabotaggio”, dalle idee per le città dal respiro breve e dalle prospettive anguste, e provare a chiederci: ma cosa stiamo facendo, per chi? È questa la città che desideriamo? Ed è una città vivibile? Da urbaniste, formate in un tempo in cui non si parlava d’altro che di “crisi” dell’urbanistica, della sua debolezza crescente e quasi-inutilità, ci sorprende che ora tutti i guasti messi in luce da questa inchiesta milanese siano ricondotti a quella disciplina che “improvvisamente” avrebbe invece un così grande potere; ci preoccupa l‘ulteriore delegittimazione e svilimento di una pratica nobile, socialmente rilevante, che questo ennesimo scandalo potrà produrre (e di nuovo a favore di chi vorrebbe “meno urbanistica”). Milano dimostra come una visione subalterna alle logiche della rendita e della finanza immobiliare riduca la città a congerie di eventi, opere e architetture che, per quanto possano incantare con la loro bellezza, rispondono a mire speculative in grado di logorare i luoghi, i modi e le relazioni da cui dipende la qualità della vita urbana. Perciò chiariamo che la soluzione a tutto questo non è “meno urbanistica”, e forse neppure “più urbanistica”, ma certamente un’urbanistica diversa da quella attualmente praticata, che purtroppo anche molti esponenti del così detto “riformismo” hanno più o meno direttamente ed esplicitamente contribuito ad affermare.     Per approfondimenti, si rimanda al testo di Barbara Pizzo Vivere o morire di rendita, Donzelli 2023, e al recente “Dialogo” promosso dalla SIU, tenutasi proprio a Milano il 18 e 19 giugno, intitolato “Mercato e regolazione. Processi di finanziarizzazione e rendita” tra Barbara Pizzo, Sapienza Università di Roma e Tuna Tasan Kok, dell’Università di Amsterdam, che sarà pubblicato a breve in forma di podcast sul sito della SIU; si vedano inoltre, su queste pagine, il Manifesto di Walter Tocci, tratto dal suo intervento al Congresso INU di maggio 2025 “Elogio dell’Urbanistica” e l’appello contro il Decreto “Salva Milano”   (immagine: Milano Murata di AleXandro Palombo, Milano Galleria di Arte Moderna, 21 lug.2025) L'articolo Ombre sulla città, Milano e l’urbanistica proviene da Roma Ricerca Roma.
Qui è tutto abitato. L’occupazione romana di Santa Croce/Spin Time Labs come esperienza abitativa liminale
di Chiara Caciotti Ombre Corte, 2024 Partendo da un’indagine etnografica svolta nell’occupazione abitativa romana di Santa Croce/Spin Time Labs, il libro esprime un posizionamento critico nei confronti del termine “emergenza abitativa”. Infatti nella Capitale questa rappresenterebbe una condizione tutt’altro che emergenziale, ma cronicizzata ed endemica. L’autrice indaga gli effetti di questa condizione sulla vita della comunità occupante posta al centro del caso di studio, che sembra esperire una condizione di liminalità abitativa caratterizzata dal costante tentativo di organizzare, vivere e apprendere una modalità affatto ovvia di abitare collettivo (scheda editoriale).L’intero libro è quindi un tentativo di restituire la complessità soggiacente a un preciso modo di abitare gli interstizi urbani che è tutt’altro che provvisorio o temporaneo. Da una parte, vi è la restituzione e interpretazione della vita quotidiana nel palazzo, dell’“economia morale” al suo interno e della sua grammatica spaziale. Dall’altra, vi sono i tentativi degli occupanti e degli attivisti del movimento di lotta per la casa locale di trovare un nuovo meccanismo politico per fuoriuscire dalla condizione che li caratterizza. Ciò che viene individuato è in un processo di apertura dell’edificio al territorio circostante. Un processo che, nei suoi dieci anni di vita, l’ha trasformato in un bene pubblico non statuale capace di accogliere pubblici differenti.
Il diritto di restare. Espulsioni e radicamento tra Roma e Ostia
di Stefano Portelli Carocci, 2024 Che cosa ne è stato degli abitanti dei borghetti autocostruiti intorno a Roma, le cosiddette “baracche” demolite negli anni Settanta? Questo libro racconta i decenni successivi alla grande stagione delle lotte per la casa, quando migliaia di persone trasferite sul litorale iniziarono a sentirsi deportate, sradicate, più isolate che nei vecchi quartieri. «Ostia, o Bombay – è uguale», scrisse Pasolini. In tutto il pianeta milioni di persone subiscono sfratti, sgomberi e trasferimenti, spesso verso zone remote. Ma quando le ruspe demoliscono abitazioni, spazi sociali, luoghi di culto, chi viene sradicato percepisce una violenza i cui effetti possono riemergere altrove, in forme anche difficili da decifrare. Il “diritto di restare” che reclamano oggi gli abitanti dell’Idroscalo di Ostia, l’ultimo borghetto di Roma, come quelli di altre zone considerate “informali” in tutto il mondo, può essere la chiave per immaginare quartieri contro lo sradicamento, città basate sui bisogni e sui desideri di chi le vive, anziché su progetti elaborati altrove (scheda editoriale). INDICE Introduzione 1. Lo Stato bulldozer 2. Ai margini di Roma 3. Lo sradicamento: le persone sono sostituibili? 4. Il vento della storia 1. Sotto gli archi di un acquedotto Le chiamavano baracche/La lotta per la casa/Nostalgia della baracca?/Lapide 2. Una mattonata sulla testa Dall’Acquedotto Felice al ghetto infelice/Abbiamo occupato tutto/Lo spezzamento di una comunità/Un amore tossico 3. L’ultimo borghetto di Roma La Sardegna dei poveri/Il marchio abusivo/Affari d’acqua/Tre dinamiche socio-spaziali 4. Quand’hanno sbracato Una sottile linea rossa/La vita nel residence/Il diritto di restare Coda: una testata alla volta 1. Una deriva verso i margini 2. La palestra della legalità 3. Angeli e demoni 4. Non ci sono buoni Indice dei nomi
Regolamentare gli affitti brevi con gli strumenti urbanistici: proposta per Roma
> Di Filippo Celata e Daniela Festa (*) > > . > > Cosa si può fare per porre un freno alla conversione di appartamenti > residenziali in affitti brevi per i turisti. Quali sono gli strumenti > urbanistici disponibili. Cosa stanno facendo le altre città. Cosa può e deve > fare Roma. > > . La necessità urgente di regolamentare e introdurre limitazioni agli affitti brevi, ovvero alla locazione turistica di alloggi ad uso abitativo, al fine di favorire la residenzialità, è ormai riconosciuta da molti. La lista di coloro che si sono espressi a favore, anche all’interno della Giunta e dell’Assemblea capitolina, è lunga. Sul perché, ovvero sugli effetti devastanti della massiccia conversione di abitazioni residenziali in alloggi destinati ai turisti, non è necessario soffermarsi qui, perché molto è stato già scritto e detto (Celata, 2024; si segnala anche questo podcast). Il problema principale è l’effetto drammatico che il ‘fenomeno Airbnb’ ha avuto sulla disponibilità di locazioni a lungo termine, come sa bene chi in questi mesi pre-Giubileo cerca a Roma una casa in affitto: missione quasi impossibile. A Roma come altrove in Italia di tale necessità ci si è resi conto tardivamente, mentre ormai in quasi tutte le altre grandi città turistiche europee sono state introdotte norme più o meno stringenti (si veda la tabella). Per mesi poi, in Italia, si è attesa una specifica legge nazionale che consentisse esplicitamente ai Comuni di intervenire in tal senso, sul modello della norma introdotta ad hoc per Venezia (art. 37-bis, d.l. 50/2022 convertito in legge n. 90/2022), e che per inciso risulta tuttora inattuata. Nell’ultima legge di Bilancio (L. 2143/2023) sono invece confluiti solo alcuni vincoli in materia di sicurezza degli immobili destinati a locazione turistica e l’estensione all’intero territorio nazionale del cosiddetto Codice Identificativo, già previsto da diverse norme regionali. Diventato evidente, dunque, che il governo non avesse alcuna intenzione di consentire una effettiva regolamentazione e limitazione del fenomeno, la domanda è diventata: cosa possono fare i Comuni in assenza di una esplicita legge nazionale? La risposta è che si può fare molto, utilizzando appunto gli strumenti urbanistici, sebbene la questione sia complessa, anche perché le competenze in materia sono suddivise tra diversi livelli di governo in maniera non sempre chiara. PROPOSTE PER ROMA: LO STRUMENTO URBANISTICO Presentiamo qui una proposta di regolamentazione urbanistica degli affitti brevi, coerente con la proposta del Gruppo Romano per la Regolamentazione degli Affitti Brevi, successivamente discussa in un incontro sul tema organizzato il 19 Aprile 2024 dalla Commissione Politiche Abitative e Patrimonio di Roma Capitale, e poi rielaborata all’interno delle Osservazioni del Municipio I del 2 maggio 2024 sulla modifica in corso delle Norme Tecniche di Attuazione (NTA) del Piano Regolatore di Roma. A giugno 2023 la giunta capitolina ha infatti approvato una proposta di modifica delle attuali NTA che ha suscitato un acceso dibattito anche perché, piuttosto che contrastare l’iper-turistificazione, la modifica è sembrata a molti volerla favorire (1). L’idea che è emersa successivamente è, in particolare l’introduzione – in sede di discussione e approvazione delle modifiche delle NTA da parte dell’Assemblea capitolina, prevista a breve –  di una sub-articolazione della categoria funzionale residenziale per distinguere i casi nei quali le unità immobiliari sono effettivamente ad uso abitativo dai casi in cui l’uso è prevalentemente o esclusivamente ricettivo. Le stesse NTA dovrebbero rimandare poi a un successivo e separato regolamento da emanarsi a cura dell’Assemblea Capitolina entro alcuni mesi, che introduca una disciplina specifica. L’obiettivo è favorire gli usi effettivamente abitativi e mantenere la riconoscibilità della struttura insediativa della città storica e della città consolidata, attenendosi ai profili strettamente urbanistici del governo degli usi e delle trasformazioni del territorio, e in coerenza con i principi costituzionali relativi alla proprietà dell’abitazione (2). Le NTA vigenti (Delibera del Consiglio Comunale 18/2008), all’interno delle destinazioni d’uso ‘abitative’ (lettere A), prevedono ad ora esclusivamente le sub-categorie ‘abitazioni singole’ e ‘abitazioni collettive’ (studentati, convitti, conventi, ecc.). Nell’ambito della categoria funzionale D, ‘turistico-ricettiva’, è prevista la sub-categoria ‘strutture ricettive extra-alberghiere’, ma in essa non ricadono attività quali i Bed & Breakfast, gli affittacamere o gli alloggi ad uso turistico, anche perché le norme regionali prevedono esplicitamente che tali attività non comportino cambio di destinazione d’uso. L’Art. 17 delle NTA vigenti prevedeva infine che, con successivo provvedimento, il Comune potesse “limitare, per motivi di salvaguardia dei caratteri socio-economici, culturali e ambientali di particolari zone della Città storica e della Città consolidata, i cambiamenti di destinazione d’uso o l’insediamento di specifiche attività interne alle destinazioni d’uso” previste, ma a tale disposizione, almeno per quel che riguarda le locazioni turistiche, non è mai stato dato seguito. COSA STANNO FACENDO LE ALTRE CITTÀ ITALIANE Altri Comuni in Italia hanno d’altronde intrapreso la stessa strada. Noto è il tentativo del Comune di Firenze che l’8 agosto 2023 ha approvato una variante alle NTA del Regolamento Urbanistico prevedendo all’interno dell’uso residenziale la sub-categoria “residenza temporanea”, comprensiva delle locazioni turistiche brevi e delle strutture ricettive extra-alberghiere. Il Comune ha poi, su questa base, imposto il blocco alle nuove registrazioni di locazioni turistiche all’interno del centro storico e del sito UNESCO. Nell’Aprile 2024, inoltre, il Comune di Bologna ha approvato una modifica al Regolamento edilizio che introduce all’interno della categoria funzionale turistico-ricettiva una sub-categoria relativa alle attività turistiche svolte in unità immobiliari a destinazione abitativa, incluse le locazioni brevi. Tali attività dovranno quindi sottostare a un vero e proprio cambiamento di categoria funzionale; il che dovrebbe preludere, si desume, all’introduzione di uno specifico regime autorizzativo. Interventi analoghi sono attualmente in discussione in diverse altre città. Si attende a giorni, in seguito ad alcuni ricorsi, la pronuncia del TAR in merito alle nuove norme fiorentine. È possibile che il Tribunale possa pronunciarsi in merito alle modalità dell’intervento, ma difficilmente potrà inficiare l’intero provvedimento. “Nella giurisprudenza amministrativa possono rinvenirsi rilevanti pronunce che non solo confermano la possibilità di introdurre limitazioni a B&B e locazioni turistiche a fini di tutela della residenzialità dei centri storici (…), ma che certificano pure la non irragionevolezza di una disciplina differenziata tra uso residenziale ‘vero e proprio’ – volto a soddisfare il bisogno primario dell’abitazione – e uso residenziale temporaneo – volto a soddisfare un mero interesse turistico”, laddove le leggi regionali contengono disposizioni in tal senso (Menegus, 2024). LE ABITAZIONI A USO TURISTICO NEL PIANO REGOLATORE DI ROMA La proposta qui presentata è, come detto, da un lato coerente ma d’altro lato diversa da quelle summenzionate. L’idea è, in particole, prevedere due specifiche sub-articolazioni all’interno delle destinazioni d’uso ‘abitative’ di cui all’art.6 delle NTA. La distinzione è principalmente dovuta alla possibilità o meno che l’unità immobiliare continui a essere utilizzata a scopi abitativi e residenziali, ovvero implichi o meno la presenza di un soggetto residente che dimori all’interno dell’appartamento in maniera permanente o per lo meno intermittente. Una prima sub-categoria (A3) comprenderebbe le ‘abitazioni ad uso misto abitativo-turistico’, ovvero parzialmente o occasionalmente utilizzate a scopo turistico ricettivo in forma non imprenditoriale. Sarebbero inclusi in tale sub-categoria i Bed and Breakfast (Art. 9 R.R. 8/2015) (3); e gli Alloggi per uso turistico (Art. 12 bis R.R. 8/2015) nei soli casi in cui soltanto parte dell’abitazione è utilizzata a scopo turistico ricettivo. In tali casi le unità immobiliari mantengono una loro funzione abitativa. Per i Bed & Breakfast, infatti, l’art. 4 del R.R. 8/2015 impone che “il gestore deve avere la residenza nella struttura e si riserva una camera da letto all’interno della stessa”. Gli Alloggi ad uso turistico rientrerebbero invece in tale sub-categoria soltanto nei casi in cui solo una parte dell’abitazione – tipicamente una camera – è a uso turistico ricettivo, mentre il restante è a uso abitativo. In questi casi il successivo regolamento potrebbe anche non avere scopi esplicitamente limitativi, ma operare al fine di garantire che l’abitazione mantenga effettivamente un utilizzo abitativo e, almeno nel caso degli alloggi ad uso turistico, che tale utilizzo debba intendersi come prevalente. La seconda sub-categoria (A4) comprenderebbe le ‘abitazioni a uso turistico’, ovvero interamente e non occasionalmente utilizzate a scopo turistico ricettivo. Sarebbero quindi inclusi: le Guest house o Affittacamere, per i quali è prevista esclusivamente la gestione in forma imprenditoriale (art. 4 R.R. 8/2015) (4); le Case e appartamenti per vacanze gestiti in forma imprenditoriale o non imprenditoriale (art. 7 R.R. 8/2015); gli Alloggi per uso turistico nei casi in cui l’intera abitazione è utilizzata a scopo turistico ricettivo e per i quali le norme regionali prevedono che tale uso debba comunque essere “occasionale, non organizzato e non imprenditoriale” (art. 12 bis R.R. 8/2015). COSA CONSENTONO DI FARE LE LEGGI NAZIONALI E REGIONALI È possibile operare in tal senso in assenza di esplicite norme che consentano ai Comuni di farlo? La risposta è si. A livello nazionale, l’art. 23-ter comma 3 del Testo Unico sull’Edilizia prevede infatti che “il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito, salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali” (5). A livello regionale, le Regioni avrebbero in teoria ampissimi poteri in merito al ‘governo del territorio’. A questi poteri tuttavia, nel caso specifico dell’utilizzo per finalità ricettive di immobili residenziali, le Regioni sembrano aver volontariamente rinunciato, mentre “più di un dubbio può esser sollevato in merito all’inattività delle Regioni” in questo ambito, laddove l’utilizzo turistico ricettivo non occasionale delle abitazioni ha evidentemente rilevanza urbanistica (Tumminelli, 2023). L’introduzione di una disciplina specifica anche in assenza di un chiaro e specifico quadro normativo ci appare comunque necessaria anche al solo fine di favorire un chiarimento di quelle che sono le prerogative dei diversi livelli di governo. Il regolamento comunale, d’altro lato, agirebbe del tutto in coerenza con quanto già disposto, a livello regionale, dall’art. 4 della L.R. n.8 dell’8 maggio 2022, il quale prevede che “ai fini della salvaguardia ambientale e paesaggistica e del patrimonio storico, artistico, archeologico e monumentale, nonché della sostenibilità ambientale, infrastrutturale, logistica, della mobilità e della vivibilità necessaria alla fruizione dei luoghi da parte della collettività, Roma Capitale può individuare criteri specifici in riferimento a determinati ambiti territoriali per lo svolgimento di attività di natura non imprenditoriale di locazione di immobili ad uso residenziale per fini turistici, nel rispetto dei principi di stretta necessità, proporzionalità e non discriminazione”. Il regolamento comunale sarebbe inoltre del tutto coerente con i Regolamenti Regionali sulle attività ricettive. Tali regolamenti prevedono da un lato, come detto, che l’utilizzo turistico ricettivo di appartamenti residenziali “non comporti cambio di destinazione d’uso” (escludendo quindi – a norma regionale invariata – che tali utilizzi possano prefigurare una destinazione d’uso a funzioni turistico-ricettive, la quale sarebbe invece auspicabile per lo meno nei casi in cui tali utilizzi prefigurino un utilizzo esclusivamente ricettivo). D’altro lato, i Regolamenti Regionali disciplinano l’utilizzo a scopo turistico ricettivo delle unità abitative in maniera dettagliata e stringente. Tali disposizioni, tuttavia, in particolare per quel che riguarda gli alloggi ad uso turistico, risultano in larga parte inattuate e inattuabili in assenza di una specifica disciplina urbanistica e per via dell’onerosità e della scarsa efficacia dei relativi controlli. Il regolamento comunale avrebbe quindi lo scopo, tra le altre cose, di consentire il rispetto di quanto già previsto da norme esistenti. VERSO UN REGOLAMENTO COMUNALE PER GLI AFFITTI BREVI In coerenza con l’art. 4 della L.R. 8/2022, il regolamento comunale potrà in particolare introdurre una disciplina differenziata per ambiti e tessuti e i criteri specifici per lo svolgimento delle attività di cui agli usi A3 e A4 nei diversi contesti, tenendo presenti tanto le peculiarità e le fragilità dei vari tessuti urbanistici, quanto i diversi gradi di intensità con i quali il fenomeno si manifesta nella città. Preme sottolineare che il problema, in questo senso, non è in alcun modo limitato al ‘centro storico’, e nemmeno al solo Municipio I di Roma. Limitare l’intervento al solo centro storico o peggio a specifiche zone all’interno di esso non avrebbe infatti alcuna efficacia in zone limitrofe dove il fenomeno è già notevolmente diffuso e impattante, e rischierebbe perfino di disperdere il problema altrove. Il rischio, in altre parole, è congelare il centro così com’è, turistificando il resto della città. D’altro lato, una effettiva regolamentazione che non avesse espliciti intenti zonali, ma che si proponesse di limitare lo svolgimento in forma non occasionale e sistematica di attività ricettive negli appartamenti residenziali, avrebbe comunque effetti differenziati a scala sub-comunale dal momento che l’utilizzo ricettivo più intenso e organizzato si concentra nelle zone più attrattive, redditizie e nelle quali sono maggiormente visibili gli effetti negativi dell’iper-turistificazione. Il regolamento dovrebbe poi disciplinare la distinzione tra attività occasionale e non, dal momento che, come detto, l’art 12 bis del R.R. 8/2015 dispone che l’affitto come alloggio ad uso turistico debba essere in ogni caso “occasionale”. Tale distinzione potrà anche basarsi sulla definizione di un tetto annuale di giornate per l’affitto ai turisti, sufficientemente stringente per consentire una effettiva utilizzazione a scopo abitativo. Ci appare per altri versi eccessivamente ampio il limite dei 120 giorni che è spesso menzionato in Italia, laddove nelle città estere nelle quali è stato introdotto il cosiddetto ‘time-cap’ esso è in genere da 30 a 90 giorni, e/o associato ad altre restrizioni, quali l’obbligo di residenza (si veda la tabella). Il regolamento dovrà, inoltre, dare effettiva attuazione a quanto disposto dal comma 2 dell’art 12 bis del R.R. 8/2015, il quale limita l’utilizzo di alloggi ad uso turistico solo alle unità immobiliari ai “proprietari, gli affittuari o coloro che a qualsiasi titolo dispongono di un massimo di due appartamenti nel territorio del medesimo Comune”. Tale norma potrebbe avere effetti rilevantissimi dal momento che, attualmente, il 52% degli annunci su Airbnb.com fa riferimento a soggetti che gestiscono più di due annunci. Più complesso appare un intervento che chiarisca, sempre in coerenza con le norme regionali, cosa si intenda per utilizzo a scopo turistico ricettivo in forma non organizzata e non imprenditoriale. In linea di principio, dovrebbe essere verosimilmente e fino prova contraria esclusa la gestione da parte di proprietari o locatari che siano persone giuridiche, ovvero soggetti che per le loro caratteristiche costitutive e organiche si orientano inevitabilmente verso una gestione organizzata e imprenditoriale. Ciò non impedirebbe che proprietari o locatari persone fisiche possano avvalersi di intermediari quali i ‘property manager’, laddove il loro ruolo sia limitato a funzioni di intermediazione per loro conto, e non equiparabili all’assunzione di una vera e propria funzione gestionale, organizzata e imprenditoriale. La natura imprenditoriale o meno di una qualsiasi attività non è tuttavia di competenza urbanistica. Il tema andrebbe in ogni caso posto nelle sedi sovraordinate al fine, anche in questo caso, di dare effettiva attuazione a quanto previsto dalle norme regionali esistenti (6). Sempre al fine di favorire la residenzialità, il regolamento potrà stabilire che non è in alcun modo precluso l’utilizzo a fini esclusivamente abitativi delle unità immobiliari classificate come a utilizzo misto abitativo-turistico (A3) o a utilizzo turistico (A4). Sarebbe sempre possibile tornare, in altre parole, a un utilizzo a scopi esclusivamente abitativi di tali immobili.  Il regolamento riguarderebbe in questo modo tutte le forme di ricettività extra-alberghiera in abitazioni residenziali, chiarendo eventualmente che la disciplina si pone anche l’obiettivo di sanare l’ineguale e ingiustificato favore con il quale le norme disciplinano gli alloggi ad uso turistico rispetto ad altre forme di ricettività alberghiera ed extra-alberghiera. PER UNA REGOLAMENTAZIONE EFFICACE, E IL PROBLEMA DEGLI ‘ABUSIVI’ Le modifiche così introdotte e ulteriormente disciplinate dal successivo regolamento si applicherebbero a partire dalla data di adozione delle modifiche alle NTA, tutelando le situazioni pregresse solo per coloro che già svolgono attività turistico ricettiva in abitazioni in piena conformità alle norme e ai regolamenti vigenti, inclusi il rispetto dei “requisiti previsti per le abitazioni”, della “normativa vigente in materia edilizia e igienico sanitaria”, gli obblighi di registrazione e di comunicazione, e ivi compresi gli obblighi di comunicazione dei “dati sugli arrivi e sulle presenze” e gli obblighi introdotti recentemente in materia di sicurezza degli immobili. La disciplina avrebbe invece piena applicazione nei confronti dei cosiddetti ‘abusivi’, ovvero coloro che non ottemperano agli obblighi summenzionati, facilitando peraltro le relative verifiche. Per questi casi di un uso ricettivo di fatto e contra legem, l’attività deve essere infatti considerata come illegittimamente avviata. Il regolamento dovrà adoperarsi per evitare che la nuova disciplina comporti, in questo modo, un trattamento ingiustamente vantaggioso per chi già svolge attività ricettiva, a danno di chi intendesse iniziare a intraprendere tale attività. A tal fine si dovrà esplorare la possibilità di limitare il passaggio alla sub-categoria A4 solo per un numero limitato di anni, per favorire una qualche forma di rotazione ispirata a principi redistributivi dei vantaggi economici associati alla ricettività turistica. Sempre a tal fine si dovrà stabilire che l’utilizzo di cui alle sub-categorie A3 e A4 sia vincolato allo stesso immobile e al medesimo proprietario o locatario, ovvero non possa tale prerogativa essere trasferita da un immobile a un altro e/o da un proprietario o locatario all’altro. Al fine di evitare che l’introduzione della nuova disciplina si associ alla persistenza o alla crescita di un’offerta ‘abusiva’, irregolare o illegittima, il regolamento dovrebbe disciplinare anche i relativi controlli e le verifiche, anche tramite un incremento delle risorse ad essi destinati. È cruciale, in particolare, l’introduzione di un adeguato sistema di monitoraggio delle piattaforme online di prenotazione, anche tramite accordi con tali piattaforme per consentire, come avviene in molte altre città estere, la condivisione delle informazioni rilevanti e/o il blocco automatico degli annunci ‘irregolari’. Su questo, sarà utile fare riferimento a quanto sperimentato in altre città – si veda in particolare Barcellona – valutando la soluzione migliore sulla base del suo costo-efficacia. Si potrà inoltre valutare, in sede separata, l’introduzione di ulteriori norme di carattere incentivante/disincentivante, quali un regime differenziato per le imposte municipali. Preme tuttavia sottolineare che agire esclusivamente in termini di disciplina fiscale, come pure anche in Italia in qualche modo si è fatto, è ovviamente necessario sotto il profilo dell’efficacia e dell’equità dei regimi impositivi, ma avrà molto difficilmente sostanziali effetti disincentivanti. Quanto sopra è soltanto una proposta, che dovrà essere discussa con tutti i soggetti rilevanti e sottoposta ad attente valutazioni di ordine tecnico e giuridico, soprattutto in sede di emanazione del regolamento comunale. Bisognerà in ogni caso agire energicamente, prima possibile, e all’interno di un perimetro più ampio possibile, assumendosi anche qualche rischio. Ci si muove, d’altronde, su un terreno in Italia ancora praticamente inesplorato. In questo quadro qualsiasi intervento ha innanzitutto lo scopo di chiarire, come detto, fino a che punto può spingersi un intervento urbanistico. È l’unica strada percorribile affinché la regolamentazione abbia effetti sostanziali e non meramente cosmetici su un fenomeno che ha già raggiunto proporzioni enormi e i cui effetti sono ormai molto difficilmente reversibili. NOTE: * Gli autori desiderano ringraziare per la collaborazione alla stesura del testo Gianluca Bei, Barbara Brollo, Alessandra Esposito, e per i commenti Grazia Galli (Progetto Firenze), Maria Luisa Mirabile (Gruppo Romano Regolamentazione Affitti Brevi), Giacomo Menegus, Giacomo Maria Salerno e Giovanni Leone (Alta Tensione Abitativa), Paolo Gelsomini (Carteinregola). (1) La proposta di modifica delle NTA approvata dalla giunta capitolina il 13 giugno 2023, in particolare, includerebbe esplicitamente bed and breakfast, affittacamere, case per vacanze nella categoria funzionale abitativa, senza alcuna ulteriore distinzione o articolazione in sottocategorie funzionali. Consentirebbe inoltre nei tessuti storici i frazionamenti di unità immobiliari (facilitando quindi la loro conversione ad un utilizzo ricettivo), la conversione a funzioni ricettive degli edifici per più del 70% occupati da tali attività, e l’apertura anche in centro di grandi alberghi (che è attualmente preclusa). Si veda in tal senso l’intervista a Barbara Pizzo sul Fatto Quotidiano, urbanista ed ex presidente di Roma Ricerca Roma, e il commento di Giancarlo Storto per Carteinregola. (2)  La Costituzione tutela infatti i diritti dei proprietari di immobili residenziali ma “solo nella misura in cui vi sia diretta corrispondenza tra la proprietà del bene-casa e la soddisfazione del bisogno abitativo del proprietario” (Olivito, 2016). (3)  Qui e di seguito si intende il Regolamento Regionale 8/2015 così come modificato e integrato dal Regolamento Regionale 14/2017. (4)  Guest house e affittacamere, sebbene possano in teoria consentire un uso misto abitativo/ricettivo, sono qui ricompresi in quanto da disciplina regionale, come detto, possono essere gestite solo in forma imprenditoriale e poiché l’eventuale funzione residenziale assume carattere residuale e puramente servente rispetto all’attività ricettiva. (5)  Perfino nel recentissimo ‘Decreto Salva Casa’ approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 24 Maggio 2024, il quale sembra prevedere per altri versi una completa liberalizzazione dei cambi di destinazione d’uso e addirittura di categoria funzionale, si dice che tali cambi siano sempre ammessi ma “fermo restando la possibilità per gli strumenti urbanistici comunali di fissare specifiche condizioni”, oltre che ovviamente “nel rispetto delle normative di settore”. Tale provvedimento renderebbe semmai ancora più urgente l’introduzione da parte dei Comuni di una specifica disciplina urbanistica. (6)  Si fa presente che, in questo ambito, il limite di 4 appartamenti previsto dalle norme nazionali affinché la locazione turistica sia considerata attività di impresa, o la più recente modifica della disciplina della cedolare secca (che sale in alcuni casi dal 21% al 26%), hanno rilevanza soltanto a fini fiscali. L'articolo Regolamentare gli affitti brevi con gli strumenti urbanistici: proposta per Roma proviene da Roma Ricerca Roma.
Roma moderna. Due secoli di storia urbanistica
di Italo Insolera e Paolo Berdini Einaudi, 2024 Ritorna in un'edizione nuova e ampiamente aggiornata, sia nel testo sia nell'apparato iconografico, il classico di Italo Insolera Roma moderna, uscito per la prima volta nel 1962. Non si tratta di un saggio puramente tecnico, ma di un'opera che ricostruisce le vicende e le condizioni economiche, sociali, culturali e politiche che hanno determinato lo sviluppo urbanistico di Roma a partire dall'occupazione francese del 1809 fino a oggi (scheda editoriale). 
Dopo la gentrificazione. Un quartiere laboratorio dalla crisi economica all’abitare temporaneo
di Alessandro Barile, Barbara Brollo, Sarah Gainsforth e Rossella Marchini DeriveApprodi, 2023 Cosa c’è dopo la gentrificazione? Cosa avviene in un quartiere quando essa entra in crisi e si arresta? Lo studio del quartiere romano di San Lorenzo ci permette di rispondere a questa domanda, che investe molte città italiane e, più in generale, dell’Europa mediterranea. La crisi economica scoppiata nel 2008 ha prodotto anche una crisi dell’urbano, che ha colpito in particolare le zone della città precedentemente "valorizzate". San Lorenzo non è solo un quartiere, ma il simbolo di una certa idea di città. È infatti il quartiere universitario della capitale, ma anche quello dei movimenti e della partecipazione politica. Un quartiere che, proprio a causa dei processi gentrificatori, si è svuotato di abitanti e poi di attività sociali ed è divenuto, come si legge negli annunci delle agenzie immobiliari, "a uso investimento", per cui la casa non è più collegata all’abitare stanziale ma a quello temporaneo.
Memorie in movimento a Tor Bella Monaca. Un approccio per ricercare il senso dei luoghi
di Francesco Montillo Edifir, 2023 Il libro affronta una riflessione sul tema della memoria, come dispositivo di rappresentazione e riappropriazione dell’identità di un luogo. La riflessione mira ad approfondire il concetto di Memoria, accanto a quello di Storia, proprio nel modo in cui la memoria si genera e viene elaborata a partire da determinati eventi storici. In tal senso risulta interessante indagare le dinamiche di elaborazione della memoria all’interno di un processo di difficile e delicata ricostruzione che può portare a memorie individuali o a memorie collettive, soprattutto nei casi in cui la storia è stata “alterata” da altri eventi storici o addirittura “denigrata” dai mutamenti sociali e culturali. L’interrogativo di fondo è quello di capire se esiste una memoria collettiva e se essa possa rappresentare un immaginario condiviso, oppure se l’elaborazione della memoria è filtrata dal punto di vista con cui si osserva l’evento storico. Nel progetto Me.Mo. si è deciso di rievocare le lotte popolari per i servizi, portate avanti dagli abitanti del quartiere nei primi anni della sua realizzazione. Attraverso tali lotte, avvenute in forma organizzata e collettiva, si sono potuti conquistare molti dei servizi locali presenti nel territorio ed esse vengono spesso rievocate in chiave positiva, quasi a generare una memoria collettiva. Eppure, oggi, a Tor Bella Monaca, è più faticoso sentirsi parte di una comunità anche perché molti abitanti pian piano si sono allontanati da quelle esperienze e la partecipazione civica si è ridotta ai minimi termini, quasi come se accanto alla memoria collettiva, letta in termini positivi, si sia generata un altro tipo di memoria individuale con un immaginario diverso. Su questa doppia lettura si basa l’analisi che il volume intende restituire.
Vivere o morire di rendita. La rendita urbana nel XXI secolo
di Barbara Pizzo Donzelli, 2023 Può una città vivere di rendita? Cosa accade quando l’idea di poter vivere di rendita si diffonde come fosse una possibilità per tutti, anzi, quasi come se non ci fossero alternative? Quando i tipi di rendita, i meccanismi che la producono, i suoi intrecci sembrano moltiplicarsi, divenire dominanti rispetto ad altre forme di produzione di ricchezza e ad altre possibili relazioni sociali? Quali sono le implicazioni dell’inedita espansione delle logiche dei rentier? Nella città del XXI secolo la rendita sta assumendo un peso preponderante; non è un «dato» ma il risultato di scelte, quindi un fatto politico, imprescindibile fattore esplicativo delle trasformazioni urbane: delle logiche che le guidano, degli obiettivi verso cui tendono, degli esiti socio-spaziali che determinano, della qualità dell’ambiente costruito che producono. Ed ecco il caso di Roma: una città disegnata in profondità dalle logiche della rendita, che sempre di più vive delle sue molte rendite (a cominciare da quelle estratte dal suo immenso patrimonio storico e ambientale), in cui si è reso evidente cosa fosse o potesse essere il «capitalismo dei rentier» prima ancora che venisse chiamato con questo nome. Ma Roma non è un’eccezione: al contrario, essa può essere considerata esempio della traiettoria che un numero crescente di città sta seguendo, in Italia e nel mondo. In realtà, non tutti possono vivere di rendita. Le nostre città possono invece morirne (scheda editoriale). 
Riprendersi la vita. Etnografia dell’Hotel Quattrostelle occupato tra bisogno e socialità
di Osvaldo Costantini Ombre Corte, 2023 Il testo offre uno sguardo antropologico su una occupazione abitativa romana, l’Hotel Quattrostelle, con una attenzione alle biografie e ai dilemmi delle persone, principalmente migranti, che entrano nei percorsi del Movimento per il Diritto all’Abitare di Roma. Il testo si dispiega a partire da una riflessione sulle traiettorie biografiche dell’autore, tra estrazione sociale e attivismo politico. Il tema dell’occupazione è inoltre prisma di rifrazione di diverse questioni: uno sguardo privilegiato è dedicato alla modalità di autorganizzazione reale che si costruisce all’interno dell’occupazione e sembra dipanarsi in una particolare dialettica tra decisioni assembleari, devianze e formazioni di continui contropoteri. Emergono in questo modo diversi temi relativi alle classi subalterne ed alla loro produzione culturale intorno a lavoro, tempo libero, violenza, obblighi familiari, integrazione, abitare, diritti, religione, diversità culturale (scheda editoriale).