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Congo, crollo di una miniera di rame e cobalto illegale a Kawama: il dramma dell’estrattivismo
Più di 80 minatori sono morti per il crollo di un ponte presso una miniera di rame cobalto situata nel sud della Repubblica Democratica del Congo (Rdc). Il ponte è crollato a Kawama, situata nella provincia di Lualaba, in una zona inondata nei pressi della miniera – ha spiegato a giornalisti il responsabile provinciale degli Interni, Roy Kaumba Mayonde. Al momento sono stati recuperati 80 corpi, ma le ricerche di ulteriori vittime proseguono, ha aggiunto. Le squadre di soccorso stanno continuando le operazioni di ricerca di eventuali altre vittime, così come in parallelo stanno proseguendo gli accertamenti del caso per ricostruire la dinamica del tragico incidente. Stando alle prime ricostruzioni, a crollare sarebbe stato un ponte costruito abusivamente da alcuni minatori illegali, che avrebbero cercato di fuggire velocemente in massa sfruttando la struttura per scappare dal personale militare intervenuto per scacciarli dal sito. A rendere la portata della tragedia bastano però le immagini del crollo diffuso sui social, con la nube di fumo alzatasi per via del collasso a inghiottire gli inermi lavoratori presenti sul posto. Secondo quanto riporta la BBC, non si tratta di un incidente fuori dal comune in Congo, paese in cui circa 2 milioni di persone sono impiegate in miniere non regolamentate che sostengono la domanda crescente del metallo utilizzato, tra gli altri usi, per la produzione di batterie agli ioni di litio per le auto elettriche e di tutto il settore fortemente insostenibile della cosiddetta “green economy”, fondato sull’estrattivismo. Circa l’80% dei bambini e delle bambine congolesi sono coinvolti in gravi forme di sfruttamento e svolgono lavori usuranti, estraggono il cobalto in condizioni estremamente pericolose. I bambini per meno di un dollaro al giorno, si infilano dentro cunicoli stretti e  senza sicurezza alcuna, altri bambini per lo stesso importo, sono costretti a portare pesanti sacchi 12 ore al giorno, altri ancora lavano le rocce immersi in pozze altamente inquinate. Lavoratori in una miniera d’oro nella Repubblica Democratica del Congo (foto d’archivio) Il 20% del minerale estratto proviene dalla parte meridionale del Paese, nel distretto di Kolwezi, capitale mondiale delle terre rare. Nelle comunità del Domaine Marial, il 65% dei bambini tra gli 8 e i 12 anni lavora nelle miniere; nell’area di Kanina sono in maggioranza in età scolare, si tratta anche di bambini in una fascia di età compresa tra i 6 e gli 8 anni, che risultano particolarmente adatti ad insinuarsi negli stretti cunicoli per l’estrazione del minerale. Lavorano in condizioni estreme, per più di dodici ore, senza alcuna protezione e con salari che vanno da 1$ a 2$ al giorno. Il rischio di ammalarsi prima e più dei loro coetanei è molto alto, così come il rischio di incidenti, anche mortali, sul lavoro, soprattutto a causa dei frequenti crolli dei tunnel nelle miniere. Sono, inoltre, numerose le segnalazioni di incidenti mortali nella ex provincia del Katanga. Tuttavia, non ci sono dati ufficiali governativi disponibili sul numero di vittime che si verificano ma gli incidenti sono comuni. I bambini sono oggetto di maggiori soprusi e abusi da parte dei caporali e dalle guardie di sicurezza. La Repubblica del Congo, detiene circa il 70% delle riserve mondiali di coltan e una quota significativa di litio. Tuttavia, invece di costituire una fortuna, queste risorse sono diventate una maledizione, alimentando cicli di violenza e sfruttamento. Foto di miniere in Congo (foto d’archivio) I gruppi armati, spesso finanziati da reti internazionali, controllano le miniere e utilizzano il lavoro forzato, soprattutto quello dei bambini, per estrarre i minerali, che poi vengono esportati illegalmente attraverso i paesi vicini. Nel 2019 in gruppo di avvocati, di una associazione per i diritti umani ha mosso una causa giudiziaria, depositata il 15 dicembre 2019. La causa afferma che le grandi aziende leader nella tecnologia stanno “Consapevolmente traendo beneficio da questo sistema di estrazione ‘artigianale’ in Congo e lo stanno supportando in maniera sostanziale. Gli imputati sanno che il settore di estrazione mineraria in Congo dipende dal lavoro minorile e ne sono stati a conoscenza per un significativo periodo di tempo, sanno che i bambini svolgono i lavori più pericolosi tra cui lo scavo dei tunnel in miniere di cobalto arretrate”. Inoltre sostiene che i bambini sono “forzati dall’estrema povertà a lasciare la scuola per perseguire l’unica opzione economica nella loro regione: lavorare nelle miniere ‘artigianali’ di cobalto”, dove vengono pagati meno di due dollari al giorno per estrarre rocce di cobalto da tunnel sotterranei con degli strumenti insufficienti, un lavoro stremante ed estremamente pericoloso. Famiglie e bambini feriti ora chiedono i danni non solo per lo sfruttamento del lavoro minorile, ma anche per “arricchimento ingiusto, supervisione negligente e inflizione intenzionale di sofferenza emotiva”. Gli esperti sottolineano che questa è la prima volta che diverse aziende tecnologiche affrontano una causa legale unica che metta in discussione la legalità della loro fornitura di cobalto. Questa la lista delle sedici multinazionali denunciate: Ahong, Apple, Byd, Daimler, Dell, Hp, Huawei, Inventec, Lenovo, Lg, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen, Zte. Il 70% del cobalto usato nei nostri apparecchi elettronici, dai telefonini, fino ai PC e i televisori, proviene dal Congo, oltre la metà di questo viene estratto dai bambini. Secondo il rapporto, il cobalto estratto viene comprato da broker che poi lo rivendono alla Congo Dongfang Mining, controllata dal colosso cinese del settore minerario Zhejiang Huayou Cobalt Ltd. Nessun controllo sulla liceità della provenienza del cobalto viene effettuato dai fornitori. Il crollo della miniera che ha visto la morte di più di 80 persone tra cui diversi bambini (numero destinato a crescere nelle prossime ore), non è un evento straordinario, bensì solo uno degli innumerevoli episodi di morte e disperazione che avvengono nella Repubblica del Congo, tutto in nome di un interesse e di un falso progresso fondato su morte, disperazione e sfruttamento selvaggio e senza limiti, che nessuno pare sia interessato a fermare.   Ulteriori informazioni: https://www.tagesschau.de/ausland/afrika/kongo-goldminen-goldpreis-100.html https://www.wired.it/article/congo-risorse-minerarie-cobalto-coltan-cina/ https://www.tagesschau.de/ausland/afrika/demokratische-republik-kongo-100.html > Congo: cobalto e coltan, il “nuovo oro” che alimenta i conflitti > Cobalto e povertà: la maledizione del Congo Luca Cellini
Il corpo delle donne come campo di battaglia: la violenza sessuale sulle donne durante il conflitto nella Repubblica Democratica del Congo
> RACCONTARE E’ UN ATTO POLITICO.  RACCONTA, DIFFONDI, PARTECIPA AL CROWDFUNDING > DADAxCONGO. > > Trasformiamo la solidarietà in azione, insieme.   Réseau des Femmes pour un Développement Associatif Réseau des Femmes pour la Défense des Droits et la Paix International Alert CAPITOLO 3 La posizione delle donne e le percezioni socio-culturali della violenza sessuale nel Sud Kivu Per comprendere le ragioni per cui si verificano tali atti di violenza sessuale, è necessario prendere in considerazione la situazione sociale ed economica delle donne nel Sud Kivu. Una conoscenza approfondita del modo in cui vengono percepite le relazioni di genere nella società e, soprattutto, delle attitudini degli uomini nei confronti del corpo femminile in tempo di pace — sia nel Sud Kivu che nei Paesi limitrofi da cui provengono alcuni autori di queste violenze — permette di capire più chiaramente come tali atrocità abbiano potuto verificarsi. Questo capitolo analizza quindi brevemente la posizione delle donne nella società del Sud Kivu, e il contesto socio-culturale ed economico in cui vivono. 3.1 La posizione delle donne La posizione delle donne nel Sud Kivu è caratterizzata, da un punto di vista economico, dalla “femminilizzazione della povertà”, aggravata dall’assenza di politiche o meccanismi per la promozione femminile; e, da un punto di vista socio-culturale, dalla persistenza di costumi, pratiche e leggi discriminatorie nei confronti delle donne. Questi fattori le rendono particolarmente vulnerabili in un contesto di conflitto armato: non solo aumentano la probabilità che si verifichino violenze di genere, ma — agli occhi degli autori — contribuiscono persino a legittimarle. 3.1.1 La femminilizzazione della povertà Quando scoppiò la guerra nella Repubblica Democratica del Congo, la popolazione locale — e in particolare le donne — era già stata resa vulnerabile dal malfunzionamento delle strutture statali e dalla mancanza di infrastrutture economiche e sociali adeguate, dovuta a trent’anni di regime dittatoriale sotto il presidente Mobutu. Per decenni gli stipendi dei funzionari pubblici e dei dipendenti delle imprese statali non erano stati pagati regolarmente, e così la popolazione era stata costretta ad assumersi compiti che avrebbero dovuto spettare allo Stato: costruzione di scuole, pagamento degli insegnanti, manutenzione delle strade e fornitura di servizi sanitari. In questo contesto di impoverimento generalizzato, il peso della sopravvivenza è ricaduto sempre più sulle donne. La mancanza di sviluppo economico e sociale ha determinato un ulteriore impoverimento della popolazione femminile, soprattutto nelle aree rurali e semi-urbane. Le donne costituiscono la forza trainante dell’economia di sussistenza del Sud Kivu, basata essenzialmente su agricoltura e allevamento. Circa l’80% della popolazione della provincia si dedica all’agricoltura, e il 70% di queste persone sono donne. Le donne sono attive anche nel settore informale, in particolare nel piccolo commercio, nella sartoria, nella tintura, nella ceramica e nella lavorazione dei cesti. Operano inoltre ai margini dell’industria mineraria, dove vengono impiegate come manodopera sfruttata e sottopagata. La guerra ha avuto un effetto devastante sulle attività economiche e sociali delle donne. Le risorse già scarse e i mezzi di produzione delle organizzazioni femminili di base sono stati distrutti o saccheggiati. Oltre alla situazione di insicurezza, le donne devono affrontare problemi strutturali che aggravano ulteriormente la loro povertà: * difficoltà di accesso alla terra a causa della sovrappopolazione e dell’eccessivo sfruttamento dei terreni fertili, e per via delle tradizioni patriarcali; * distruzione delle infrastrutture economiche o loro assenza; * tassazione pesante imposta dal Rassemblement Démocratique Congolais (RCD), che ha contribuito a erodere ulteriormente i redditi femminili. La guerra ha inoltre prodotto un elevato numero di vedove e donne sfollate, improvvisamente divenute capofamiglia senza alcuna preparazione. Esse vivono al di sotto della soglia di povertà e dipendono in larga misura dagli aiuti alimentari (quando disponibili) per sopravvivere. I tassi di HIV/AIDS sono elevati, anche a causa della diffusione degli stupri commessi dai gruppi armati. La guerra e la povertà hanno costretto molte donne e ragazze alla prostituzione di sopravvivenza, che le rende particolarmente vulnerabili alla violenza sessuale. Tale fenomeno crea condizioni “in cui le relazioni sessuali abusive sono più largamente accettate e in cui molti uomini, civili e combattenti, considerano il sesso come un servizio facilmente ottenibile mediante coercizione”. Parallelamente, la violenza domestica è aumentata, a causa della disoccupazione maschile, delle tensioni e dell’incertezza sul futuro politico del Paese. Questo aumento della violenza domestica durante i periodi di guerra è un fenomeno diffuso, confermato da studi — ad esempio — sull’ex Jugoslavia, dove durante il conflitto si verificarono episodi di violenza sessuale di crudeltà senza precedenti. 3.1.2 Costumi, pratiche e legislazione discriminatori Alcuni costumi, pratiche e leggi ostacolano l’accesso delle donne alla proprietà, all’istruzione, alle tecnologie moderne e all’informazione. Le donne soffrono spesso di analfabetismo o di scarsa istruzione, poiché in molte famiglie i maschi continuano a essere privilegiati rispetto alle femmine nell’accesso alla scuola. Molte ragazze appartenenti ai gruppi più svantaggiati abbandonano gli studi per matrimonio o gravidanza precoce. È difficile per le donne accedere ai mezzi di produzione come terra, proprietà o credito. Alcuni aspetti della legislazione congolese discriminano ancora le donne: ad esempio, una donna sposata deve ottenere il permesso del marito per aprire un conto bancario o richiedere un prestito. Tradizionalmente, le donne non possono ereditare dai padri o dai mariti. Nelle zone rurali, le donne producono e gestiscono il 75% della produzione alimentare, trasformano i prodotti per il consumo familiare e vendono circa il 60% nei mercati locali, ma spesso non ricevono alcun guadagno, poiché i proventi vanno direttamente ai mariti. Molti gruppi etnici mantengono pratiche tradizionali che perpetuano la sottomissione femminile, riducendo le donne allo status di proprietà privata. Tra i Bashi, Bavira, Fulero e Bembe, la consuetudine del levirato — per cui una vedova viene “ereditata” dal fratello del marito — è ancora viva, privando le donne della libertà di scegliere un nuovo coniuge. Tra i Banyamulenge, le donne erano considerate proprietà collettiva del clan: il suocero, il cognato o il marito della cognata avevano il diritto, con il consenso del marito, di avere rapporti sessuali con lei. Sebbene tali pratiche siano state in parte limitate dall’influenza del cristianesimo, non sono del tutto scomparse. Alcuni Bami (capi tradizionali) rivendicavano il droit de seigneur sulle donne della comunità che desideravano, facendole “consegnare” alle proprie case per un matrimonio forzato o per rapporti sessuali. Tali costumi persistono tuttora in alcune etnie (Lega, Fulero, Bembe e Bashi), e i genitori spesso li tollerano per il prestigio e i vantaggi che derivano dai legami con i Bami. 3.1.3 L’assenza di politiche e meccanismi di promozione femminile La provincia del Sud Kivu dispone di pochissimi meccanismi di promozione femminile. Un Ministero per gli Affari Femminili fu creato a livello nazionale all’inizio degli anni ’80, con una sede provinciale a Bukavu. Tuttavia, molte organizzazioni femminili lo consideravano solo uno strumento politico per mobilitare l’elettorato femminile a favore del presidente Mobutu. I fondi destinati alla promozione delle donne furono poi ridotti, e il ministero fu assorbito da quello per gli Affari Sociali, diventandone un semplice dipartimento. Durante l’amministrazione del Rassemblement Démocratique Congolais (RCD), al potere nel Sud Kivu dal 1998 al 2003, fu istituito un Consiglio Provinciale delle Donne (marzo 2001), indipendente dal ministero di Kinshasa ma privo di risorse per sviluppare progetti di sviluppo femminile. Strumenti internazionali come la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW) e la Piattaforma di Pechino sono stati raramente applicati, a causa della mancanza di finanziamenti. Un’indagine condotta nel 2001 dal governo della RDC e dall’UNICEF su tutto il territorio nazionale ha rivelato un quadro allarmante, mostrando che la situazione delle donne e dei bambini era peggiorata sotto quasi tutti gli aspetti dal 1995.   > RACCONTARE E’ UN ATTO POLITICO.  RACCONTA, DIFFONDI, PARTECIPA AL CROWDFUNDING > DADAxCONGO. > > Trasformiamo la solidarietà in azione, insieme.   Questo paper rappresenta un estratto tradotto di uno studio più ampio dal titolo: Il corpo delle donne come campo di battaglia: la violenza sessuale contro donne e ragazze durante la guerra nella Repubblica Democratica del Congo  Sud Kivu (1996–2003) Réseau des Femmes pour un Développement Associatif Réseau des Femmes pour la Défense des Droits et la Paix International Alert 2005 Questo studio è stato condotto e redatto da un team di consulenti composto da: Marie Claire Omanyondo Ohambe Professoressa Associata Institut Supérieur des Techniques Médicales Sezione Scienze Infermieristiche Kinshasa Repubblica Democratica del Congo Jean Berckmans Bahananga Muhigwa Professore Dipartimento di Biologia Centre Universitaire de Bukavu Bukavu Repubblica Democratica del Congo Barnabé Mulyumba Wa Mamba Direttore Institut Supérieur Pédagogique Bukavu Repubblica Democratica del Congo Revisione a cura di: Martine René Galloy Consulente internazionale Specialista in Genere, Conflitto e Processi Elettorali Ndeye Sow Consigliera Senior International Alert Catherine Hall Addetta alla Comunicazione International Alert I dati sul campo sono stati raccolti da un team composto da: Donne del Réseau des Femmes pour un Développement Associatif (RFDA), che hanno condotto la ricerca a Uvira, nella Piana della Ruzizi, a Mboko, Baraka, Fizi e Kazimia: 1. Lucie Shondinda 2. Gégé Katana 3. Elise Nyandinda 4. Jeanne Lukesa 5. Judith Eca 6. Brigitte Kasongo 7. Marie-Jeanne Zagabe Donne del Réseau des Femmes pour la Défense des Droits et la Paix (RFDP), che hanno condotto la ricerca a Bukavu, Walungu, Kabare, Kalehe e Shabunda: 1. Agathe Rwankuba 2. Noelle Ndagano 3. Rita Likirye 4. Venantie Bisimwa 5. Laititia Shindano 6. Jeanne Nkere La ricerca è stata coordinata da: Annie Bukaraba Coordinatrice Programma “Women’s Peace” di International Alert, Repubblica Democratica del Congo orientale    
Repubblica Democratica del Congo, una questione dimenticata: un incontro coinvolgente a Cardano al Campo (Varese)
Al termine della Congo Week, promossa dall’organizzazione Friends of the Congo – FOTC ogni anno in tutto il mondo, anche in provincia di Varese è stata tenuta una serata divulgativa per informare e sensibilizzare in merito alla difficile situazione della Repubblica Democratica del Congo. Nella serata di domenica 26 ottobre, presso il Circolo Quarto Stato di Cardano al Campo, la giornalista indipendente Chiara Pedrocchi ha intervistato Evelyne Sukali, attivista e mediatrice culturale congolese, la dottoressa Rachele Ossola, ricercatrice e chimico ambientale di Source International e Salvatore Attanasio, padre dell’ambasciatore Luca Attanasio. Il circolo era pieno di gente, tra cui molti attivisti del “Collettivo da Varese a Gaza”; il racconto dei tre ospiti è stato molto forte e ha portato delle testimonianze su una realtà complessa. Chiara Pedrocchi ha fatto una breve introduzione e dato informazioni di contesto per inquadrare la questione. Il Congo, in Africa centrale, è un Paese con una superficie grande come un terzo dell’Europa e con una popolazione di circa 81 milioni di abitanti con un’età media molto bassa, intorno ai 16 anni. La capitale Kinshasa ha circa 17 milioni di abitanti. Dal 1960 è una Repubblica democratica sulla carta, ma in realtà viene gestita ancora come una colonia, a causa dei tanti interessi economici che Europa, Stati Uniti e Cina hanno in quella terra. In tutto il Congo le miniere sotterranee e a cielo aperto sono ricchissime di materie prime come il rame, l’oro, l’uranio e il cobalto, il minerale utilizzato per la produzione di numerosi dispositivi elettronici e delle batterie al litio per alimentare le automobili e le biciclette elettriche che servono per la transizione energetica dei Paesi ricchi del mondo. Nella sola Kolwezi la totalità degli abitanti lavora, sfruttata e in condizioni durissime, per l’estrazione del cobalto. Il primo intervento è stato quello di Evelyne Sukali, una giovane donna congolese, divulgatrice e mediatrice culturale. Partita dal suo villaggio in Congo, è arrivata in Italia nel 2011 insieme a un gruppo di persone in cerca di un’opportunità di lavoro nel commercio. Il suo contatto Instagram, per chi volesse seguirla, è  https://www.instagram.com/evelynesukali87/ Il suo viaggio per arrivare a Lampedusa è durato 18 mesi ed è stato difficilissimo. Il racconto molto crudo di ciò che ha visto e vissuto ha lasciato il pubblico in un silenzio commosso. Ha parlato di strade inesistenti, mezzi di trasporto di fortuna e pericolosi come chiatte usate per il traposto del legname per attraversare un fiume, di serpenti e coccodrilli, di fame e di sete nel deserto, di forze allo stremo, di uomini armati, di guerra, di uomini e donne uccisi e brutalizzati. Tutto questo è stato affrontato con l’incertezza di quello che sarebbe successo dopo, con la paura di non farcela, con la caparbietà dello spirito di sopravvivenza. Infine, dopo il viaggio anche attraverso la Libia di Gheddafi, si sono imbarcati verso l’Italia dopo lo scoppio delle primavere arabe. Il viaggio in mare è durato due giorni e dopo aver perso i sensi, al risveglio in un ospedale di Lampedusa, circondata da uomini bianchi, la prima cosa che ha chiesto Evelyne è stata: “Sono viva?” Importante il messaggio lasciato dalla donna a chi ascoltava: all’inizio, quando le domandavano della sua storia, reagiva con rabbia perché la gente non comprendeva realmente ciò che aveva vissuto. Poi, anche grazie a un percorso di supporto psicologico, ha capito di dover incanalare la sua rabbia per fare informazione e così è diventata divulgatrice e intermediatrice culturale. Il secondo intervento è stato quello di Rachele Ossola, appena rientrata da un viaggio in Congo con l’associazione Source International, una Ong che lavora in tutto il mondo con le comunità che si trovano ad affrontare problemi di inquinamento ambientale e di salute, causati principalmente dalle industrie estrattive. Insieme ad altre associazioni presenti sul territorio, Source International si occupa di analizzare campioni di acqua, di terra e di aria, fornendo assistenza scientifica a supporto delle comunità locali, che possono così cercare di tutelare le proprie risorse e la propria salute. Rachele Ossola ha raccontato del suo recente viaggio a Kolwezi, detta la capitale del cobalto, perché fornisce la materia prima per circa il 70% del fabbisogno mondiale. Ha descritto cumuli di terra rossa, materiale di scarto delle miniere che vengono depositati nei pressi e creano un paesaggio particolare, che ricorda il Gran Canyon al contrario. In queste zone operano le grandi industrie estrattive e piccoli artigiani che cercano di recuperare dal materiale di scarto altro materiale da vendere. L’aria circostante è carica di particolato atmosferico che causa problemi respiratori e infiammatori. Il team di ricerca ha fatto diversi rilievi e ha portato in Italia i campioni per le analisi; saranno pronti tra un paio di mesi, ma già dai primi rilievi è stato evidenziato come i filtri utilizzati per la campionatura dell’aria fossero neri, pertanto molto carichi di particolato atmosferico. La campionatura dell’acqua dei pozzi a uso domestico, poi, aveva un ph intorno al 3.5, quindi molto acido; l’Organizzazione Mondiale della Sanità stabilisce che il giusto ph dell’acqua potabile dovrebbe essere compreso tra il 6.8 e l’8.5. Donne e bambini sono coloro che stanno più a contatto con l’acqua e ne pagano maggiormente le conseguenze. L’ultimo intervento è stato quello di Salvatore Attanasio, padre dell’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio, ucciso in un agguato il 22 febbraio 2021, che ha portato la sua testimonianza in merito al lavoro svolto dal figlio in Congo e alle circostanze della sua morte, al momento non ancora del tutto chiarite. Nominato ambasciatore italiano in Congo nel 2017, Luca Attanasio aveva in precedenza lavorato in Marocco e Nigeria per sette anni; arrivato in Congo, si rese subito conto della situazione disastrosa delle comunità locali. Insieme alla moglie Zakia Seddiki Attanasio nel 2017 fondò l’associazione Mama Sofia a supporto dell’educazione e della formazione dei bambini e giovani in difficoltà e collaborò con il Premio Nobel per la Pace 2018, il Dott. Mukwege (ginecologo), che aveva fondato nel 1998 a Bukavu il Panzi Hospital per la cura delle donne vittime di atroci stupri. Attanasio era sempre in prima linea per aiutare sia gli italiani che vivevano in Congo che le comunità locali. Poi, il 22 febbraio 2021, a 25 Km da Goma, in un viaggio per una missione umanitaria su invito delle Nazioni Unite, fu ucciso insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista congolese Mustapha Milambo. Le indagini portarono all’arresto di sei congolesi, di cui cinque stanno scontando la pena dell’ergastolo, ma secondo il padre non vennero condotte in modo chiaro e trasparente. Il processo in Congo si svolse in un tribunale di fortuna, mentre in Italia non è ancora terminato. La famiglia non è stata supportata dalle istituzioni, tanto che il governo italiano non si è neanche costituito parte civile, il che avrebbe agevolato la ricerca della verità. A seguito della morte di Luca Attanasio, è nata l’associazione Amici di Luca Attanasio per far conoscere la sua figura e sensibilizzare i giovani sui temi della pace, dell’uguaglianza e della legalità. Il racconto del padre di Luca è stato molto commovente e dimostra come il dolore per la perdita di un figlio possa trasformarsi in una testimonianza di pace e di ricerca di giustizia e verità. Al termine della serata restano le domande: che fine ha fatto il Diritto Internazionale e cosa possiamo fare noi per rendere più giusto questo mondo? Le risposte sono sempre le medesime: informarsi, divulgare, sensibilizzare. Dove le istituzioni sono assenti, chi non vuole essere complice del lassismo e delle ingiustizie può unirsi, collaborare e prendere coscienza. Foto di Michele Testoni Monica Perri