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“Nessuno ti sente quando urli”: il sistema di violenza contro le persone migranti in Tunisia
GIORGIO MARCACCIO 1 Il dossier “Nobody hears you when you scream” (Amnesty International, 2025) 2 presenta un quadro sconvolgente: la Tunisia non solo non protegge le persone migranti, ma costruisce attivamente un sistema di violenza contro di loro. Le testimonianze raccolte mostrano un modello coerente: intercettazioni brutali in mare, espulsioni nel deserto al confine con Libia e Algeria, detenzione arbitraria, abusi sessuali e tortura. Parallelamente lo Stato attacca organizzazioni e attiviste/i, escludendo ogni accesso all’asilo. Nonostante ciò, l’Unione Europea continua a finanziare la Tunisia con un Memorandum privo di garanzie sui diritti umani. L’indagine di Amnesty International, condotta tra febbraio 2023 e giugno 2025, ha esaminato le esperienze di rifugiati e migranti in Tunisia, concentrandosi su Tunisi, Sfax e Zarzis. Sono state intervistate 120 persone provenienti da diversi paesi africani e asiatici (92 erano uomini e 28 erano donne), tra cui Afghanistan, Algeria, Nigeria, Sudan, Yemen, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Gambia, Ghana, Guinea, Libia, Mali, Nigeria, Senegal, Sierra Leone, Sud Sudan 3. Nel novembre del 2025 Amnesty International ha pubblicato il rapporto “Nobody hears you when you scream”, che denuncia le condizioni disumane subite dalle persone migranti in Tunisia e mette in luce un sistema di discriminazione razziale e xenofoba rivolto soprattutto a uomini e donne dall’Africa subsahariana. Il rapporto ricostruisce in modo dettagliato un apparato repressivo che coinvolge istituzioni, forze dell’ordine e ampi settori della società civile, grazie a testimonianze dirette, missioni di indagine e dichiarazioni pubbliche di figure politiche, tra cui il presidente Kaïs Saïed. Uno dei temi centrali è la violazione sistematica e continua dei diritti umani: tortura, trattamenti inumani, detenzione arbitraria, uso eccessivo della forza durante intercettazioni in mare e sbarchi, espulsioni collettive e sommarie lungo il confine meridionale. Molte di queste violazioni sono attribuite alla National Guard, corpo dipendente dal Ministero dell’Interno, formalmente incaricato della protezione dei confini ma spesso coinvolto direttamente in violenze e abusi. > «Quando sono arrivato alla stazione di polizia, un poliziotto mi ha urlato > contro dicendo: “Voi neri create problemi” e un altro mi ha dato una > ginocchiata allo stomaco». > Milena, studentessa del Burkina Faso Parallelamente, si registra un clima politico apertamente razzista: dal febbraio 2023 il Presidente Saïed ha più volte evocato un presunto “complotto” dei migranti volto a cambiare la composizione demografica del Paese, alimentando ostilità e giustificando misure discriminatorie. Approfondimenti TUNISIA: IL CONFINE INVISIBILE D’EUROPA Il punto sulla situazione delle persone migranti tra detenzione e respingimenti Maria Giuliana Lo Piccolo 25 Novembre 2025 LA TUNISIA COME SNODO DELLA ROTTA MEDITERRANEA La Tunisia occupa una posizione strategica per le rotte migratorie provenienti dall’Africa subsahariana verso l’Europa. Le crisi politiche e umanitarie del continente spingono migliaia di persone a dirigersi verso il Nord Africa, spesso senza possibilità di proseguire immediatamente il viaggio, con il rischio di diventare irregolari sul territorio tunisino. Dal 2017, con gli accordi UE-Libia sul contenimento delle partenze, molte persone hanno iniziato a spostarsi irregolarmente dalla Libia alla Tunisia nella speranza di trovare una via più sicura verso l’Europa. Il fenomeno si è consolidato soprattutto dal 2020. Sul piano normativo, la Tunisia non ha sviluppato un sistema efficace di gestione dell’asilo: la Costituzione del 2022 garantisce il diritto d’asilo “secondo la legge”, ma la legge non esiste, creando così un vuoto che impedisce la protezione internazionale. Nonostante l’adozione nel 2018 di una legge avanzata contro discriminazione e razzismo, Amnesty documenta come essa rimanga largamente inapplicata. Le testimonianze raccolte mostrano come le persone africane siano sottoposte a violenze, estorsioni e arresti arbitrari motivati da profiling razziale. > «Hanno semplicemente detto: ‘Non vogliamo neri qui, tornate a casa vostra». > Adama, un giovane ivoriano DISCORSI PRESIDENZIALI E COSTRUZIONE DEL NEMICO INTERNO Uno degli elementi più forti del rapporto è la documentazione dell’impatto del discorso politico. Nel febbraio 2023 il presidente Kaïs Saïed parla pubblicamente di una “minaccia demografica” rappresentata dai migranti subsahariani, accusati di voler “modificare la composizione della popolazione tunisina”. Le parole alimentano un’ondata di xenofobia e violenza. Molti persone migranti raccontano che, subito dopo il discorso, i vicini hanno smesso di salutarli, proprietari di casa hanno annullato contratti d’affitto, tassisti hanno rifiutato di farli salire. > Una donna ivoriana testimonia: > «Dopo quel discorso, era come se tutti avessero ricevuto il permesso di farci > del male». Nessuna istituzione tunisina ha preso pubblicamente le distanze da questa retorica: al contrario, la sicurezza interna ha intensificato controlli, arresti ed espulsioni. 4 INTERCETTAZIONI IN MARE: MANOVRE PERICOLOSE, OPACITÀ ISTITUZIONALE Uno dei capitoli più gravi riguarda le intercettazioni dei migranti in mare, condotte con tattiche pericolose e violente. Da giugno 2024 la Tunisia ha smesso di diffondere i propri dati ufficiali e il 19 giugno 2024 ha notificato all’IMO (International Maritime Organization) l’istituzione di una vasta area SAR (SRR), che consente intercettazioni in una zona molto ampia. Le ONG documentano manovre aggressive come urti volontari, uso di cavi, spray urticanti, violenze fisiche e sequestri di motori. Tali pratiche violano la Convenzione internazionale sul salvataggio marittimo e il Protocollo ONU contro il traffico di migranti. > «Continuavano a colpire la nostra barca con lunghi bastoni con estremità > appuntite, l’hanno bucata… C’erano almeno due donne e tre bambini senza > giubbotti di salvataggio. Li abbiamo visti annegare…» > Céline, una donna camerunese Un ulteriore aspetto critico riguarda la mancata valutazione individuale delle persone in movimento: documenti e beni personali vengono spesso confiscati o distrutti, rendendo impossibile richiedere protezione internazionale. ESPULSIONI COLLETTIVE VERSO LIBIA E ALGERIA Sul fronte terrestre Amnesty documenta migliaia di espulsioni collettive verso Algeria e Libia dall’estate 2023 in avanti. Si tratta di pratiche che violano apertamente il principio di non-refoulement, cardine della Convenzione del 1951 sui rifugiati. Le espulsioni avvengono spesso tramite cooperazione – anche informale – con gruppi armati libici e algerini. Molte persone vengono portate in centri di detenzione illegali e sottoposte a violenze, perquisizioni degradanti e confisca dei documenti. In Algeria si verifica frequentemente il chain refoulement, con respingimenti ulteriori verso Niger o Mali. Il contesto libico è ancora più drammatico, segnato da violenze sistematiche riconosciute dalle Nazioni Unite. > «Avevo un visto valido, ma non ci hanno spiegato nulla né chiesto documenti di > identità… Ci hanno ammanettato con una corda nera e ci hanno messo su un > autobus che ci ha portato in Algeria. Ci hanno solo detto: “Non vogliamo neri > qui, tornate a casa vostra”». ABUSI SESSUALI E TORTURA COME STRUMENTI DI CONTROLLO Numerose donne raccontano di aver subito violenze sessuali da parte di membri della National Guard durante intercettazioni, detenzioni ed espulsioni. Si tratta di abusi che Amnesty classifica esplicitamente come tortura, vietata dalla Convenzione ONU del 1984 5. Anche uomini e minori riportano pestaggi, bruciature, scariche elettriche e violenze degradanti. La discriminazione razziale emerge come fattore strutturale in questi abusi 6. > «Mi hanno presa in tre. Uno mi teneva ferma, gli altri mi toccavano ovunque. > Ho urlato, ma ridevano». ATTACCO ALLE ONG E CHIUSURA DELLO SPAZIO CIVICO Di fronte alle accuse, il governo tunisino nega ogni responsabilità, ma parallelamente porta avanti una strategia di repressione verso ONG e difensori dei diritti umani. Dal maggio 2024 diverse organizzazioni locali e internazionali sono state ostacolate, alcune costrette a chiudere; membri di ONG partner dell’UNHCR sono stati arrestati. Il Presidente Saïed ha alimentato questa campagna definendo le organizzazioni “agenti stranieri” e “traditori”. La situazione è peggiorata quando il governo ha imposto la sospensione delle attività di registrazione dei richiedenti asilo svolte dall’UNHCR dal 2011. Migliaia di persone si sono ritrovate senza possibilità di accedere alla protezione internazionale. > Una volontaria tunisina riferisce: > «Ci trattano come criminali solo perché aiutiamo persone che stanno morendo». IL MEMORANDUM UE–TUNISIA: COOPERAZIONE SENZA TUTELE Il 16 luglio 2023 l’Unione Europea e la Tunisia hanno firmato un Memorandum d’intesa che prevede grandi investimenti europei per contrasto ai trafficanti, controllo dei confini e rimpatri. Secondo Amnesty, il Memorandum è privo di garanzie vincolanti sul rispetto dei diritti umani: non prevede soglie da rispettare né condizioni che limitino l’accesso ai fondi in caso di violazioni. La Tunisia non può essere considerata un “paese terzo sicuro”: non esiste un sistema d’asilo funzionante, il non-refoulement viene violato, e le istituzioni stesse sono responsabili di violenze strutturali contro le persone migranti 7. Il dossier di Amnesty descrive una realtà in cui la Tunisia costruisce un sistema istituzionale e operativo che mira non a gestire le migrazioni, ma a renderle impossibili, attraverso violenza, paura e abbandono. Il titolo del rapporto – Nessuno ti sente quando urli – non è una metafora: è la descrizione puntuale della condizione vissuta da migliaia di persone che, in Tunisia, non hanno alcuna protezione né possibilità di far valere i propri diritti. 1. Studente presso UniPD del corso di Scienze politiche, Relazioni internazionali e Diritti umani al terzo anno, sto svolgendo un tirocinio curricolare presso Melting Pot. Sono appassionato di attualità internazionale e storia delle relazioni internazionali, materia in cui sto scrivendo una tesi di laurea triennale. Ho un diploma di liceo classico ottenuto a Bergamo, e dal liceo in poi ho fatto attività di volontariato locale e in città ↩︎ 2. Tunisia: “Nobody hears you when you scream”: Dangerous shift in Tunisia’s migration policy ↩︎ 3. Metodologia del dossier a pag. 15 ↩︎ 4. Discorsi presidenziali e razzismo istituzionale a pag.25 del rapporto ↩︎ 5. Da pag. 62 del rapporto ↩︎ 6. Sexual violence and torture, da pag. 61 del dossier ↩︎ 7. Le conclusioni di Amnesty da pag. 82 ↩︎
Quattro anni di ingiustizia: libertà per Abdulrahman Al Khalidi
Da oltre 4 anni Abdulrahman Al Khalidi 1 è rinchiuso nel centro di detenzione di Busmantsi, a Sofia, in Bulgaria. Anni di privazione, isolamento e ingiustizia: il caso di detenzione amministrativa più lungo nella storia dell’Unione Europea, simbolo di un sistema che calpesta il diritto e la dignità umana. Insieme ad altre venti organizzazioni internazionali, abbiamo rinnovato la nostra richiesta: rilascio immediato di Abdulrahman e trasferimento in un paese terzo sicuro. Abdulrahman è un prigioniero politico saudita, un padre di due bambini – una dei quali gravemente malata – che non vede da troppo tempo. Vive in un limbo giudiziario senza fine, minacciato ogni giorno dal rischio di deportazione verso l’Arabia Saudita, dove lo attende la pena di morte. Ma in questi anni, anche dietro le sbarre, Abdulrahman ha trasformato la sua prigionia in una lotta collettiva per la libertà di tutte e tutti. La sua voce, che resiste al silenzio, parla anche per noi. Non lo lasceremo solo. Di seguito, pubblichiamo il testo integrale dell’appello, tradotto in italiano, sottoscritto da oltre venti organizzazioni internazionali per chiedere giustizia e libertà per Abdulrahman Al Khalidi. APPELLO CONGIUNTO PER LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI UN DIFENSORE DEI DIRITTI UMANI SAUDITA DETENUTO IN BULGARIA DA OLTRE QUATTRO ANNI Noi, le organizzazioni della società civile firmatarie, siamo profondamente preoccupate per l’imminente minaccia di espulsione dalla Bulgaria verso l’Arabia Saudita che grava sul difensore dei diritti umani saudita Abdulrahman AlBakr al-Khalidi, dopo oltre quattro anni di detenzione, dove correrebbe un rischio reale di gravi violazioni dei diritti umani a causa del suo attivismo pacifico. Esortiamo le autorità bulgare a sospendere immediatamente l’espulsione di al-Khalidi in conformità con i loro obblighi giuridici ai sensi del diritto internazionale, europeo e nazionale, a rilasciarlo dalla detenzione e a concedergli protezione internazionale attraverso un processo di asilo equo e imparziale. Al-Khalidi è intrappolato in un lungo processo di asilo in Bulgaria dal novembre 2021 e dal 2024 è soggetto a un ordine di espulsione. Il 15 luglio 2025 la Corte amministrativa suprema bulgara ha respinto il ricorso di al-Khalidi contro il suo ordine di detenzione, mettendolo in imminente pericolo. Al-Khalidi ha iniziato la sua attività pacifica durante la Primavera araba del 2011, aderendo all’Associazione saudita per i diritti civili e politici (ACPRA) e partecipando a proteste in favore delle riforme. A seguito di un’ondata di arresti di altri attivisti nel 2013, e dopo essere stato convocato per un interrogatorio, è fuggito dall’Arabia Saudita e ha continuato la sua attività di advocacy in esilio. In seguito ha aderito al progetto “Electronic Bees Army” del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, volto a contrastare la disinformazione di Stato. Nel 2021, di fronte alle crescenti minacce in Turchia, al-Khalidi ha deciso di chiedere asilo nell’Unione Europea. Tuttavia, è stato arrestato all’arrivo in Bulgaria poco dopo aver attraversato il confine turco-bulgaro il 23 ottobre 2021. Da allora ha trascorso oltre quattro anni in detenzione – che secondo i dati pubblici della Corte europea dei diritti dell’uomo è uno dei periodi più lunghi per qualsiasi richiedente asilo in Europa – la maggior parte dei quali in condizioni dure e degradanti nel centro di detenzione di Busmantsi a Sofia. Il 26 settembre 2025, la Direzione per l’immigrazione ha deciso di prorogare la detenzione di al-Khalidi per altri sei mesi. Il 16 novembre 2021 al-Khalidi ha presentato domanda di asilo in Bulgaria, citando il rischio di gravi violazioni dei diritti umani in caso di ritorno in Arabia Saudita. Tuttavia, l’Agenzia statale bulgara per i rifugiati ha respinto la sua domanda, sostenendo che l’Arabia Saudita avesse “adottato misure per democratizzare la società”. Il suo ricorso è ancora in corso. Nonostante diverse sentenze a suo favore, comprese sentenze definitive che ne ordinavano il rilascio, le autorità bulgare le hanno ignorate o aggirate. Nel febbraio 2024 l’Agenzia per la sicurezza nazionale ha emesso un ordine di espulsione nei confronti di al-Khalidi, definendolo, senza prove, una “minaccia alla sicurezza nazionale”. Questo ordine, successivamente confermato dal Tribunale amministrativo di Sofia, viola il principio internazionale di non respingimento, poiché esiste un rischio ben documentato che, se rimpatriato in Arabia Saudita, al-Khalidi subirebbe torture, un processo iniquo e forse la pena di morte. Durante la detenzione, al-Khalidi avrebbe subito ripetuti maltrattamenti, tra cui pressioni psicologiche e abusi fisici. Nel marzo 2024 il difensore dei diritti umani ha riferito di essere stato brutalmente picchiato da agenti di polizia. Ha tentato il suicidio, ha intrapreso uno sciopero della fame durato più di 100 giorni e gli è stato diagnosticato un disturbo da stress post-traumatico complesso (C-PTSD). Nonostante le preoccupazioni sollevate dai tribunali bulgari, dagli esperti delle Nazioni Unite, dalle ONG e dai membri del Parlamento europeo, le autorità bulgare continuano a detenerlo illegalmente e a minacciarlo di espulsione. Uno studio sulla repressione transnazionale dei difensori dei diritti umani 2, pubblicato il 12 giugno 2025 dalla sottocommissione per i diritti umani (DROI) del Parlamento europeo, ha evidenziato il caso di al-Khalidi come esempio chiave della tattica della detenzione utilizzata nella repressione fisica transnazionale. L’espulsione di al-Khalidi verso l’Arabia Saudita costituirebbe una grave violazione degli impegni assunti dalla Bulgaria ai sensi del diritto internazionale, dell’Unione europea (UE) e del diritto interno, compresa la sua stessa costituzione, che stabilisce che la Bulgaria deve concedere asilo agli stranieri perseguitati per le loro opinioni e attività in difesa dei diritti e delle libertà riconosciuti a livello internazionale. NOI, LE ORGANIZZAZIONI FIRMATARIE, CHIEDIAMO QUINDI ALLE AUTORITÀ BULGARE DI: 1. rilasciare immediatamente e incondizionatamente Abdulrahman al-Khalidi in conformità con le sentenze emesse dai tribunali bulgari; 2. garantire che non sarà espulso in Arabia Saudita o in qualsiasi altro paese in cui rischia di essere respinto; 3. facilitare il suo reinsediamento in un paese terzo sicuro, in coordinamento con i partner internazionali; 4. avviare un’indagine indipendente sui maltrattamenti subiti durante la detenzione, compreso il pestaggio del marzo 2024, e assicurare i responsabili alla giustizia; e 5. garantire che il sistema di asilo bulgaro sia conforme agli standard dell’UE e internazionali in materia di diritti umani, prevenendo future violazioni di questo tipo. PER QUANTO RIGUARDA L’UNIONE EUROPEA (UE), CHIEDIAMO: 1. alla Commissione europea di valutare la sospensione o la riprogrammazione di qualsiasi sostegno europeo legato ai centri di detenzione pre-espulsione in Bulgaria fino a quando non sarà garantita la piena conformità con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CFR); 2. alla Commissione europea di condurre una revisione di qualsiasi possibile sostegno della Commissione europea legato al centro di detenzione di Busmantsi per valutarne la conformità con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CFR); 3. al Parlamento europeo (commissioni LIBE/DROI) di tenere una sessione urgente e organizzare una missione di accertamento dei fatti presso il centro di detenzione di Busmantsi; e 4. al Consiglio (gruppo FREMP) di includere questo caso nell’ordine del giorno; Qui le organizzazioni firmatarie Comunicati stampa e appelli PETIZIONE PER ABDULRAHMAN AL-KHALIDI RINCHIUSO NEL CENTRO DI DETENZIONE DI BUSMANTSI (SOFIA) Firma e condividi l'appello per il riconoscimento della protezione internazionale al giornalista e attivista 24 Maggio 2025 1. La pagina autore su Melting Pot ↩︎ 2. Transnational repression of human rights defenders: The impacts on civic space and the responsibility of host states ↩︎
La prigioniera politica curda Zeynab Jalalian è tornata in prigione un giorno dopo l’intervento chirurgico
La prigioniera curda Zeynab Jalalian, condannata all’ergastolo, è stata riportata nella prigione di Yazd solo un giorno dopo essere stata sottoposta a un intervento di embolizzazione dei fibromi, nonostante il peggioramento delle sue condizioni di salute. Kurdistan Human Rights Network (KHRN) ha riferito che, a fronte del peggioramento delle sue condizioni e della crescente pressione internazionale, Zeynab Jalalian è stata recentemente trasferita sotto stretta sorveglianza in un ospedale privato di Yazd, dove è stata sottoposta all’operazione. Durante il trasferimento indossava catene alle caviglie. Tuttavia è stata riportata in carcere solo 24 ore dopo, prima di completare le necessarie cure post-operatorie. Negli ultimi mesi, le autorità carcerarie hanno ripetutamente bloccato il suo trasferimento in ospedale e le hanno negato l’accesso alle cure mediche, adducendo vari pretesti, mentre la sua salute continuava a peggiorare. Il 16 settembre 2025, un gruppo di 22 organizzazioni per i diritti umani e 13 difensori dei diritti umani, coordinati da REDRESS e KHRN, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta chiedendo il suo immediato accesso alle cure mediche, la fine delle molestie e delle minacce e il suo rilascio incondizionato. In precedenza, il 1° maggio, nove relatori speciali delle Nazioni Unite avevano espresso seria preoccupazione per la detenzione prolungata e arbitraria di Jalalian, il suo peggioramento delle condizioni di salute e le segnalazioni di torture e altre forme di maltrattamento. Avevano esortato le autorità iraniane a garantirle l’accesso immediato e incondizionato a cure mediche adeguate in un ospedale civile indipendente, avvertendo che “il tempo è essenziale”. Zeynab Jalalian, a cui sono state negate le visite dei familiari per diversi anni, continua a soffrire di molteplici problemi di salute. Nonostante ciò, l’organizzazione di medicina legale di Yazd l’ha dichiarata idonea alla detenzione. Nel frattempo, gli organi di sicurezza hanno subordinato il suo rilascio alla manifestazione di rimorso e pentimento. L'articolo La prigioniera politica curda Zeynab Jalalian è tornata in prigione un giorno dopo l’intervento chirurgico proviene da Retekurdistan.it.
Memorandum Italia-Libia, un patto di violazioni e abusi
Da gennaio ad agosto 2025 sono stati registrati 42.693 arrivi via mare, secondo l’UNHCR 1. Negli stessi mesi, 1.126 persone sono morte o scomparse nel mar Mediterraneo (escludendo la sua parte occidentale): 814 sono le vittime della Rotta Centrale. Il punto di arrivo per maggior parte di queste persone è Lampedusa (che accoglie il 75% degli approdi). Il punto di partenza per l’88% di loro, la Libia. Il 2 novembre 2025 si dovrebbe rinnovare il Memorandum d’intesa 2 sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione irregolare, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica italiana 3. Si tratta del documento principale attraverso il quale Roma finanzia il sistema di abuso delle persone messo in atto dalle autorità, ufficiali o meno, di Tripoli. Il Memorandum è stato firmato il 2 febbraio 2017 dal presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni e dal primo ministro del Governo di Accordo Nazionale libico Fayez al-Serraj 4. L’Accordo è stato fortemente sostenuto dal ministro dell’Interno Marco Minniti. Entrambi gli esponenti italiani erano in quota Partito Democratico. Il Patto si rinnova ogni 3 anni: è stato rinnovato nel 2020 e poi, per tacito accordo, nel 2022. Prevede che l’Italia supporti la Libia nella gestione delle persone dirette in Europa attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, quella che obbliga l’approdo in territorio italiano. Tradotto: il Memorandum è il modo in cui Roma fornisce risorse economiche, strategiche e materiali affinché Tripoli blocchi sul suo suolo chi vorrebbe partire per l’Europa. “Fermateli in Libia”, dice in sostanza l’Italia. “Noi addestriamo la vostra Guardia costiera, le diamo imbarcazioni, motovedette, equipaggiamenti e forse armi. Vi diamo fondi per amministrare i centri di detenzione. Vi supportiamo nel controllo delle vostre frontiere terrestri (perché altre persone non entrino) e marittime (perché altre persone non partano). Supportiamo anche il vostro processo di pacificazione nazionale. Ma voi fermateli a casa vostra”. Un documento che nasce da un simile intento “espulsorio” porta inevitabilmente con sé molte zone d’ombra 5. Non si capisce, ad esempio, quanti soldi Roma abbia trasferito a Tripoli nel contesto del Memorandum. Nel 2023, un articolo di Repubblica parlava di circa 124 milioni di euro 6, ma si tratta di una cifra mai confermata. Non ci sono canali o fonti ufficiali che chiariscano un nodo fondamentale come quello del sostegno economico. Cosa potrebbe fare la Guardia costiera libica senza le motovedette comprate coi finanziamenti italiani? O come si reggerebbe l’intera struttura dei centri di detenzione? Altra questione aperta riguarda la cosiddetta Guardia costiera libica, un ammasso di uomini armati spesso provenienti dalle diverse milizie che controllano i porti. L’addestramento e il supporto materiale che l’Italia fornisce a quest’autorità ufficiosa (se non illegale) equivalgono a complicità nelle violazioni dei diritti umani commesse dai miliziani. Sistematico, in particolare, è il mancato rispetto del principio di non-refoulement, per cui una persona non può essere respinta o deportata in un Paese in cui la sua vita è a rischio. Notizie FONDI EUROPEI ALLA GUARDIA COSTIERA LIBICA 42 organizzazioni chiedono lo stop alla complicità dell’UE Redazione 24 Settembre 2025 A giugno 2025 la Corte d’Appello di Catanzaro ha respinto il ricorso del Governo italiano contro la nave di soccorso Humanity 1, ricorso relativo a una sentenza del Tribunale civile di Crotone che dichiarava il Centro di Coordinamento del Soccorso e la Guardia costiera libica soggetti illegittimi per le operazioni SAR perché responsabili di violazioni dei diritti umani. Giurisprudenza italiana/Notizie LA GUARDIA COSTIERA LIBICA NON È UN SOGGETTO LEGITTIMO PER LE OPERAZIONI SAR Lo conferma una sentenza italiana: respinta l'istanza del governo contro Humanity 1 16 Giugno 2025 La stessa Guardia costiera libica è d’altronde nota per sparare contro persone e navi delle ONG, inseguire imbarcazioni anche in acque internazionali (dove non ha giurisdizione) e riportare chi fugge nei centri di detenzione libici. Proprio i centri di trattenimento e la responsabilità diretta o indiretta di Roma nella loro sopravvivenza sono il più preoccupante effetto del Memorandum Italia-Libia. Questi centri sono luoghi di sistematica offesa alla dignità umana e di ripetute violazioni dei diritti fondamentali. Inchieste giornalistiche, report di organizzazioni come Refugees in Libya, Medici senza frontiere, Amnesty International, oltre a fotografie, video e testimonianze, li descrivono come veri campi di concentramento a cielo aperto: persone ammassate, affamate, assetate, in attesa di essere picchiate, torturate, violentate, uccise o dimenticate. Esistono le testimonianze di chi è sopravvissuto e racconta come questi centri siano mercati di corpi e di manodopera, dove persone libere diventano schiave. Eppure, l’Italia non ha mai opposto resistenze concrete al sistema di detenzione libico. Nel 2019, alla vigilia del primo rinnovo del Memorandum, Roma chiese la riunione della Commissione congiunta Italia-Libia per modificare l’intesa. L’obiettivo dichiarato era quello di contrastare le violazioni dei diritti umani nei centri di detenzione. Tripoli accettò, ma la discussione non produsse alcuna conseguenza pratica: le carceri libiche rimasero cimiteri viventi. Allo stesso modo, la connivenza di Roma con la Guardia costiera libica è stata più volte segnalata ai tribunali nazionali e internazionali. L’Italia è stata condannata in riferimento al principio di non-refoulement, ma sdegno e sentenze non hanno cambiato nulla 7 . L’Unione Europea si muove infatti in linea con l’Italia: il Memorandum è uno strumento per concretizzare la politica migratoria europea, fondata sull’esternalizzazione delle frontiere. E non solo: Roma sembra legata ad alcuni dei peggiori criminali libici. A gennaio 2025 è stato arrestato in Italia Omar Almasri 8, capo della polizia libica ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità (anche contro le persone migranti). Due giorni dopo il fermo, è stato rilasciato e rimpatriato con un volo di Stato italiano. La motivazione ufficiale: un vizio procedurale e la pericolosità sociale di Almasri. Il risultato: un criminale ricercato per gravi violazioni dei diritti umani è tornato libero di perpetrare i suoi reati, con l’appoggio opaco ma evidente delle autorità italiane 9. A seguito dell’episodio, la premier Meloni è stata indagata per favoreggiamento e peculato, insieme al ministro dell’Interno Piantedosi, al ministro della Giustizia Nordio e al sottosegretario alla sicurezza Alfredo Mantovano. Le accuse contro Meloni sono cadute, mentre per gli altri tre il Tribunale dei Ministri ha chiesto il rinvio a giudizio. Il Parlamento si esprimerà a fine ottobre. Un’altra presenza controversa è quella di Abdel Ghani al-Kikli, conosciuto come Gheniwa. Dal 2021 è a capo dello Stability Support Apparatus, milizia attiva in mare e a terra. Numerose ong, come Refugees in Libya 10 e Amnesty International 11, lo accusano di torture, stupri ed esecuzioni extragiudiziali nei centri di detenzione. Il Centro europeo per i diritti umani e costituzionali ha presentato alla Corte penale internazionale un dossier che documenta oltre 500 episodi di violenza riconducibili a lui. Eppure, al-Kikli in Italia non viene mai fermato. A marzo 2025 è arrivato a Fiumicino con una delegazione ufficiale per fare visita al ministro libico Adel Jumaa Amer, ricoverato a Roma. È ripartito indisturbato, come già accaduto nel 2024, quando aveva partecipato alle finali del campionato di calcio libico ospitate a Roma su iniziativa del Governo Meloni. In quell’occasione, gli accordi con Tripoli avevano previsto 5 nuove imbarcazioni per la Guardia costiera libica e 8 miliardi di dollari per aumentare la produzione di gas destinato al mercato interno libico e all’esportazione verso l’Europa 12. Erano stati accompagnati da dichiarazioni di amicizia e cooperazione tra Italia e Libia. Da questo punto di vista, Meloni è stata di parola: non ha mai ostacolato Tripoli. Con ogni probabilità, quindi, il 2 novembre 2025 si rinnoverà il Memorandum Italia-Libia. E altre persone moriranno in Libia e nel Mediterraneo centrale, con la complicità dell’Italia. «Se non si agirà entro il 2 novembre,» – si legge nell’appello promosso da Refugees in Libya – «questo accordo criminale e sanguinoso sarà automaticamente prorogato per altri tre anni, e gli abusi continueranno. L’esternalizzazione e la brutalizzazione del regime di frontiera dell’UE devono cessare. Per questo chiamiamo a una mobilitazione comune in ottobre a Roma». L’appello è sostenuto da una coalizione internazionale che include Refugees in Tunisia, Refugees in Niger, Abolish Frontex, Amnesty International Italia, ASGI, EMERGENCY, Borderline-Europe, e molte altre realtà impegnate nella difesa dei diritti. La data è il 18 ottobre a Roma ore 14:00 in P.zza Santi Apostoli. 1. Mediterraneo centrale, UNHCR: ad agosto arrivi stabili e nuovi incidenti, UNHCR (3 settembre 2025) ↩︎ 2. Memorandum d’intesa (MoU) con la Libia ↩︎ 3. Cos’è e cosa prevede il Memorandum Italia-Libia, Lenius ↩︎ 4. Memorandum di intesa tra Italia e Libia firmato a Roma il 2 Febbraio 2017 (1/2017), Osservatorio sulle fonti ↩︎ 5. Il Memorandum e le responsabilità italiane, Il Manifesto (marzo 2025) ↩︎ 6. Qui l’articolo ↩︎ 7. Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla politica di “pullback” tra Italia e Libia — S.S. e altri c. Italia, Asgi (giugno 2025). ↩︎ 8. Almasri, il portavoce di Refugees in Libya: “Un criminale, questa non è giustizia”, alanews (gennaio 2025) ↩︎ 9. Da Israele alla Libia, l’Italia Protegge Presunti Criminali di Guerra, HRW (gennaio 2025) ↩︎ 10. The killing of Abdul Ghani al-Kikli may be a turning point for Libya, Refugees in Libya (maggio 2025) ↩︎ 11. Libya: Government of National Unity must ensure militia leaders are held to account after outbreak of violence in Tripoli, Amnesty International (maggio 2025) ↩︎ 12. Meloni a Tripoli, patto sul gas e trattativa sui migranti, Ansa (gennaio 2023) ↩︎
Bulgaria. Detenzione senza fine: 47 mesi a Busmantsi
Prima che Sofia si svegli, noi rifugiati nel campo di detenzione di Busmantsi ci svegliamo al rumore delle chiavi e al tonfo degli stivali della polizia sul pavimento di cemento, accompagnati da risate fugaci durante i cambi di turno. I nomi vengono chiamati con freddezza, ci alziamo dai letti di ferro infestati da insetti che si nutrono di noi, proprio come la nostra pazienza si nutre di speranza, poi le porte vengono sigillate ancora una volta. Sofia Busmantsi Detention Centre. PH: Global Detention Project Sono Abdulrahman Al-Bakr (Al-Khalidi), giornalista e difensore dei diritti umani dell’Arabia Saudita. Non ho commesso alcun crimine, eppure vivo dietro porte chiuse qui dall’ottobre 2021, quarantasette mesi, quasi quattro anni, affrontando sempre la stessa scena. Quello che sta accadendo non è una storia lontana dall’Europa. In questi campi, uomini, donne e bambini sono detenuti in uno stato liminale senza processo, o nonostante le sentenze dei tribunali che vengono ignorate; senza un orizzonte temporale e con la speranza che svanisce. La detenzione a tempo indeterminato non è protezione delle frontiere; è la silenziosa erosione dell’idea di giustizia, una violazione dei diritti umani e un indebolimento dei principi per cui sono stati creati i sistemi giuridici. Il diritto internazionale è chiaro: garantisce ai rifugiati il diritto di chiedere asilo e vieta la detenzione arbitraria di chiunque. La Dichiarazione universale dei diritti umani e la Convenzione sui rifugiati affermano questa protezione. Eppure qui, persone spaventate, plasmate dai loro regimi autoritari originari, vengono trattate come terroristi e criminali, costrette a una detenzione a tempo indeterminato e a una speranza che va scemando. Non riesco a trovare una descrizione più accurata per Busmantsi che “campo di detenzione”: un territorio al di fuori della giurisdizione del diritto bulgaro e internazionale, dove il potere esecutivo invade quello giudiziario semplicemente perché siamo rifugiati stranieri, trasformando l’identità e l’origine in un “reato” in Bulgaria e in Europa. Nel corso di 47 mesi, e nonostante due sentenze definitive e inappellabili del Tribunale amministrativo di Sofia – il 18 gennaio 2024 e il 26 marzo 2025 – che ordinavano il mio immediato rilascio, l’Agenzia statale per la sicurezza nazionale (DANS) ha emesso delle “contro-decisioni” per annullare le sentenze o aggirarle. Notizie QUANDO LA “SICUREZZA” DIVENTA ABUSO Gli aggiornamenti sulla vicenda di Abdulrahman Al-Khalidi Abdulrahman Al-Khalidi 4 Agosto 2025 Ho presentato ricorso e ho vinto tre volte le cause di asilo davanti alla Corte amministrativa suprema, una delle quali ha condannato l’ingerenza della DANS nel mio fascicolo e ha invalidato le loro decisioni di rigetto. I tribunali continuano a confermare gravi violazioni nel mio caso. Eppure io rimango qui, perché un percorso parallelo per il potere esecutivo attraverso decisioni amministrative impedisce l’applicazione giudiziaria. Gli amici mi chiedono: cosa significano le “contro-decisioni”? In realtà, la DANS, erede diretta degli apparati di sicurezza segreti dell’era comunista (DS), ha sostituito l’astratto “nemico del popolo” con la frase “minaccia alla sicurezza nazionale”. Inoltre, le rigide regole del centro si scontrano assurdamente con l’innocenza al 100% dei suoi abitanti, facendo svanire l’equilibrio della giustizia e l’uguaglianza davanti alla legge. Il DANS appare “al di là del controllo giudiziario”, trattando le sentenze definitive come “linee guida non vincolanti”. Una persona può essere detenuta amministrativamente per 46 mesi con accuse per le quali un cittadino non sarebbe trattenuto nemmeno per 24 ore. Come ogni detenzione, la detenzione a tempo indeterminato priva le persone della libertà in condizioni difficili, ma in questo caso ci priva anche di qualsiasi possibilità di ottenerla. L’impatto psicologico è devastante: ansia, depressione e traumi che si accumulano giorno dopo giorno. E io non sono un caso eccezionale al di fuori del diritto europeo e internazionale dei diritti umani; ci sono altri casi, come quello di Nidal Hassan di Gaza, che è stato espulso immediatamente dopo una sentenza che ne ordinava il rilascio, e anche quello di M.N., in cui sono state utilizzate procedure volte a eludere la legge e a modificare lo status di detenzione per garantirne la continuazione. A questo punto, i “casi individuali” non sono più una spiegazione ragionevole, ma un modello istituzionale che richiede di essere esaminato. Tutto ciò solleva una questione sulla giustizia delle misure coercitive e sui loro costi etici e sociali. La giustizia spesso contraddice la legge; a volte appartengono a mondi paralleli. Ciò è evidente nei campi di detenzione. Questa vasta disparità nel trattare le persone in base alla loro identità mi riporta alla storia dell’Europa gravata da crisi di “sé e dell’altro” – dai campi per ebrei e rom ai campi per gli stessi europei dopo la “La Retirada” spagnola. Oggi non fa eccezione: le necessità della vita e i principi umani, come la libertà, sono oggetto di dibattito solo nel nostro caso come rifugiati. C’è una somiglianza dinamica tra il destino dei rom il 2 agosto 1944 e il nostro destino oggi; in entrambi i casi vengono promulgate leggi discriminatorie, le leggi internazionali e i principi di giustizia vengono calpestati nel modo più duro e informale, e le leggi vengono ignorate con un atteggiamento arrogante: “Violeremo tutte le leggi e vedremo chi ci fermerà”. È un crimine che deriva dal razzismo e dalla disumanizzazione, e assistiamo al silenzio scioccante di politici, diplomatici e intellettuali in risposta. E anche se gli amici cercano di darmi “dosi di speranza”, vedo un filo sottile, affilato come una spada, come una corda tesa sopra le porte dell’inferno, che separa l’incredulità nella speranza dalla resa alla realtà. La mia incredulità nella speranza non contraddice la mia fede assoluta nella libertà. Come dice Cioran: “La speranza è il peggiore dei mali, perché prolunga i tormenti dell’uomo”. Non è necessario leggere “Il conte di Montecristo” per entrare nella mente di qualcuno che non solo è stato accusato ingiustamente, ma anche punito con estrema crudeltà. Ricordo con i miei amici la mia ‘sfortuna’: la mia fuga dall’Arabia Saudita alla Bulgaria è stata ironica e sfortunata come la “fuga” dell’abate Faria dalla sua cella, solo per finire – in una tragica ironia – in un’altra cella con Edmond Dantès nel Château d’If. È stata una fuga da uno Stato senza legge a un altro Stato senza legge, un’ironia che mi fa sorridere amaramente, ma che riflette una realtà che mi mette in contrasto con il concetto di speranza. Sia la prigione saudita che quella bulgara uccidono lo spirito, ma qui sento un tradimento ancora più grande, poiché la mia libertà mi viene confiscata definitivamente in nome dell’Unione Europea, in netto contrasto con i suoi principi. Cosa si prova a distaccarsi dalla speranza? È ciò che gli psicologi chiamano “dissociazione”: una separazione dalle emozioni e l’incapacità di provarle insieme: nessun dolore mescolato alla gioia, nessuna disperazione mescolata alla speranza; un’emozione pura senza diluizione. E tu, mio lettore, sei testimone, come Dio e le persone sono testimoni: sono triste, un dolore puro e profondo, impotente senza forza. Un dolore che nessuna lingua può domare o abitare; perché la lingua abita il dolore come una madre che consola il proprio figlio. Se la nostra vita è una “Divina Commedia”, allora l’inferno è alle mie spalle, il paradiso davanti a me, e io cammino nel “Purgatorio”, il cui tormento e l’attesa della sua fine possono essere più duri dell’inferno stesso. Eppure questo dolore non mi impedisce di andare avanti. I casi dei rifugiati nei campi di detenzione bulgari saranno un giorno studiati nelle facoltà di giurisprudenza come esempio di quante leggi e accordi possano essere violati in un unico fascicolo. E sono certo, come dice Omar El Akkad, che «un giorno saremo tutti contro tutto questo». Ma rimane l’amara domanda: perché siamo stati in grado di provare empatia per il passato, ma non siamo in grado di farlo ora, in un momento in cui questa compassione potrebbe salvare delle vite? Ripetiamo “Non succederà più” riguardo ai crimini di ieri, ma non riusciamo a dire lo stesso di fronte ai crimini di oggi. Siamo stati puniti nei nostri paesi per aver insistito sulla giustizia, e ci aggrapperemo ostinatamente ad essa nonostante la nostra realtà. Nel nostro caso, ci impegniamo a chiedere la fine della detenzione amministrativa aperta, un vero controllo giudiziario sui materiali segreti e garanzie che non saremo rimandati in luoghi dove temiamo la tortura o l’arresto arbitrario. I nostri problemi non sono una questione di sicurezza, ma di sottoporre un fascicolo complesso al massimo grado di trasparenza e responsabilità giudiziaria. Ciò è nell’interesse della Bulgaria, poiché limita i vecchi sospetti sulla mancata applicazione delle sentenze dei tribunali o sull’espansione delle agenzie di sicurezza nell’uso di fascicoli segreti non soggetti a un controllo efficace, come nell’era precedente. E nonostante l’assenza di speranza, continuo a lottare e a fare tutto il possibile per perseguire la libertà, ed è questa l’essenza della mia incredulità nella speranza: aggrapparmi alla libertà nonostante la mancanza di speranza. O rifugiati e sostenitori dei rifugiati, resistiamo per la giustizia, lecchiamoci le nostre ferite e andiamo avanti. Condividiamo il nostro pane e ridiamo, mentre il pane ride nelle nostre mani. Non abbiamo lobby o miliardari, ma abbiamo l’un l’altro, e questo è sufficiente per muovere la storia. Alla fine, il mio carceriere non è solo il mio più grande nemico, ma quella “speranza” che continua a bussare alla mia testa affinché io non muoia e non mi apre alcuna porta se non quelle della pazienza.
ReSST lancia ciclo di webinar per riaffermare dignità e diritti delle persone sopravvissute a tortura
Se c’è una urgenza che torna con forza nella discussione pubblica, è quella di non lasciare sole le persone che hanno subito torture: nel corpo, nella mente, nelle relazioni, nei loro percorsi quotidiani. È da questo bisogno che nasce “ReSST – Rete di Supporto per le Persone Sopravvissute a Tortura”, che promuove un ciclo di webinar dedicato a prendersi cura, sostenere, riflettere. Comunicati stampa e appelli TORTURA: NASCE LA RESST, LA RETE ITALIANA PER SUPPORTARE I SOPRAVVISSUTI A TORTURA Il comunicato delle realtà fondatrici Caritas, Ciac, La Kasbah, MCT, MSF, MEDU, Naga, SaMiFo 8 Aprile 2025 Un percorso formativo gratuito e aperto rivolto a operatori e operatrici dell’accoglienza, professionisti della salute mentale, avvocati, mediatori, chiunque lavori a contatto con i rifugiati, le persone migranti, le vittime di tortura. Attraverso questi incontri, la Rete intende diffondere buone pratiche, modelli di presa in carico efficaci, strumenti multidisciplinari, esperienze concrete messe in campo da organizzazioni che già operano sul territorio. IL CALENDARIO DEGLI APPUNTAMENTI 2025 23 settembre, ore 18Sopravvissuti a tortura: sfide e prospettive in vista dell’attuazione del Patto sulla Migrazione e l’Asilo dell’UEGianfranco Schiavone, esperto migrazioni; Caterina Bove, avvocata ASGI 28 ottobre, ore 18Geografia delle vulnerabilità: identificazione e supporto ai sopravvissuti a tortura sul territorio e nel sistema di accoglienzaChiara Peri (IPRS), Fabrizio Coresi (ActionAid) 25 novembre, ore 18La certificazione medico-legale sugli esiti di tortura e il Protocollo di IstanbulCristina Cattaneo (Labanof), Duarte Nuno Vieira (Università di Coimbra, esperto forense ONU) La partecipazione è gratuita. È sufficiente registrarsi per ricevere i dettagli del collegamento.
Tre donne condannate a morte in Iran ottengono la cittadinanza onoraria in Italia
La città di Fabriano, in Italia, ha concesso la cittadinanza onoraria a tre donne condannate a morte dallo Stato iraniano: Pakshan Azizi, Sharifa Mohammadi e Warisha Muradi. La consigliera comunale di Fabriano, Marta Ricciuti, ha annunciato che la decisione è stata presa per onorare la lotta delle donne per i diritti civili e la giustizia sociale. La risoluzione proposta dalla Commissione per le Pari Opportunità di Genere, è stata approvata all’unanimità dal consiglio. In una dichiarazione sui social media ha affermato: “ Il conferimento della cittadinanza onoraria a Pakshan Azizi, Sharifa Mohammadi e Warisha Muradi è stato approvato all’unanimità dal nostro consiglio. Queste donne sono state condannate a morte per le loro attività pacifiche in difesa dei diritti delle donne e dei lavoratori”. Marta Ricciuti ha sottolineato che la cittadinanza onoraria non è solo un gesto simbolico, ma anche un modo per amplificare le voci di coloro che lottano per la libertà e la dignità umana in tutto il mondo. Ha aggiunto che l’iniziativa mira ad aumentare la pressione internazionale per fermare le esecuzioni e a spingere le autorità iraniane a rivedere le loro decisioni. “La libertà di pensiero e di espressione non è solo un diritto, ma anche un potente strumento di resistenza e solidarietà. Il silenzio, d’altra parte, è una forma di complicità”, ha affermato Ricciuti. L'articolo Tre donne condannate a morte in Iran ottengono la cittadinanza onoraria in Italia proviene da Retekurdistan.it.
IHD presenta l’elenco delle richieste in occasione della Giornata internazionale delle vittime di sparizioni forzate
In occasione della Giornata internazionale delle vittime delle sparizioni forzate, l’Associazione per i diritti umani (IHD) di Van ha invitato la Turchia ad assumersi la responsabilità della sorte delle persone scomparse, a ratificare gli accordi internazionali e a porre fine all’impunità. La sezione di Van dell’Associazione per i Diritti Umani (IHD) ha pubblicato una dichiarazione esaustiva il 30 agosto, Giornata internazionale delle vittime di sparizioni forzate. In una conferenza stampa tenutasi sabato, l’organizzazione ha presentato dieci richieste chiave volte a garantire che i casi siano trattati legalmente e socialmente. Serpil Sezer, rappresentante di IHD, ha ricordato che le sparizioni forzate hanno una lunga storia in Turchia. Gli intellettuali sono stati vittime di questa pratica durante il genocidio armeno del 1915. Successivamente, durante il colpo di stato militare del 1980 e soprattutto negli anni ’90, assunsero nuovamente un carattere sistematico. “Solo nel 1994 ci sono state oltre 500 denunce documentate di sparizioni forzate”, ha affermato Serpil. Ha sottolineato che si tratta di un crimine contro l’umanità non soggetto a prescrizione. L’IHD ha elencato le sue richieste in occasione della Giornata internazionale delle vittime di sparizioni forzate come segue: L’attuazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e della Corte costituzionale turca La revoca delle restrizioni al diritto di manifestare in piazza Galatasaray a Istanbul Il riconoscimento della responsabilità dello Stato nei casi di sparizione forzata Divulgazione della sorte degli scomparsi e restituzione delle loro spoglie alle famiglie Fine dell’impunità per i colpevoli e i responsabili La creazione di norme giuridiche chiare che definiscano la sparizione forzata come un crimine contro l’umanità, la prevengano e la puniscano. Inoltre IHD ha invitato la Turchia a firmare e attuare la Convenzione delle Nazioni Unite per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate e lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. IHD ha sottolineato che è necessario intensificare la cooperazione con le istituzioni internazionali, come il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate. Inoltre le organizzazioni per i diritti umani, come IHD stesso o l’iniziativa “Madri del sabato”, dovrebbero essere sostenute nel loro lavoro e non ostacolate. L'articolo IHD presenta l’elenco delle richieste in occasione della Giornata internazionale delle vittime di sparizioni forzate proviene da Retekurdistan.it.
Attivista condannata a un anno in Iran
Secondo il sito web di Kurdistan e Iran Human Rights Watch, la Sezione 29 del Tribunale Rivoluzionario di Teheran ha condannato l’attivista per i diritti delle donne Mutehere Guneyi a 12 mesi di carcere. Mutehere Guneyi è stata condannata per “propaganda contro lo Stato e insulti al leader religioso iraniano”. Mutehere Guneyi è stata arrestata dalle forze iraniane il 1° giugno durante la guerra tra Iran e Israele senza alcun ordine del tribunale e inviata al carcere di Evin. Tuttavia dopo l’attacco israeliano al carcere di Evin, è stata trasferita al carcere di Kerçek insieme ad altri prigionieri ed è stata rilasciata temporaneamente dopo 24 giorni. L'articolo Attivista condannata a un anno in Iran proviene da Retekurdistan.it.
L’Unione nazionale delle donne curde: le condanne a morte devono essere annullate
L’Iniziativa dell’Unione nazionale delle donne curde in Europa ha condannato le pratiche del regime iraniano contro i diritti delle donne e le condanne a morte. La dichiarazione è stata una reazione alla conferma della condanna a morte di Şerife Mohammadi nel carcere di Lakan a Rasht, avvenuta il 16 agosto, da parte della 39ª Camera della Corte Suprema dell’Iran. Nella sua dichiarazione l’iniziativa ha sottolineato che Şerife Mohammadi è un simbolo di resistenza e ha dichiarato che la condanna a morte è inaccettabile. L’iniziativa ha inoltre annunciato di aver intrapreso azioni a favore di Werişe Muradi e Pexşan Ezizi, anch’esse condannate a morte, e ha chiesto all’Iran di annullare queste sentenze. L’Unione nazionale delle donne curde in Europa ha inoltre messo in guardia le organizzazioni per i diritti umani, invitandole a non rimanere in silenzio di fronte alle pratiche contro i diritti delle donne. L'articolo L’Unione nazionale delle donne curde: le condanne a morte devono essere annullate proviene da Retekurdistan.it.