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Il medico andaluso che vuole bloccare Teva
L’AZIENDA ISRAELIANA CHE SOSTIENE APERTAMENTE IL GENOCIDIO CONTINUA A ESPANDERSI NELLO STATO SPAGNOLO MA ASTURIE E NAVARRA HANNO DECISO DI RESCINDERE I CONTRATTI Aurora Báez Boza su El Salto Paracetamolo, ibuprofene, omeprazolo sono tre farmaci che possiamo trovare nell’armadietto dei medicinali di qualsiasi casa e tra i più comuni nelle prescrizioni mediche. Consumiamo questi farmaci senza pensare al loro involucro politico. Teva, la più grande azienda farmaceutica israeliana, è uno dei distributori di questi principi attivi in Spagna, così come di altre migliaia di farmaci. Teva è leader del settore in Israele e una delle più potenti aziende farmaceutiche a livello mondiale. Nel 2024, secondo la stessa società, ha ottenuto un fatturato di 16,5 miliardi di dollari grazie alla sua attività in tutto il mondo. Il marchio afferma di essere leader nel mercato dei farmaci generici nell’UE. In Spagna, dal 2008 l’azienda ha un proprio stabilimento sul territorio, a Saragozza, ed è la terza azienda farmaceutica per volume che opera nello Stato. Il movimento Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni (BDS) la identifica come uno degli obiettivi prioritari per il boicottaggio economico di Israele. SOSTEGNO ATTIVO AL GENOCIDIO E ALL’OCCUPAZIONE ISRAELIANA IN PALESTINA Teva è, sin dalla sua nascita, un’azienda allineata con Israele e un simbolo statale di difesa del progetto sionista. Lo dimostra fin dall’ottobre 2023, quando l’azienda ha manifestato apertamente il proprio sostegno al genocidio perpetrato da Israele. Almeno il 10% del suo personale in Israele si è arruolato o si è unito all’esercito. Tra queste centinaia di lavoratori c’è Hadar Mama, direttore della logistica dell’azienda. Nel dicembre 2023, il quotidiano The Jerusalem Post ha pubblicato un articolo intitolato “The heroes of Teva” (Gli eroi di Teva) in cui elogiava la partecipazione dei dipendenti alle incursioni militari. L’azienda ha inoltre donato materiale alle Forze di Difesa Israeliane e le sue sedi sono state adibite a centri di raccolta di materiali per i soldati. Nei suoi uffici sono affissi cartelloni che mostrano il sostegno all’esercito. Nell’aprile 2024, il marchio ha annunciato la creazione della fondazione “Support the soul” (sostieni un’anima), il cui obiettivo è “curare il trauma nazionale della popolazione israeliana”, in particolare dei soldati dell’IDF. Il direttore esecutivo di Teva Israel, Yossi Ofeck, ha dichiarato durante la presentazione della fondazione che “come azienda farmaceutica nazionale israeliana, ci siamo mobilitati fin dal primo giorno di guerra a beneficio di Israele” e ha aggiunto che “abbiamo donato medicinali essenziali, latte in polvere e computer” all’IDF, oltre ad altro materiale. “Teva ha beneficiato per decenni dell’occupazione illegale dei territori palestinesi da parte di Israele”, afferma il movimento BDS. “È una delle aziende complici nel limitare la fornitura di farmaci alla Palestina, aggravando il carico sanitario che grava sulle persone nei territori occupati”, denuncia l’organizzazione Health Workers 4 Palestine. Oltre a sostenere il genocidio in Palestina e l’occupazione, Teva è stata coinvolta in diversi scandali a livello internazionale. Lo scorso aprile, l’Agenzia delle Entrate spagnola ha richiesto alla casa farmaceutica il pagamento di 36 milioni di euro di imposte non versate nel corso di diversi anni. Un pagamento che si aggiungerà alla multa di 462 milioni di euro inflitta dall’UE per aver violato le regole di concorrenza leale dell’Unione Europea. ALCUNE VITTORIE DEL BOICOTTAGGIO Nonostante le dimensioni dell’azienda, ci sono gruppi e individui che non esitano a confrontarsi con essa. Uno dei casi recenti più popolari è stato quello di Pablo Simón, un medico della località di Chauchina (Granada) che si rifiuta di prescrivere farmaci della Teva. Per questo motivo, come pubblicato dal mezzo di comunicazione Enfoque Judío, la cosiddetta Commissione Sanitaria contro l’Antisemitismo ha denunciato questo medico. Alla fine, l’Ordine dei Medici di Granada, dopo le pressioni di centinaia di persone e organizzazioni a sostegno del medico, ha archiviato la denuncia. “Non ho alcuna spiegazione del perché mi abbiano denunciato proprio ora. I cartelli sono affissi sulla porta del mio studio da più di un anno e non ci sono state lamentele. Al contrario, i pazienti hanno mostrato molto interesse per l’argomento”, sostiene Simón. Il medico sottolinea che non si tratta di un attacco personale, ma che “È una dinamica del movimento sionista quella di negare qualsiasi critica e farci credere che ormai ci sia la pace. È un attacco esemplare per incutere paura”. Il medico insiste sul fatto che “il boicottaggio funziona” e invita tutta la popolazione a chiedere in farmacia la sostituzione dei farmaci Teva nelle loro prescrizioni. “Esistono alternative per tutti i farmaci”, afferma. A metà novembre, il governo delle Asturie ha deciso di smettere di acquistare farmaci da questa azienda farmaceutica israeliana. La decisione è stata presa in risposta a una proposta di legge presentata alla Junta General del Principado de Asturias da Covadonga Tomé, portavoce di Somos Asturies e deputata al parlamento asturiano. Il testo della proposta chiedeva la rottura “con le aziende che, direttamente o indirettamente, svolgono attività commerciali o economiche negli insediamenti illegali nei territori palestinesi occupati”. Sebbene la proposta non vincolante richiedesse la cessazione immediata dei contratti in vigore, il governo asturiano ha dichiarato che la fine dei rapporti avverrà alla scadenza dei contratti in corso con l’azienda, una parte il prossimo 31 gennaio e l’altra il 31 luglio. Dopo l’annuncio delle Asturie, il governo della Navarra ha deciso di limitare i contratti con la società. Smetterà di acquistare farmaci generici da Teva, ma ci saranno eccezioni per prodotti specifici che non possono essere sostituiti. “In un esercizio di responsabilità e di garanzia dell’assistenza, non possiamo fare a meno di questo farmaco e non lo faremo”, spiega il consigliere alla Salute del Governo di Navarra, Fernando Domínguez. Euskadi discuterà della cessazione di questo contratto la prossima settimana, per iniziativa di  EH Bildu, che ha documentato i dati della quantità di denaro che Osakidetza (il Servicio sanitario basco) ha speso dal 2023 per i medicinali della compagnia: oltre 5,5 milioni di euro. Queste cessazioni fanno parte di un movimento internazionale di boicottaggio che sta raccogliendo i suoi frutti: in Italia, il comune di Sesto Fiorentino ha esortato le farmacie a non vendere i prodotti Teva e alcuni ospedali irlandesi hanno smesso di prescriverli. Tutto grazie al boicottaggio popolare. UN’ESPANSIONE CHE NON SI FERMA Mentre alcuni territori all’interno dello Stato rompono i rapporti con la società o ne discutono, l’azienda sembra non smettere di espandersi all’interno del Paese. Nel 2024, l’azienda è cresciuta del 10% in Spagna e ha fatturato 160 milioni di euro nei primi sei mesi dell’anno, secondo El Economista. La produzione nel suo stabilimento di Saragozza, secondo la stessa azienda, è cresciuta del 35% dal 2020. Non cessano nemmeno gli appalti pubblici sul territorio. Il 25 novembre scorso, la direzione dell’Istituto Nazionale di Gestione Sanitaria (Ingensa) ha formalizzato un contratto del valore di quattro milioni di euro con Teva Pharma per la fornitura di medicinali alle comunità autonome attraverso un accordo macro. Da parte sua, la Giunta dell’Andalusia ha speso quasi due milioni di euro in medicinali dall’inizio del 2025 con l’azienda attraverso contratti minori. La spesa del governo andaluso in gare d’appalto e contratti minori con l’azienda supererebbe i sei milioni di euro dal 2023. Si tratta di contratti che si ripetono con cifre simili in diverse istituzioni regionali e statali. Teva è presente non solo nei sistemi sanitari pubblici e nelle farmacie. Secondo un articolo pubblicato dal quotidiano Público, il finanziamento dei progetti di ricerca e sviluppo di questa azienda farmaceutica nello Stato spagnolo è cresciuto dell’88% dal 2023. Inoltre, l’Università Autonoma di Madrid ha creato una cattedra “in gestione personalizzata dell’asma e della BPCO grave e di altre malattie respiratorie complesse” e intrattiene rapporti con decine di università pubbliche nel Paese. The post Il medico andaluso che vuole bloccare Teva first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Il medico andaluso che vuole bloccare Teva sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Sardegna, le strane manovre contro gli usi civici
LE INSIDIE NASCOSTE NELLA DECISIONE DI PD E M5S DI UNA “NUOVA MAPPATURA” PER 303MILA ETTARI DI SARDEGNA DIFFUSI IN 340 COMUNI un editoriale di Lucia Chessa* Credo che tanti sardi non sappiano cosa siano gli usi civici, cosa comportino e da dove abbiano origine. Eppure esistono e sono stati accertati su più di 303.000 ettari di Sardegna e in più di 340 comuni su 377 totali. Riguardano per la maggior parte terre pubbliche, i comunali su cui per secoli, le comunità hanno vissuto e in parte continuano a farlo ma, a volte, gravano anche su terre intestate a privati. Per la loro estensione, per il loro valore, per le opportunità diffuse che potrebbero offrire se tutelati e valorizzati più di quanto non sia avvenuto fino ad ora, non sono cose per addetti ai lavori o per ristretti gruppi di tecnici specialisti, al contrario direi che riguardino tutti. Gli usi civici sono dei diritti esercitati da una comunità su terre precisamente identificate. Su queste, i residenti di una determinata comunità, oggi come da tempo immemorabile, hanno per esempio diritto a seminare, pascolare, raccogliere legname, raccogliere funghi, pescare. Ma niente vieta che, attraverso adeguati piani di valorizzazione possano essere utilizzati in maniera non tradizionale, più aderente alle esigenze attuali, nel rispetto di numerose norme, nazionali e regionali, che ne tutelano l’uso collettivo impedendo che su quei terreni si operino trasformazioni tali da pregiudicarne o diminuirne l’esercizio dei diritti spettanti ad ogni individuo di quella data comunità. Ad ogni individuo, non a pochi, né a uno solo. Questi diritti delle comunità, che chiamiamo usi civici, risalgono a tempi lontanissimi, all’epoca medioevale o anche precedente, e la legge riconosce che siano inestinguibili. Cioè non finiscono, non si possono vendere né comprare e non sono usucapibili. Cioè se anche una terra gravata da uso civico fosse utilizzata in via esclusiva, per decenni o più, da un unico soggetto, questo non ne acquisirebbe comunque mai la proprietà. Sono tutelatissimi dunque, per quanto in passato non lo siano stati adeguatamente aprendo la strada a pesanti privatizzazioni e ad interventi che, di fatto, ne hanno sottratto l’uso comunitario. Allo stesso tempo però, per le amministrazioni comunali che ne hanno avuto la volontà ed il coraggio, e tra queste la mia quando ero sindaco di Austis, sono stati strumento potentissimo di tutela dei beni comuni, anche presso i tribunali. Naturalmente fino ad oggi, la necessità di tutela da tentativi di indebita privatizzazione provenivano dall’interno. Oggi però l’assalto più pericoloso viene dall’esterno ed è probabile che, come già avviene, aree molto vaste della Sardegna saranno sottoposte ad interventi massici per l’installazione di impianti eolici, fotovoltaici, impianti di accumulo, reti per trasportare energia nei punti di stoccaggio e poi di “imbarco”. E questo assalto, che sarà capillare più di quanto non lo sia ora, statisticamente ha ottime probabilità di incrociare terreni gravati da uso civico (ricordo: inestinguibili, inalienabili e non usucapibili) i quali, se solo lo si volesse, potrebbero rappresentare un ostacolo insormontabile anche agli speculatori che guardano alla Sardegna con smisurato appetito e con massima audace ed ostinata protervia. Per ciò mi chiedo: perché, proprio adesso, con le difese ridotte al minimo, con un governo nazionale che spiana una strada già spianata agli speculatori delle energie rinnovabili? Perché proprio adesso arriva la recentissima decisione assunta in Regione Sardegna, su iniziativa di Pd e 5Stelle, ma unanimemente condivisa di “avviare un nuovo processo di mappatura dei terreni regionali gravati da uso civico sulla base di un’interlocuzione diretta con le comunità, affiancando alle risultanze meramente cartolari la valorizzazione della conoscenza consuetudinaria come elemento interpretativo essenziale per la ricostruzione giuridica e cartografica del demanio civico”. Cosa è detto con questo linguaggio tecnico/burocratico? Provo a spiegarlo. Proprio per la loro origine, lontanissima nel tempo, gli usi civici sono accertati mediante accurate ricerche storiche e d’archivio secondo modalità che non si improvvisano ma sono stabilite dalla legge. E proprio attraverso queste metodologie, in Sardegna, negli ultimi 15/20 anni, sono stati accertati i terreni gravati da uso civico tra l’altro con grandissimo dispendio di risorse economiche anche perché gli studi erano affidati tramite appalti a società specializzate. L’accertamento è pressoché concluso, ha dato i risultati richiamati e ha interessato la quasi totalità dei comuni sardi. Ora, perché mai si dovrebbe avviare una nuova mappatura “attraverso un’interlocuzione diretta delle comunità”? A chi si vorrebbe chiedere? Al sindaco? Alla parrocchia? A chi utilizza in via esclusiva quei terreni? A chi vi ha edificato sopra? A chi vi ha costruito discariche? A chi ci ha installato impianti di energia rinnovabile? Si vorrebbe chiede agli anziani del paese se per caso ricordano che, qualche secolo fa, quella terra era comunitariamente utilizzata? Le norme per risolvere situazioni consolidate, purché legittime, nelle quali il territorio è stato irrimediabilmente modificato in modo da impedire per sempre il diritto all’uso civico della comunità, esistono già e prevedono un buon bilanciamento degli interessi sia di coloro che, anche inconsapevolmente, hanno modificato ed occupato in maniera esclusiva terreni gravati da uso civico, sia della comunità alla quale occorre restituire una contropartita, un risarcimento, un bene di uguale valore. Mi dispiace dirlo ma l’operazione ha l’aria di essere un tentativo pericoloso di diminuire la porzione di Sardegna protetta da uso civico. Un tentativo ingiusto, massimamente intempestivo che, per quanto ben difficilmente possa sopravvivere al vaglio della corte costituzionale, denuncia un’inaccettabile carenza di attenzione per questa terra. Un tentativo iniquo che non fa onore a chi lo ha pensato e che devia dalla necessità di valorizzare il nostro immenso patrimonio di beni collettivi e di conservare ogni strumento di tutela della Sardegna tutta. Lucia Chessa, già sindaca ad Austis (Nuoro), è segretaria nazionale del partito Rossomori de Sardigna The post Sardegna, le strane manovre contro gli usi civici first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Sardegna, le strane manovre contro gli usi civici sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Come gli alimenti ultra-trasformati ci fanno ammalare
IL CONSUMO DI ALIMENTI ULTRA-TRASFORMATI È SEMPRE PIÙ ASSOCIATO A MALATTIE CRONICHE QUALI OBESITÀ, DIABETE, DEPRESSIONE Lise Barnéoud per Mediapart Da diversi decenni sono in aumento le malattie croniche come l’obesità, il diabete, le malattie cardiovascolari, la depressione e persino i tumori. Potrebbero essere collegate alla massiccia diffusione degli alimenti ultra-trasformati (AUT) nella nostra dieta? Sì, afferma un team internazionale di scienziati in un articolo pubblicato a novembre sulla rivista The Lancet. Dei 104 studi epidemiologici che hanno esaminato, 92 riportano associazioni tra una forte esposizione agli AUT e un aumento del rischio di dodici malattie croniche, in particolare il morbo di Crohn (una malattia intestinale), l’obesità, le dislipidemie (anomalie del colesterolo e dei trigliceridi), il diabete, la depressione e l’insufficienza renale cronica. E 92 sono molti. Ma si tratta comunque di osservazioni di associazioni. Ora, correlazione non significa causalità. Nel corso del XX secolo, la diminuzione del numero di cicogne sembrava seguire perfettamente il calo della natalità. Tuttavia, le cicogne non portano i bambini. Una correlazione non è sufficiente a dimostrare che una variabile influenzi l’altra. Altri parametri possono entrare in gioco. Nel caso dell’alimentazione, molti fattori potrebbero confondere le acque. Innanzitutto, la categoria degli “alimenti ultra-trasformati” è molto ampia e comprende bibite gassate, patatine, crocchette, ma anche latte vegetale e pane in cassetta: le quantità di zuccheri o grassi possono variare notevolmente. Soprattutto, le persone che si nutrono principalmente di alimenti ultra-trasformati potrebbero non essere esattamente le stesse che cucinano cibi non trasformati. Ovviamente, i ricercatori sono consapevoli di questi pregiudizi e cercano di correggerli adeguando i loro gruppi in base all’età, al sesso, ma anche al livello socioeconomico, al consumo di tabacco, all’indice di massa corporea o al livello di attività fisica dei partecipanti. Ma questi aggiustamenti sono insufficienti, secondo Martin Warren, direttore scientifico del Quadram Institute, un centro di ricerca sull’alimentazione e la salute in Gran Bretagna, per il quale molte di queste associazioni potrebbero riflettere soprattutto l’influenza di contesti sociali, alimentari o comportamentali diversi. ALLA RICERCA DI NESSI CAUSALI Per trasformare una correlazione in causalità, occorrerebbe assicurarsi che nessun altro fattore di distorsione possa spiegare tali nessi, garantire che le cause precedano le conseguenze e trovare anche meccanismi biologici in grado di spiegare tali nessi. Su quest’ultimo punto, diversi team apportano ormai degli elementi di risposta. Su quest’ultimo punto, diversi team stanno ora fornendo alcune risposte. Il loro approccio è completamente diverso dagli studi osservazionali. Dopo aver costituito diversi gruppi, di esseri umani o animali, li nutrono in modi diversi e confrontano i risultati, sia su scala macroscopica che microscopica. Per ragioni etiche e organizzative, questi esperimenti cosiddetti interventistici sono generalmente condotti su un numero limitato di individui (meno di 50), per periodi relativamente brevi (meno di tre mesi). «Tuttavia, questi studi sono molto potenti dal punto di vista statistico, perché possiamo confrontare gli stessi individui in due condizioni diverse, il che ci permette di controllare la maggior parte degli altri fattori, compresi quelli genetici», precisa Romain Barrès dell’Istituto di farmacologia molecolare e cellulare di Nizza, che ha recentemente pubblicato uno dei quattro studi clinici esistenti sull’uomo. Questi studi confermano innanzitutto che esiste un nesso causale tra AUT e aumento di peso. Quando si mangiano alimenti trasformati, si mangia di più. In media, per ogni aumento del 10% della percentuale di AUT nei nostri piatti, ingeriamo 35 chilocalorie (kcal) in più al giorno. Pertanto, i partecipanti agli esperimenti interventistici che seguono una dieta composta essenzialmente da AUT in genere aumentano di peso di oltre un chilo in un solo mese. Ciò è dovuto a diversi motivi: questi alimenti sono poveri di fibre e protein. quindi saziano meno. La loro consistenza morbida permette di ingerirli molto rapidamente, senza che il cervello abbia il tempo di ricevere i segnali di sazietà. Ricchi di zuccheri e grassi, sono studiati per essere iper-appetitosi e presentano più calorie in un volume ridotto. OLTRE LE CALORIE Ma la grande lezione di questi studi è un’altra: non è solo perché si mangia di più quando ci si nutre di AUT che sorgono i problemi. “A parità di calorie, la nostra dieta composta per il 77% da AUT comportava comunque un aumento di peso e un’anomalia del colesterolo”, afferma Romain Barrès. Secondo lui, ciò dimostra che la natura ultra-trasformata di questi alimenti gioca un ruolo diretto. E che il cibo non è solo un semplice serbatoio di calorie che il nostro corpo utilizza come un’auto consuma il carburante. A differenza della benzina, infatti, i nostri alimenti hanno una struttura tridimensionale, una consistenza particolare, che determina il modo in cui il nostro corpo sarà in grado di utilizzarli. Se mangiate una mela intera o il succo della stessa mela, osserverete effetti diversi in termini di assorbimento, picco glicemico, riserva di grasso, ecc. Tuttavia, la trasformazione (macinatura, cottura, maturazione, conservazione…) destruttura gli alimenti, rendendo più facilmente accessibili i nutrienti e l’energia che contengono. Ciò finisce per modificare il modo in cui il nostro cervello regola l’accumulo di grassi o la nostra sensazione di fame. E anche il modo in cui il nostro microbiota può trarre beneficio da questi nutrienti. «Invece di analizzare le diete secondo i criteri tradizionali dei carboidrati, dei lipidi o delle vitamine, o anche del consumo di singoli alimenti, bisognerebbe interessarsi al modo in cui gli alimenti sono prodotti: la loro trasformazione e la loro formulazione», scrive il nutrizionista americano Kevin Hall nel suo libro intitolato Food Intelligence, pubblicato a settembre. Al di là della loro trasformazione, vediamo quindi la loro formulazione. Innanzitutto, c’è ciò che non si trova negli AUT, o meno rispetto agli alimenti non trasformati, in particolare meno fibre, meno proteine, meno nutrienti antiossidanti come le vitamine, meno fitonutrienti provenienti da frutta e verdura. COCKTAIL CHIMICI Ma soprattutto ci sono gli elementi in più presenti negli alimenti ultra-trasformati: più sale, più acidi grassi saturi, più zuccheri. Ma anche più sostanze chimiche che non hanno nulla a che vedere con i nutrienti. Queste sostanze possono essersi formate durante i processi di ultra-trasformazione. È il caso, ad esempio, dell’acrilammide, riconosciuta come cancerogena per gli animali e potenzialmente cancerogena per l’uomo dal Centro internazionale di ricerca sul cancro, che compare quando gli alimenti vengono riscaldati a temperature molto elevate. Altre sostanze migrano in questi alimenti dagli imballaggi comunemente utilizzati per la loro conservazione, come ftalati, bisfenoli, le microplastiche e anche il PFAS. Infine, gli industriali aggiungono volontariamente ogni tipo di additivo per migliorare la consistenza, il colore, il gusto o la conservazione degli AUT. “Presi singolarmente, questi additivi non presentano alcun problema per le nostre cellule intestinali o il nostro DNA, ed è per questo che sono stati autorizzati. Ma queste valutazioni non hanno mai tenuto conto del loro impatto sul nostro microbiota, né degli effetti combinati di queste sostanze”, sottolinea Benoît Chassaing, responsabile del team Interazioni Microbiota-Ospite presso l’Istituto Pasteur. I suoi studi sui topi e sugli esseri umani dimostrano che questi additivi tendono a ridurre la ricchezza del microbiota e a disturbare la barriera intestinale. “Eppure, il microbiota è collegato a numerose patologie!”, sottolinea il ricercatore. E non solo alle malattie infiammatorie croniche intestinali, ma anche all’obesità, al diabete di tipo 2, al cancro del colon-retto e alla depressione. Recentemente, basandosi sulla coorte francese NutriNet-Santé, 23 ricercatori, tra cui Benoît Chassaing, hanno valutato l’impatto delle miscele di additivi sull’uomo. Il team ha scoperto che due miscele in particolare – una contenente diversi emulsionanti come carragenine e amidi modificati presenti soprattutto nei brodi o nei dessert a base di latte e l’altra contenente dolcificanti, coloranti e acidificanti tipici delle bevande gassate – erano associate a una maggiore incidenza di diabete. MICROBIOTA ED EPIGENETICA «Stiamo conducendo ulteriori studi per comprendere i meccanismi in gioco, ma riteniamo che esistano sinergie tra diverse sostanze chimiche che alterano in modo specifico il nostro microbiota», prosegue Benoît Chassaing. Un’ipotesi in linea con gli studi sperimentali in vitro che rivelano effettivamente effetti tossici per le cellule e il DNA in presenza di miscele di additivi e non di additivi singoli. Un’altra pista di ricerca: questi alimenti ultra-trasformati potrebbero alterare la lettura dei nostri geni, attraverso meccanismi detti epigenetici. “Negli adulti, osserviamo molti marcatori epigenetici associati alla qualità dell’alimentazione”, afferma Camille Lassale, del Barcelona Institute for Global Health. Marcatori legati all’infiammazione, alla regolazione della glicemia, al metabolismo lipidico e alle malattie cardiovascolari in particolare. Nello studio di Romain Barrès, i partecipanti sottoposti a una dieta ricca di AUT con eccesso di calorie hanno anche visto diminuire la qualità e la motilità dei loro spermatozoi. “Stiamo cercando possibili marcatori epigenetici sul DNA dei loro spermatozoi”, spiega lo specialista. In tal caso, questi marcatori potrebbero essere trasmessi alla prole…”. Il modo in cui gli AUT ci trasformano passa quindi attraverso molteplici meccanismi, la cui spiegazione richiederà probabilmente decenni di ricerca, sottolineano gli specialisti Nel frattempo, le prove della loro nocività si accumulano e dovrebbero farci capire una cosa: esistono mille modi diversi di approcciarsi al cibo. Quando si è scienziati, si pensa soprattutto alle calorie e alle sostanze nutritive. Ma con gli alimenti ultra-trasformati ci si rende conto che non basta assumere le sostanze nutritive giuste e le giuste quantità di calorie per essere in buona salute. L’alimentazione è molto più di questo. The post Come gli alimenti ultra-trasformati ci fanno ammalare first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Come gli alimenti ultra-trasformati ci fanno ammalare sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Argentina, le imprese recuperate al tempo di Milei
LE ERT DALLA RESISTENZA ALLA COSTRUZIONE DI ALTERNATIVE MENTRE L’AGENDA DI MILEI AMPLIFICA LE PRESSIONI E LE INERZIE STRUTTURALI Da El Salto: Gorka Martija e Gonzalo Fernández Ortiz de Zárate (OMAL-Paz con dignidad) Dal 27 al 29 novembre si terrà nella città argentina di La Rioja il X Incontro Internazionale sull’Economia dei Lavoratori. Uno spazio di articolazione che riunisce diverse esperienze di costruzione di economie alternative, il cui fondamento principale è la promozione dell’autogestione delle unità economiche da parte dei lavoratori stessi. Si tratta di una rete strettamente legata al boom delle cosiddette Imprese Recuperate dai Lavoratori (ERT), aziende in crisi o in bancarotta che, di fronte alla minaccia di chiusura e svuotamento aziendale, vengono recuperate e gestite collettivamente dai lavoratori. Un fenomeno che si è particolarmente distinto in Argentina a partire dalla crisi del 2001, così come in paesi europei come la Grecia e l’Italia a seguito del crollo del 2008. L’incontro mira a dare un nuovo impulso alle ERT come baluardo di resistenza nel nuovo ciclo politico in corso sia in Argentina che a livello globale. A tal fine, si rifletterà sull’attuale situazione critica di questo settore popolare, data la combinazione esplosiva di un aggravarsi della crisi capitalista globale e della conseguente emergenza di fenomeni politici come Javier Milei, il cui orientamento ultraliberista, filo-aziendale e reazionario può mettere a repentaglio la già complessa fattibilità di queste esperienze. Questi dibattiti, a loro volta, si intrecciano con la necessità di fare un bilancio all’interno del campo popolare sui limiti e le contraddizioni delle esperienze dei governi progressisti, così come sull’imperativo di inserire organicamente le ERT e altre analoghe esperienze in strategie più ampie di decisa alternativa alle strutture di potere politico-imprenditoriale a livello nazionale e golbale sobre los límites y contradicciones de las experiencias de gobierno progresistas, así como sobre el imperativo de insertar orgánicamente las ERT y otras experiencias análogas en estrategias más amplias de decidida subversión de las estructuras de poder político-empresarial a nivel nacional y global. RADIOGRAFÍA DELLE ERT OGGI IN ARGENTINA Secondo il rapporto annuale del Centro di Documentazione delle Imprese Recuperate, redatto dall’accademico e attivista Andrés Ruggeri, nel luglio 2025 le ERT in Argentina sono in totale 398 e danno lavoro a 13.812 persone. La maggior parte di esse è concentrata in diversi settori industriali che hanno avuto un peso storico nel tessuto produttivo argentino (metallurgico, alimentare, tessile, grafico, della carne). Si tratta di settori industriali pieni di piccole e medie imprese e molto orientati al mercato interno; per questo motivo, sono stati le principali vittime dei vari piani di aggiustamento neoliberista che hanno devastato il Paese a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, generando un gran numero di chiusure e fallimenti che hanno aperto la strada alle esperienze di autogestione. Questa centralità dell’industria spiega anche l’alto grado di concentrazione delle ERT nell’area metropolitana di Buenos Aires (il 47,49% del totale nazionale), che ospita un importante cordone industriale. C’è anche un volume notevole di iniziative in quasi tutte le altre province, come Santa Fe, Córdoba e persino alcune scarsamente industrializzate come La Rioja. Si tratta quindi di un fenomeno significativo in termini quantitativi, che risponde a un percorso lungo che fa sì che il fenomeno trascenda una determinata congiuntura storica per diventare un attore permanente nella scena sociopolitica del Paese. Ma, allo stesso tempo, è soggetto a una serie di pressioni che minacciano la sua proiezione e, a medio termine, la sua stessa esistenza e la fattibilità in termini economici, sociali e politici. La pandemia, con le relative misure di isolamento sociale e limitazione delle attività economiche, ha inferto un duro colpo a questo settore, che già da tempo soffriva di problemi di competitività e produttività che hanno raggiunto livelli critici. L’emergere di nuove forme di lavoro informale, così come il notevole aumento del lavoro autonomo e dell’occupazione attraverso piattaforme digitali come Rappi o Uber, competono inoltre in modo vantaggioso nell’immaginario popolare, limitando l’attrattiva delle uscite collettive ─ma con alti costi personali─ come quelle rappresentate dalle ERT. Tutto ciò si è verificato in un contesto di frustrazione delle aspettative di cambiamento riposte nell’ultimo governo del peronismo progressista presieduto da Alberto Fernández, dopo l’interregno neoliberista guidato da Macri. Questo crollo del morale ha facilitato una forte avanzata di idee reazionarie e individualiste, nonché un riflusso del movimento popolare e sindacale raramente visto in un paese con la tradizione combattiva dell’Argentina. Ciò ha colpito direttamente e gravemente il settore delle ERT, che, in quanto scommessa controegemonica ─che a sua volta nuota controcorrente operando nel campo di gioco del mercato capitalista─, si è storicamente alimentata di questa effervescenza sociale trasformatrice oggi in pericolo. Inoltre, nell’immediato, lo schema progressista attuato dal governo in questo campo ha dimostrato dei limiti evidenti, derivati di una scommessa basata principalmente su sussidi e aiuti che minimizzano i problemi di competitività e le perdite di reddito delle ERT (indubbiamente necessari, ma insufficienti) e che considera il settore come qualcosa di piuttosto marginale nel contesto dell’apparato economico-produttivo del Paese nel suo complesso. La conseguenza di tutta questa concatenazione di fattori avversi è un certo aumento delle chiusure di ERT e, soprattutto, la perdita di quasi 1.000 posti di lavoro nel settore tra il 2022 e il 2025. In questo senso, un’analisi più qualitativa ci porta a constatare, come sottolinea Ruggeri, che ci troviamo di fronte al primo momento nella storia recente dell’Argentina in cui non vi è una correlazione tra il calo del PIL (indicativo di una situazione di crisi economica) e un aumento delle ERT. Pertanto, a partire dalla pandemia, il calo dell’attività economica non è stato accompagnato da un aumento delle ERT. Un sintomo, in definitiva, della situazione compromessa in cui versa questa modalità di scommessa popolare. MILEI O GLI ARTIGLI DEL “LEONE ANARCHICO-CAPITALISTA” Queste pressioni e inerzie strutturali che colpiscono le ERT in Argentina sono amplificate in modo esponenziale dall’attuazione dell’agenda aggressivamente pro-aziendale, pro-imperialista e reazionaria incarnata da Javier Milei. Senza voler fornire una caratterizzazione dettagliata dei piani economici che oggi provengono dalla Casa Rosada, sottolineiamo alcuni aspetti che a nostro avviso influiscono direttamente sullo sviluppo delle ERT e, di conseguenza, sulla loro situazione e redditività nel breve e medio termine. In primo luogo, l’inizio del governo Milei ha puntato sull’attuazione di un draconiano aggiustamento fiscale con importanti conseguenze sociali. Un aggiustamento che risponde alle pulsioni ideologiche “libertarie” più oscure di La Libertad Avanza, che cerca di giustificarne l’immediata necessità con l’eterno ricatto a cui è sottoposta l’Argentina per il pagamento del debito con il FMI e gli agenti finanziari privati e che, in definitiva, è l’inizio di un piano a lungo termine per svuotare lo Stato argentino delle sue istituzioni di protezione sociale più elementari. In un contesto in cui le ERT hanno risolto parte dei loro problemi di competitività attraverso diversi flussi di aiuti e sussidi pubblici, l’aspettativa di una loro brusca cessazione rappresenta una minaccia quasi esistenziale. In questo caso, il parametro ideologico ultraliberista e apparentemente antistatalista del mileismo converge con la volontà dello Stato di dichiarare guerra alle entità popolari non cooptabili e considerate “dall’altra parte della barricata”. In questo senso, Milei non ha alcun incentivo a sostenere economicamente le ERT, né l’economia popolare o l’agricoltura familiare. In secondo luogo, la previsione di una riforma del lavoro di ampia portata, che approfondisca la distruzione del potere sindacale, delle complesse istituzioni di carattere collettivo operanti nel paese in materia di ordinamento del lavoro salariato e che crei condizioni più favorevoli agli interessi dei datori di lavoro attraverso la soppressione dei diritti, comporterà sicuramente un avanzamento della frammentazione sociale che è già una realtà in ampi settori. Ciò, nel contesto preesistente di rapida espansione di figure estranee al lavoro salariato classico, legate a diversi tipi di informalità, al lavoro autonomo e al capitalismo delle piattaforme, rafforzerà le difficoltà – materiali e ideologiche – nel sostenere progetti collettivi di risoluzione della vita come le ERT. In questo senso, se durante il governo di Alberto Fernández questo settore ha promosso senza successo la creazione di uno statuto specifico per i lavoratori delle ERT che ne tutelasse la condizione in base alle specificità del settore, sembra evidente che non sarà il governo di Milei a promuovere questa misura. Non almeno di sua spontanea volontà, anzi, piuttosto il contrario. Infine, non possiamo non sottolineare una delle iniziative di punta del governo, che esemplifica come poche altre la sua vocazione alla trasformazione pro-aziendale dello Stato e della società argentina, nonché la sua esacerbata sottomissione all’imperialismo e ai capitali stranieri. Si tratta del Régimen de Incentivos para Grandes Inversiones (RIGI), un’architettura istituzionale di promozione e garanzia della sicurezza giuridica volta a fungere da pista di atterraggio per investimenti stranieri superiori a 200 milioni di dollari, circoscritta a una serie di settori considerati strategici nel tessuto produttivo del Paese nei prossimi anni, tra cui spiccano l’energia, gli idrocarburi e l’estrazione mineraria. Una regolamentazione che si propone di essere una deregolamentazione, incentrata sull’attrazione massiccia di investimenti stranieri diretti, che istituzionalizza una notevole apertura alla internazionalizzazione (extranjerización) e corporativizzazione del tessuto imprenditoriale del paese. Una strategia che mira a modificare il modello economico-produttivo in senso apertamente primario-esportatore, insieme a un recente accordo con Trump che, al di là del suo scopo ultimo di consacrare l’Argentina come punta di diamante della rinnovata strategia imperiale di disciplina e allineamento della regione, come piattaforma emisferica per la lotta geopolitica con la Cina─ concretamente mette a sua disposizione tutta una serie di settori strategici nel campo delle materie prime, di cui l’Argentina dispone di importanti riserve. Alla fine, una strategia di questo tipo passa inevitabilmente attraverso l’induzione deliberata di un’ampia deindustrializzazione del Paese. In questo senso, l’attuazione del RIGI risponde a obiettivi e interessi antagonisti rispetto a un ambito come quello delle ERT. Il fatto che la maggior parte di esse appartenga al settore industriale e si concentri principalmente sul mercato interno (in molti casi, come fornitori di grandi aziende a capitale nazionale) allontana le ERT dal centro delle priorità di pianificazione economica del governo, così come avviene per l’ampio tessuto di PMI che costituiscono una parte sostanziale dell’industria nazionale. E, nel caso delle ERT, non va dimenticato che si tratta di entità che, operando nel mercato capitalistico, mirano a trascendere il mero ottenimento di redditività a favore di logiche collettive di demercificazione delle relazioni sociali e produttive, il che aggrava ulteriormente il loro svantaggio competitivo rispetto alle grandi aziende che si intendono rafforzare. La triade composta da corporativizzazione, stranierizzazione e deindustrializzazione promossa dal governo Milei costituisce un attacco diretto alle ERT. COSTRUIRE ALTERNATIVE DAL CAMPO POPOLARE Il contesto è complesso e le ERT devono affrontare la sfida di dare il proprio contributo alla necessaria resistenza multisettoriale contro il piano di governo antipopolare di Milei, oltre che di dare nuovo slancio alla propria proposta di autogestione. A tal fine, proponiamo alcuni spunti di riflessione per il dibattito. Dobbiamo partire dalla natura ambivalente delle ERT. Si tratta di iniziative controegemoniche che combinano una visione a breve termine (mantenimento dell’immediata fonte di lavoro e risoluzione dei bisogni vitali elementari delle persone coinvolte e delle loro famiglie) con una visione a lungo termine (costruzione di alternative alla preminenza delle grandi aziende, nel quadro di una prospettiva più ampia di profondo cambiamento sociale). Un’ambivalenza che si concretizza nel fatto che si cerca di costruire e consolidare esperienze e istituzioni collettive orientate alla completa demercificazione della vita attraverso imprese che, alla fine, producono merci da commercializzare nel mercato capitalista. Questa “prefigurazione” del mondo che desideriamo, nella complessa ─e spesso ostile─ realtà attuale, è una delle principali fonti di problemi, nella misura in cui è necessario garantire determinati livelli di competitività, produttività ed efficienza stabiliti da quel mercato capitalista, mantenendo al contempo la fonte di lavoro per il maggior numero possibile di lavoratori. Come abbiamo visto, questo parametro è stato seriamente compromesso nell’ultimo anno. Di fronte a questa avversità strutturale, portata all’estremo dall’applicazione spietata del programma di governo di La Libertad Avanza, la principale garanzia per la persistenza e il progresso delle ERT come soggetto politico e socioeconomico rilevante passa attraverso l’inserimento organico della loro esperienza in un quadro più ampio che raggruppi l’insieme del campo popolare e tracci percorsi volti a dare un nuovo impulso alla sovversione dello status quo capitalista vigente. In questo senso, si tratta sia di ricostruire alleanze che sostengano organicamente le ERT e le colleghino con maggiore forza al resto dei soggetti emancipatori, sia di recuperare una vocazione di trasformazione sociale integrale e radicale nel programma d’azione di quel campo popolare. Entrambe le linee d’azione sono oggi ampiamente indebolite in Argentina ─ in modo simile a quanto sta accadendo in molti altri luoghi, nel quadro di una certa crisi globale della sinistra ─, come conseguenza dei passi indietro compiuti nella matrice conflittuale e trasformatrice dei governi di stampo progressista, del riflusso del movimento popolare e della conseguente offensiva capitalista incarnata, in questo caso, da Milei. Per quanto riguarda la parte organica, è particolarmente rilevante che negli ultimi anni le ERT abbiano visto indebolirsi i loro legami con le organizzazioni sindacali. Sebbene si tratti di due spazi diversi che hanno avuto incontri e disaccordi, è fondamentale rafforzare un legame che amplifichi il sostegno reciproco e moltiplichi la capacità di incidenza e mobilitazione di entrambe le istituzioni. Ciò è ancora più vero in un contesto di mutamento del mercato del lavoro argentino, in cui una parte importante dei lavoratori sta dando priorità al soddisfacimento dei propri bisogni individuali attraverso piattaforme come Rappi[1], allontanandosi sia dalle organizzazioni sindacali che dalla possibilità di partecipare a progetti di ERT, che, ciascuna nel proprio ambito e nella propria misura, perdono di riferimento. Lo stesso vale per i settori ambientalisti, femministi, di difesa del territorio e delle popolazioni indigene, che oggi incarnano alcune delle principali espressioni di antagonismo nei confronti dell’avanzata del modello corporativo, patriarcale e di predazione primaria-esportatrice, che devono essere ricollocate nel radar dell’insieme del campo popolare. Allo stesso modo, è fondamentale la creazione di solidi legami internazionalisti che consentano di sostenere con la massima resilienza la disputa con le élite politico-imprenditoriali. Per quanto riguarda il legame con le diverse espressioni politiche del progressismo e della sinistra, anche questo è stato indebolito nel quadro dei governi progressisti che si sono succeduti negli ultimi due decenni. Ciò è conseguenza del carattere periferico e collaterale che è stato attribuito al settore delle ERT nel quadro delle politiche statali del kirchnerismo, senza un impegno chiaro e dotato di risorse affinché, al di là di garantire, più o meno, il mantenimento dell’attività delle ERT esistenti tramite sussidi, queste occupino un ruolo più centrale nel tessuto produttivo del Paese, a scapito dei capitali egemonici. Per questo motivo è necessaria una ricostruzione del legame organico delle ERT con gli attori politici progressisti e di sinistra sulla base di un deciso rilancio dei programmi politici di trasformazione sociale integrale. Questo legame, che non significa identità assoluta o allineamento acritico, può includere un ampio spettro di orientamenti politici correnti, dal kirchnerismo fino alle opzioni emergenti più a sinistra come il FIT (Frente de Izquierda y de los Trabajadores). Questo ci porta alla parte programmatica. È necessario fare un bilancio critico dei limiti e delle contraddizioni dei governi progressisti-kirchneristi che si sono succeduti nel Paese dall’inizio del secolo. Governi che, sebbene abbiano attuato sostanziali politiche redistributive, politiche estere relativamente controegemoniche a sostegno della sovranità e alcune importanti nazionalizzazioni in settori strategici dell’economia, non sono riusciti a liberare il tessuto economico, imprenditoriale, finanziario e produttivo del Paese dal predominio delle corporazioni nazionali e transnazionali. Un limite alla decorporativizzazione che ha ostacolato il raggiungimento di cambiamenti sostanziali nel rapporto di forza tra il campo popolare e i settori dominanti, generando alla fine un certo disincanto che si è manifestato in modo netto con il governo di Alberto Fernández. Pertanto, nella misura in cui non c’è stata una volontà politica di andare oltre in questo senso ─il che si spiega, in parte, nel contesto dell’offensiva mediatica della destra, del lawfare, della pressione del debito, ecc. ─, entità come le ERT sono rimaste ai margini della pianificazione economica, senza acquisire protagonismo, senza che il loro potenziale ruolo nel quadro di una trasformazione del metabolismo socioeconomico del Paese fosse preso seriamente in considerazione. Nel frattempo, i grandi capitali hanno continuato a svolgere un ruolo determinante in questo ambito, nel dialogo pubblico-imprenditoriale, anche se non sempre in termini amichevoli, con i vari governi. Le ERT hanno essenzialmente bisogno delle stesse cose di cui ha bisogno l’insieme del campo popolare, sia argentino che di altre latitudini: l’articolazione di una strategia e di un programma d’azione orientati alla trasformazione integrale ─o almeno sostanziale─ del tessuto economico-produttivo del Paese, escludendo dall’equazione le grandi corporazioni nel maggior numero possibile di spazi, territori e settori economici, e stabilendo un percorso deciso di transizione da uno schema pubblico-privato verso un modello pubblico-comunitario, in cui un potente settore pubblico pianifichi e agisca a beneficio delle maggioranze sociali dall’alleanza con settori di vocazione demercatizzante, come cooperative, organizzazioni sociali, PMI e, naturalmente, le ERT. Si tratta di guadagnare centralità e di avvicinarsi al nucleo centrale della pianificazione economica del Paese, allontanando di conseguenza da tale centralità i grandi capitali e i settori corporativi, intrinsecamente contrari agli interessi popolari. Nell’attuale contesto di attacco delle élite politico-imprenditoriali contro i settori popolari, esperienze come quelle delle ERT sono chiamate a costituire uno dei cardini della resistenza e della costruzione di alternative sia in Argentina che a livello globale. Alternative che, in un modo o nell’altro, devono condurci verso orizzonti di superamento sistemico di un capitalismo che offre solo depredazione, ecocidio, guerra e fascismo. Alternative che costituiscono la migliore base di partenza per organizzare la resistenza a progetti così abbietti come quello incarnato da Javier Milei. [1] RAPPI È UNA IMPRESA COLOMBIANA DI FOOD DELIVERY PROPRIETARIA E SVILUPPATRICE DELLA OMONIMA PIATTAFORMA CHE METTE IN CONTATTO, SECONDO LA STESSA NARRAZIONE AZIENDALE, DOMANDA (IL CONSUMATORE) E OFFERTA DI SERVIZI DI CONSEGNA E LOGISTICA URBANA (IL RIDER). IL NOME “RAPPI” È GIOCATO SULLA FUSIONE DI “RÁPIDO” E “APP”, DATO CHE L’IMPRESA PUBBLICIZZA CONSEGNE IN 35 MINUTI; “ENTREGAMOS CON AMOR” (CONSEGNIAMO CON AMORE) È IL MOTTO AZIENDALE; I RIDER DI RAPPI SI CHIAMANO “RAPPITENDEROS”, GIOCANDO SULLA METAFORA DEI NEGOZIANTI DI PICCOLI ALIMENTARI DI QUARTIERE (TENDEROS), CHE IN QUESTO CASO DIVENTANO NEGOZI VIRTUALI E A DOMICILIO. RAPPI È UNA START-UP COLOMBIANA CHE NEI PRIMI 3 ANNI HA RAGGIUNTO IL VALORE IN BORSA DI UN 1 MILIARDO DI DOLLARI, DIVENTANDO LA PRIMA PIATTAFORMA DI INIZIATIVA LATINOAMERICANA A CONQUISTARE L’APPELLATIVO DI “IMPRESA UNICORNO”. È PRESENTE NELLE PRINCIPALI CITTÀ DI COLOMBIA, MESSICO, CILE, ARGENTINA, PERÙ, URUGUAY, COSTA RICA, EQUADOR E BRASILE E PER IL 2019 PREVEDE DI RAGGIUNGERE IL VALORE DI 6 MILIARDI DI DOLLARI, NONOSTANTE I CONTI CONTINUINO A REGISTRARE PERDITE14. RAPPI OFFRE TUTTI I SERVIZI GIÀ PRESENTI IN IMPRESE COME UBEREATS (FOOD DELIVERY) E GLOVO (EVERYTHING DELIVERY), MA AGGIUNGE SERVIZI COME LA CONSEGNA DI DENARO IN CONTANTI E – PER QUANTO ANCORA POCO DIFFUSO, FORSE IL PIÙ INTERESSANTE – L’ESECUZIONE DI PICCOLI COMPITI DI SERVIZIO ALLA PERSONA – PER ESEMPIO, «PORTARTI FUORI IL CANE, ANDARE A CERCARE LE CHIAVI CHE HAI DIMENTICATO A LAVORO, PASSARE IN BANCA A PAGARTI LE BOLLETTE» The post Argentina, le imprese recuperate al tempo di Milei first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Argentina, le imprese recuperate al tempo di Milei sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Com’è andata la Cop di Belém. Male
LA PRESSIONE DEI PAESI PRODUTTORI DI PETROLIO PORTA AL FALLIMENTO DELLA COP30 E IL TESTO FINALE OMETTE I COMBUSTIBILI FOSSILI Pablo Rivas da El Salto La presidenza brasiliana non riesce a portare avanti un accordo ambizioso né a lanciare una tabella di marcia per l’abbandono definitivo dei combustibili fossili. L’unico risultato degno di nota dell’incontro è la creazione del Meccanismo di Belém per una transizione giusta, il cui funzionamento deve ancora essere definito. A volte la realtà stessa diventa una metafora di se stessa, ed è esattamente ciò che è accaduto nel penultimo giorno del 30° Vertice delle Nazioni Unite sul clima (COP30), nel pieno della frenesia per l’accordo finale: un incendio ha divorato parte del recinto della zona blu – l’area destinata alle delegazioni ufficiali – costringendo a interrompere i negoziati. Non ci sono stati feriti, ma le conseguenze di quanto finalmente concordato a Belém – su questo non c’è alcun dubbio – ne provocheranno, aggravate dall’assenza all’appuntamento di pesi massimi in materia di emissioni di gas serra come gli Stati Uniti. La COP30 era destinata a essere un incontro chiave. Non solo per le ricorrenze che si celebravano – dieci anni dall’Accordo di Parigi, venti dall’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, ottanta dalla creazione dell’ONU –, ma anche per l’urgenza del momento. Un pianeta infuriato da fenomeni estremi che sta già superando il limite che le nazioni si sono autoimposte nel 2015 – non superare la frontiera di 1,5ºC di riscaldamento globale medio rispetto ai livelli preindustriali – richiedeva urgenza. Non è stato così. La dichiarazione politica finale del vertice e i testi correlati, sebbene contengano alcuni progressi non troppo concreti, come l’avvio del Meccanismo di Belém per la Transizione Giusta, sono molto lontani dalle aspettative di una presidenza brasiliana che aveva posto l’asticella molto più in alto, ma che è stata frenata da un’alleanza di paesi petroliferi e nazioni governate da partiti favorevoli a ritardare, se non addirittura a sabotare, la lotta contro la crisi climatica. Il principale difetto è che la scommessa della presidenza in materia di mitigazione è fallita e non vi è alcun riferimento alla tanto pubblicizzata tabella di marcia per la fine dei combustibili fossili, che invece figurava nella prima bozza del testo finale presentata martedì 18. Nella seconda, pubblicata all’alba di venerdì, giorno ufficiale della fine della COP, la suddetta tabella di marcia era scomparsa, così come ogni riferimento ai combustibili fossili, cosa che era stata ottenuta per la prima volta alla COP28 di Dubai due anni fa. Non si è puntato nemmeno su un altro degli obiettivi di Lula da Silva: intensificare la lotta contro la deforestazione per preservare i grandi pozzi di assorbimento del carbonio vegetale del pianeta. Di fronte al fallimento totale e alla mancanza di progressi, a meno di 24 ore dalla fine della COP, 37 paesi, tra cui la Spagna, si sono mobilitati per ristabilire “l’equilibrio, l’ambizione e la credibilità del processo”, come sottolineato in una lettera inviata dal governo spagnolo alla presidenza della COP. La denuncia, che rifletteva il sentimento generale, respingeva l’ultima bozza presentata prima del testo ufficiale perché non soddisfaceva “le condizioni minime richieste per un risultato credibile della COP”. Venerdì, la vicepresidente spagnola Sara Aagesen ha partecipato a una conferenza stampa congiunta di diversi paesi promossa dalla Colombia – paese che ha annunciato una conferenza parallela al Vertice delle Nazioni Unite sul clima per cercare di porre fine all’uso dei combustibili fossili – con l’obiettivo di esercitare pressioni per ottenere risultati più ambiziosi. “Non è sufficiente”, ha affermato in merito al testo. “Siamo venuti con un obiettivo chiaro: non superare il limite di 1,5 °C”, ha aggiunto, sottolineando che “dobbiamo lavorare e abbiamo tempo per fare meglio”. Allo stesso modo, le organizzazioni ambientaliste hanno respinto in blocco la proposta. “Il testo rappresenta un classico passo indietro”, ha dichiarato Javier Andaluz, responsabile Energia e Clima di Ecologistas en Acción, da Belém. “Non riesce in alcun modo ad aumentare l’ambizione, a proteggere le foreste, né ad aumentare i finanziamenti necessari per il clima. Questo non è il Mutirão che ci era stato promesso“, ha aggiunto Eva Saldaña, direttrice esecutiva di Greenpeace Spagna, riferendosi alla parola che in guaraní-tupí significa ”sforzo collettivo” e che Lula da Silva ha utilizzato per riferirsi al testo finale di Belém. Andaluz ha anche denunciato il modo di agire della presidenza nel corso dell’incontro. “I negoziati sono stati i più oscuri della storia”, ha dichiarato rispettp alla pubblicazione delle bozze dell’accordo, “con una presidenza brasiliana che non ha comunicato all’esterno i testi affinché fossero valutati dalle organizzazioni della società civile e dalla stampa presente alla COP30”. La tensione è aumentata sabato, nei minuti di recupero di una COP che avrebbe dovuto concludersi venerdì, con l’ultimo tentativo della presidenza brasiliana di raggiungere un accordo che, pur volendo evitare che il vertice si chiudesse senza un testo firmato dai partecipanti, cedeva alle nazioni più bellicose con l’abbandono del petrolio, del gas e del carbone. Di fronte all’ennesimo abuso dopo 30 anni di vertici sul clima, Colombia e Panama hanno posto il veto al testo che la presidenza cercava di far approvare. La prima lo ha fatto per la mancanza di un riferimento specifico alle cause della crisi climatica: i combustibili fossili. La seconda per la mancanza di coerenza negli indicatori concordati per misurare i progressi in materia di adattamento ai cambiamenti climatici, un’opinione condivisa da diversi paesi. Non è stato possibile. Paesi produttori di petrolio come l’Arabia Saudita o la Russia, insieme ad altri paesi in via di sviluppo affini, come il gruppo LMDC (Like-Minded Developing Countries), una coalizione di nazioni per i negoziati sul clima tra cui figurano Cina, Algeria, Egitto, Pakistan, India, Iran e Venezuela, non hanno ceduto e la COP, che intendeva dare una svolta alla politica climatica degli ultimi anni, si chiude con un clamoroso fallimento. CHI MALE COMINCIA, MALE FINISCE Il vertice è partito già male. Inizialmente concepito come una COP incentrata sulla mitigazione e sull’ampliamento dell’ambizione climatica, ovvero deciso ad aumentare le percentuali di decarbonizzazione globale –, non ha potuto contare sull’impegno e la serietà necessari da parte dei paesi del pianeta, poiché la maggior parte di essi non ha presentato in tempo i propri piani nazionali di decarbonizzazione. Ha fallito persino l’Unione Europea, fino a poco tempo fa il faro a cui guardare all’interno dei limitati progressi delle COP. Sebbene tali piani, noti come Contributi Determinati a Livello Nazionale (NDC), avrebbero dovuto essere pronti mesi prima del Vertice sul Clima, solo 79, un terzo dei firmatari della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), li hanno presentati prima della COP, il che non ha permesso alla comunità scientifica di svolgere un buon lavoro di analisi e sintesi in vista del suo lavoro al vertice. Sebbene durante le due settimane del vertice il numero sia salito a 118 (che rappresentano il 73% delle emissioni globali), il lavoro di mitigazione della crisi climatica è stato molto compromesso e il fallimento nell’attuazione della tabella di marcia per la fine dei combustibili fossili ha confermato ciò che fin dall’inizio non prometteva bene. “Gli obiettivi di riduzione delle emissioni sono molto lontani da quelli necessari e questi testi non aiutano a colmare il divario di ambizione di 1,5 °C a livello globale né a spingere i paesi ad agire”, ha lamentato Eva Saldaña di Greenpeace. Ciò che sembrava invece un buon impulso iniziale erano le parole del presidente ospitante, Luiz Inácio Lula da Silva, e l’operato iniziale della presidenza brasiliana. Quest’ultima era determinata a cambiare la rotta degli ultimi vertici sul clima, tenutisi in paesi petroliferi e poco amici della società civile organizzata, ed è riuscito a chiudere l’agenda del vertice il primo giorno, cosa senza precedenti. Allo stesso modo, ha promosso la presenza delle popolazioni indigene e dei popoli originari con l’Aldea COP30 e ha sostenuto la presenza dei movimenti sociali e della società civile in un Vertice dei Popoli che, pur non avendo avuto un tappeto rosso per entrare nella zona blu dei negoziati, ha goduto della prima COP senza repressione da quella tenutasi a Glasgow nel 2021. Ma gli ostacoli posti da una comunità internazionale che non ha voluto affrontare il problema hanno messo fine alle aspirazioni di Rio. Va ricordato che 1.600 delegati ufficiali partecipanti alle COP hanno legami diretti con l’industria petrolifera, come denunciato dalla coalizione Kick Big Polluters Out (KBPO, Cacciamo i grandi inquinatori), il che dà un’idea del potere della lobby delle energie responsabili della crisi climatica nei vertici sul clima. Il Meccanismo di Azione di Belém (BAM) o Meccanismo di Belém per una Transizione Giusta sembra essere il principale risultato ottenuto da Luiz Inácio Lula da Silva. Si tratta di uno strumento per facilitare e promuovere la transizione energetica nei paesi del sud, fornendo tecnologia e finanziamenti ai paesi con meno risorse senza contropartite sotto forma di debito ed eliminando ostacoli come possibili richieste di risarcimento da parte degli investitori, mancanza di fondi o controversie sui confini. I movimenti ambientalisti hanno accolto con favore la notizia. “È fondamentale per unire la riduzione delle emissioni con i finanziamenti che sarebbero necessari”, ha sottolineato Javier Andaluz. Tuttavia, questo attivista ed esperto di negoziati sul clima ha deplorato il fatto che “il testo si limiti ad approvare il meccanismo senza dotarlo di caratteristiche, funzioni o finalità”. Ciò significa che sarà nei prossimi incontri che si concretizzerà un nuovo rallentamento dei processi relativi alla mitigazione della crisi climatica e dei suoi impatti. Il blocco del BAM da parte dell’UE, che non vedeva di buon occhio il nuovo meccanismo, è stato determinante per arrivare a questo risultato. “Ha impedito di definire un mandato più chiaro del meccanismo affinché potesse iniziare immediatamente il suo lavoro; ci vorranno almeno altri due anni di dialogo perché ciò sia possibile”, denunciano dall’Alianza por el Clima, la più grande coalizione di organizzazioni a favore della lotta al cambiamento climatico nello Stato spagnolo. Nonostante il BAM implichi qualcosa al riguardo – bisognerà aspettare per vedere come si concretizzerà –, il finanziamento per il clima, in particolare quello dedicato all’adattamento e alla mitigazione dei cambiamenti climatici nei paesi del Sud del mondo, è stato un altro dei grandi perdenti, come già avvertito dalle organizzazioni del Vertice dei Popoli nel corso della settimana. Se a Baku l’accordo minimo raggiunto è stato molto lontano dalle reali necessità – con solo 300 miliardi di dollari di fondi pubblici impegnati fino al 2035 e una proposta non concretizzata per aggiungere 1,3 trilioni attraverso finanziamenti privati che era un pio desiderio lontano dai 10 trilioni che si stima siano necessari – il gruppo incaricato di discutere il cosiddetto Documento di Baku-Belém (B2B) per aumentare tale finanziamento non ha ottenuto molti progressi concreti. Il testo chiede alle Parti di triplicare i finanziamenti per l’adattamento climatico del Sud del mondo nei prossimi dieci anni, il che rappresenta un passo indietro rispetto alla prima bozza presentata, che parlava del 2030 e non del 2035. Tuttavia, senza una tabella di marcia per l’eliminazione dei combustibili fossili né un piano concreto per fermare la deforestazione – i due obiettivi iniziali della presidenza – l’accordo finale, nonostante sia stato firmato dai partecipanti, rappresenta una vittoria delle posizioni più conservatrici e un fallimento per l’azione volta a frenare il cambiamento climatico. Come ha sottolineato Luca Bergamaschi, cofondatore del think tank italiano Ecco Climate, al termine dell’incontro, “questa è stata la COP delle dure verità: l’azione multilaterale per il clima è ancora viva, ma a un ritmo troppo lento per colmare il divario verso la sicurezza climatica”. Pablo Rivas è eoordinatore per il clima e l'ambiente a El Salto The post Com’è andata la Cop di Belém. Male first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Com’è andata la Cop di Belém. Male sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
L’assalto dei negazionisti climatici alla COP
QUANDO ATLAS NETWORK TENTÒ DI SABOTARE UNA COP: “SIAMO IN GRADO DI INFLUENZARE L’AGENDA MEDIATICA” (ANDRÉS ACTIS) I lobbisti dell’industria fossile torneranno a circolare nei corridoi di una Conferenza delle Parti della Convenzione sul Cambiamento Climatico (COP). Lo scorso anno a Baku, la coalizione di organizzazioni Kick Big Polluters Out (KBPO, “Fuori i grandi inquinatori”) ha individuato 1.773 rappresentanti di gruppi di pressione legati alle aziende più inquinanti del pianeta con accesso al vertice. Una cifra simile è attesa a Belém, la città brasiliana che ospiterà la COP30. Alcuni di questi lobbisti rappresenteranno gli interessi della Atlas Network, un’associazione globale che riunisce decine di think tank libertari con grande influenza negli Stati Uniti e in America Latina e che, come ha rivelato El Salto, sta iniziando a espandersi in Europa grazie all’ascesa e al consolidamento dei partiti ultraconservatori. Dietro la Atlas Network si trovano miliardari e fondazioni di destra come la Koch Foundation, la Heritage Foundation e la Templeton Foundation, oltre a grandi corporation dei settori del petrolio, del tabacco e dell’industria farmaceutica. La diffusione del negazionismo climatico e la promozione, nel dibattito pubblico, di un’agenda anti-politiche verdi sono due obiettivi centrali dell’organizzazione. I suoi tentacoli si estendono in quasi tutti i paesi dell’America Latina. Atlas finanzia due dei principali think tank che hanno sostenuto la candidatura del presidente argentino Javier Milei: la Fundación Atlas, con sede a Puerto Madero (Buenos Aires), e la Fundación Libertad, con base a Rosario (Santa Fe). La rete ha sostenuto in passato anche la candidatura dell’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro, che una volta al potere ha rafforzato i suoi legami con i satelliti locali della rete. Secondo le informazioni finanziarie pubblicate dal sito investigativo DeSmog, la Atlas Network “non possiede fondi patrimoniali né accetta finanziamenti governativi”, quindi tutti i suoi programmi “dipendono dalla generosità di fondazioni, privati e imprese”. Alla vigilia della COP30, DeSmog ha pubblicato nuove prove che collegano ExxonMobil, una delle più grandi compagnie petrolifere del mondo, a una campagna coordinata da Atlas Network per diffondere il negazionismo climatico in America Latina e indebolire il processo del trattato sul clima guidato dalle Nazioni Unite. Le donazioni di ExxonMobil hanno contribuito a finanziare la traduzione in spagnolo di libri negazionisti, viaggi di relatori statunitensi in città latinoamericane e l’organizzazione di eventi pubblici che garantissero a questi portavoce l’accesso ai media locali e agli uffici stampa dei politici. La COP10 (Buenos Aires, 2004) fu uno degli obiettivi principali della rete. UNA “SALA DI GUERRA” CONTRO KYOTO Secondo DeSmog, la Atlas Network offrì i suoi servizi agli sponsor aziendali nei mesi precedenti alla COP10, una conferenza particolarmente importante perché si svolgeva poco prima dell’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto. “Siamo in una posizione molto vantaggiosa per influenzare positivamente la direzione del dibattito e la copertura mediatica in Argentina”, scriveva nel 2004 Alejandro Chafuen, allora direttore della rete, in una lettera a Walt Buchholtz, dirigente di Exxon. Chafuen spiegava di aver già riservato “strutture ideali accanto al centro conferenze” da utilizzare come “base operativa” o “sala di guerra” per ostacolare qualsiasi accordo che potesse minacciare la redditività del settore fossile. La proposta delineava piani per ottenere “una copertura mediatica favorevole” sulla COP10 mobilitando il maggior numero possibile di alleati globali, specialmente in regioni “strategiche”, e numerosi centri di ricerca diretti da membri della Atlas Network. Non è chiaro se ExxonMobil abbia accettato formalmente la proposta, ma la corrispondenza tra le due entità mostra donazioni per decine di migliaia di dollari tra il 2004 e il 2005. FRATTURE GEOPOLITICHE ANCORA APERTE La corrispondenza, composta da decine di lettere, conferma che dal 1990 fino a poco prima del 2010 ExxonMobil finanziò Atlas Network per impedire la diffusione delle politiche climatiche in America Latina. Si potrebbe pensare che questi legami appartengano al passato e che oggi, con l’Accordo di Parigi consolidato, le compagnie petrolifere evitino simili operazioni. Tuttavia, secondo molti esperti, le “dubbie narrazioni” seminate allora contribuirono ad accentuare le fratture geopolitiche e i timori economici che persistono ancora oggi. Quelle stesse donazioni, inoltre, favorirono la crescita di una rete globale di think tank neoliberali, come il Manhattan Institute, molto influente sulle politiche del secondo mandato di Donald Trump. Molti operatori formati da Atlas Network sono poi entrati in politica, tra cui Ana Lamas, avvocata argentina citata nei documenti, che fino al febbraio 2024 ha ricoperto il ruolo di sottosegretaria all’Ambiente nel governo Milei. La professoressa Julia Steinberger (Università di Leeds, coautrice del Sesto Rapporto IPCC) denuncia da anni l’“influenza occulta” della rete nel campo della scienza climatica. Secondo lei, i ricercatori e le organizzazioni attiviste dovrebbero concentrarsi nel comunicare “chi sono i veri avversari” della giustizia climatica: le strutture di potere economico che, attraverso la confusione e la polarizzazione, mirano a perpetuare un’economia deregolata e neoliberista sostenuta dal capitale fossile. “Le nostre democrazie non hanno fallito per natura, ma perché sono state attaccate per decenni dagli stessi attori che distruggono il clima”, ha affermato in una conferenza online nel 2024. IL DENARO CHE HA COSTRUITO UNA RETE GLOBALE La giornalista francese Anne-Sophie Simpère, coautrice dell’indagine, spiega che il successo di Atlas Network nell’ottenere fondi da ExxonMobil nacque da un obiettivo condiviso: diffondere nel mondo centri di pensiero di libero mercato. Tra i beneficiari figuravano due dozzine di think tank in paesi come Cina (Unirule Institute of Economics, Institute of World Economics and Politics), India (Center for Civil Society, Liberty Institute), Cile (Libertad y Desarrollo), Argentina (Fundación Libertad) e Canada (Fraser Institute). Nel marzo 1999, il presidente di Atlas Network scrisse a un dirigente di ExxonMobil per ringraziarlo delle donazioni, allegando un rapporto di cinque pagine che descriveva le attività finanziate attraverso il programma “Energia e Ambiente: soluzioni di mercato”. Queste attività includevano conferenze per ridimensionare la paura del riscaldamento globale, sessioni informative internazionali di noti negazionisti e la distribuzione globale di un libro destinato a scoraggiare l’impegno ambientalista tra gli studenti. “Senza il supporto finanziario di Exxon – si legge nella lettera – pochi di questi risultati sarebbero stati possibili.” In risposta alla pubblicazione dei documenti, l’attuale direttore esecutivo Brad Lips ha difeso la relazione con ExxonMobil sostenendo che “quelle donazioni di fine anni ’90 e inizio 2000 riflettevano la convinzione del nostro management che una regolamentazione ambientale eccessiva, basata sul cambiamento climatico, potesse danneggiare la crescita economica, soprattutto nel Sud Globale”. Ha aggiunto che nell’ultimo decennio l’organizzazione “ha modificato le proprie priorità”, anche se, nel 2024, durante il Foro Europeo della Libertà all’hotel Intercontinental di Madrid, organizzato proprio da Atlas Network, il motto “porre fine al fanatismo climatico” è risuonato in più di un intervento. The post L’assalto dei negazionisti climatici alla COP first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo L’assalto dei negazionisti climatici alla COP sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Erano in Italia da un’ora. Due Ibis eremita uccisi a fucilate
E’ SUCCESSO IN PROVINCIA DI SONDRIO. LA SPECIE È A RISCHIO DI ESTINZIONE. LA SEGNALAZIONE DA PARTE DEL PROGETTO WALDRAPPTEAM HA CONSENTITO LA DENUNCIATO DEL BRACCONIERE Gli antichi kurdi pensavano che fosse uno dei primi animali a essere imbarcato sull’Arca da Noè ma ci vorranno alcuni millenni, da quel diluvio universale, perché l’Ibis eremita torni a far parte dell’avifauna europea. Solo nelle ultime settimane due di loro sono rimasti uccisi. Si chiamavano Zaz e Zoppo ed erano in Italia da un’ora. I due esemplari di ibis eremita, appartenenti a una delle specie più rare e minacciate al mondo, sono stati uccisi da un cacciatore il 16 ottobre scorso a Dubino, in provincia di Sondrio. I Carabinieri forestali delle province di Lecco e Sondrio sono riusciti a risalire al presunto responsabile grazie a un’indagine condotta su delega della Procura di Sondrio, diretta da Piero Basilone. L’operazione è scaturita da una segnalazione di Johannes Fritz, direttore del progetto europeo Waldrappteam, dedicato alla reintroduzione dell’ibis eremita in Europa e sostenuto dal programma comunitario LIFE. Il referente italiano del progetto aveva notato anomalie nei tracciati GPS dei due uccelli, che segnalavano un’interruzione improvvisa dei loro spostamenti. Le verifiche sul territorio hanno permesso ai militari di rinvenire soltanto i trasmettitori satellitari, con evidenti segni di rimozione intenzionale. qui sopra Zaz (nella foto di apertura, Zoppo) Copyright Waldrappteam Conservation and Research A seguito delle indagini, un cacciatore è stato individuato e denunciato in stato di libertà per uccisione di animali, furto venatorio e detenzione abusiva d’arma. Durante le perquisizioni personali, domiciliari e veicolari, i Carabinieri hanno sequestrato armi, munizioni, dispositivi informatici e il tesserino venatorio. L’uccisione di Zaz e Zoppo rappresenta un duro colpo per il programma internazionale di conservazione della specie, che negli ultimi anni ha permesso la ricostruzione di una piccola popolazione migratrice tra l’Italia e l’Austria. Zoppo, in particolare, era uno degli esemplari più esperti del gruppo, parte del nucleo fondatore della colonia europea. L’episodio ha suscitato la condanna delle principali organizzazioni ambientaliste, tra cui Oipa (Organizzazione Internazionale Protezione Animali) e WWF Italia, che hanno annunciato iniziative legali e campagne di sensibilizzazione contro il bracconaggio. La Fondazione Arca, partner italiano del Waldrappteam, ha ribadito la necessità di potenziare la vigilanza faunistica nelle aree di sosta e di migrazione degli ibis. Il progetto Waldrappteam prosegue intanto le attività di monitoraggio e reintroduzione, con l’obiettivo di ricostruire una popolazione autosufficiente di ibis eremita in Europa. L’episodio di Dubino, tuttavia, evidenzia quanto la tutela delle specie migratrici resti vulnerabile anche nei territori in cui gli sforzi di conservazione hanno ottenuto risultati significativi. Il Geronticus eremita, al secolo Ibis eremita è tutt’altro che solitario, anzi: è un uccello gregario, adora passare il tempo in gruppo. Eremita perché lo vedevi nei medesimi luoghi dove gli eremiti cercavano di isolarsi dal mondo, inerpicati su rupi alpine o scogliere. Oppure sceglievano di fare il nido su merli e finestre dei castelli o edifici abbandonati. Fino a 500 anni fa. Perché questo tipo di ibis – becco ricurvo, ciuffo ribelle e un piumaggio corvino con riflessi metallici verdi o violetti e sfumature rosso-rame sulle ali – è uno dei primi uccelli a essere stato dichiarato specie protetta. Già nel 1504 l’arcivescovo di Salisburgo proibì ai non nobili, di uccidere questi uccelli. Questo non impedirà che il 98% della specie sparisse dalla circolazione grazie al cocktail tossico dovuto alla mescola di bracconaggio, consumo di suolo, agroindustria, fitofarmaci, disturbo delle rotte migratorie e delle colonie riproduttive. Solo grazie al progetto europeo Waldrapp, che coinvolge Austria, Germania e Italia, l’Ibis eremita sta ridiventando una specie migratrice. Il 35% delle specie di avifauna migratrice, in Italia è a rischio grazie a un codice ancora indulgente con chi uccide specie protette e senza leggi sul consumo di suolo e sui pesticidi in agricoltura. Foto Massimo Lauria L’ibis eremita è particolarmente adatto a rivelare la reale portata del bracconaggio: quasi tutti gli esemplari sono dotati di un localizzatore GPS, che consente agli scienziati di documentare le uccisioni illegali con una precisione senza pari. Questi dati mostrano una realtà cruda: il bracconaggio è la principale causa di morte della specie in Italia, responsabile di oltre un terzo di tutte le perdite. Ciò che accade a questa specie altamente monitorata è solo la punta visibile di un problema molto più ampio che colpisce innumerevoli altre specie non monitorate che condividono gli stessi habitat. Grazie al monitoraggio completo, l’ibis eremita funge da sentinella per la protezione generale delle specie minacciate in Italia. Le recenti modifiche alla legislazione sulla caccia hanno ulteriormente indebolito la protezione della fauna selvatica. Il Parlamento ha approvato misure che estendono le libertá dei cacciatori e sta valutando ulteriori proposte che aggraverebbero la situazione di per sé giá drammatica: prolungare la stagione venatoria fino a febbraio, quando gli uccelli sono già in fase di riproduzione, consentire un uso più ampio di richiami vivi, ridurre le aree protette, escludere il mondo scientifico dal processo decisionale e ridurre la capacitá di applicazione delle norme. Particolarmente allarmante è la recente autorizzazione attraverso la Legge sulle montagne, alla caccia sui valichi montani, rotte migratorie fondamentali per molte specie, tra cui l’Ibis eremita, in diretta contraddizione con la legislazione europea sulla montagna. qui un servizio della Tv svizzera del 2021 Proprio in queste ore, infatti, 55 associazioni denunciano le manovre di corridoio tra governo e maggioranza per sbloccare la riforma della caccia attraverso emendamenti alla legge di bilancio, strumento assolutamente improprio. Un po’ come venne fatto dal governo Berlusconi per infilare la legge Fini Giovanardi sulle droghe, nel decreto per le Olimpiadi di Torino del 2006 o come già ha fatto questo governo nel 2023 (guadagnando così una ennesima procedura di infrazione europea) inserendo nella legge di bilancio modifiche alla Legge quadro sulla tutela della fauna selvatica e l’organizzazione dell’attività venatoria. La predominanza numerica di rappresentanti del settore venatorio in audizione parlamentare rischia di orientare le scelte gestionali verso soluzioni unidirezionali, trascurando l’approccio multidisciplinare e scientifico che la moderna conservazione richiede. Waldrappteam è parte delle 50 organizzazioni ambientaliste e scientifiche che chiedono una rappresentanza paritaria nelle audizioni parlamentari. Copyright Waldrappteam Conservation and Research Le associazioni hanno scritto ieri a Mattarella lettera per denunciare che gli emendamenti – che attengono materie delicatissime sotto il profilo della protezione degli animali selvatici e la conservazione della biodiversità, prevedono tra le altre cose la caccia agli uccelli durante la migrazione preriproduttiva e la cattura dei piccoli uccelli selvatici ai fini di richiamo vivo. Si tratta di violazioni gravi della Direttiva Uccelli. A questo si aggiunge non soltanto il contrasto con l’articolo 9 della Costituzione italiana come è stato novellato, con l’inserimento della biodiversità e della sua tutela tra i principi nobili della Repubblica, ma il ricorso alla Legge di Bilancio per norme che nulla hanno a che fare con la materia economica e finanziaria che attiene questa legge. “Un sistema – aggiungono le associazioni – al quale l’attuale maggioranza parlamentare è già ricorsa in occasione dell’approvazione della Legge di Bilancio 2023, all’interno della quale furono inseriti emendamenti di modifica della Legge quadro sulla tutela della fauna selvatica e l’organizzazione dell’attività venatoria. The post Erano in Italia da un’ora. Due Ibis eremita uccisi a fucilate first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Erano in Italia da un’ora. Due Ibis eremita uccisi a fucilate sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
L’ultima grande battaglia della classe operaia genovese in un film
AMIANTO, DI UGO ROFFI, MARCELLO ZINOLA E LUDOVICA SCHIAROLI: IL DOCUFILM DI UNA TRAGEDIA COLLETTIVA Ci sono parole che fanno cose, come sosteneva il filosofo del linguaggio  John Langshaw Austin. Anche cose brutte. Ci sono parole che uccidono. Asbesto è una di quelle. Meglio conosciuto come amianto fu, per larga parte del secolo scorso, il materiale rivoluzionario che garantiva il migliore isolamento dal calore in tutti quei processi lavorativi che comportavano alte temperature, siderurgia in primis. Tubazioni, condotte, freni dei carri ponte, perfino gli stessi indumenti protettivi… tutto nelle gradi acciaierie novecentesche come quelle genovesi era fatto d’amianto. Ma quelle lastre grigie fatte di fibre finissime che si sfogliavano in mano finirono per diffondersi ovunque: nell’edilizia residenziale e in quella pubblica di scuole, caserme, ospedali. Promettendo il miracolo di tenere a bada un elemento indispensabile, ma letale, per la specie umana come il fuoco. Presentando tuttavia un conto terribile – recapitato anche a distanza di decenni. 10, 20, 30 e anche 40 anni dopo l’esposizione a quella sostanza – milioni  di lavoratori in tutto il mondo  scoprivano di essere malati di tumori come il mesotelioma pleurico e il cancro del polmone, o malattie polmonari come l’asbestosi, tutte originate dalla respirazione di quelle invisibili fibre che andavano a depositarsi nel tratto respiratorio.  Comminando  condanne a morte che a volte colpivano in maniera capricciosa e imprevedibile come schegge impazzite, risparmiando magari l’operaio di una fonderia e condannando senza appello sua moglie, che per anni ne aveva lavato indumenti e tute da lavoro. “Amianto”  è anche il titolo di un docufilm che racconta un risvolto particolarmente odioso di quella tragedia collettiva, che si è accanito su migliaia di operai genovesi quando erano già in pensione. Per quasi un decennio oltre 1400 lavoratori, alcuni malati o deceduti, colpiti dall’esposizione all’amianto furono infatti indagati come truffatori dimenticando i danni inoppugnabili provocati dall’asbesto. Tra il 1994 e il 2020 l’Inail ha registrato in Liguria oltre 3.600 decessi provocati dall’esposizione all’amianto, di cui oltre la metà a Genova. “Amianto” è la storia di una battaglia sindacale, durata oltre 10 anni, che ha coinvolto la classe operaia genovese per vedersi restituire i propri diritti e la propria dignità infangata da un’accusa infamante. Una storia che inizia con l’inchiesta della magistratura genovese che ha visto inquisiti 1400 ex operai.  Iniziata nel 2006 e conclusa dopo dieci anni,  l’inchiesta aveva costruito un vero e proprio teorema giudiziario  naufragato ingloriosamente  in un nulla di fatto anche in seguito alla battaglia sindacale che ne era seguita.  Che ha dovuto combattere indifferenze, il pregiudizio di media che avevano disinvoltamente sposato  la tesi accusatoria e  un ondivago atteggiamento politico che trovava conveniente cavalcare la diffamazione di lavoratori innocenti, spesso già malati, che alla loro condizioni dovevano aggiungere  l’amarezza di doversi difendere da accuse senza fondamento. Una lotta infine vincente anche  se per molti aspetti unica. perché mentre nel resto d’Italia venivano riconosciuti i diritti degli esposti, a Genova i lavoratori  messi venivano messi sotto inchiesta. La storia si sviluppa attraverso il racconto di alcuni dei protagonisti di quella lotta: Albino Ostet, ex lavoratore Ansaldo Energia, Barbara Storace, avvocato che seguì per il sindacato le cause civili dei lavoratori, il giornalista Marcello Zinola e per il sindacato Ivano Bosco, allora segretario della Cgil di Genova, Armando Palombo allora delegato per la Fiom Cgil e Igor Magni Segretario Generale della Camera del Lavoro. Riprese della Genova di oggi si alternano a filmati, foto e materiali dagli archivi della Camera del lavoro, della Biblioteca Berio, della Biblioteca Universitaria, della Fondazione Ansaldo, delle Teche Rai e di giornalisti e giornaliste genovesi. Raccontando così l’ultima grande battaglia della classe operaia genovese. Ugo Roffi, Marcello Zinola, Ludovica Schiaroli, Giovanna, Albino Ostet Il documentario (30’) è nato da un’idea di Marcello Zinola e della Camera del lavoro di Genova con la regia di Ugo Roffi e Ludovica Schiaroli.   Il doc, disponibile su piattaforma Vimeo, può essere visto anche nelle prossime presentazioni pubbliche giovedì 6 novembre alle ore 21:00 al Cinema Palmaro di Genova e giovedì 20 novembre alle ore 16:30 alla Soms Castagna di Genova Quarto.     The post L’ultima grande battaglia della classe operaia genovese in un film first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo L’ultima grande battaglia della classe operaia genovese in un film sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Clima: record di gas serra
L’ORGANIZZAZIONE METEOROLOGICA MONDIALE: IL PIANETA HA REGISTRATO IL PIÙ FORTE AUMENTO DEI LIVELLI DI CO2 NELL’ATMOSFERA (MICKAËL CORREIA) Alla vigilia della COP30, questi risultati suonano come un duro richiamo alla realtà climatica. Secondo un bollettino annuale dell’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), le concentrazioni medie dei tre principali gas serra nell’atmosfera – anidride carbonica (CO2), metano (CH4) e protossido di azoto (N2O) – hanno raggiunto livelli senza precedenti nel 2024. Secondo i ricercatori dell’agenzia delle Nazioni Unite, i tassi di crescita della CO2, il principale gas responsabile dell’aumento dell’effetto serra, «sono triplicati dagli anni ’60», passando da un aumento medio annuo di 0,8 ppm (parti per milione) all’anno a 2,4 ppm all’anno nel decennio 2011-2020. Ma l’anno scorso, la concentrazione media globale di CO2 è aumentata di 3,5 ppm, ovvero “il più forte aumento annuale dall’inizio delle misurazioni scientifiche nel 1957”, sottolinea l’OMM nel suo rapporto. Questa cifra supera il precedente record di 3,3 ppm, registrato tra il 2015 e il 2016. Infine, sebbene il loro aumento nel 2024 sia inferiore alla media annuale osservata nell’ultimo decennio, le concentrazioni atmosferiche di metano e protossido di azoto continuano a crescere. Nel 2024 erano aumentate rispettivamente del 166% e del 25% rispetto ai livelli preindustriali. “Dall’accordo di Parigi sul clima, che quest’anno festeggia il suo decimo anniversario, dovremmo essere in fase di riduzione delle emissioni e non di battere un nuovo record di concentrazione di gas serra”, si rammarica con Mediapart Davide Faranda, direttore di ricerca in climatologia al CNRS e autore principale del prossimo rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC). CIRCOLO VIZIOSO CLIMATICO Secondo l’OMM, la ragione “probabile” di questa crescita record è “il forte contributo delle emissioni provenienti dagli incendi boschivi” e “la riduzione dell’assorbimento di CO2 da parte della terra e degli oceani”. Infatti, l’Amazzonia e l’Africa meridionale hanno subito incendi eccezionali nel 2023-2024, a causa di gravi siccità accentuate dal caos climatico e dall’effetto El Niño – un fenomeno naturale ciclico che riscalda il Pacifico equatoriale ogni due-sette anni – che era in atto durante questo periodo. Di conseguenza, le emissioni legate agli incendi boschivi nel continente americano hanno raggiunto livelli storici nel 2024. Inoltre, mentre le emissioni globali di CO2 legate alla combustione di energie fossili (petrolio, gas e carbone) sono rimaste praticamente stabili nel 2023-2024, le foreste, le praterie e gli ambienti marini hanno assorbito meno carbonio del previsto. Circa la metà del CO2 totale emesso ogni anno viene ricatturato dalla Terra. Tuttavia, il cambiamento climatico sta cambiando le carte in tavola. Con l’intensificarsi del surriscaldamento globale, gli oceani assorbono meno carbonio a causa della diminuzione della solubilità della CO2 nei mari a temperature più elevate, ricordano gli scienziati dell’OMM. Allo stesso modo, le siccità estreme influenzano sempre più la capacità delle piante degli ecosistemi naturali di assorbire il carbonio. Nel suo rapporto, l’OMM parla quindi di “circolo vizioso climatico” e teme ‘fortemente’ che i pozzi di carbonio terrestri e oceanici perdano la loro efficacia, “il che aumenterebbe la percentuale di CO2 antropica che rimane nell’atmosfera e accelererebbe così il cambiamento climatico”. “Ciò che salta agli occhi in questi dati è che la biosfera è sempre meno in grado di rispondere ai disturbi climatici. L’ultimo rapporto dell’IPCC ricorda che entro la fine del secolo, se continueremo a emettere sempre più gas serra, gli ecosistemi non saranno più in grado di assorbire il 50% ma solo il 35% dell’anidride carbonica emessa”, analizza per Mediapart Gilles Ramstein, paleoclimatologo e direttore di ricercar del Laboratoire des sciences du climat et de l’environnement. «La riduzione della capacità di assorbimento dei pozzi naturali di carbonio, modellizzata da anni dagli scienziati, si traduce ora nella realtà», aggiunge Davide Faranda. «Ci stiamo rendendo conto che i cambiamenti climatici provocano effetti di rimbalzo e cicli di retroazione che rendono ancora più difficile la lotta per salvare il clima». Il 2024 era già stato segnato da due eventi climatici senza precedenti: è stato l’anno più caldo mai registrato e il primo a superare la soglia simbolica di 1,5 °C di riscaldamento. “È la storia di un’accelerazione annunciata”, conclude Gilles Ramstein. “Ciò che è spaventoso è che questo non è ancora penetrato nella politica: negli Stati Uniti, la destra vuole ora vietare le cause contro l’industria petrolifera. E in Francia, le nostre emissioni di gas serra ristagnano…”. The post Clima: record di gas serra first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Clima: record di gas serra sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Surtsey, l’isola dove si studia come riparare la vita
UNA NUOVA ISOLA EMERSA DAL MARE: STUDIARNE LO SVILUPPO OFFRE SPERANZA AGLI ECOSISTEMI DANNEGGIATI IN TUTTO IL MONDO [PATRICK GREENFIELD] L’equipaggio dell’Ísleifur II aveva appena finito di gettare le reti al largo della costa meridionale dell’Islanda quando si rese conto che qualcosa non andava. Nel buio del mattino presto di novembre del 1963, una massa scura riempiva il cielo sopra l’Oceano Atlantico. Si precipitarono alla radio, pensando che un’altra nave da pesca stesse bruciando in mare, ma nessuna imbarcazione nella zona era in pericolo. Poi, il loro peschereccio iniziò a andare alla deriva in modo imprevisto, innervosendo ulteriormente l’equipaggio. Il cuoco si affrettò a svegliare il capitano, pensando che fossero stati risucchiati in un vortice. Alla fine, attraverso il binocolo, videro colonne di cenere che esplodevano dall’acqua e capirono cosa stava succedendo: un vulcano stava eruttando nell’oceano sottostante. Quando il sole sorse, il cielo era pieno di cenere scura e una cresta si stava formando appena sotto la superficie dell’acqua. La mattina seguente era alta 10 metri. Il giorno dopo era alta 40 metri. Stava nascendo un’isola. Due mesi dopo, la roccia era lunga più di un chilometro e alta 174 metri al suo apice. Fu chiamata Surtsey, dal nome del gigante del fuoco Surtr della mitologia norrena. Gli isolani e i pescatori del vicino arcipelago di Vestmannaeyjar osservarono i fulmini che colpivano l’eruzione vulcanica, che aumentava e diminuiva di intensità, illuminando l’inverno. Ci sarebbero voluti due anni prima che smettesse completamente di eruttare. “È molto raro che un’eruzione dia origine a un’isola e che questa sia di lunga durata. In questa zona succede una volta ogni 3.000-5.000 anni”, afferma Olga Kolbrún Vilmundardóttir, geografa dell’Istituto di Scienze Naturali dell’Islanda. Quelle che si formano vengono spesso rapidamente spazzate via dall’oceano, aggiunge. La nascita di Surtsey ha offerto ai ricercatori una preziosa opportunità scientifica. Hanno potuto osservare come la vita colonizza e si diffonde su un’isola lontana dall’interferenza umana che ha invaso gran parte della Terra. Altre isole sono emerse dagli anni ’60, ma gli scienziati affermano che non sono state così stabili dal punto di vista ecologico. L’ultima volta che si è verificato un evento simile prima della nascita di Surtsey è stata la nascita di Anak Krakatau, in Indonesia, nel 1927, ma è stata rapidamente contaminata dall’uomo. I ricercatori islandesi erano convinti che questa volta sarebbe stato diverso. Nel 1965, Surtsey è stata posta sotto la protezione ufficiale del governo. Solo i ricercatori e qualche giornalista, sotto stretta supervisione, potevano visitarla. Non sarebbe mai stato permesso alle pecore di pascolare lì. Lo stesso anno fu avvistata la prima pianta: un ciuffo di rucola di mare trasportato dalle onde dalla terraferma islandese. “I primi scienziati che misero piede a Surtsey nel 1964 poterono vedere che semi e residui vegetali erano stati portati a riva. Anche gli uccelli venivano sull’isola per vedere cosa stava succedendo. L’eruzione era ancora in corso quando hanno individuato la prima pianta: è stato molto veloce”, afferma Vilmundardóttir. Gli scienziati si aspettavano che alghe e muschi fossero i primi colonizzatori, creando una base di terreno che alla fine avrebbe sostenuto le piante vascolari. Ma quella fase è stata completamente saltata. Negli anni successivi altre piante furono trasportate a riva e alcune si aggrapparono alla nuda roccia vulcanica dell’isola. Ma dopo un decennio, i cambiamenti sembravano essersi arrestati. Pawel Wasowicz, direttore di botanica presso l’Istituto di Scienze Naturali, afferma: “La gente pensava: e adesso? A quel punto circa 10 specie avevano colonizzato Surtsey. La copertura vegetale era davvero scarsa. Ma poi arrivarono gli uccelli”. All’inizio degli anni ’80, i gabbiani dal dorso nero hanno iniziato a nidificare in alcune zone dell’isola, rifugiandosi in una delle parti più tempestose dell’Oceano Atlantico. Il loro arrivo ha dato il via a un’esplosione di vita. Il guano ha trasportato semi che hanno rapidamente diffuso le erbe lungo l’isola, alimentate a loro volta dalle sostanze nutritive degli uccelli. Per la prima volta, intere aree di roccia nuda sono diventate verdi. Wasowicz afferma: “È sorprendente. Fin dai tempi di Darwin, i biologi pensavano che solo le specie vegetali con frutti carnosi potessero viaggiare con gli uccelli. Ma le specie presenti a Surtsey non hanno frutti carnosi. Quasi tutti i semi presenti a Surtsey sono stati portati dalle feci dei gabbiani”. Una lezione che si può trarre da questo laboratorio vivente è che il recupero dopo un disturbo non segue un unico percorso prevedibile, afferma. Al contrario, è modellato da molteplici fattori, a volte sorprendenti. Oggi, le foche grigie sono le ultime arrivate a determinare cambiamenti nella biodiversità dell’isola. La roccia vulcanica è diventata un importante sito di “riposo” dove le foche vengono a riva per riposarsi e mutare il pelo, nonché un luogo di riproduzione dove possono allevare i loro piccoli al riparo dalle orche che si aggirano nelle vicinanze. Le loro feci, l’urina e le placente dopo il parto apportano azoto all’isola, contribuendo alla diffusione della vita. Ma i ricercatori avvertono che la colonizzazione di Surtsey un giorno subirà un’inversione di tendenza. Il luogo di riposo delle foche grigie è una delle aree che vengono lentamente erose dall’oceano. Entro la fine del secolo, gli scienziati prevedono che di quella parte dell’isola rimarrà ben poco. La sua biodiversità raggiungerà probabilmente il picco massimo, per poi diminuire nel tempo, lasciando alla fine solo una roccia con ripide scogliere nell’Atlantico. Ma i ricercatori affermano che gli insegnamenti rimarranno. Surtsey dimostra che, anche negli ambienti più ostili, la resilienza e il rinnovamento sono possibili, afferma Wasowicz. Offre speranza e lezioni pratiche per il ripristino degli ecosistemi danneggiati dalla guerra, dall’inquinamento o dallo sfruttamento: se viene dato spazio, la natura troverà sempre il modo di tornare, spesso più rapidamente e in modo più creativo di quanto ci aspettiamo. Vilmundardóttir afferma: “Credo che l’Islanda stia davvero contribuendo in modo importante all’umanità preservando questa zona. Sulla terraferma, l’impatto dell’uomo è ovunque. Quando sono a Surtsey, mi sento davvero immersa nella natura. Si sentono solo gli uccelli. Si vedono le orche lungo la costa e le foche che spuntano fuori dall’acqua e guardano.”. 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