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Bulgaria. Detenzione senza fine: 47 mesi a Busmantsi
Prima che Sofia si svegli, noi rifugiati nel campo di detenzione di Busmantsi ci svegliamo al rumore delle chiavi e al tonfo degli stivali della polizia sul pavimento di cemento, accompagnati da risate fugaci durante i cambi di turno. I nomi vengono chiamati con freddezza, ci alziamo dai letti di ferro infestati da insetti che si nutrono di noi, proprio come la nostra pazienza si nutre di speranza, poi le porte vengono sigillate ancora una volta. Sofia Busmantsi Detention Centre. PH: Global Detention Project Sono Abdulrahman Al-Bakr (Al-Khalidi), giornalista e difensore dei diritti umani dell’Arabia Saudita. Non ho commesso alcun crimine, eppure vivo dietro porte chiuse qui dall’ottobre 2021, quarantasette mesi, quasi quattro anni, affrontando sempre la stessa scena. Quello che sta accadendo non è una storia lontana dall’Europa. In questi campi, uomini, donne e bambini sono detenuti in uno stato liminale senza processo, o nonostante le sentenze dei tribunali che vengono ignorate; senza un orizzonte temporale e con la speranza che svanisce. La detenzione a tempo indeterminato non è protezione delle frontiere; è la silenziosa erosione dell’idea di giustizia, una violazione dei diritti umani e un indebolimento dei principi per cui sono stati creati i sistemi giuridici. Il diritto internazionale è chiaro: garantisce ai rifugiati il diritto di chiedere asilo e vieta la detenzione arbitraria di chiunque. La Dichiarazione universale dei diritti umani e la Convenzione sui rifugiati affermano questa protezione. Eppure qui, persone spaventate, plasmate dai loro regimi autoritari originari, vengono trattate come terroristi e criminali, costrette a una detenzione a tempo indeterminato e a una speranza che va scemando. Non riesco a trovare una descrizione più accurata per Busmantsi che “campo di detenzione”: un territorio al di fuori della giurisdizione del diritto bulgaro e internazionale, dove il potere esecutivo invade quello giudiziario semplicemente perché siamo rifugiati stranieri, trasformando l’identità e l’origine in un “reato” in Bulgaria e in Europa. Nel corso di 47 mesi, e nonostante due sentenze definitive e inappellabili del Tribunale amministrativo di Sofia – il 18 gennaio 2024 e il 26 marzo 2025 – che ordinavano il mio immediato rilascio, l’Agenzia statale per la sicurezza nazionale (DANS) ha emesso delle “contro-decisioni” per annullare le sentenze o aggirarle. Notizie QUANDO LA “SICUREZZA” DIVENTA ABUSO Gli aggiornamenti sulla vicenda di Abdulrahman Al-Khalidi Abdulrahman Al-Khalidi 4 Agosto 2025 Ho presentato ricorso e ho vinto tre volte le cause di asilo davanti alla Corte amministrativa suprema, una delle quali ha condannato l’ingerenza della DANS nel mio fascicolo e ha invalidato le loro decisioni di rigetto. I tribunali continuano a confermare gravi violazioni nel mio caso. Eppure io rimango qui, perché un percorso parallelo per il potere esecutivo attraverso decisioni amministrative impedisce l’applicazione giudiziaria. Gli amici mi chiedono: cosa significano le “contro-decisioni”? In realtà, la DANS, erede diretta degli apparati di sicurezza segreti dell’era comunista (DS), ha sostituito l’astratto “nemico del popolo” con la frase “minaccia alla sicurezza nazionale”. Inoltre, le rigide regole del centro si scontrano assurdamente con l’innocenza al 100% dei suoi abitanti, facendo svanire l’equilibrio della giustizia e l’uguaglianza davanti alla legge. Il DANS appare “al di là del controllo giudiziario”, trattando le sentenze definitive come “linee guida non vincolanti”. Una persona può essere detenuta amministrativamente per 46 mesi con accuse per le quali un cittadino non sarebbe trattenuto nemmeno per 24 ore. Come ogni detenzione, la detenzione a tempo indeterminato priva le persone della libertà in condizioni difficili, ma in questo caso ci priva anche di qualsiasi possibilità di ottenerla. L’impatto psicologico è devastante: ansia, depressione e traumi che si accumulano giorno dopo giorno. E io non sono un caso eccezionale al di fuori del diritto europeo e internazionale dei diritti umani; ci sono altri casi, come quello di Nidal Hassan di Gaza, che è stato espulso immediatamente dopo una sentenza che ne ordinava il rilascio, e anche quello di M.N., in cui sono state utilizzate procedure volte a eludere la legge e a modificare lo status di detenzione per garantirne la continuazione. A questo punto, i “casi individuali” non sono più una spiegazione ragionevole, ma un modello istituzionale che richiede di essere esaminato. Tutto ciò solleva una questione sulla giustizia delle misure coercitive e sui loro costi etici e sociali. La giustizia spesso contraddice la legge; a volte appartengono a mondi paralleli. Ciò è evidente nei campi di detenzione. Questa vasta disparità nel trattare le persone in base alla loro identità mi riporta alla storia dell’Europa gravata da crisi di “sé e dell’altro” – dai campi per ebrei e rom ai campi per gli stessi europei dopo la “La Retirada” spagnola. Oggi non fa eccezione: le necessità della vita e i principi umani, come la libertà, sono oggetto di dibattito solo nel nostro caso come rifugiati. C’è una somiglianza dinamica tra il destino dei rom il 2 agosto 1944 e il nostro destino oggi; in entrambi i casi vengono promulgate leggi discriminatorie, le leggi internazionali e i principi di giustizia vengono calpestati nel modo più duro e informale, e le leggi vengono ignorate con un atteggiamento arrogante: “Violeremo tutte le leggi e vedremo chi ci fermerà”. È un crimine che deriva dal razzismo e dalla disumanizzazione, e assistiamo al silenzio scioccante di politici, diplomatici e intellettuali in risposta. E anche se gli amici cercano di darmi “dosi di speranza”, vedo un filo sottile, affilato come una spada, come una corda tesa sopra le porte dell’inferno, che separa l’incredulità nella speranza dalla resa alla realtà. La mia incredulità nella speranza non contraddice la mia fede assoluta nella libertà. Come dice Cioran: “La speranza è il peggiore dei mali, perché prolunga i tormenti dell’uomo”. Non è necessario leggere “Il conte di Montecristo” per entrare nella mente di qualcuno che non solo è stato accusato ingiustamente, ma anche punito con estrema crudeltà. Ricordo con i miei amici la mia ‘sfortuna’: la mia fuga dall’Arabia Saudita alla Bulgaria è stata ironica e sfortunata come la “fuga” dell’abate Faria dalla sua cella, solo per finire – in una tragica ironia – in un’altra cella con Edmond Dantès nel Château d’If. È stata una fuga da uno Stato senza legge a un altro Stato senza legge, un’ironia che mi fa sorridere amaramente, ma che riflette una realtà che mi mette in contrasto con il concetto di speranza. Sia la prigione saudita che quella bulgara uccidono lo spirito, ma qui sento un tradimento ancora più grande, poiché la mia libertà mi viene confiscata definitivamente in nome dell’Unione Europea, in netto contrasto con i suoi principi. Cosa si prova a distaccarsi dalla speranza? È ciò che gli psicologi chiamano “dissociazione”: una separazione dalle emozioni e l’incapacità di provarle insieme: nessun dolore mescolato alla gioia, nessuna disperazione mescolata alla speranza; un’emozione pura senza diluizione. E tu, mio lettore, sei testimone, come Dio e le persone sono testimoni: sono triste, un dolore puro e profondo, impotente senza forza. Un dolore che nessuna lingua può domare o abitare; perché la lingua abita il dolore come una madre che consola il proprio figlio. Se la nostra vita è una “Divina Commedia”, allora l’inferno è alle mie spalle, il paradiso davanti a me, e io cammino nel “Purgatorio”, il cui tormento e l’attesa della sua fine possono essere più duri dell’inferno stesso. Eppure questo dolore non mi impedisce di andare avanti. I casi dei rifugiati nei campi di detenzione bulgari saranno un giorno studiati nelle facoltà di giurisprudenza come esempio di quante leggi e accordi possano essere violati in un unico fascicolo. E sono certo, come dice Omar El Akkad, che «un giorno saremo tutti contro tutto questo». Ma rimane l’amara domanda: perché siamo stati in grado di provare empatia per il passato, ma non siamo in grado di farlo ora, in un momento in cui questa compassione potrebbe salvare delle vite? Ripetiamo “Non succederà più” riguardo ai crimini di ieri, ma non riusciamo a dire lo stesso di fronte ai crimini di oggi. Siamo stati puniti nei nostri paesi per aver insistito sulla giustizia, e ci aggrapperemo ostinatamente ad essa nonostante la nostra realtà. Nel nostro caso, ci impegniamo a chiedere la fine della detenzione amministrativa aperta, un vero controllo giudiziario sui materiali segreti e garanzie che non saremo rimandati in luoghi dove temiamo la tortura o l’arresto arbitrario. I nostri problemi non sono una questione di sicurezza, ma di sottoporre un fascicolo complesso al massimo grado di trasparenza e responsabilità giudiziaria. Ciò è nell’interesse della Bulgaria, poiché limita i vecchi sospetti sulla mancata applicazione delle sentenze dei tribunali o sull’espansione delle agenzie di sicurezza nell’uso di fascicoli segreti non soggetti a un controllo efficace, come nell’era precedente. E nonostante l’assenza di speranza, continuo a lottare e a fare tutto il possibile per perseguire la libertà, ed è questa l’essenza della mia incredulità nella speranza: aggrapparmi alla libertà nonostante la mancanza di speranza. O rifugiati e sostenitori dei rifugiati, resistiamo per la giustizia, lecchiamoci le nostre ferite e andiamo avanti. Condividiamo il nostro pane e ridiamo, mentre il pane ride nelle nostre mani. Non abbiamo lobby o miliardari, ma abbiamo l’un l’altro, e questo è sufficiente per muovere la storia. Alla fine, il mio carceriere non è solo il mio più grande nemico, ma quella “speranza” che continua a bussare alla mia testa affinché io non muoia e non mi apre alcuna porta se non quelle della pazienza.
ReSST lancia ciclo di webinar per riaffermare dignità e diritti delle persone sopravvissute a tortura
Se c’è una urgenza che torna con forza nella discussione pubblica, è quella di non lasciare sole le persone che hanno subito torture: nel corpo, nella mente, nelle relazioni, nei loro percorsi quotidiani. È da questo bisogno che nasce “ReSST – Rete di Supporto per le Persone Sopravvissute a Tortura”, che promuove un ciclo di webinar dedicato a prendersi cura, sostenere, riflettere. Comunicati stampa e appelli TORTURA: NASCE LA RESST, LA RETE ITALIANA PER SUPPORTARE I SOPRAVVISSUTI A TORTURA Il comunicato delle realtà fondatrici Caritas, Ciac, La Kasbah, MCT, MSF, MEDU, Naga, SaMiFo 8 Aprile 2025 Un percorso formativo gratuito e aperto rivolto a operatori e operatrici dell’accoglienza, professionisti della salute mentale, avvocati, mediatori, chiunque lavori a contatto con i rifugiati, le persone migranti, le vittime di tortura. Attraverso questi incontri, la Rete intende diffondere buone pratiche, modelli di presa in carico efficaci, strumenti multidisciplinari, esperienze concrete messe in campo da organizzazioni che già operano sul territorio. IL CALENDARIO DEGLI APPUNTAMENTI 2025 23 settembre, ore 18Sopravvissuti a tortura: sfide e prospettive in vista dell’attuazione del Patto sulla Migrazione e l’Asilo dell’UEGianfranco Schiavone, esperto migrazioni; Caterina Bove, avvocata ASGI 28 ottobre, ore 18Geografia delle vulnerabilità: identificazione e supporto ai sopravvissuti a tortura sul territorio e nel sistema di accoglienzaChiara Peri (IPRS), Fabrizio Coresi (ActionAid) 25 novembre, ore 18La certificazione medico-legale sugli esiti di tortura e il Protocollo di IstanbulCristina Cattaneo (Labanof), Duarte Nuno Vieira (Università di Coimbra, esperto forense ONU) La partecipazione è gratuita. È sufficiente registrarsi per ricevere i dettagli del collegamento.
Tre donne condannate a morte in Iran ottengono la cittadinanza onoraria in Italia
La città di Fabriano, in Italia, ha concesso la cittadinanza onoraria a tre donne condannate a morte dallo Stato iraniano: Pakshan Azizi, Sharifa Mohammadi e Warisha Muradi. La consigliera comunale di Fabriano, Marta Ricciuti, ha annunciato che la decisione è stata presa per onorare la lotta delle donne per i diritti civili e la giustizia sociale. La risoluzione proposta dalla Commissione per le Pari Opportunità di Genere, è stata approvata all’unanimità dal consiglio. In una dichiarazione sui social media ha affermato: “ Il conferimento della cittadinanza onoraria a Pakshan Azizi, Sharifa Mohammadi e Warisha Muradi è stato approvato all’unanimità dal nostro consiglio. Queste donne sono state condannate a morte per le loro attività pacifiche in difesa dei diritti delle donne e dei lavoratori”. Marta Ricciuti ha sottolineato che la cittadinanza onoraria non è solo un gesto simbolico, ma anche un modo per amplificare le voci di coloro che lottano per la libertà e la dignità umana in tutto il mondo. Ha aggiunto che l’iniziativa mira ad aumentare la pressione internazionale per fermare le esecuzioni e a spingere le autorità iraniane a rivedere le loro decisioni. “La libertà di pensiero e di espressione non è solo un diritto, ma anche un potente strumento di resistenza e solidarietà. Il silenzio, d’altra parte, è una forma di complicità”, ha affermato Ricciuti. L'articolo Tre donne condannate a morte in Iran ottengono la cittadinanza onoraria in Italia proviene da Retekurdistan.it.
IHD presenta l’elenco delle richieste in occasione della Giornata internazionale delle vittime di sparizioni forzate
In occasione della Giornata internazionale delle vittime delle sparizioni forzate, l’Associazione per i diritti umani (IHD) di Van ha invitato la Turchia ad assumersi la responsabilità della sorte delle persone scomparse, a ratificare gli accordi internazionali e a porre fine all’impunità. La sezione di Van dell’Associazione per i Diritti Umani (IHD) ha pubblicato una dichiarazione esaustiva il 30 agosto, Giornata internazionale delle vittime di sparizioni forzate. In una conferenza stampa tenutasi sabato, l’organizzazione ha presentato dieci richieste chiave volte a garantire che i casi siano trattati legalmente e socialmente. Serpil Sezer, rappresentante di IHD, ha ricordato che le sparizioni forzate hanno una lunga storia in Turchia. Gli intellettuali sono stati vittime di questa pratica durante il genocidio armeno del 1915. Successivamente, durante il colpo di stato militare del 1980 e soprattutto negli anni ’90, assunsero nuovamente un carattere sistematico. “Solo nel 1994 ci sono state oltre 500 denunce documentate di sparizioni forzate”, ha affermato Serpil. Ha sottolineato che si tratta di un crimine contro l’umanità non soggetto a prescrizione. L’IHD ha elencato le sue richieste in occasione della Giornata internazionale delle vittime di sparizioni forzate come segue: L’attuazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e della Corte costituzionale turca La revoca delle restrizioni al diritto di manifestare in piazza Galatasaray a Istanbul Il riconoscimento della responsabilità dello Stato nei casi di sparizione forzata Divulgazione della sorte degli scomparsi e restituzione delle loro spoglie alle famiglie Fine dell’impunità per i colpevoli e i responsabili La creazione di norme giuridiche chiare che definiscano la sparizione forzata come un crimine contro l’umanità, la prevengano e la puniscano. Inoltre IHD ha invitato la Turchia a firmare e attuare la Convenzione delle Nazioni Unite per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate e lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. IHD ha sottolineato che è necessario intensificare la cooperazione con le istituzioni internazionali, come il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate. Inoltre le organizzazioni per i diritti umani, come IHD stesso o l’iniziativa “Madri del sabato”, dovrebbero essere sostenute nel loro lavoro e non ostacolate. L'articolo IHD presenta l’elenco delle richieste in occasione della Giornata internazionale delle vittime di sparizioni forzate proviene da Retekurdistan.it.
Attivista condannata a un anno in Iran
Secondo il sito web di Kurdistan e Iran Human Rights Watch, la Sezione 29 del Tribunale Rivoluzionario di Teheran ha condannato l’attivista per i diritti delle donne Mutehere Guneyi a 12 mesi di carcere. Mutehere Guneyi è stata condannata per “propaganda contro lo Stato e insulti al leader religioso iraniano”. Mutehere Guneyi è stata arrestata dalle forze iraniane il 1° giugno durante la guerra tra Iran e Israele senza alcun ordine del tribunale e inviata al carcere di Evin. Tuttavia dopo l’attacco israeliano al carcere di Evin, è stata trasferita al carcere di Kerçek insieme ad altri prigionieri ed è stata rilasciata temporaneamente dopo 24 giorni. L'articolo Attivista condannata a un anno in Iran proviene da Retekurdistan.it.
L’Unione nazionale delle donne curde: le condanne a morte devono essere annullate
L’Iniziativa dell’Unione nazionale delle donne curde in Europa ha condannato le pratiche del regime iraniano contro i diritti delle donne e le condanne a morte. La dichiarazione è stata una reazione alla conferma della condanna a morte di Şerife Mohammadi nel carcere di Lakan a Rasht, avvenuta il 16 agosto, da parte della 39ª Camera della Corte Suprema dell’Iran. Nella sua dichiarazione l’iniziativa ha sottolineato che Şerife Mohammadi è un simbolo di resistenza e ha dichiarato che la condanna a morte è inaccettabile. L’iniziativa ha inoltre annunciato di aver intrapreso azioni a favore di Werişe Muradi e Pexşan Ezizi, anch’esse condannate a morte, e ha chiesto all’Iran di annullare queste sentenze. L’Unione nazionale delle donne curde in Europa ha inoltre messo in guardia le organizzazioni per i diritti umani, invitandole a non rimanere in silenzio di fronte alle pratiche contro i diritti delle donne. L'articolo L’Unione nazionale delle donne curde: le condanne a morte devono essere annullate proviene da Retekurdistan.it.
179 persone giustiziate in un mese in Iran
Il regime iraniano ha giustiziato almeno 197 persone ad agosto. Ogni martedì nel Rojhilat (Kurdistan orientale) e in Iran, nell’ambito della campagna “No alle esecuzioni di martedì”, viene organizzata una manifestazione contro le esecuzioni nelle carceri. Giunta alla sua 83a settimana di iniziativa, la campagna in risposta alle esecuzioni ha dichiarato: “Questo mese 197 persone sono state giustiziate nel Rojhilat, nel Kurdistan, e in Iran”. Parliamo apertamente contro la pena di morte Nella dichiarazione, si afferma che 197 persone sono state giustiziate ad agosto e si sottolinea che le esecuzioni continuano a essere eseguite in tutte le città e regioni dell’Iran. Si afferma: “Il governo iraniano vuole mantenere la società nella paura attraverso esecuzioni e violenza. L’esecuzione non è una soluzione; è una chiara violazione dei diritti umani. Questo metodo è uno strumento per mettere a tacere le voci di dissenso e reprimere gli ambienti politici. Chiediamo alle istituzioni e alle organizzazioni internazionali, nonché agli attivisti e ai sostenitori della libertà, di esprimersi contro la pena di morte”. La campagna “No all’esecuzione di martedì” è stata fondata il 9 gennaio 2023 come movimento di reazione contro l’esecuzione di prigionieri nel Kurdistan di Rojhilat e in Iran. I membri della campagna organizzano scioperi della fame e dichiarazioni ogni martedì. L'articolo 179 persone giustiziate in un mese in Iran proviene da Retekurdistan.it.
Reati culturalmente motivati: un approfondimento sulle mutilazioni genitali femminili
Questo articolo si concentra sull’analisi dei reati culturalmente motivati, con particolare attenzione al fenomeno delle mutilazioni genitali femminili, esaminandone le implicazioni culturali, giuridiche e internazionali all’interno delle società multiculturali. L’Italia, come molti altri Paesi europei, si può definire sempre più come “società multiculturale”. Secondo il professore di diritto penale Fabio Basile, quando si parla di cultura, si fa spesso riferimento ad una definizione “etnicamente qualificata”: un sistema complesso, composto da differenti visioni del mondo e modi di pensare, da concezioni diverse del giusto e dell’ingiusto, del bello e del brutto, del bene e del male. Queste modalità di percezione e interpretazione della realtà sono profondamente radicate e pervasive, e caratterizzano i gruppi sociali, evolvendosi e contaminandosi nel corso delle generazioni. Un aspetto cruciale, quando si affronta il tema dei pluralismo culturale, riguarda il “localismo” del diritto penale, infatti, questa materia, più di altri settori dell’ordinamento giuridico, tende ad assumere una dimensione locale, riflettendo i valori e le norme proprie del contesto culturale in cui è applicato. Da qualche decennio, il diritto penale ha iniziato a confrontarsi con il pluralismo culturale delle società contemporanee, elaborando per la prima volta concetti come il “reato culturalmente orientato” che richiede “una valutazione, umana e sociale, culturalmente condizionata dei comportamenti presi in considerazione” 1. DEFINIZIONE DI REATO CULTURALMENTE MOTIVATO I concetti di cultural defense e di reato culturalmente motivato vengono utilizzati in ambito penalistico europeo per descrivere un comportamento compiuto da un soggetto appartenente a una cultura minoritaria, che, pur risultando penalmente rilevante secondo l’ordinamento giuridico del Paese ospitante, è considerato socialmente accettato, giustificato e incentivato dal Paese d’origine. Tali condotte generano un conflitto tra la norma penale dello Stato d’accoglienza e una norma culturale, spesso profondamente radicata e talvolta anche rinforzata dall’ordinamento giuridico del Paese d’origine. In ambito penalistico, questa divergenza è definita “antinomia impropria”. Nel diritto penale di ciascun Paese, la gestione del pluralismo culturale dipende dall’adesione a uno dei due modelli teorici prevalenti: il modello assimilazionista e il modello multiculturalista. Il primo impone agli immigrati l’abbandono della propria eredità culturale, richiedendo una piena conformità ai valori, alle norme e alle pratiche della società ospitante. Al contrario, il modello multiculturalista si fonda sul riconoscimento della diversità culturale e sulla legittimazione delle pratiche minoritarie, promuovendo strategie politiche tolleranti e progressiste, purché compatibili con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico. Diverse democrazie occidentali hanno aderito formalmente al modello multiculturalista ponendo però dei limiti al suo esercizio: il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo, per cui, ogni espressione culturale deve necessariamente armonizzarsi con i principi costituzionali e con le norme a tutela dell’individuo. I REATI CULTURALMENTE MOTIVATI: PERPLESSITÀ INTERPRETATIVE La crescente presenza di persone migranti nei Paesi europei, all’interno di società sempre più caratterizzate dal pluralismo culturale, solleva una serie di riflessioni anche in ambito penalistico. Una delle questioni più delicate riguarda il ruolo che le differenze culturali dell’imputato o imputata possono, o dovrebbero, avere nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto penale. Non si tratta di offrire una giustificazione automatica ai comportamenti penalmente rilevanti, ma di interrogarsi su come il sistema giuridico possa confrontarsi con condotte che, pur configurandosi come reati, trovano origine in sistemi normativi e valori culturali differenti da quelli della società di arrivo. In questo senso, il problema non è tanto la “cultura” come attenuante o esimente, quanto la complessità del giudizio quando esso coinvolge individui portatori di tradizioni e visioni del mondo diverse. Non esiste una risposta univoca, anche perché i contesti culturali sono molto eterogenei, così come lo sono i reati che possono emergere in un quadro multiculturale. È però possibile individuare alcune tipologie di condotte che pongono particolari difficoltà interpretative, soprattutto quando alla base vi siano pratiche legate a convinzioni culturali radicate. Tuttavia, si possono individuare alcune macro-categorie di reati che emergono con maggiore frequenza, analizzandone dettagliatamente uno nei prossimi paragrafi: * Reati intrafamiliari: in alcune culture, il capofamiglia detiene un’autorità assoluta che giustifica l’uso della violenza per punire comportamenti ritenuti devianti. * Reati d’onore: forme di violenza volte a ristabilire l’onore familiare o personale, spesso collegate a comportamenti sessuali o relazioni non conformi alle norme del gruppo di origine. * Riduzione in schiavitù e sfruttamento di minori: pratiche tradizionali che giustificano la sottomissione di minori. * Reati contro la libertà sessuale: in contesti in cui la donna non gode di autonomia si verificano abusi giustificati dal ruolo familiare o dal genere, anche nei confronti di minorenni. * Mutilazioni genitali femminili e pratiche rituali: condotte giustificate come riti di passaggio o segni di appartenenza, che causano danni permanenti. Nel contesto processuale, il background culturale dell’imputato può assumere rilievo probatorio, offrendo al giudice una chiave interpretativa per una più completa e veritiera ricostruzione dei fatti 2. LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI E IL DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE Come accennato sopra, il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili rappresenta un chiaro esempio di reato culturalmente motivato. Nel 1955 l’Organizzazione Mondiale della sanità l’ha descritto includendo: “tutte le pratiche che comportano la rimozione parziale o totale degli organi genitali femminili esterni o altri danni agli organi genitali, compiute per motivazioni culturali o altre motivazioni non terapeutiche 3”. Sono state formalmente riconosciute 4 pratiche: * Tipo I: consiste nell’escissione del prepuzio, con o senza la rimozione del clitoride. * Tipo II: prevede l’escissione del prepuzio e del clitoride, insieme alla rimozione parziale o totale delle piccole labbra. * Tipo III: comporta l’escissione parziale o totale dei genitali esterni e la cucitura della vulva (infibulazione). * Tipo IV: include tutte le altre pratiche dannose sui genitali, come le ustioni, i tagli o l’uso di sostanze corrosive 4. La mutilazione genitale femminile (MGF) è una pratica profondamente radicata in molte società extraeuropee, diffusa in circa 40 Paesi nel mondo, principalmente in Africa, Medio Oriente e alcune aree dell’Asia. Nonostante sia riconosciuta a livello internazionale come una violazione dei diritti umani, continua ad essere perpetrata a causa di un complesso sistema di credenze e tradizioni che varia da contesto a contesto. Alla base della MGF vi sono molteplici motivazioni, spesso intrecciate tra loro, che affondano le radici in fattori culturali, religiosi e sociali. Uno degli elementi principali è l’identità culturale: la pratica viene vista come un rito di passaggio, un segno di appartenenza alla comunità. Le ragazze che vi si sottopongono sono considerate adulte, pure e degne di rispetto, mentre chi si rifiuta rischia l’emarginazione o la stigmatizzazione. Un altro motivo ricorrente è legato alla concezione della sessualità femminile. In alcune culture, si crede che la mutilazione rimuova una parte “maschile” del corpo della donna, purificandola e rendendola più femminile. Questa convinzione si lega al desiderio di controllare la sessualità femminile, vista come potenzialmente pericolosa per l’onore familiare. Di conseguenza, la pratica viene giustificata anche come strumento per garantire la verginità prematrimoniale e la fedeltà coniugale, rafforzando l’idea che il corpo della donna debba essere controllato in funzione del prestigio e della reputazione della famiglia. In alcune aree, inoltre, esistono credenze secondo cui i genitali esterni femminili sarebbero impuri, poco estetici o addirittura nocivi per la salute. In questo contesto, la MGF viene vista come una pratica igienica, che renderebbe il corpo femminile più sano e gradevole. A queste credenze si aggiungono altre convinzioni, come l’idea che la mutilazione possa aumentare la fertilità della donna o migliorare il piacere sessuale del marito, rafforzando così il suo valore nel matrimonio. Non da ultimo, la MGF è spesso ritenuta una condizione necessaria per il matrimonio: una donna non mutilata può essere considerata “impura”, “disobbediente” o “inadatta” a diventare moglie, con gravi conseguenze sociali per sé e per la sua famiglia 5. In sintesi, la MGF non è solo una pratica fisica, ma il risultato di un sistema culturale complesso, che collega il corpo femminile a concetti di purezza, onore, salute e appartenenza. Vi è dunque un sistema di credenze che sostiene che questa pratica migliori la salute e lo status sociale delle donne coinvolte.  A seguito dei flussi migratori, diversi Paesi occidentali si sono trovati a confrontarsi con pratiche come la mutilazione genitale femminile, ritenute particolarmente gravi in quanto considerate lesive dei diritti fondamentali delle donne, in particolare della loro integrità fisica e libertà personale.  Tali pratiche sono state oggetto di una netta condanna da parte della comunità internazionale: diversi atti, tra cui il Protocollo di Maputo, impongono agli Stati l’obbligo di vietarle espressamente attraverso misure legislative efficaci e strumenti adeguati di tutela. In ambito europeo, tali pratiche sono considerate penalmente condannabili in tutti gli Stati, anche se con modalità diverse: alcuni Paesi, come Svezia, Regno Unito, Norvegia, Belgio e Spagna, hanno adottato leggi specifiche per contrastare queste pratiche, mentre altri, come la Francia, pur senza una normativa specifica, fanno ricorso alle disposizioni generali sul reato di lesioni personali. Nonostante ciò, la Francia risulta essere il Paese europeo in cui si sono celebrati più procedimenti giudiziari in materia. Infine, si è discusso della possibilità che il consenso espresso dalla donna possa escludere la punibilità delle mutilazioni. Tuttavia, molte legislazioni escludono esplicitamente questa possibilità, ritenendo che nemmeno il consenso possa giustificare una pratica che lede diritti umani fondamentali. IL CASO STUDIO E LA RISPOSTA NORMATIVA ITALIANA: LA LEGGE 7/2006 E L’INTRODUZIONE DI REATI SPECIFICI NEL CODICE PENALE Un caso particolarmente rilevante e rappresentativo del possibile sforzo ricostruttivo del contesto di riferimento, si è verificato a Verona nel 2006, quando, due genitori nigeriani avevano richiesto a una connazionale di praticare la aruè, una forma di mutilazione rituale, su due neonate. In primo grado tutti furono condannati, ma in appello la Corte di Venezia assolse i genitori, ritenendo che non ci fosse la volontà di ledere le figlie, bensì l’intenzione di seguire un rituale culturale ritenuto necessario nella loro comunità. La decisione si basò anche su testimonianze di esperti (antropologi, mediatori culturali, membri della comunità religiosa), che aiutarono il giudice a comprendere il contesto sociale e culturale del gesto. Questa sentenza ha sollevato un ampio dibattito in quanto il confine tra il rispetto delle differenze e la tutela dei diritti fondamentali rimane sottile e profondamente controverso: da un lato, c’è chi considera questo caso un esempio positivo di apertura al dialogo interculturale, dall’altro, alcuni temono che legittimare pratiche lesive possa legittimare azioni pericolose, soprattutto in casi in cui siano coinvolti minori o vittime vulnerabili.  In Italia, con la legge 9 gennaio 2006, n. 7, lo Stato ha introdotto una normativa penale specifica per vietare e punire le mutilazioni genitali femminili, scegliendo quindi di adottare una legge ad hoc. In particolare, l’art. 9 della legge ha aggiunto al codice penale gli articoli 583-bis, che introduce i reati di “mutilazioni genitali” e “lesioni genitali”, e 583-ter, che prevede pene accessorie specifiche per i sanitari coinvolti. Il tratto distintivo di questa normativa è la particolare severità sanzionatoria. Le pene previste per questi reati sono infatti più elevate rispetto a quelle normalmente applicabili per le lesioni personali.  Questa scelta legislativa è stata criticata da alcuni giuristi. In particolare, si sostiene che il maggior rigore sanzionatorio non sia giustificato da una maggiore gravità del danno fisico prodotto, ma piuttosto dalla motivazione culturale del reato. Secondo questa interpretazione, la legge 7/2006 sarebbe una norma simbolica, volta più a riaffermare i valori della cultura occidentale e a stigmatizzare pratiche culturali “altre” piuttosto che a tutelare in modo effettivo i diritti delle vittime. Ne deriverebbe, in ultima analisi, un atteggiamento intollerante da parte del legislatore, che punisce più duramente proprio perché il fatto è legato a tradizioni culturali diverse da quelle dominanti, rischiando solo di accumulare e fortificare pregiudizi nei confronti di comunità straniere, in base alle loro provenienze.  1. Sentenza della Cassazione n. 19808 del 9 giugno 2006 ↩︎ 2. I reati cd. «culturalmente motivati» commessi dagli immigrati: (possibili) soluzioni giurisprudenziali, di Fabio Basile, da Questione Giustizia ↩︎ 3. Si veda: “Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, Relazione sulle mutilazioni genitali femminili, 27 ottobre 2021” ↩︎ 4. Le mutilazioni genitali femminili. Analisi delle implicazioni culturali e commento alla “Legge Consolo”, L. Tranquilli, L. Gentilucci, S. Talebi Chahvar ↩︎ 5. Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili), di Fabio Basile, da Stato, Chiese e pluralismo confessionale ↩︎
Libertà per Mehmet Çakas e tutti i prigionieri politici curdi
Nostro fratello Mehmet Çakas, poiché la sua richiesta di asilo politico in Germania non è stata accolta, è andato in Italia e ha presentato lì la sua richiesta di asilo politico. Mentre era in Italia, è stato arrestato a causa del mandato di arresto internazionale (Red Notice) emesso dalla Germania. Dopo circa quattro mesi di detenzione in Italia, il tribunale italiano ha deciso di estradarlo in Germania con la condizione che non fosse estradato in Turchia. I tribunali tedeschi, con l’accusa di essere un “dirigente del PKK”, hanno condannato nostro fratello a 2 anni e 10 mesi di carcere. A due mesi dalla fine della pena, lo Stato tedesco ha deciso di espellerlo e consegnarlo alla Turchia con la motivazione che la sua richiesta di asilo politico in Germania non era stata accettata. Durante il periodo in cui era detenuto in Italia, Mehmet ha espresso chiaramente la sua opposizione all’estradizione in Germania, affermando che temeva di essere successivamente estradato in Turchia. Il tribunale italiano, accogliendo questa preoccupazione, lo ha consegnato alla Germania solo con la garanzia che non sarebbe stato estradato in Turchia. Mehmet era stato costretto a recarsi in Italia per presentare una nuova richiesta di asilo a causa del rifiuto della Germania. Tuttavia, è stato arrestato una settimana prima della sua prima udienza in Italia e quindi non ha potuto partecipare al processo di asilo, che è rimasto in sospeso. La Germania, sostenendo che Mehmet non ha un permesso di soggiorno né in Germania né in un altro paese europeo, ha deciso di espellerlo e consegnarlo alla Turchia. Come famiglia, riteniamo che questa situazione rappresenti una tragica violazione sia del diritto tedesco che di quello italiano. Lo Stato tedesco, da un lato, ha interrotto il processo di asilo in Italia emettendo un Red Notice, e dall’altro, pur non avendo prove di attività illegali di Mehmet secondo le leggi tedesche, lo ha condannato basandosi sull’inclusione del PKK nella lista delle organizzazioni terroristiche dell’UE e su una lunga sorveglianza, concludendo che fosse un “dirigente del PKK”. Con questa condanna, ha violato il suo diritto alla libertà e ora, con l’intenzione di estradarlo in Turchia, cerca di condannarlo a passare il resto della sua vita nelle carceri turche, trasformando la nostra vita in un incubo. Noi, come famiglia, ci siamo affidati al diritto e ai valori europei, credendo che l’Europa fosse un porto sicuro per i diritti umani e le libertà. Siamo stati costretti a lasciare il nostro paese, il nostro popolo, la nostra lingua e la nostra cultura. Tuttavia, la situazione che stiamo vivendo oggi getta un’ombra amara sull’immagine dell’Europa come porto sicuro. L’ingiustizia subita da molti curdi di fronte al diritto europeo dimostra che questi diritti e libertà non sono sempre validi per gli “stranieri” e che le norme giuridiche europee possono essere facilmente ignorate quando si tratta di loro. Come curdi e “stranieri”, chiediamo che le norme giuridiche europee siano applicate equamente a tutti coloro che cercano rifugio. Rifiutiamo fermamente che i curdi diventino oggetti di scambio politico ed economico tra gli stati europei e la Turchia. Mehmet ha attualmente cinque fascicoli di processo in Turchia, con mandati di arresto pendenti, e ha un’udienza prevista a Erzincan nel settembre 2025. Viene processato secondo l’articolo 302 del codice penale turco (ergastolo aggravato). Durante la sua detenzione in Italia, lo Stato turco aveva già richiesto la sua estradizione attraverso un Red Notice. Considerando la mancanza di un processo equo in Turchia, la sua scarsa reputazione in materia di diritti umani e la sua politica repressiva contro i prigionieri politici curdi, l’estradizione di Mehmet sarebbe una chiara violazione del diritto europeo. Questo è particolarmente grave quando si tratta di un’accusa ai sensi dell’articolo 302. Come famiglia, ci stavamo preparando ad accogliere nostro fratello all’uscita dal carcere la prima settimana di ottobre, pronti a vivere finalmente in libertà dopo 2 anni e 10 mesi di detenzione. Tuttavia, la decisione della Germania di estradarlo in Turchia ci ha posto di fronte a una realtà terribile: nostro fratello rischia di passare il resto della sua vita nelle carceri turche. Questa prospettiva è per noi una fonte di dolore immenso e una tragedia che oscura il nostro futuro. L’estradizione di Mehmet creerebbe un precedente per altri casi simili, aprendo la strada a nuove espulsioni di curdi verso la Turchia da parte della Germania e di altri paesi europei. Anche se all’apparenza questa questione può sembrare riguardare solo i curdi, in realtà tocca tutti gli stranieri in Europa e, nel tempo, può coinvolgere anche i cittadini europei. Perché quando l’illegalità inizia ad essere applicata come eccezione agli “altri”, col tempo questo concetto si allarga fino a minacciare l’intera società europea. Per questo motivo, noi, la famiglia di Mehmet Çakas, facciamo appello ai curdi in Italia e in Europa, agli stranieri, agli amici del popolo curdo, alle persone sensibili e coscienti in Europa: uniamoci per fermare questa palese ingiustizia e impedire l’estradizione di Mehmet in Turchia. La libertà prevarrà.Libertà per Mehmet Çakas e per tutti i prigionieri politici detenuti in Europa, siano essi curdi o appartenenti ad altri popoli. La famiglia di Mehmet Çakas Messaggio di Mehmet Çakas: “Prima di tutto, invio i miei saluti e il mio affetto a tutti gli amici, compagni, giornalisti, e ai sostenitori della causa curda che hanno condiviso solidarietà con me durante la mia detenzione, riempiendo la mia cella di colori, lettere e immagini. Anche se è stata presa una decisione di espulsione nei miei confronti, credo nel diritto e nella vostra solidarietà e nella vostra lotta, e penso che l’ingiustizia nei miei confronti finirà. Tuttavia, se la decisione di espulsione non verrà annullata, mi aspetto che le autorità italiane rispettino la condizione posta durante la mia estradizione verso la Germania – cioè la promessa che non sarei stato estradato in Turchia – e che l’Italia mi riprenda. Infatti, prima di essere arrestato su richiesta della Germania, avevo già presentato domanda di asilo in Italia. Chiedo quindi che questo processo venga immediatamente riattivato e che mi venga concesso il diritto di soggiorno. Faccio appello ai curdi in Italia, agli amici del popolo curdo, alle organizzazioni per i diritti umani, agli operatori giuridici e al popolo italiano, che so essere legato ai principi di giustizia, affinché creino un’opinione pubblica per accelerare il mio processo di asilo in Italia e per garantire che la decisione del tribunale italiano di non estradarmi in Turchia venga rispettata.” The post Libertà per Mehmet Çakas e tutti i prigionieri politici curdi first appeared on Retekurdistan.it. L'articolo Libertà per Mehmet Çakas e tutti i prigionieri politici curdi proviene da Retekurdistan.it.
L’Italia tace sul caso dell’attivista curdo Mehmet Çakas che rischia l’espulsione in Turchia
Mentre le autorità tedesche si preparano a deportare l’attivista curdo Mehmet Çakas in Turchia il 28 agosto, l’Italia, che lo ha consegnato a determinate condizioni, rimane in silenzio. L’attivista curdo Mehmet Çakas sarà deportato in Turchia alla fine del mese, nonostante le sentenze pendenti dei tribunali. Attualmente sta scontando una pena detentiva in Germania per appartenenza al PKK e sarebbe in grave pericolo in Turchia. Mehmet detenuto nel carcere di Uelzen, ha dichiarato in una nota tramite la sua famiglia che vorrebbe che il tribunale italiano mantenesse la garanzia che non potrà essere estradato in Turchia, garanzia data durante il processo di estradizione in Germania. Ha dichiarato di aver presentato domanda di asilo in Italia prima di essere consegnato alla Germania. Ha affermato che la procedura è stata interrotta dal suo arresto e ha chiesto che venisse riavviata e che gli venissero concessi i diritti di residenza. Mehmet ha rivolto un appello ai curdi in Italia, ai difensori dei diritti umani e agli ambienti democratici, sottolineando l’importanza di dare attuazione alla decisione della corte italiana e di esercitare una pressione pubblica a tal fine. Cansu Özdemir, membro del Parlamento federale (Bundestag) per Die Linke, ha portato la questione all’ordine del giorno del governo. Nella sua interrogazione parlamentare, Cansu Özdemir ha fatto riferimento alla decisione del Ministero federale di Giustizia del 2023, secondo cui la richiesta di estradizione di Çakas doveva essere respinta a causa della minaccia di una condanna all’ergastolo aggravata in Turchia. Il deputato del partito della sinistra ha chiesto se il Ministero federale degli Interni e l’Ufficio federale per la migrazione e i rifugiati (BAMF) avessero preso in considerazione questa decisione. Cansu Özdemir ha risposto: “Come si può spiegare che l’Ufficio federale per le migrazioni e i rifugiati non abbia imposto un divieto di espulsione nonostante la chiara valutazione dell’Ufficio federale di giustizia in merito a Mehmet Çakas?” The post L’Italia tace sul caso dell’attivista curdo Mehmet Çakas che rischia l’espulsione in Turchia first appeared on Retekurdistan.it. L'articolo L’Italia tace sul caso dell’attivista curdo Mehmet Çakas che rischia l’espulsione in Turchia proviene da Retekurdistan.it.