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Così l’Europa smantella il diritto d’asilo
A BRUXELLES L’ALLEANZA TRA DESTRE E ESTREME DESTRE VARA DUE REGOLAMENTI CHE AVRANNO PESANTI CONSEGUENZE SULLA VITA DEI RIFUGIATI La commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo (Libe) ha approvato due testi centrali del Patto su migrazione e asilo: la prima lista UE di “Paesi di origine sicuri” e il mandato negoziale per applicare le norme sui cosiddetti “Paesi terzi sicuri”. Il voto passa grazie a una maggioranza costruita tra il Partito Popolare Europeo e i gruppi della destra radicale, mentre i Socialisti votano contro. È un passaggio politico decisivo: consolida un’alleanza strutturale tra conservatori e ultradestra che da mesi, e in realtà da anni, lavora per inasprire la gestione europea delle migrazioni e per normalizzare l’esternalizzazione dell’asilo. «Si smantella così il diritto d’asilo in Europa, ponendo le basi per un piano di deportazione di massa sul modello Trump. La traiettoria dei fascisti è chiara – commenta l’eurodeputata Avs, Ilaria Salis, relatrice ombra in commissione per il gruppo The Left – da un secolo all’altro, da una parte all’altra dell’Oceano». Non è un caso che una rivendicazione giunga dal governo a trazione FDI che vi legge «conferma di ciò che il Presidente Meloni e il Governo sostengono da tempo: per gestire l’immigrazione servono realismo, fermezza e cooperazione internazionale. L’ampliamento dell’elenco dei Paesi sicuri  approvato rappresenta un passo fondamentale per rendere i  rimpatri più rapidi ed efficaci», recita infatti una nota del sottosegretario all’Interno Emanuele Prisco per il quale «si tratta di una svolta importante: saranno  possibili trasferimenti non solo verso i Paesi di origine e di transito degli immigrati irregolari, ma anche verso quelli con  cui esistono accordi di cooperazione. È un cambio di visione che rafforza anche la sicurezza nelle nostre città e restituisce credibilità alle politiche migratorie europee. Ancora una volta l’Europa si muove nella direzione indicata dall’Italia: gestione dei confini, lotta ai trafficanti, rimpatri più veloci e cooperazione internazionale.  Mancano ancora alcuni passaggi per l’approvazione definitiva, ma finalmente la direzione, anche europea, è chiara». L’impianto dei testi approvati serve a rendere più semplice il rimpatrio e il trasferimento dei richiedenti asilo fuori dall’UE. Il primo elenco consente di dichiarare “sicuro” il Paese d’origine e quindi respingere più facilmente le domande di protezione. Il secondo elenca Paesi terzi dove l’UE ritiene possibile inviare persone esiliate anche se non hanno alcun legame con quelle destinazioni — pratica già sperimentata dal Regno Unito con il Ruanda e dall’Italia con l’Albania. L’effetto politico è pesante: si legittima l’outsourcing della gestione migratoria verso Paesi dove la repressione dei diritti umani è documentata. L’inclusione di Marocco, Tunisia, Egitto e Bangladesh nella lista dei “Paesi d’origine sicuri”, nonostante persecuzioni sistematiche di attivisti, avvocati e giornalisti, mostra con chiarezza la natura ideologica dell’operazione. Le ONG per i diritti umani avevano avvertito che questa classificazione è incompatibile con la Convenzione di Ginevra, che impone valutazioni individuali dei rischi. Ma la destra ha tirato dritto. Il 3 dicembre, il PPE e i gruppi dell’estrema destra ottengono 40 voti contro 32 sul dossier Paesi terzi sicuri; 39 contro 25 su quello dei Paesi d’origine. Renew, decisiva in molte votazioni, sceglie l’astensione sulla seconda lista, facilitandone l’approvazione. Non è un incidente isolato: simili combinazioni tra destre e ultradestra avevano già ribaltato il voto sul dovere di vigilanza delle imprese il 13 novembre. La procedura scelta evita anche un passaggio in plenaria, accelerando l’ingresso dei testi nel trilogo con Commissione e Consiglio: un segnale dei nuovi equilibri dell’Europarlamento dopo il voto del 2024, con l’avanzata delle destre radicali e la porosità crescente del PPE verso la retorica securitaria. Per la deputata ecologista Mélissa Camara, questa alleanza “vergognosa” mette a rischio diritti fondamentali e dignità degli esiliati; Damien Carême parla apertamente della fine del diritto d’asilo europeo, ridotto a pura finzione procedurale. E avverte: parte della destra voleva inserire perfino Sudan, Etiopia e Senegal nella lista dei Paesi terzi sicuri. La linea dura non riguarda solo l’elenco dei Paesi. È in corso un inasprimento più ampio: la Commissione propone sanzioni commerciali contro gli Stati che non accettano il rientro dei propri cittadini espellibili, collegando riammissioni e privilegi commerciali. Se i visti non bastano, si immagina la sospensione dei benefici del sistema preferenziale. Un meccanismo che — come riconosce Carême — di fatto già esiste informalmente: l’UE finanzia da anni Paesi terzi affinché fungano da barriera esterna. L’attacco al diritto d’asilo passa anche attraverso una modifica cruciale al concetto di “Paese terzo sicuro”. Oggi, per trasferire una persona fuori dall’UE, deve esistere un “criterio di connessione”, un legame con il Paese ricevente: transito, famiglia, qualche relazione concreta. Questo principio, centrale nell’accordo UE-Turchia del 2016, viene ora reso opzionale. Basterà un accordo politico tra uno Stato membro e un Paese extra-UE per trasferire richiedenti asilo verso luoghi dove non hanno alcun legame. È lo stesso modello “Ruanda” promosso da Johnson nel Regno Unito, bocciato dalla Corte Suprema ma ormai diventato riferimento culturale per le destre europee. La versione del Parlamento introduce un elemento ancora più controverso: anche i minori potranno essere trasferiti se considerati un rischio per la sicurezza o l’ordine pubblico. I ricorsi contro i trasferimenti non avranno più effetto sospensivo: le persone saranno allontanate comunque e solo dopo, in caso di vittoria del ricorso, riportate nell’UE. Per i giuristi, il rischio è evidente: trasferimenti arbitrari, scarsa tutela, contesti ostili e possibili cause davanti alla Corte di giustizia. Ma il quadro complessivo — spiega la ricercatrice Andreina De Leo — probabilmente reggerà, perché la Convenzione di Ginevra non menziona esplicitamente il criterio di connessione. Il governo Meloni gioca un ruolo di primo piano: il relatore della lista dei Paesi d’origine sicuri è l’eurodeputato di FdI Alessandro Ciriani. La misura ha un valore operativo: consente l’applicazione accelerata delle procedure di rimpatrio previste per i centri in Albania. L’evoluzione politica è favorita dall’assetto istituzionale dell’UE. Tutte le principali istituzioni remano nella stessa direzione: la Commissione von der Leyen, il Consiglio dominato da governi di centro-destra e destra radicale, e un Parlamento europeo spostato nettamente a destra. Ursula von der Leyen ha affidato il dossier migrazioni a Magnus Brunner, ex ministro delle Finanze austriaco, un profilo rassicurante e opaco, incaricato di disinnescare il conflitto pubblico e di far passare misure drastiche in modalità quasi silenziosa. Non a caso molte iniziative sono state annunciate in date e orari strategici per minimizzare l’attenzione mediatica. Nel complesso, dunque, l’UE sta consolidando un sistema che rende l’asilo un diritto sempre più formale e sempre meno reale. L’allineamento politico tra popolari, destre e ultradestra, un tempo impensabile, è oggi il motore di un cambio di paradigma che sposta la frontiera dell’Europa sempre più lontano da sé — e i diritti delle persone sempre più lontano dagli standard internazionali. The post Così l’Europa smantella il diritto d’asilo first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Così l’Europa smantella il diritto d’asilo sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Così Putin soffia sul fuoco tra islamofobia e antisemitismo
DOCUMENTI INTERNI AL CREMLINO DIMOSTRANO IL COINVOLGIMENTO DELLA RUSSIA IN OPERAZIONI IN FRANCIA CONTRO EBREI E MUSULMANI Inchiesta di Matthieu Suc su Mediapart La Russia intende diffondere l’immagine di una Francia antisemita e islamofoba. Per essere certo che la nostra società si laceri, il Cremlino ha deciso di alimentare l’odio tra le comunità ebraica e musulmana, prendendole di mira una dopo l’altra. Un servizio di intelligence francese ha recentemente ottenuto alcuni documenti interni al Cremlino in cui, secondo una sintesi consultata da Mediapart, «l’amministrazione presidenziale [russa] si sforza di aumentare le tensioni tra queste due comunità sul territorio nazionale strumentalizzando dibattiti divisivi per seminare divisioni all’interno della società francese e indebolire la coesione nazionale». Sempre secondo le nostre informazioni, lo stesso servizio di intelligence francese ha appreso, ad esempio, che il degrado dei siti culturali e commemorativi ebraici nel maggio 2025 è stato «direttamente approvato dall’amministrazione presidenziale russa». In un rapporto riservato presentato al Parlamento, i servizi di intelligence francesi sottolineavano già in primavera che «la guerra psicologica e informativa» condotta dalla Russia mirava a «fratturare l’opinione pubblica esacerbando le tensioni all’interno della popolazione», in particolare, scrivevano i servizi segreti, in riferimento al «conflitto tra Israele e Hamas». In alcune note versate in un procedimento giudiziario nel 2024 e rivelate da Mediapart, la DGSI sottolineava anche che la Francia era «un obiettivo privilegiato del Cremlino» e che, per destabilizzare gli Stati «percepiti come avversari», i servizi segreti russi identificano «vulnerabilità esistenti come divisioni politiche o intercomunitarie», che sfruttano «per disorientare le menti». Il controspionaggio francese sottolinea che esistono «costanti identificabili» nei temi scelti per le loro operazioni di ingerenza, «principalmente» questioni legate all’immigrazione, all’Islam, all’antisemitismo, all’egemonia statunitense, alle istituzioni (Unione Europea, NATO), ecc. VERNICE VERDE E TESTE DI MAIALE Dal 7 ottobre, la volontà russa di puntare sulla guerra genocida condotta da Israele a Gaza si era manifestata con operazioni di destabilizzazione mirate esclusivamente alla comunità ebraica. Tre settimane dopo l’attacco perpetrato da Hamas in Israele, più di 250 stelle di David erano state dipinte sui muri di diversi edifici nella regione parigina. Nel maggio 2024, due settimane dopo che gli studenti di Sciences Po avevano mostrato mani rosse durante le manifestazioni filopalestinesi (un simbolo che aveva suscitato polemiche, rinviando al massacro di due soldati israeliani nell’ottobre 2000, agli albori della seconda Intifada), trentacinque mani rosse erano state dipinte sul Memoriale della Shoah, a Parigi,  sopra le targhe con i nomi delle persone che hanno salvato gli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Ora si tratta di attaccare due comunità religiose per aumentare le possibilità di conflitto in Francia. Questa nuova strategia di destabilizzazione ha trovato una prima applicazione concreta tra maggio e settembre 2025. Prima ci sono state «le pitture verdi». Nella notte tra il 30 e il 31 maggio 2025, alcune sinagoghe, un ristorante e (ancora una volta) il Memoriale della Shoah sono stati vandalizzati. Individui in tuta hanno spruzzato vernice verde sulle loro facciate. Tre cittadini serbi sono stati arrestati ad Antibes (Alpi Marittime) mentre cercavano di lasciare il paese. Secondo la procura di Parigi, sono stati identificati grazie all’analisi delle immagini delle telecamere di sorveglianza e alle indagini sulle comunicazioni telefoniche. Tre mesi dopo ha luogo la seconda fase dell’operazione. Nella notte tra l’8 e il 9 settembre 2025, una decina di teste di maiale – su alcune delle quali è scritto “MACRON” con vernice blu – vengono depositate davanti a nove luoghi di culto musulmani nella regione parigina. Il giorno dopo, la procura di Parigi denuncia «un evidente tentativo di provocare disordini all’interno della nazione». UN SERBO AL SOLDO DI MOSCA I primi elementi dell’indagine mostrano che due individui hanno acquistato dieci teste di maiale da un allevatore in Normandia qualche ore prima del gesto. Una volta compiuta la loro sinistra impresa, hanno attraversato il confine franco-belga a bordo di un veicolo immatricolato in Serbia. Le Monde ha poi rivelato che entrambe le operazioni sono state condotte a distanza dalla stessa persona. Secondo le informazioni di Mediapart, quest’uomo è un serbo di nome Aleksandar Savic, già noto ai servizi segreti come agente al soldo della Russia. Savic ha prenotato in una mail scritta il 27 agosto le teste di maiale che sarebbero state utilizzate dai suoi complici due settimane dopo. La DGSI aveva già Aleksandar Savic nel mirino per aver trasmesso, tramite messaggistica criptata (Telegram, Viber e Zangi), agli altri tre cittadini serbi arrestati ad Antibes gli indirizzi dei luoghi commemorativi e culturali ebraici a Parigi che sarebbero stati imbrattati con vernice verde. Durante un’operazione di sorveglianza, un servizio di intelligence europeo aveva anche avvistato Aleksandar Savic in contatto con due dei tre serbi poche settimane prima che questi fatti fossero commessi. Secondo le nostre informazioni, il coinvolgimento di Savic in queste due operazioni di destabilizzazione che hanno preso di mira successivamente le comunità ebraica e musulmana è, agli occhi della DGSI, segno del loro controllo da parte della Russia. Tanto più che il ruolo svolto dal capo della cellula, che non ha messo piede in Francia ma ha gestito la logistica dell’operazione, è simile a quello del bulgaro Nikolay Ivanov, appena condannato a quattro anni di carcere per aver finanziato gli spostamenti e l’alloggio a Parigi di altri tre bulgari che hanno imbrattato (le mani rosse) sul Memoriale della Shoah. Tre settimane dopo che alcune teste di maiale erano state lasciate davanti alle moschee, il ministro dell’Interno serbo ha pubblicato un comunicato stampa per annunciare l’arresto di undici serbi sospettati di aver partecipato a diverse operazioni in Francia e Germania con l’obiettivo di diffondere «idee che incitano all’odio, alla discriminazione e alla violenza basate sulle differenze», tra cui la vernice verde e le teste di maiale. Contattata, la procura di Parigi assicura che questi individui non sono stati arrestati su richiesta della Francia. Il loro capo, Aleksandar Savic, è invece «attualmente latitante». Secondo il ministero dell’Interno serbo, che non precisa la nazionalità del servizio in questione, avrebbe agito «su istruzioni di un servizio di intelligence straniero». Non si sa dove si trovi attualmente Aleksandar Savic. Quello che si sa è che il suo omologo dalle mani rosse, Nikolay Ivanov, era fuggito dal suo paese, la Bulgaria, dopo aver deturpato il Memoriale della Shoah per recarsi, come rivelato da Mediapart, a Mosca, prima di rifugiarsi in Croazia, dove era stato infine arrestato. UN MODUS OPERANDI CARATTERISTICO In una nota del luglio 2024 allegata a un procedimento giudiziario, la DGSI delinea uno schema delle operazioni di destabilizzazione condotte dalla Russia e dalla sua organizzazione altamente gerarchizzata. «In primo luogo c’è un ufficiale dell’intelligence russa con base in Russia. Questo mandante ricorre, in secondo luogo, a un intermediario generalmente con base in uno degli antichi paesi satellite dell’URSS o  o provenienti dal crollo del blocco orientale“. Successivamente, l’intermediario entra in contatto con ”individui di lingua russa spesso in condizioni precarie“. Quindi l’intermediario coordina, ”a distanza e in modo dematerializzato”, l’organizzazione di queste campagne. Per ogni missione viene creato un canale Telegram. Gli agenti provocatori ricevono istruzioni molto precise sugli obiettivi da danneggiare. «Sono in grado di dirci in quale negozio acquistare ciò di cui abbiamo bisogno o anche dove parcheggiare», racconta uno degli uomini che hanno depositato le bare sotto la Torre Eiffel. Una volta completata la missione, i messaggi e l’account Telegram vengono cancellati. «Questa organizzazione compartimentata garantisce un certo grado di sicurezza delle operazioni e rende particolarmente complesso stabilire il legame tra la Russia e gli esecutori», deplora in una delle sue note la DGSI. UNA VECCHIA TRADIZIONE DEL KGB Le “misure attive” sono l’eredità di una lunga tradizione sovietica. Si tratta di azioni condotte, in origine dal KGB, per destabilizzare i regimi e le popolazioni dei paesi avversari, in linea con gli interessi dell’URSS di allora e della Russia di oggi. Le prime misure attive conosciute risalgono agli anni ’50, con una campagna di affissione di slogan antisemiti e svastiche nella Repubblica Federale Tedesca e in altri paesi europei. Un episodio soprannominato “l’epidemia delle svastiche”, i cui veri autori sono stati scoperti solo negli anni 2000, grazie allo studio degli appunti manoscritti redatti dal disertore sovietico Vassili Mitrokhine, archivista fino al 1992 presso la prima direzione generale del KGB. Lo sfruttamento di questi archivi ha anche rivelato la diffusione, da parte del KGB, di testi razzisti, presumibilmente prodotti dalla Lega di difesa ebraica, che incitavano al linciaggio dei cittadini afroamericani negli Stati Uniti. Queste misure attive hanno anche assunto la forma di lettere inviate a nome del Ku Klux Klan a paesi africani e asiatici prima delle Olimpiadi di Los Angeles del 1984.   The post Così Putin soffia sul fuoco tra islamofobia e antisemitismo first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Così Putin soffia sul fuoco tra islamofobia e antisemitismo sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
UE, ecco la lobby che supporta le multinazionali a Bruxelles
LA STRATEGIA SEGRETA DEI GIGANTI DELL’INDUSTRIA CONTRO IL DOVERE DI VIGILANZA E IL GREEN DEAL Inchiesta di Cédric Vallet su Mediapart Bruxelles (Belgio).– «Dividi e conquista». Per mesi, la società statunitense specializzata in affari pubblici Teneo ha applicato metodicamente questo precetto prendendo di mira la direttiva europea sul dovere di vigilanza. L’obiettivo: svuotare il testo della sua sostanza o indebolirlo notevolmente. Diverse multinazionali americane, tra cui ExxonMobil, Chevron, Dow Chemical, Koch Industries e la francese TotalEnergies, si sono avvalsi dei servizi di questo gigante della consulenza per cercare di influenzare le istituzioni europee. È attraverso l’ONG olandese Somo che Mediapart ha potuto consultare circa 170 pagine di documenti interni di Teneo. Questi descrivono l’attacco concertato e su larga scala di queste multinazionali – riunite in un’alleanza denominata “Tavola rotonda per la competitività” – contro questo testo emblematico del Green Deal europeo, la cui ambizione era quella di spingere le più grandi aziende a porre rimedio agli impatti negativi delle loro attività sull’ambiente e sui diritti umani, lungo tutta la loro catena di produzione. La revisione della direttiva sul dovere di vigilanza è oggetto di forti tensioni da quando, lo scorso 25 febbraio, la Commissione europea ha proposto di indebolirne la portata attraverso una legge cosiddetta di semplificazione. Le grandi multinazionali e le lobby industriali hanno approfittato di questa breccia per lanciare una battaglia senza quartiere contro questa direttiva che, ai loro occhi, è diventata uno spauracchio. La strategia molto aggressiva di Teneo, che privilegia un’“alleanza delle destre”, induce David Ollivier de Leth, dell’ONG Somo, ad affermare che queste aziende “prevalentemente americane hanno preso in ostaggio il processo legislativo europeo”. SCOMMESSA SULLA DESTRA E SULL’ESTREMA DESTRA La “strategia” di Teneo e dei suoi partner può essere decifrata in un documento del 16 maggio 2025: si tratta di ‘riunire’ i membri pro-business dei gruppi politici a favore dell’indebolimento della direttiva per “affossare il compromesso” sul dovere di vigilanza. I nomi dei deputati sono elencati su quattro pagine e indicati come “obiettivi”, in prima fila tra cui Jörgen Warborn, relatore del testo, deputato svedese di destra (Partito Popolare Europeo, PPE). Teneo organizza una serie di incontri con i deputati e i membri dell’alleanza, durante la plenaria di giugno e poi a settembre. A partire da giugno, Teneo vuole “aumentare la pressione” attraverso incontri, lettere e pubblicità mirate su LinkedIn. I consulenti menzionano la sponsorizzazione di una  «newsletter» del giornale Politico come una delle carte da giocare. L’azienda diffonde così “raccomandazioni di voto, emendamenti” chiavi in mano e briefing agli assistenti e ai deputati. L’industria deve mostrare un “fronte unito”, in particolare durante la cena della tavola rotonda degli industriali europei (ERT) del 15 settembre. Con l’avvicinarsi della votazione in plenaria del 13 ottobre, l’orientamento diventa più chiaro. “Dividere i centristi di Renew e i Socialisti e Democratici attraverso le delegazioni nazionali” è uno degli obiettivi perseguiti. Nel resoconto dell’11 luglio, Teneo afferma che sarà necessario “spingere il relatore ad allearsi il più possibile con i partiti di destra”. Per Teneo, la destra deve abbandonare la coalizione centrista e utilizzare il gruppo di destra molto conservatore, con tendenze di estrema destra, dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR) come “ponte” verso i Patrioti per l’Europa, un altro gruppo di estrema destra di cui fa parte il Rassemblement National. L’alleanza delle multinazionali ritiene che l’ECR «debba svolgere un ruolo attivo nella negoziazione di compromessi». «Le maggioranze alternative tra la destra e l’estrema destra sono chiaramente sfruttate da tutti i lobbisti industriali che vi vedono un’opportunità», conferma una fonte del Parlamento europeo. Già dal mese di ottobre, il relatore agitava la minaccia di far passare gli emendamenti del PPE con il sostegno dell’estrema destra. Ed è proprio quello che è successo il 13 novembre durante la votazione al Parlamento europeo. Jörgen Warborn non ha risposto alle sollecitazioni di Mediapart. ACCANIMENTO CONTRO IL DOVERE DI VIGILANZA Gli obiettivi delle multinazionali, descritti nei documenti di Teneo, sono ben noti. Le aziende desiderano innanzitutto cancellare i piani di transizione climatica previsti dalla direttiva. Vogliono poi limitare il dovere di vigilanza alle relazioni commerciali dirette con i subappaltatori europei, evitando così di esaminare le condizioni di lavoro o l’inquinamento nei meandri delle catene di produzione, in Asia o altrove. Anche il meccanismo di responsabilità civile europeo armonizzato è oggetto di critiche. Teneo e i suoi clienti stanno concentrando i loro sforzi su diversi fronti, inviando lettere alla presidente della Commissione europea e ai governi degli Stati membri, cercando di contrastare la “testardaggine” di una parte della Commissione e scrivendo lettere aperte alla stampa, mentre cercano appoggi presso associazioni di datori di lavoro come il Medef o il BDI, il sindacato dei datori di lavoro tedeschi, al fine di «difendere pubblicamente posizioni massimaliste», scrive Teneo. L’alleanza vuole anche influenzare la posizione degli Stati membri riuniti nel Consiglio dell’Unione europea. La società di consulenza vuole «approfittare del debole mandato negoziale del Consiglio e dei disaccordi tra gli Stati», in particolare sui piani di transizione climatica. Teneo ipotizza che su questo tema potrebbe costituirsi una minoranza di blocco attorno all’Italia, «che è nota per sostenere la cancellazione di questo articolo». Alle aziende vengono assegnati governi «target». L’Ungheria e la Germania devono essere contattate da ExxonMobil e Dow Chemical. L’Italia è riservata a Baker Hughes, azienda energetica, mentre la Francia e la presidenza danese del Consiglio dell’UE sono appannaggio di TotalEnergies. Gli incontri di alto livello – Davos, il forum sulla sicurezza di Varsavia, il forum di Cernobbio – sono individuati come luoghi propizi. La Francia è considerata «favorevole» alle richieste dell’alleanza da quando Emmanuel Macron ha chiesto, il 19 maggio 2025, la revoca pura e semplice della direttiva sul dovere di vigilanza. Da parte della presidenza danese, si sostiene che non è stato registrato alcun incontro ufficiale tra l’ambasciatore, il suo vice o gli esperti della rappresentanza permanente danese con Teneo e TotalEnergies. Ma il lobbying si svolge maggiormente dietro le quinte di grandi eventi o forum a cui partecipano politici e aziende. Pertanto, gli incontri di alto livello – Davos, il forum sulla sicurezza di Varsavia, il forum di Cernobbio, la COP – sono esplicitamente indicati da Teneo come luoghi di influenza. «Abbiamo recentemente incontrato la lobbista di Total durante un evento», ammette un diplomatico di un paese europeo. «Ma non c’è alcun mistero in questo tipo di incontri, le loro posizioni sono note». La cena dell’ERT del 15 settembre è stata decisamente un momento importante per l’alleanza delle multinazionali. Erano attesi gli ambasciatori di Francia, Germania e Italia, nonché la rappresentante permanente danese e alcuni commissari europei. Teneo aveva chiesto che fossero presenti almeno uno o due amministratori delegati delle aziende membri dell’alleanza. SFORZO COORDINATO CON GLI STATI UNITI In questa offensiva su tutti i fronti contro il dovere di vigilanza, Teneo punta sui suoi contatti americani. I documenti consultati da Mediapart mostrano una stretta collaborazione tra l’alleanza delle multinazionali, la missione degli Stati Uniti presso l’Unione Europea e la Camera di Commercio americana. Il 6 giugno 2025, Teneo fa riferimento ai negoziati commerciali tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea. È tempo di “aumentare la pressione dagli Stati Uniti” affinché il dovere di vigilanza sia identificato come una “barriera non tariffaria”. Il 4 luglio, Teneo assicura che la Camera di commercio degli Stati Uniti è in contatto “continuo” con l’ufficio del rappresentante per il commercio dell’amministrazione Trump per cercare di far salire la direttiva sul diritto di vigilanza tra le sue “priorità”. Il 18 luglio, i consulenti riassumono una riunione con la missione degli Stati Uniti presso l’UE, seguita da una telefonata il 31 luglio. “Il nostro contributo è stato molto utile”, si congratula Teneo nel suo resoconto. “Invieremo loro un elenco di attori – deputati, Stati membri, ecc. – da contattare”, aggiungono i consulenti, riferendosi ai funzionari statunitensi. Il 29 luglio, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, e Donald Trump hanno posto le basi di un accordo commerciale svantaggioso per l’UE. I dettagli devono ancora essere resi pubblici, sotto forma di una «dichiarazione congiunta» tra Usa e l’UE. Nel suo rapporto del 1° agosto, Teneo sembra già sapere che tale dichiarazione «dovrebbe includere il dovere di vigilanza» e altre normative europee. Il 21 agosto, l’Unione europea si impegnerà, in questa dichiarazione congiunta, a compiere sforzi per «ridurre l’onere amministrativo» legato al dovere di vigilanza. Infine, Teneo suggerisce di mobilitare «altri governi non europei attraverso associazioni industriali o commerciali» per influenzare il processo legislativo riducendo la «visibilità» degli Stati Uniti. Contattata da Mediapart, Teneo non desidera commentare i dettagli del lavoro svolto per conto dei propri clienti, anche se i consulenti confermano di aver «aiutato diverse aziende a comunicare a un’ampia gamma di attori e decisori le loro preoccupazioni in merito alla direttiva sul dovere di vigilanza». «Tutte le nostre attività si svolgono in totale trasparenza”. Questa “trasparenza” è rivendicata anche da TotalEnergies. Contattata da Mediapart, l’azienda ricorda che le sue ‘posizioni’ sulla direttiva sul dovere di vigilanza – “alcune delle cui disposizioni minano la competitività delle imprese europee” – sono ben note. Il portavoce di ExxonMobil offre una risposta simile: “Siamo sempre stati chiari riguardo alla direttiva sul dovere di vigilanza. Essa aggiunge ulteriori livelli di incertezza e burocrazia”. Il gigante americano ammette apertamente di essere stato in contatto con «decisori politici» per far intendere il proprio punto di vista. All’interno dell’ONG, David Ollivier de Leth sottolinea la mancanza di trasparenza dell’iniziativa promossa da Teneo ed esprime preoccupazione per il peso di queste aziende nei negoziati in corso tra le istituzioni europee. L’8 dicembre, il Parlamento e il Consiglio cercheranno di trovare un compromesso sul testo. The post UE, ecco la lobby che supporta le multinazionali a Bruxelles first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo UE, ecco la lobby che supporta le multinazionali a Bruxelles sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Macron regala la naja alla gioventù francese
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA HA TROVATO LA LINEA GUIDA PER LA FINE DEL SUO MANDATO: PREPARARE IL PAESE ALLA GUERRA Ilyes Ramdani su Mediapart Ventotto anni dopo l’abolizione del servizio militare, Emmanuel Macron ha annunciato il lancio nel 2026 di un servizio nazionale volontario della durata di dieci mesi. «Abbiamo bisogno della mobilitazione della nazione per essere pronti e rispettati», ha dichiarato il presidente della Repubblica in un discorso pronunciato a Varces (Isère) giovedì 27 novembre. A partire dalla prossima estate, 3.000 giovani donne e uomini, per lo più di età compresa tra i 18 e i 19 anni, dovrebbero costituire la prima promozione di questo nuovo servizio militare. L’esecutivo punta a raggiungere la soglia di 10.000 giovani arruolati nell’estate del 2030 e poi 50.000 nel 2035. I volontari riceveranno una paga stimata intorno agli 800 euro al mese, ma il capo dello Stato non ha specificato l’importo esatto giovedì. L’annuncio di Varces segna la fine del servizio nazionale universale (SNU), lanciato durante il primo quinquennio di Macron, che ha moltiplicato i fallimenti e il malcontento. Il tempo in cui il potere vantava un dispositivo civico e cittadino, che combinava l’iniziazione all’ecologia e i laboratori di coesione, è finito; il nuovo sistema sarà «puramente militare», ha insistito Emmanuel Macron. Il programma presentato giovedì avrebbe potuto suscitare nostalgia nei coscritti del secolo scorso. La «formazione iniziale di un mese» per apprendere «i rudimenti della vita militare», «il maneggio delle armi», «la marcia al passo» e «l’insieme dei canti e dei rituali che alimentano la fratellanza delle nostre forze armate» ricorderà loro, ad esempio, le classi del servizio militare di un tempo. Il parallelo è evidente: all’Eliseo si è convinti che il periodo di pace inaugurato dalla fine della guerra fredda sia finito. Il presidente della Repubblica ha descritto con enfasi un “mondo incerto” in cui “la forza prevale sul diritto” e in cui “la guerra è una realtà del presente”. «L’unico modo per evitare il pericolo è prepararsi», ha affermato. LA VOLONTÀ DI LASCIARE IL SEGNO Sarà finalmente giunto il momento della svolta, la presa di coscienza collettiva tanto desiderata dall’Eliseo? Dall’inizio del suo secondo mandato quinquennale, Emmanuel Macron ha moltiplicato le dichiarazioni bellicose sulla Russia, sui tempi attuali e su quelli a venire. “Se rifiutiamo di vedere l’accelerazione della minaccia, se rinunciamo agli sforzi necessari, allora verremo meno al nostro dovere e alla nostra vocazione”, aveva affermato a gennaio durante il suo discorso di auguri alle forze armate. Le parole del capo di Stato Maggiore delle forze armate, Fabien Mandon, che ha dichiarato al congresso annuale dei sindaci che la Francia dovrebbe «accettare di perdere i propri figli», sono, in questo senso, tutt’altro che fuori luogo. Prima di essere nominato a questa carica alla fine di luglio, il generale è stato il capo di stato maggiore particolare dell’Eliseo. Un membro del cerchio magico, il cui mandato alla guida delle forze armate era proprio quello di aiutare il Paese a prendere coscienza del pericolo. «Sì, i dividendi della pace si sono esauriti», ha aggiunto Catherine Vautrin, ministro delle forze armate, pochi giorni dopo. Nei corridoi del potere, questo è uno degli argomenti che animano le discussioni con maggiore regolarità, fino all’ufficio del capo dello Stato. «È sua ferma convinzione che occorra preparare la società a ciò che sta per accadere», assicura uno dei suoi interlocutori abituali. L’annuncio di giovedì è stato quindi pensato come un messaggio abbastanza forte da lasciare il segno. «È un momento importante», conferma Maxime Launay, ricercatore presso l’Istituto di ricerca strategica dell’École militaire (Irsem) e specialista del rapporto tra le forze armate e il potere. Annunciare un dispositivo militare riprende una grammatica direttamente legata all’inasprimento del contesto strategico. Probabilmente riporterà l’esercito al centro del dibattito pubblico, se non altro perché migliaia di persone avranno un figlio, una figlia o un cugino che parteciperà a questo dispositivo”. Tuttavia, il rischio politico non è minore. E i toni marziali di Emmanuel Macron stanno già alimentando le accuse di catastrofismo. Dal Kirghizistan, Vladimir Putin ha approfittato di una conferenza stampa per deridere «questa idea ridicola» dei leader europei secondo cui la Russia potrebbe attaccare l’Europa. «Forse stanno semplicemente cercando di creare una sorta di illusione per la loro popolazione», ha affermato il presidente russo, le cui velleità espansionistiche non sono certo un segreto. Emmanuel Macron, dal canto suo, non molla: il suo secondo mandato sarà militare o non sarà. Tutto nelle sue scelte lo dimostra, dalla campagna elettorale del 2022, incentrata in gran parte sull’invasione russa dell’Ucraina, ai fondi stanziati per la difesa dalla sua rielezione, passando per la nomina del suo ministro della Difesa a Matignon e il suo impegno per la difesa dell’Ucraina. La militarizzazione del secondo quinquennio presenta tre vantaggi. Sulla scena diplomatica, l’obiettivo è quello di ridare alla voce della Francia il vigore che attualmente le manca. I recenti avvenimenti, in particolare in Ucraina e a Gaza, e il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca hanno convinto la diplomazia francese che è giunto il momento della forza e della sua esibizione. Così, Parigi sta al gioco, vanta il suo esercito, «il più efficiente d’Europa» secondo il capo dello Stato, e ricorda più volentieri il suo status di potenza nucleare. La conversione dell’esercito francese verso un «modello ibrido», tra nucleo professionale, riservisti e servizio volontario, è descritta come una nuova tappa sulla via dell’affermazione militare. LA SPERANZA DI UN CONSENSO Il secondo interesse di Emmanuel Macron è più politico. Privato della maggioranza parlamentare, ha tutto l’interesse a trovare oggetti di consenso per continuare ad avere voce in capitolo sulla scena interna. È così che bisogna interpretare la sua nuova passione per i temi legati alla democrazia e ai social network, la sua volontà di portare a termine il progetto sui tempi dei bambini e, quindi, l’idea del servizio militare volontario. Certo, dopo il discorso tenuto nell’Isère sono piovute critiche da parte dell’opposizione. Ma queste riguardano la forma, l’operatività della misura, i 2 miliardi di euro che costerà, la sua tempistica troppo tardiva, il suo tono troppo militare… Sulla sostanza, secondo l’Eliseo, il servizio volontario non è un argomento di divisione. Jordan Bardella, presidente del Rassemblement national (RN), ne è un fervente sostenitore. E anche Jean-Luc Mélenchon, leader di La France insoumise (LFI), difende da anni l’idea di un servizio nazionale obbligatorio, le cui missioni andrebbero comunque ben oltre l’ambito militare. Questa speranza di concordia sull’argomento è alimentata dai precedenti storici, ricorda Maxime Launay. «Per molto tempo è stato un argomento consensuale nel dibattito politico», afferma lo storico. Quasi nessun partito proponeva di abolire il servizio militare. Pierre Messmer, grande ministro di De Gaulle, era favorevole al modello di un esercito di professionisti, ma non lo ha mai attuato. Charles Hernu, primo ministro socialista della difesa sotto Mitterrand, era contrario al servizio militare in privato, ma lo difendeva in pubblico. Era una sorta di totem». Bisognerà attendere la fine della guerra fredda perché s’affermasse l’idea dell’abolizione del dispositivo. E anche in questo caso, senza grandi divisioni politiche. «La decisione è stata presa da Jacques Chirac e approvata dalla sinistra plurale», sottolinea Maxime Launay, autore di una tesi del 2022 sul legame tra la sinistra e l’esercito francese. Presidente di una Repubblica allo stremo, alla guida di un campo politico minoritario, Emmanuel Macron ha un terzo motivo per assumere il ruolo di capo delle forze armate: tra tutte le sue prerogative, questa è la più indiscutibile, quella che conferisce la maggiore legittimità. In un momento in cui voci sempre più numerose, fino al suo ex primo ministro Édouard Philippe, chiedono le sue dimissioni o le descrivono come inevitabili, la drammatizzazione della minaccia militare offre al capo dello Stato quel soffio di legittimità di cui è stato privato negli ultimi due anni. Chi oserebbe chiedere le dimissioni del presidente della Repubblica in tempi turbolenti in cui incombe una minaccia? «Questo rimanda all’essenza stessa della V Repubblica», sottolinea Maxime Launay. «È stata creata dal generale de Gaulle, allo stesso tempo capo militare e costituente. Il nostro regime politico è intrinsecamente legato all’azione militare. E i presidenti della Repubblica si sono spesso adeguati a questa logica». L’articolo 16 della Costituzione è ancora lontano, che consente al capo dello Stato di beneficiare di poteri eccezionali ed estesi «quando l’indipendenza della Nazione» o «l’integrità del suo territorio» sono minacciate «in modo grave e imminente». Ma lo scenario di una guerra sul suolo europeo e sempre più frequentemente evocato, di nuovo giovedì 27, da Emmanuel Macron. «In caso di crisi grave», il servizio nazionale «diverrà obbligatorio», ha avvertito. The post Macron regala la naja alla gioventù francese first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Macron regala la naja alla gioventù francese sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Argentina, dopo 42 anni, un generale sarà ministro della Difesa
PER MILEI «È LA FINE DELLA DEMONIZZAZIONE DEI MILITARI», PER ESTELA DE CARLOTTO DELLE NONNE DI PLAZA DE MAYO «UNA PROVOCAZIONE PERICOLOSA» Era una regola non scritta. Ma Milei vuole ribaltarla anzi vuole che diventi una tradizione, una prassi consolidata nella vita istituzionale dell’Argentina, la nomina di un militare alla guida del Ministero della Difesta. Da quando nel 1983 è finita la dittatura che ha lasciato 30.000 “desaparecidos” in poco meno di sette anni, nessuno dei governi che si sono succeduti in Argentina in 42 anni avevano osato farlo. Sarebbe stata una provocazione. E proprio così l’ha definita Estela de Carlotto, la presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo: secondo lei è una decisione pericolosa, un tentativo di «alterare la storia e di costruirne un’altra», un tale incarico per un militare «non è adeguato alla sua formazione» e tale misura potrebbe generare «violenza nella società». Ma Javier Milei, ultraliberista (cosa c’è di più violento del libero mercato?) ha scelto come titolare di quel portafoglio il tenente generale Carlos Presti, nell’ambito del rimpasto di governo che fa seguito alle elezioni di ottobre, e ha dichiarato che in questo modo si porrà “fine alla demonizzazione dei nostri ufficiali, sottufficiali e soldati”. Il cambio si è reso necessario poiché diversi ministri uscenti hanno ottenuto un seggio in Parlamento e si insedieranno il prossimo 10 dicembre. In un comunicato, l’esecutivo ha definito Presti un ufficiale “dalla carriera impeccabile”, sottolineando che per la prima volta un militare assumerà la responsabilità della conduzione politica e strategica delle Forze Armate. Martedì 25 Novembre, Milei ha decorato Presti, 59 anni, durante una cerimonia ufficiale alla Casa Rosada, in cui ha consegnato diplomi e sciabole a diversi membri delle forze armate. Alla cerimonia ha partecipato l’attuale ministro, Luis Petri, che occuperà un seggio alla Camera dei Deputati. Presti ha concordato con Milei di assumere la carica di ministro senza chiedere il passaggio al pensionamento. Il governo argentino vuole che assuma la carica come militare in servizio attivo, e si prevede che accederà alla carica indossando la sua uniforme. Presti chiederà un “passaggio in disponibilità”, ovvero una sorta di congedo temporaneo che gli consentirà, una volta lasciato l’incarico nell’Esecutivo, di decidere se continuare a ricoprire la sua carica o ritirarsi. Sebbene non sia stato coinvolto nei crimini della dittatura, lo è stato suo padre, il militare Roque Presti. La leader del Frente de Izquierda, Myriam Bregman, ha ricordato che Presti è «non ha mai ripudiato i crimini contro l’umanità commessi da suo padre, un genocida che ha agito nella zona di La Plata». Roque Presti, morto prima di ricevere la sentenza, è stato uno dei responsabili dell’offensiva contro gli studenti delle scuole superiori nota come la Notte delle Matite Spezzate e anche dell’operazione in cui «sono stati assassinati Diana Teruggi e altri militanti nel novembre 1976». La leader trotskista ha affermato che durante quell’operazione repressiva «è stata rapita e continua ad essere tenuta prigioniera (le Madres reclamano il “ritorno con vita”, ndr) ancora oggi Clara Anahí, la nipote di Chicha Chorobik de Mariani, cofondatrice delle Abuelas di Plaza de Mayo». Sui social, Bregman si è chiesta se il futuro ministro della Difesa abbia chiesto a suo padre quale sia stata la sorte di quella bambina e se sappia chi sia il suo rapitore. Una nomina, quella di Presti, che sembra anche essere un’altra espressione della subordinazione agli Stati Uniti in linea con il messaggio autoritario lanciato da Trump nel vertice convocato dal suo segretario alla Difesa, Pete Hegseth, con gli 800 principali generali e quadri militari in cui ha posto come compito prioritario la lotta contro “il nemico interno’”.  E ora Milei sta per muoversi nella stessa direzione. Per Bregman: «Non sembra una coincidenza la costruzione del nemico interno come dottrina promossa ancora una volta, dal Nord». E’ un ennesimo segnale di quella che Estela de Carlotto chiama «democracia sucia», democrazia sporca segnata da disuguaglianza, impunità e paura, «il denaro gira dove vogliono i privilegiati e il popolo è impoverito”». Da quando s’è insediato, nelle date destinate a ricordare i crimini del terrorismo di Stato, l’Esecutivo ha diffuso messaggi che li equiparano alle azioni dei gruppi guerriglieri, come se entrambi avessero la stessa responsabilità istituzionale e lo stesso potere. Con lo stesso discorso negazionista espresso da alcuni membri del governo, sabato 29 ci sarà una manifestazione in Plaza de Mayo, a cui parteciperanno fascisti anche da Bolivia, Cile, Perù e Uruguay, per chiedere la liberazione dei criminali in divisa che stanno scontando la pena. Un appello firmato da militari in pensione, tra gli altri, l’iniziativa è stata presentata come un atto di “risarcimento” per coloro che “hanno sconfitto il terrorismo negli anni ’70” e ora sono in carcere. La protesta è organizzata anche da Asunción Benedit, sorella del deputato Beltrán Benedit, uno di quelli che hanno visitato i repressori detenuti nel carcere di Ezeiza nel marzo dello scorso anno. La donna fa parte di Pañuelos Negros, un gruppo che ha promosso altri atti in difesa dei condannati per crimini della dittatura. L’insediamento formale di Presti avverrà dopo il 12 dicembre. Il 5 dicembre arriveranno in Argentina gli aerei F16 acquistati dal governo sotto la guida del ministro della Difesa Luis Petri. Poiché quel giorno Milei sarà negli Stati Uniti con il suo omologo Donald Trump per partecipare al sorteggio dei Mondiali 2026, la cerimonia per gli aerei sarà rinviata al 12 e vedrà la presenza di Milei e Petri. Per questo motivo, secondo quanto assicurato dalla Casa Rosada, l’insediamento formale di Presti avverrà dopo tale data. Inoltre, il quotidiano argentino Pagina 12 riporta che nelle ultime ore si è anche vociferato che potrebbe cambiare il nome del ministero della Difesa in “ministero della guerra”, ma per ora ciò non è stato confermato dai funzionari di Balcarce 50. Ancora Estela de Carlotto sottolinea come, da quando Milei è entrato in carica, ha sottratto finanziamenti statali per i programmi Memoria, Verità e Giustizia. Ora definisce questa situazione come un “debito non pagato” dello Stato nei confronti delle organizzazioni per i diritti umani. Le Nonne di Plaza de Mayo hanno confermato che il prossimo 24 marzo si terrà una veglia commemorativa per i 50 anni dal colpo di Stato del 1976, in un contesto di crescente preoccupazione per le politiche sui diritti umani che vengono defiscalizzate nel Paese. Nel 1977 Estela de Carlotto, che in Ottobre ha festeggiato 95 anni, subì il rapimento del marito, che riuscì a tornare in libertà ma con gravi conseguenze per la sua salute, e della figlia maggiore, Laura Carlotto. Grazie alla testimonianza di una sopravvissuta, Estela venne a sapere che Laura era incinta. Lasciò la sua carriera di direttrice scolastica per dedicarsi completamente alla ricerca di sua figlia e di suo nipote. Si unì alle Abuelas poco dopo la loro fondazione. Il 5 agosto 2014, Estela finalmente ritrovò suo nipote dopo decenni di ricerche. Il governo del “libertario” Javier Milei e della “nostalgica” Victoria Villarruel ha trasformato le Nonne di Plaza de Mayo – e Estela in particolare – nel bersaglio dei propri attacchi. L’amministrazione ha smantellato la Commissione Nazionale per il Diritto all’Identità (Conadi) – incaricata di cercare i nipoti – e ha cercato di limitare l’autonomia della Banca Nazionale dei Dati Genetici (BNDG). Intanto, le Abuelas e le Madres stanno attraversando un ricambio generazionale. Nipoti restituiti, fratelli e sorelle in cerca, zie e zii hanno gradualmente assunto ruoli e responsabilità. Oggi la continuità della lotta è garantita, come pianificato con intelligenza dalle Nonne. «Tuttavia – dicono – abbiamo ancora bisogno di tutto il sostegno possibile: donazioni, diffusione, informazione, ogni contributo è importante». 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Sahra lascia la guida dell’alleanza Wagenknecht
LA FONDATRICE DEL CONTROVERSO PROGETTO DI “SINISTRA CONSERVATRICE” TEDESCA MOLLA LA DIREZIONE DI UN PARTITO ORMAI IN CRISI Wagenknecht kapituliert schneller als die Ukraine, Wagenknecht si arrende più rapidamente dell’Ucraina. Così titolava la Taz, il quotidiano tedesco di sinistra per annunciare che, a quasi due anni dalla fondazione del partito, la madrina del BSW lascia la presidenza del partito. Se non è l’ultimo capitolo, è sicuramente il più mesto e inquietante per un progetto politico (che lei ha articolato in questa lunga intervista alla New Left Review) che intendeva creare in Germania un nuovo partito di destra con un seguito di massa, ma che viene presentato anche come offerta trasversale per la sinistra confusa. La visione di Wagenknecht era quella di costruire una «sinistra conservatrice» in grado di riunire le classi popolari tedesche che si sentivano dimenticate dalla sinistra tradizionale, da Die Linke alla SPD, e che erano tentate dall’AfD. A tal fine, aveva sviluppato idee molto aggressive sul piano sociale, denunciando le politiche migratorie come «pensiero unico» e «wokismo», pur pretendendo di difendere le fasce più deboli della società, il sistema sociale e le piccole imprese. Se vi viene in mente un figuro come Marco Rizzo non siete del tutto fuori strada. O, più precisamente a Marco Rizzo piacerebbe essere trattato come Wagenknecht dalla stampa piuttosto che come la macchietta rossobruna. Dopo aver fallito per un soffio la soglia di sbarramento del 5% alle elezioni federali, il BSW sta cercando di “riparare i danni”. Dopo il fallimento della campagna per descrivere la “sconfitta” elettorale con i crismi una teoria cospirativa (i media avrebbero denigrato il BSW, l’organizzazione elettorale avrebbe penalizzato il BSW) la quasi ex leader torna a far parlare di sé rompendo un tabù: l’ex politica della Linke (sinistra) propone di abbattere il cosiddetto “Brandmauer”, il cordone  sanitario che esclude da ogni collaborazione politica il partito di ultradestra Afd, nei parlamenti regionali come in quello federale. “Il cordone sanitario è fallito. Proprio questo, assieme alla cattiva politica dei vecchi partiti ha reso Afd il partito più forte in Germania”. Una tesi discutibile ma la sortita è funzionale a uscire dalla penombra crepuscolare che avvolge BSW, nato come progetto mediatico senza radici sociali, «gli manca qualsiasi resilienza – si legge sul sito di ISO, Internationale Sozialistische Organisation – per difendersi dalle nuove preferenze dei media». Al quartier generale del BSW non si aspettavano il tonfo, non solo perché avevano raccolto il 6,2% dei voti alle europee del giugno 2024, ma anche perché i sondaggi, poche settimane prima delle elezioni, li accreditavano vicino al 10%. Invece, le elezioni di febbraio hanno segnato il successo di Die Linke, il partito di sinistra che Sahra Wagenknecht aveva lasciato con clamore e dichiarato morto e sepolto. Ma da chi è composto questo partito così anomalo? Gran parte dell’ossatura è fatta da ex dirigenti di Die Linke, come Katja Wolf, che è stata a lungo sindaco di Eisenach, che hanno visto nel BSW un mezzo per avere più peso nella vita politica e quindi per assumere responsabilità. Ma il discorso conservatore del partito ha attirato anche persone che si collocano ai margini dell’estrema destra, mentre le posizioni sulla pace e la sovranità hanno attirato una frangia sovranista della sinistra. Infine, il discorso sociale e antisistema ha attirato un elettorato più radicalizzato e deluso da Die Linke che però, nel frattempo, s’è dimostrata capace di recuperare gran parte delle posizioni. In particolare nelle grandi città, Die Linke, senza la zavorra di Wagenknecht, ha raccolto l’elettorato di sinistra dei Verdi delusi dall’esperienza di governo degli ecologisti. L’unico fattore di unità del BSW era proprio la stessa Sahra. Gli analisti politici tedeschi ora formulano diverse ipotesi. La prima è che Sahra Wagenknecht abbia preso atto del suo fallimento e abbandoni la nave che affonda. Va detto che questo è il terzo fallimento per lei. Dopo aver assunto la guida di Die Linke nel 2011 senza riuscire a modellare il partito a suo piacimento, nel 2017 ha tentato di creare una corrente strutturata al suo interno, “Aufstehen”, senza più successo. Ora Sahra Wagenknecht, si legge sulla Taz, non ha più voglia di occuparsi delle questioni interne al partito. “Ho svolto questo lavoro con grande piacere”, ha dichiarato il 10 Novembre Wagenknecht ai giornalisti a Berlino. Ora però è giunto il momento di “ripartire meglio il lavoro”. La sua successione alla guida del BSW è già stata decisa e verrà sancita il 7 Dicembre: il nuovo presidente del partito, affiancato dall’attuale e futura co-leader Amira Mohamed Ali, sarà il deputato europeo Fabio De Masi. Wagenknecht, in cambio, intende occuparsi principalmente del “lavoro strategico e di contenuto” e di una “politica coerente” come capo di una commissione sui valori fondamentali del BSW ancora da costituire. Ciò che, a suo avviso, è urgentemente necessario. Dopo tutto, il profilo del partito “non è più così chiaro per molti elettori”. Con la sua apparizione, la 56enne avrebbe messo fine alle recenti speculazioni secondo cui si sarebbe ritirata completamente dalla gestione del partito in difficoltà. Il titolo di “presidente onorario” era stato più volte preso in considerazione. In qualità di responsabile dei valori fondamentali, potrebbe utilizzare la sua nuova funzione come una sorta di cabina di regia discreta del partito. Determinando e chiarendo le posizioni ideologiche, potrebbe così «purificare» il partito eliminando le dissidenze e imponendo una posizione chiara nelle coalizioni e nelle votazioni. Ovvero, come afferma la stessa Wagenknecht, “continuare a sostenere con grande impegno” la nuova leadership del partito. L’interesse dell’opinione pubblica per Wagenknecht e il BSW è in forte calo da tempo. Nel talk show della ZDF “Markus Lanz”, la fondatrice del partito si è recentemente lamentata di non essere più invitata dalle emittenti pubbliche. “Dalle elezioni federali siamo stati massicciamente emarginati”, ha affermato. Eppure, già prima delle elezioni di febbraio aveva riconosciuto: “Chi non è nel Bundestag non è un fattore rilevante nella politica tedesca”. Ed è proprio quello che è successo e adesso non solo deve fare i conti con un calo delle apparizioni nei talk show, ma anche con un generale calo di popolarità. Nei sondaggi, il nuovo partito, che solo un anno fa riscuoteva un successo straordinario, oscilla tra il 3 e il 4 per cento. Il partito fa parlare di sé soprattutto per le dispute interne e le critiche provenienti dalle associazioni regionali. Dopo le elezioni regionali del settembre 2024 in tre Länder dell’est, dove il BSW ha ottenuto tra il 10 e il 15% dei voti, il partito si è trovato in una posizione chiave per la formazione delle coalizioni. Nel Land della Turingia, in particolare, il successo dell’AfD, che ha ottenuto il 33% dei voti, ha costretto la CDU e la SPD a cercare l’alleanza con il BSW per formare un governo di “cordone sanitario” che escludesse l’AfD dal potere. Sahra Wagenknecht si è opposta fermamente a questa opzione, ritenendo che il BSW dovesse mantenere un carattere di opposizione e non presentarsi come un “difensore del sistema”. Da parte sua, però, la leader locale del BSW, Katja Wolf, ha difeso tale coalizione. Per mesi, il braccio di ferro tra il BSW federale e la sezione della Turingia è stato molto teso e Wagenknecht ha accusato Katja Wolf di essere responsabile del fallimento del BSW alle elezioni federali e ha tentato un colpo di mano. È stato convocato un congresso regionale per destituire Katja Wolf. Ma quest’ultima ha ottenuto la fiducia del BSW della Turingia, confermando la rottura strategica con la fondatrice. Un partito diviso anche nel parlamento regionale del Brandeburgo dove il gruppo parlamentare BSW, che fa parte della coalizione di governo, si oppone non solo al primo ministro SPD Dietmar Woidke, ma anche al proprio ministro delle finanze Robert Crumbach in una disputa sui trattati statali per la riforma delle reti tv pubbliche ARD, ZDF e Deutschlandradio. Nel programma politico che ha seguito l’annuncio del suo ritiro, Wagenknecht si è mostrata aggressiva nei confronti dei dissidenti del Brandeburgo. Ha anche indicato che intendeva escludere il BSW da qualsiasi coalizione volta a impedire all’AfD di accedere al potere: «Il cordone sanitario ha fallito», ha ribadito colei che aveva salutato con favore l’incontro tra il capo del gruppo parlamentare del BSW in Turingia, Frank Augsten, e il leader dell’AfD in Turingia Björn Höcke, noto per le sue simpatie per il regime nazista. Björn Höcke continua a lanciare appelli per un’alleanza tra l’AfD e il BSW. Non siamo ancora a quel punto ma, secondo il quotidiano berlinese Taz, all’interno del gruppo parlamentare BSW del Brandeburgo, i dissidenti ritengono che «almeno sei dei quattordici membri del gruppo preferirebbero allearsi con l’AfD piuttosto che con l’SPD». La questione tornerà a tormentare il partito in occasione delle prossime elezioni che si terranno nel settembre 2026 in due Länder orientali, Sassonia-Anhalt e Meclemburgo-Pomerania Anteriore, dove un’eventuale alleanza AfD-BSW potrebbe avvicinarsi alla maggioranza. Dalla sua nuova commissione, Sahra Wagenknecht potrebbe quindi orientare il partito a favore o contro tale opzione. In Assia, la scorsa settimana il leader regionale Oliver Jeschonnek ha dato le dimissioni perché si è reso conto che nella scissione della sinistra BSW c’è un numero sproporzionato di ex membri della sinistra che sostengono posizioni decisamente di sinistra in materia di politica economica. In ogni caso, ha dichiarato il consulente aziendale, lui non è disponibile per una “sinistra 2.0”. L’uscita della fondatrice dalla direzione impone anche un cambio di nome, senza modificare l’acronimo ormai ben identificato di BSW. Per cambiare il nome è necessaria una maggioranza dei due terzi ma anche il nuovo nome è fonte di stress. Quello presentato una settimana fa non è passato senza contestazioni: invece di Bündnis Sahra Wagenknecht, l’acronimo BSW dovrebbe in futuro stare per “Bündnis Soziale Gerechtigkeit und Wirtschaftliche Vernunft” (Alleanza per la giustizia sociale e la ragionevolezza economica). Così aveva deciso la leadership del partito, ma senza tenere conto delle ribelli associazioni regionali. Quanto meno i presidenti regionali della BSW della Renania-Palatinato ritengono che la proposta di denominazione sia inadeguata. Essi propongono invece di rinominare il partito “Bürger schaffen Wandel – Vernunft und Gerechtigkeit” (I cittadini creano cambiamento – Ragionevolezza e giustizia). A giustificazione di questo nome altrettanto poco accattivante, affermano: “Riteniamo che questo nome sia in grado di segnalare un cambiamento molto più significativo rispetto alla proposta precedente”. A due anni dal suo exploit solo una questione è lampante: che il rossobrunismo non ha alcuna capacità di fermare l’avanzata dell’estrema destra ma ne è culturalmente subalterno e succube. The post Sahra lascia la guida dell’alleanza Wagenknecht first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Sahra lascia la guida dell’alleanza Wagenknecht sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
“Antifa”, i terroristi immaginari di Trump
LA DESTRA MAGA MENTE SULLA VIOLENZA DI SINISTRA PER GIUSTIFICARE LE VIOLENZE DELL’ICE CHE INVADE LE CITTÀ DEGLI STATI UNITI (REBECCA SOLNIT) Questo breve saggio di Rebecca Solnit è uscito sul numero di dicembre 2025 di The Nation Le proteste No Kings del 18 ottobre sono state enormi, sorprendentemente non violente e molto diffuse. Ci sono stati più di 2.700 raduni in tutta la nazione e oltre, non solo nelle grandi città e nelle regioni blu, ma anche nelle piccole città e nelle regioni rosse. Le persone che hanno marciato portavano bandiere e cartelli che proclamavano il loro patriottismo e il loro amore per il Paese, riprendendosi sia il simbolo che l’identità dalla destra. E facendo eco alle proteste sovversivamente festive contro l’ICE a Portland, nell’Oregon, c’erano costumi gonfiabili ovunque, così come rane, che erano state adottate come simbolo dall’estrema destra ma che ora sono icone dell’attivismo progressista anti-Trump. Tutte le persone di mezza età e anziane dai modi gentili, i bambini, i veterani, i portabandiera e gli unicorni e le aquile gonfiabili che marciavano pacificamente dovrebbero smentire le affermazioni di Donald Trump e Mike Johnson secondo cui No Kings era una pietosa dimostrazione di estremismo da parte di una minoranza emarginata. Ma questo non impedirà loro di continuare a gridare contro gli antifa, che l’amministrazione Trump ha ufficialmente designato come organizzazione terroristica interna. Il segretario alla Sicurezza interna Kristi Noem ha persino affermato di aver arrestato a Portland “la fidanzata di uno dei fondatori degli antifa”. Gli antifa non sono mai stati un’organizzazione vera e propria, ma solo una contrazione del termine antifascista (il che ovviamente solleva la domanda: se sei anti-antifa, non sei forse pro-fascista, o semplicemente fascista?). Ma la destra sostiene che la sinistra sia piena di violenza e terrorismo da ancora prima che iniziasse a fantasticare sull’antifa. Un autoritario non è nulla senza un nemico che giustifichi la sua brutalità. Un leader di questo tipo ricorre spesso a nemici immaginari o grossolanamente esagerati, oppure dipinge una minoranza già emarginata come una minaccia malefica. Trump e i suoi sostenitori descrivono in questo modo gli immigrati, la sinistra e chiunque si opponga all’ICE. Gli autoritari esagerano sistematicamente il pericolo che correremo se il nemico non verrà schiacciato, e tale schiacciamento richiede abitualmente e convenientemente la sospensione delle leggi, la violazione dei diritti, la presa del potere o tutte queste cose insieme. In questo momento, viene utilizzato per rivendicare poteri straordinari e giustificare la trasformazione dell’ICE in un esercito violento e irresponsabile che invade le città americane. Alcuni opinionisti e studiosi che dovrebbero saperne di più stanno aderendo all’idea che ci sia un’ondata di violenza di sinistra. Un recente rapporto del Centro per gli studi strategici e internazionali (CSIS), dichiaratamente bipartisan, sul “terrorismo di sinistra” inizia così: “Negli ultimi anni, gli Stati Uniti hanno assistito a un aumento del numero di attacchi e complotti terroristici di sinistra, anche se tale violenza è aumentata da livelli molto bassi e rimane molto inferiore ai livelli storici di violenza perpetrata dagli aggressori di destra e jihadisti. Finora, il 2025 segna la prima volta in oltre 30 anni che gli attacchi terroristici di sinistra superano quelli dell’estrema destra violenta”. Bisogna scorrere molto in basso nel rapporto per scoprire che il presunto aumento del numero di attacchi terroristici di sinistra ammonta a cinque incidenti nel 2025, alcuni dei quali di dubbia appartenenza alla sinistra. È divertente notare che la vice portavoce della Casa Bianca Abigail Jackson ha twittato un grafico tratto da un articolo sul rapporto del CSIS che mostra chiaramente che nel corso degli anni il terrorismo di destra è stato molto più diffuso. Ciononostante, The Atlantic ha ritenuto opportuno lasciare che gli autori dello studio scrivessero un articolo spin-off, intitolato “Il terrorismo di sinistra è in aumento”, che alimenta l’idea che questo fenomeno sia motivo di grande preoccupazione. Ma lo studio lascia senza risposta alcune domande fondamentali: che cos’è la sinistra? Cosa si intende per violenza? Le affiliazioni politiche nel loro complesso sono responsabili delle azioni dei singoli individui? E perché l’enorme aumento della violenza di destra nell’ultimo decennio è diventato così normale? Lo studio offre una definizione incredibilmente ampia del terrorismo di sinistra, motivato dal “sostegno ai diritti LGBTQ+, dal sostegno alle cause ambientali… o dalla retorica ‘antifascista’”. Il sostegno a queste cause potrebbe includere gran parte della corrente principale, alcuni conservatori, alcuni gruppi di Girl Scout e la maggior parte delle persone queer. Nelle marce No Kings, si è parlato molto dei venerati antifascisti di un tempo, nello stile “mio nonno ha combattuto il fascismo a Dunkerque”. La caratterizzazione eccessivamente ampia della sinistra porta all’inclusione di autori che non sembrano affatto di sinistra. Un episodio ampiamente discusso nello studio è l’assassinio di Charlie Kirk, presumibilmente ad opera di Tyler Robinson. Gli autori riconoscono che “i dettagli sul presunto assassino di Kirk stanno ancora emergendo”, ma sostengono che è ‘probabile’ che l’omicidio sarà considerato un “attacco terroristico di sinistra”. Ma Robinson, 22 anni, è stato cresciuto da una famiglia repubblicana e mormone che gli ha insegnato il tiro con la pistola; si suppone che abbia usato una pistola appartenente a suo nonno. A quanto pare, Robinson è considerato di sinistra semplicemente perché detestava Kirk e, secondo quanto riferito, aveva un partner transessuale. Lo studio discute anche l’incendio doloso di Cody Balmer, il veterano dell’esercito che lo scorso aprile ha fatto irruzione nella residenza del governatore della Pennsylvania e le ha dato fuoco mentre il governatore Josh Shapiro e la sua famiglia dormivano. Sebbene Balmer abbia dichiarato di essere arrabbiato per Gaza, anche l’antisemitismo potrebbe aver avuto un ruolo nella sua decisione di cercare di bruciare viva una famiglia ebrea statunitense per i crimini di Israele. Tuttavia, sembra improbabile che l’ideologia politica sia stata la forza motrice dietro questo attacco. Balmer soffriva anche di disturbo bipolare e schizofrenia, secondo sua madre, che aveva cercato aiuto per lui poco prima dell’attacco, e aveva precedenti di violenza domestica. Luigi Mangione, accusato dell’omicidio di un dirigente sanitario alla fine del 2024, è descritto nell’articolo come di sinistra. Tuttavia, un amico di Mangione ha detto a un giornalista che Mangione era “Di sinistra su alcune questioni e di destra su altre” – ad esempio, “era favorevole alle pari opportunità, ma contrario al movimento woke: per esempio contrario al DEI (Diversity, Equity, and Inclusion) e alla politica identitaria”. È azzardato descrivere queste persone come sinceramente impegnate a favore degli ideali e dei movimenti di sinistra. Il rapporto del CSIS dichiara: “I radicali sostengono che la politica pacifica è destinata inevitabilmente al fallimento e che solo la violenza può fare la differenza”. Chi sono questi radicali? Non vengono identificati. In 40 anni di osservazione e collaborazione con organizzazioni di azione diretta, ho riscontrato entusiasmo teorico per la violenza solo da parte di persone marginali e di qualche giovane testa calda. Come ammette indirettamente lo studio del CSIS, la violenza di sinistra è stata estremamente rara e fuori sincrono con la più ampia comunità progressista per decenni, motivo per cui i suoi autori hanno dovuto sfruttare al massimo cinque incidenti incerti all’inizio di quest’anno. Ciò che troppo spesso viene descritto come violenza di sinistra durante le proteste è la distruzione di proprietà, che può essere pericolosa e intimidatoria e di solito è osteggiata dagli organizzatori delle proteste, ma dovrebbe essere considerata distinta dal danneggiamento della vita umana. Ad esempio, durante le proteste del 1999 contro l’Organizzazione mondiale del commercio a Seattle, un piccolo gruppo tra i 50.000 manifestanti ha distrutto in modo spettacolare molte vetrine dei negozi. Ma ci sono state poche o nessuna segnalazione di attivisti che hanno causato danni alle persone. La polizia, d’altra parte, ha usato gas lacrimogeni, spray al peperoncino, proiettili di gomma e di legno, granate flash-bang e veicoli blindati contro i manifestanti, causando numerosi feriti. Questo evento è stato descritto da molti media mainstream come un caso di violenza attivista scioccante. Più recentemente, i conservatori hanno denunciato come violente le proteste del Black Lives Matter del 2020. È vero che all’inizio di quella lunga e calda estate pandemica di George Floyd ci sono state alcune rivolte con atti di vandalismo e furti nei negozi, ma le rivolte non sono proteste, e i manifestanti di queste monumentali manifestazioni che si sono protratte per mesi in tutta la nazione sono stati in stragrande maggioranza non violenti nei confronti delle persone e non coinvolti nella distruzione di proprietà. È stato sorprendente che, subito dopo l’omicidio di Charlie Kirk, fondatore e leader di Turning Point USA, la più grande organizzazione giovanile di destra del Paese, i democratici e la sinistra siano stati accusati di colpevolezza solo per averlo detestato o per non essere d’accordo con le sue opinioni. (A sei stranieri che non hanno mostrato sufficiente rispetto per la morte di Kirk è stato revocato il visto dall’amministrazione Trump, e questo atto ufficiale fa seguito a tutte le persecuzioni non ufficiali nei confronti di chiunque avesse qualcosa di negativo da dire su Kirk, dimostrando la perfetta sintonia tra l’amministrazione e le folle e gli influencer di destra). I gruppi progressisti sanno di rischiare di essere accusati di terrorismo, e questo è in parte il motivo per cui la loro pubblica adesione alla non violenza è strategica oltre che un sincero riflesso dei loro valori. Indivisible e gli altri organizzatori di No Kings hanno chiarito che la non violenza e la de-escalation di qualsiasi conflitto avviato dall’esterno erano parti fondamentali dell’agenda e dei corsi di formazione. Naturalmente, alcuni nuovi arrivati nei movimenti progressisti e altri impazienti per il ritmo del cambiamento vedono la violenza come efficace perché sembra diretta e di grande impatto, anche se i dati dimostrano che in questo Paese, in questa epoca, spesso si ritorce contro e raramente riesce a generare un cambiamento significativo o duraturo. Questo è un rischio particolare in questa epoca. Si ritiene che l’ICE, per conto dell’amministrazione Trump, stia cercando di provocare il tipo di risposta violenta che giustificherebbe un’escalation dell’invasione delle città e la violazione dei diritti. Lo abbiamo visto in precedenti momenti di protesta di massa, tra cui le proteste del Black Lives Matter, quando alcuni episodi di violenza di rilievo si sono rivelati operazioni sotto falsa bandiera da parte di gruppi di destra, tra cui l’omicidio di una guardia e il ferimento di un’altra in un edificio federale di Oakland da parte del sergente dell’aeronautica militare Steven Carrillo, associato al gruppo di estrema destra Boogaloo Bois, e un altro incidente dei Boogaloo Boi in cui un membro ha sparato colpi di arma da fuoco in una stazione di polizia a Minneapolis. Altre violenze di destra durante le proteste BLM nel 2020 hanno incluso incidenti di auto lanciate contro la folla e il duplice omicidio a Kenosha, nel Wisconsin, da parte di Kyle Rittenhouse, che ha successivamente ricevuto un massiccio sostegno da donatori di destra e politici repubblicani (tra cui Trump). Ma come le proteste contro il WTO a Seattle 20 anni prima, anche le proteste del BLM del 2020 sono regolarmente descritti come violenti. Nessuna richiesta di non violenza assoluta viene avanzata nei confronti dei gruppi di destra. Lo stesso Kirk non è stato quasi mai ritenuto responsabile per gli attacchi di Turning Point USA contro centinaia di educatori, che hanno portato ad anni di campagne di molestie, comprese minacce di morte. Una di queste campagne, che ha preso di mira il professore di storia della Rutgers Mark Bray, è diventata così minacciosa che lo scorso ottobre il professore è fuggito in Europa con la sua famiglia. A settembre, il Chicago Sun-Times ha riportato che “da quando sono finiti nella lista, alcuni professori hanno ricevuto e-mail, messaggi online e lettere minacciose che contenevano minacce di stupro o di morte e, in alcuni casi, hanno visto intensificarsi tali attività dopo la morte di Kirk”. Come persona che scrive principalmente di violenza nel contesto della violenza contro le donne, trovo che l’aspetto più trascurato della violenza di qualsiasi tipo sia il senso di diritto che la accompagna, l’idea che l’autore abbia il diritto di fare del male e persino di togliere la vita. Tale arroganza è in contrasto con molte idee di sinistra sui diritti umani, l’uguaglianza e la giustizia. Molti di noi di sinistra si oppongono alla pena di morte non solo perché è applicata in modo iniquo, ma anche perché è un omicidio. Si può sostenere che la violenza stessa sia una posizione politica che si adatta meglio alle giustificazioni della disuguaglianza, tra cui il dominio maschile e il machismo, il militarismo e l’autoritarismo. Le file della sinistra comprendono molti gruppi i cui membri hanno una forte opposizione morale alla violenza, tra cui i buddisti, i Quaccheri, e altri le cui religioni predicano la non violenza; attivisti per il controllo delle armi; attivisti contro la guerra; e attivisti contro la pena di morte. Anand Giridharadas ha scritto all’indomani dell’omicidio di Kirk: La democrazia è, in inizio e in fine, la convinzione che possiamo vivere insieme nonostante le differenze e scegliere insieme il futuro. È un’idea meravigliosamente temeraria, perché è già abbastanza difficile per una famiglia decidere cosa mangiare a cena. Ma funziona; anzi, funziona meglio di tutti gli altri sistemi. Si basa sull’idea che il modo per cambiare il mondo che ci circonda è cercare di cambiare la mentalità degli altri. Se ci credi con tutto il cuore, non credi nella violenza come strumento politico legittimo nella vita civile. “L’improvviso declino del terrorismo di destra è sia più sorprendente che più difficile da spiegare”, afferma il rapporto del CSIS, ma io penso che sia facile: l’amministrazione Trump sta facendo il lavoro dei potenziali terroristi di destra al posto loro, terrorizzando e attaccando i loro nemici. Perché dovrebbero rischiare la vita e la libertà per aggredire donne, persone trans, minoranze religiose, immigrati e persone non bianche quando è il governo a farlo al posto loro? Per decenni, il movimento anti-aborto ha alimentato una violenza letale che ha portato a omicidi, soprattutto di medici e altri dipendenti di strutture che forniscono assistenza riproduttiva, nonché a molestie nei confronti delle donne che richiedevano tali servizi. A giugno, un sostenitore di estrema destra anti-aborto ha assassinato l’ex presidente della Camera del Minnesota Melissa Hortman e suo marito e ha sparato al senatore dello Stato John Hoffman e sua moglie, che sono sopravvissuti. Un elenco di politici democratici trovato nella sua auto suggerisce che intendesse ucciderne molti altri, ma è stato arrestato e ora è in attesa di processo. (Questo è l’unico episodio attribuito alla destra nel rapporto del CSIS sul terrorismo di destra e di sinistra nella prima metà del 2025). Ma ora l’obiettivo di quegli estremisti è stato ratificato ai livelli più alti: i giudici nominati da Trump alla Corte Suprema hanno ottenuto l’annullamento della sentenza Roe v. Wade, e i governi statali repubblicani stanno ora criminalizzando gli aborti spontanei e spaventando gli operatori sanitari al punto da impedire loro di fornire cure salvavita alle donne incinte. L’amministrazione Trump sta commettendo migliaia e migliaia di atti di terrorismo contro gli immigrati sul territorio nazionale, privando i giovani trans dei loro diritti e promuovendo la supremazia bianca, oltre a far saltare in aria civili su navi nel sud dei Caraibi, in violazione del diritto internazionale. La minaccia proviene dall’interno della Casa Bianca, ma il rapporto del CSIS non include il terrorismo di Stato. D’altra parte, una critica al rapporto da parte degli studiosi del sito di ricerca e informazione Just Security sostiene che esso trascuri gran parte del terrorismo di estrema destra per giungere alla conclusione che nella prima metà di quest’anno la sinistra abbia superato la destra. L’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021 ha visto la convergenza di gruppi violenti che hanno colpito, pugnalato, imbrattato, preso a pugni e picchiato in altro modo i membri della polizia del Campidoglio degli Stati Uniti, vandalizzato parti dell’edificio del Campidoglio e cercato di attaccare e possibilmente assassinare i rappresentanti eletti. Dovrebbe essere sempre scioccante che gli estremisti che erano stati condannati per crimini siano stati graziati da Trump al suo ritorno in carica e che l’uomo che ha istigato la rivolta sia ora presidente. La violenza di destra è ai massimi livelli e ora proviene direttamente dalla Casa Bianca (e un estremista del 6 gennaio graziato è stato nuovamente arrestato per minacce di morte contro il leader della minoranza alla Camera Hakeem Jeffries). Ci sono numerose segnalazioni di minacce di morte contro politici repubblicani, in particolare quelli del Congresso, che li costringono ad allinearsi all’agenda di Trump, e alcuni hanno parlato apertamente della paura in cui vivono. Non c’è alcun firewall tra l’amministrazione Trump e le forze del terrore di destra. E questo mette in luce un aspetto essenziale della violenza: è un modo per costringere le persone a fare qualcosa che non vogliono fare o per impedire loro di fare qualcosa che vogliono fare. È una tattica utilizzata da coloro che non sono riusciti a convincere le persone con mezzi pacifici e che hanno rinunciato ai processi democratici di persuasione e di costruzione di coalizioni di cui ha scritto Giridharadas. La violenza di sinistra ha fallito in gran parte negli anni ’60 e ’70, con il Symbionese Liberation Army e il Weather Underground che hanno dimostrato che i piccoli gruppi che ricorrevano alla violenza letale erano casi isolati e un peso per i movimenti che sostenevano di rappresentare (l’SLA, va detto, era in sostanza una setta fuorviata). Un aspetto trascurato della politica radicale degli anni ’70, magnificamente documentato nel libro di L.A. Kauffman Direct Action, è stata l’ascesa della non violenza come strategia e ideologia, e il modo in cui la formazione è stata abbinata a processi volti a democratizzare il processo decisionale all’interno dei gruppi di attivisti. L’attivismo non violento può davvero cambiare il mondo e spesso ha cambiato questo Paese, dal movimento abolizionista al movimento per il clima. Riconoscere il potere della protesta significa riconoscere che i manifestanti sono quindi legittimamente pericolosi per lo status quo. Ricondurre i manifestanti alla pericolosità in senso criminale è stata a lungo una strategia utilizzata per minarne la legittimità e giustificare la repressione delle proteste. Purtroppo, i registi di lungometraggi amano le trame incentrate sulla violenza di sinistra. Un modo per spiegarlo è che i gruppi di guerriglieri armati segreti, le sparatorie, le esplosioni, gli inseguimenti in auto, i fuggitivi braccati e tutto il resto funzionano bene nei film, il cui unico compito è quello di catturare la nostra attenzione per un paio d’ore. Cambiare davvero il mondo richiede solitamente anni, persino decenni, e richiede un lavoro collettivo per costruire coalizioni, cambiare l’opinione pubblica o approvare leggi, cosa che avviene attraverso incontri, cause legali, proteste ed eventi pubblici, altri incontri e raccolte fondi. Ho visto vittorie in materia di clima, diritti degli indigeni, diritti delle donne e diritti dei queer a seguito dei cambiamenti sottostanti nell’opinione pubblica: nessuna di queste è stata ottenuta con la forza delle armi, ma tutte grazie al lavoro spesso noioso, a volte esaltante, dell’attivismo pacifico. Desidero ardentemente vedere più film che mostrano come il mondo cambia realmente e meno sciocchezze sulla violenza della sinistra. Rebecca Solnit è una scrittrice, storica e attivista autrice di oltre 25 libri, tra cui Orwell's Roses, Hope in the Dark e Men Explain Things to Me. Scrive regolarmente su meditationsinanemergency.com     The post “Antifa”, i terroristi immaginari di Trump first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo “Antifa”, i terroristi immaginari di Trump sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Germania, i giovani contro un servizio militare sempre meno “volontario”
IL GOVERNO DI BERLINO VUOLE AUMENTARE GLI EFFETTIVI DELL’ESERCITO. LA CONTESTAZIONE GIOVANILE FATICA A TROVARE SPONDE POLITICHE (THOMAS SCHNEE) Questo articolo è stato tradotto da Mediapart, media indipendente francese Per costruire “il più grande esercito d’Europa”, in grado di dissuadere la Russia da qualsiasi grave violazione, un obiettivo fissato dal cancelliere conservatore Friedrich Merz subito dopo il suo insediamento, non bastano cannoni, carri armati o aerei. Servono anche sufficienti soldati e soldatesse formati per usarli. Soprattutto se si punta a essere “pronti al combattimento nel 2029”, come ha auspicato di recente il ministro socialdemocratico della difesa, Boris Pistorius. Eppure, allineandosi ai livelli di forze richiesti dalla Nato, la Germania è ben lontana dal conto. Nei suoi piani di rafforzamento, l’Alleanza atlantica conta a lungo termine su un esercito tedesco con circa 260.000 militari e 200.000 riservisti. La Bundeswehr, però, da oltre vent’anni si ferma a 180.000 soldati e 50.000 riservisti. Questo livello si spiega con diversi fattori. Con l’evoluzione del contesto strategico dopo la fine della guerra fredda, l’idea di un vasto esercito di difesa territoriale è stata abbandonata in favore di un esercito più ridotto, concepito per interventi limitati nell’ambito di missioni multinazionali. Negli anni 2010, una politica di rigore ha ridotto il budget della difesa di diversi miliardi all’anno. La carenza di manodopera qualificata ha inoltre portato il settore civile a moltiplicare le offerte di lavoro più allettanti. Dopo diverse settimane di trattative, i partiti di governo, l’Unione conservatrice (CDU e CSU) e il Partito socialdemocratico (SPD), hanno trovato mercoledì 12 novembre un accordo per un ritorno progressivo al servizio militare volontario, quattordici anni dopo l’interruzione della coscrizione obbligatoria generale. Le tappe previste includono un censimento generale di una classe d’età e l’introduzione di un’opzione di sorteggio obbligatorio qualora il numero di volontari non corrisponda ai bisogni. Questo sistema dovrebbe permettere di attirare molte più reclute rispetto alla formula attuale, che già prevede un servizio volontario ma senza censimento preliminare. Nel 2024, il dispositivo ha riguardato undicimila uomini. VISITE MEDICHE E TEST SPORTIVI Dall’inizio del prossimo anno, tutti i diciottenni (nati nel 2008), circa 680.000 ragazze e ragazzi, riceveranno dunque un questionario in cui verrà chiesto loro se desiderano servire. In conformità con la Costituzione, le donne non saranno obbligate a rispondere. Poi, dal 1° luglio 2027, tutti gli uomini della stessa classe di nascita saranno convocati per una visita medica e un test sportivo. La visita medica sarà effettuata sotto controllo dell’esercito solo progressivamente: nel 2011 la Bundeswehr ha infatti smantellato la sua rete di centri di reclutamento. Il ministero della difesa ha quindi stanziato 3,5 miliardi di euro per costruire ventiquattro nuovi centri, capaci di accogliere 300.000 giovani in un “ambiente luminoso e accogliente”, precisa il ministero. Al termine del percorso, l’esercito farà un’offerta a chi riterrà più idoneo, ma l’offerta potrà essere rifiutata. In un Paese che si è votato alla pace e alla non-intervento per oltre cinquant’anni (1945-1999), e dove le minacce dirette al territorio restano ipotetiche, il governo federale non ha potuto reintrodurre la coscrizione di una volta e tenta piuttosto la via della seduzione. Oltre all’ambiente “luminoso”, la paga dei coscritti passerà da 1.800 a 2.600 euro lordi per un servizio minimo di sei mesi, svolto vicino al domicilio. Oltre i dodici mesi, sarà concessa un’assistenza per la patente di guida e lo stipendio sarà nuovamente aumentato. I militari sperano che 20.000 giovani optino per un servizio volontario già nel 2026. Basterà? In futuro, il ministro della difesa dovrà presentare al Bundestag, ogni sei mesi, i dati sulla crescita degli effettivi. Il ministero prevede un aumento che porti a 38.000 coscritti dal 2030. Ma se i numeri non seguiranno, il Bundestag potrebbe attivare un servizio obbligatorio “di necessità”, che comporta un sorteggio obbligatorio tra le persone idonee. I leader dei partiti di governo hanno elogiato un compromesso che mantiene il carattere volontario del servizio, come richiesto dallo SPD, pur integrando un’opzione obbligatoria “in caso di necessità”, come desiderato dalla CDU. “Più saremo in grado di difenderci e dissuadere il nemico, più diminuiranno i rischi di un conflitto”, ha spiegato Boris Pistorius, intento a rassicurare. Ma tra i giovani, primi interessati dalla misura, il compromesso è molto meno apprezzato. RISCHIO DI ROTTURA CON LA GIOVENTÙ Sul canale regionale SWR (Baden-Württemberg), lo studente del liceo Emile Hammacher, cofondatore del gruppo “Studenti contro il servizio militare”, riassume lo stato d’animo di molti: “Se mi arruolassi nell’esercito tedesco, dovrei anche combattere, il che significa che probabilmente dovrei uccidere e mettere a rischio la mia vita… Ma considerando quanto poco il governo federale attuale o quello precedente hanno fatto per la giovane generazione, non capisco perché dovrei rischiare la vita per questo governo.” Sulla rete ZDF, l’esperto Simon Schnetzer critica la mancata partecipazione al progetto di una generazione a cui si chiede, peraltro, di mettere da parte le proprie paure sulla crisi climatica o di prepararsi a sopportare il peso della crisi del finanziamento delle pensioni. “Durante la pandemia — ricorda l’autore di un rapporto annuale sulle aspirazioni dei giovani — è stato il governo a decidere gli orari delle lezioni e degli incontri con gli amici.” “Un sentimento del tipo ‘ci avete privato di una parte preziosa della nostra giovinezza e non abbiamo potuto partecipare alle decisioni’ esiste da tempo. Il malcontento si vede nel voto dei giovani”, prosegue l’esperto. Nella fascia 18-24 anni, i partiti arrivati primi alle ultime elezioni sono AfD tra gli uomini e Die Linke tra le donne, partiti piuttosto ostili alla guerra in Ucraina e/o al servizio militare. “Il servizio militare obbligatorio è ormai percepito come una decisione che si inserisce in questo sentimento: ‘Voi prendete le decisioni, ma siamo noi a doverne sopportare le conseguenze’.” Invitato a testimoniare in audizione pubblica davanti alla commissione difesa del Bundestag, lunedì 10 novembre, Quentin Gärtner, segretario generale della Conferenza federale degli studenti, deplora la mancanza di ascolto e un compromesso “a cassetti”. Ritiene che questo progetto di legge dovrebbe essere accompagnato da un’iniziativa da 100 miliardi di euro per l’istruzione e la salute mentale dei giovani. “Nulla indica, nemmeno lontanamente, che lo Stato sia pronto ad assumersi le proprie responsabilità nei nostri confronti”, ha lamentato. TIMIDE ALTERNATIVE Sul piano politico, le critiche sono relativamente timide. Il partito di estrema destra AfD è diviso sulla questione e per una volta tace. Il conservatore Michael Kretschmer, ministro-presidente della Sassonia e vicepresidente della CDU, ritiene che si sia persa l’occasione di aprire un ampio dibattito sociale: “Avrei trovato più opportuno che la popolazione votasse sui diversi modelli e che il Bundestag si esprimesse in seguito.” La direzione dei Verdi critica l’iniquità del sorteggio, la mancanza di consultazione dei giovani e il rischio di scivolare verso un servizio obbligatorio. E fa sapere, senza grandi clamori, di sostenere un’iniziativa interna proveniente dalla federazione di Amburgo a favore di un “anno sociale obbligatorio”, che includerebbe “ambiti di intervento militari, civili e sociali”. Solo Die Linke, il partito più a sinistra del Bundestag, è chiaramente ostile al ritorno del servizio militare obbligatorio in tutte le sue forme. Il capogruppo, Sören Pellmann, ha dichiarato che il compromesso penalizza pesantemente e ingiustamente la giovane generazione. “Die Linke lavora già alla creazione di servizi di supporto e consulenza per i giovani, in particolare per chi vuole rifiutare il servizio militare”, ha annunciato. Il ritorno dell’obiezione di coscienza sembra dunque programmato. Certo, grazie a un budget di comunicazione in forte crescita e a una presenza massiccia sui social network, la Bundeswehr ha ricevuto 51.200 candidature per il servizio militare lo scorso anno, il 19% in più rispetto all’anno precedente. Di queste, 20.300 si sono tradotte in reclutamenti nel 2024, l’8% in più rispetto al 2023. Tuttavia, il 25% dei firmatari si è già dimesso. L’esercito, invecchiato, si prepara inoltre all’impatto dell’uscita dalle forze delle numerose classi di età del baby boom. “È già prevedibile che le misure previste per rendere il servizio militare più attrattivo non basteranno a reclutare abbastanza volontari”, valuta lo storico militare Sönke Neitzel, professore all’università di Potsdam. A suo parere, l’arrivo del servizio militare obbligatorio è dunque imminente, per mancanza di risultati sufficienti con il volontariato. The post Germania, i giovani contro un servizio militare sempre meno “volontario” first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Germania, i giovani contro un servizio militare sempre meno “volontario” sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Che cosa sappiamo di Yifat Tomer-Yerushalmi
PER DUE ANNI LA PROCURATRICE CAPO MILITARE NON HA ALZATO UN DITO CONTRO I MILITARI DI IDF COLPEVOLI DI CRIMINI DI GUERRA. POI L’HA FATTO ED È STATA ARRESTATA Partiamo dalle ultime notizie: l’ex procuratrice capo militare israeliana Yifat Tomer-Yerushalmi è stata ricoverata in ospedale domenica scorsa, 9 Novembre, dopo essersi sentita male, secondo quanto riportato dai media israeliani. La donna, cosciente, è stata trasportata al Centro Medico Ichilov di Tel Aviv. I medici sono stati chiamati a casa sua nelle prime ore del mattino. Secondo Ynet, le autorità stanno indagando per stabilire se si sia trattato di un tentativo di suicidio, dopo che i servizi di  emergenza hanno ricevuto una segnalazione di overdose. Al momento la sua vita non è in pericolo. Tomer-Yerushalmi era stata rilasciata e posta agli arresti domiciliari venerdì, cinque giorni dopo la sua scomparsa su una  spiaggia e una settimana dopo essersi dimessa dal suo incarico e  aver ammesso di fatto trapelare ai media il video degli abusi di  soldati dell’Idf su un detenuto palestinese  nella struttura di  Sde Teiman l’anno scorso. Tomer-Yerushalmi era stata accusata di frode e abuso di fiducia, abuso d’ufficio, ostruzione alla giustizia e divulgazione illecita di materiale. «Come spesso accade nell’Israele di oggi, l’indignazione dell’opinione pubblica non è stata diretta verso l’atrocità in sé, ma piuttosto verso la fuga di notizie che l’ha resa nota», scrive Ori Goldberg, su +972 Magazine, media indipendente israeliano. Il caso ha preso una piega oscura domenica 2 Novembre, quando Tomer-Yerushalmi è scomparsa per diverse ore. La polizia ha trovato la sua auto abbandonata vicino a una panchina a nord di Tel Aviv, facendo temere un tentativo di suicidio. È ricomparsa più tardi quella sera senza il suo telefono ed è stata presa in custodia dalla polizia. Il 7 novembre, il telefono di Tomer-Yerushalmi è stato trovato su una spiaggia di Tel Aviv e lei è stata rilasciata dal carcere con 10 giorni di arresti domiciliari. Scrive ancora Goldberg che la vicenda «ha dominato i titoli dei giornali israeliani negli ultimi giorni. Insieme alle notizie sensazionalistiche sulla conquista di New York City da parte di un “antisemita”, ha praticamente cancellato ogni discussione sugli eventi a Gaza, dove, nonostante l’occupazione continua dell’esercito e i bombardamenti periodici, gli israeliani non sembrano più interessati a seguire la situazione ora che la “guerra” è finita. Ora che Hamas ha ripreso il potere nel 42% di Gaza non controllato dall’esercito israeliano e che i pochi ostaggi sopravvissuti sono tornati a casa, la società israeliana può ritirarsi nella sua bolla di egocentrismo. Per la maggior parte degli israeliani, dopotutto, il genocidio impallidisce di fronte all’unica cosa che conta davvero: i litigi interni sul “cuore e l’anima” dello Stato ebraico». Negli ultimi due anni, il maggiore generale Tomer-Yerushalmi, responsabile di tutte le indagini interne e dell’applicazione della legge nell’esercito israeliano, si è quasi completamente astenuta dall’indagare sulle innumerevoli accuse ben documentate contro i suoi soldati. Il crimine delle guardie di Sde Teiman, tuttavia, come ripreso nel video trapelato, era apparentemente così palese e grottesco che le autorità non hanno avuto altra scelta che emettere atti di accusa. Quando la polizia militare israeliana è arrivata a Sde Teiman per arrestare i sospetti, però, è stata accolta da rivoltosi e soldati di destra, tra cui diversi membri della Knesset che si nascondevano dietro la loro immunità. Nel tentativo di bloccare gli arresti, hanno insistito che i responsabili non avevano fatto nulla di male e che le loro azioni erano semplicemente parte dello sforzo bellico israeliano. Le guardie carcerarie israeliane che sono state riprese in un video trapelato mentre maltrattavano un detenuto palestinese nel centro di detenzione di Sde Teiman, parlano alla stampa insieme al loro avvocato dopo le dimissioni del procuratore generale militare, il maggiore generale Yifat Tomer-Yerushalmi, fuori dalla Corte Suprema di Gerusalemme, il 2 novembre 2025. (Yonatan Sindel/Flash90) Tomer-Yerushalmi ha diffuso il video dello stupro poco dopo, e questo si è rapidamente diffuso online. Le proteste degli israeliani di destra a sostegno degli autori degli abusi sono aumentate a loro volta. Netanyahu ha definito la fuga di notizie “forse il più grave attacco alle pubbliche relazioni che lo Stato di Israele abbia mai subito”. Il suo ministro dell’Energia, Eli Cohen, è intervenuto alla televisione israeliana durante il fine settimana per dire che Tomer-Yerushalm “avrebbe dovuto essere il giubbotto antiproiettile, la protettrice dei soldati. Invece, li ha pugnalati alle spalle… In questo caso, stiamo parlando di tradimento”. Il ministro della Difesa Israel Katz ha accusato Tomer-Yerushalm di aver partecipato alla “calunnia del sangue” contro i presunti stupratori. Tomer-Yerushalm ha divulgato il video dopo che i pubblici ministeri hanno dovuto affrontare proteste diffuse e indignazione politica in Israele per aver intrapreso la “rarissima” iniziativa di indagare sul presunto abuso e stupro di un detenuto palestinese. Nella sua lettera di dimissioni, Tomer-Yerushalm ha affermato che la divulgazione era “un tentativo di smascherare la falsa propaganda contro le agenzie legali dell’esercito”. L’ospedale in cui è stata portata la vittima avrebbe avviato le indagini seguendo le procedure previste per le vittime di violenza sessuale. «Ma mentre molti in tutto il mondo erano inorriditi da quelle che potevano essere descritte solo come proteste a favore del “diritto allo stupro”, la discussione in Israele è rapidamente svanita a favore delle notizie quotidiane sui “successi” sul fronte di Gaza. Il caso è stato in gran parte dimenticato per mesi, fino a quando la scorsa settimana è stata annunciata l’indagine sulla fuga di notizie del video. In generale, gli ebrei israeliani hanno reagito in due modi a questa insolita vicenda. La prima risposta proviene dalla destra ed è familiare agli americani che si sono abituati al discorso di personaggi come Stephen Miller e Steve Bannon, nonché dello stesso presidente Donald Trump. Secondo questa narrativa, il procuratore generale militare era un ingranaggio del Deep State israeliano: una cricca di sinistra onnipotente determinata a imporre i “valori woke” e a proteggere i propri privilegi. Nella versione israeliana della cospirazione, uno degli obiettivi del Deep State è quello di distruggere il carattere ebraico dello Stato, in parte dipingendo Israele come immorale e senza legge agli occhi del mondo. Secondo questa logica, il procuratore generale militare avrebbe cercato di raggiungere questo obiettivo ordinando ai suoi “servitori” di manipolare il video dell’abuso – un’accusa palesemente falsa – e poi di divulgarlo. La seconda reazione comune allo scandalo proviene dagli israeliani liberal, coloro che hanno protestato contro il primo ministro Benjamin Netanyahu e la sua riforma giudiziaria molto prima del genocidio di Gaza. Non sorprende che essi muovano accuse quasi esattamente opposte a quelle della destra: Netanyahu e i suoi scagnozzi sono quelli che hanno fatto il lavaggio del cervello agli israeliani e hanno preso il controllo del Paese. Netanyahu è responsabile della scandalosa risposta di Israele all’attacco di Hamas del 7 ottobre e sta usando tutte le sue risorse per rovesciare la democrazia israeliana al fine di garantire la sua sopravvivenza politica», si legge ancora su +972 Magazine. «Non solo [Tomer-Yerushalmi] è stata portata sull’orlo del suicidio, ma anche tutto ciò che lei rappresenta, ovvero la legge e la giustizia in Israele, era a rischio», ha scritto questa settimana l’autore israeliano Dror Burstein su Haaretz. «La sua esperienza ci urla contro, perché in un luogo dove il male e le menzogne diventano la norma, non c’è più posto per la giustizia e la verità, non c’è più posto per la legge e gli avvocati». +972 Magazine segnala che in entrambe le narrazioni «manca un elemento fondamentale: il genocidio stesso». Anche per i critici liberal di Netanyahu. Per loro, il procuratore generale militare è l’anima ferita della legge e della giustizia. Il fatto che per due anni il suo ufficio abbia fornito un sostegno legale praticamente illimitato a un genocidio ben documentato, apparentemente non ha alcuna importanza. Conclude il media indipendente: «ciò che lo scandalo che circonda il procuratore generale militare mette in evidenza è che la moralità stessa ha perso ogni significato in una società genocida. Le guardie carcerarie hanno abusato del prigioniero palestinese. Lo hanno fatto perché avevano ricevuto il potere assoluto sulla sua vita e sulla sua morte, che erano felici di usare. Tomer-Yerushalmi è stata informata dell’esistenza del video che ritraeva l’atrocità. Forse era indignata, ma era più preoccupata per la sicurezza della “sua gente” nel Corpo del Procuratore Generale Militare che per il crimine stesso. Sapendo che la destra avrebbe dato la caccia a lei e ai suoi colleghi, ha rapidamente fatto trapelare il video a un corrispondente di un popolare notiziario, rendendone nota l’esistenza prima che potesse essere screditato. Tomer-Yerushalmi ha avuto innumerevoli opportunità negli ultimi due anni per indagare e far luce su altri crimini di guerra commessi dai soldati israeliani, anche solo per proteggere l’argomentazione israeliana della complementarità davanti alla Corte penale internazionale (cioè, stiamo indagando su noi stessi, quindi non è necessario che lo facciate voi). Non l’ha fatto». Sul fronte occidentale stampa e tv «non sono riusciti a descrivere accuratamente gli eventi al centro di uno scandalo militare israeliano», scrive Harriet Williamson, sul britannico Novara Media, ricordando che l’aggressione è stata così brutale che l’uomo è stato ricoverato in ospedale con rottura dell’intestino, gravi lesioni all’ano e ai polmoni e costole rotte. Ha dovuto subire diversi interventi chirurgici per le ferite riportate. Secondo Mondoweiss, i soldati «gli hanno inserito un oggetto appuntito nell’ano e gli hanno lacerato il retto». Tuttavia, i principali media occidentali – tra cui Sky News, BBC, Channel 4, The Guardian, The Financial Times, Bloomberg, The Times, The Telegraph e The Independent – «non hanno utilizzato la parola “stupro” nei titoli dei loro articoli su questa vicenda. L’incidente è stato definito principalmente come “abuso”». La vittima era detenuta senza giustificato motivo nel famigerato campo di tortura israeliano di Sde Teiman, una base militare nel deserto del Negev dove i palestinesi sono sottoposti a trattamenti crudeli e disumani, come essere rinchiusi in gabbie, bendati, ammanettati a letti d’ospedale, attaccati dai cani e costretti a indossare pannolini. Non è mai stato accusato né processato per alcun reato. Attivisti israeliani di destra protestano contro la detenzione di soldati di riserva israeliani sospettati di aver stuprato un detenuto palestinese, presso il centro di detenzione di Sde Teiman, nel sud di Israele, il 29 luglio 2024. (Dudu Greenspan/Flash90) Ricorda Williamson che nell’estate del 2024, i manifestanti riuniti fuori da Sde Teiman chiedevano l’archiviazione delle indagini in quelle che sui social media sono state soprannominate manifestazioni per il “diritto allo stupro”. Tra loro c’erano il membro della Knesset Nissim Vaturi del partito Likud di Netanyahu, il membro della Knesset di estrema destra del Sionismo Religioso Zvi Sukkot e il ministro del Patrimonio Amichai Eliyahu del partito Jewish Power di Itamar Ben-Gvir. Alcuni manifestanti hanno fatto irruzione nella base militare. Cinque riservisti dell’IDF sono stati accusati di abuso aggravato e lesioni personali gravi nei confronti di un detenuto. Nessuno di loro è stato accusato di stupro. Il 2 novembre, le accuse sono state ridotte a “grave abuso” nei confronti del detenuto. I nomi dei soldati non sono stati divulgati e attualmente non sono in custodia né soggetti ad alcuna restrizione legale. Il direttore della Palestine Solidarity Campaign, Ben Jamal, ha dichiarato a Novara Media: “Le prove documentate della tortura e dell’uccisione di detenuti palestinesi sono un altro aspetto della campagna genocida di Israele. Il vile crimine di stupro a Sde Teiman non è un caso isolato, ma fa parte di un modello di disumanizzazione e abuso». Nessun soldato israeliano è stato accusato per l’uccisione di civili a Gaza. Almeno 68.000 palestinesi, tra cui 20.000 bambini, sono stati uccisi da Israele a Gaza dall’ottobre 2023.   The post Che cosa sappiamo di Yifat Tomer-Yerushalmi first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Che cosa sappiamo di Yifat Tomer-Yerushalmi sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Perché Israele vuole dividere Gaza in due
UN NUOVO REGIME DI FRONTIERE FORTIFICATE, DI GOVERNO PER PROCURA E DISPERAZIONE ORCHESTRATA, CON L’ESPULSIONE CHE RIMANE L’OBIETTIVO FINALE [MUHAMMAD SHEHADA] articolo tradotto da  972mag, media indipendente israeliano Da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, l’amministrazione Trump ha salutato l’inizio di un nuovo capitolo a Gaza. “Dopo tanti anni di guerra incessante e pericolo senza fine, oggi i cieli sono calmi, le armi tacciono, le sirene sono silenziose e il sole sorge su una Terra Santa che è finalmente in pace”, ha dichiarato il presidente durante il suo discorso alla Knesset all’inizio di questo mese. Ma i fatti sul campo rivelano una realtà drammaticamente più cupa e mettono in luce il nuovo piano di Israele per la sottomissione permanente dell’enclave. Con la cosiddetta “Linea Gialla”, Israele ha diviso la Striscia in due: Gaza occidentale, che comprende il 42% dell’enclave, dove Hamas mantiene il controllo e dove sono ammassati oltre 2 milioni di persone; e Gaza orientale, che comprende il 58% del territorio, che è stata completamente spopolata dai civili ed è controllata dall’esercito israeliano e da quattro bande di criminali paramilitari. Secondo il piano di Trump, questa linea doveva essere un confine temporaneo, la prima fase del graduale ritiro di Israele dalla Striscia, mentre una forza internazionale di stabilizzazione avrebbe assunto il controllo sul territorio. Invece, le forze israeliane si stanno trincerando, rafforzando la divisione con terrapieni, fortificazioni e barriere che suggeriscono una mossa verso la permanenza. La parte occidentale di Gaza sta diventando simile al sud del Libano, che l’esercito israeliano ha continuato a bombardare periodicamente dopo aver firmato un cessate il fuoco con Hezbollah lo scorso novembre. Dall’inizio della tregua a Gaza, gli attacchi aerei israeliani, i colpi dei droni e le raffiche di mitragliatrice continuano a colpire quotidianamente la popolazione, solitamente con il pretesto infondato di “sventare un attacco imminente”, di vendicare presunti assalti ai soldati israeliani o di colpire individui che si avvicinano alla Linea Gialla. Finora questi attacchi hanno ucciso oltre 200 palestinesi, tra cui decine di bambini. Israele continua a limitare gli aiuti alla Striscia di Gaza occidentale, con una media di circa 95 camion che entrano al giorno durante i primi 20 giorni del cessate il fuoco, ben al di sotto dei 600 al giorno previsti dall’accordo tra Israele e Hamas. La maggior parte dei residenti ha perso la propria casa, ma Israele continua a impedire l’ingresso di tende, roulotte, unità abitative prefabbricate e altri beni di prima necessità, con l’avvicinarsi dell’inverno. Gaza Est, un tempo il granaio dell’enclave, è ora una landa desolata. Colleghi e amici che vivono nelle vicinanze descrivono il rumore costante delle esplosioni e delle demolizioni: i soldati israeliani e gli appaltatori privati dei coloni continuano a radere al suolo sistematicamente tutti gli edifici rimasti, ad eccezione dei piccoli campi destinati alle bande che vivono sotto la protezione dell’esercito israeliano e che vengono rifornite di armi, denaro, veicoli e altri beni di lusso. Israele non ha alcuna intenzione di lasciare Gaza orientale nel prossimo futuro. L’esercito ha cementificato la linea gialla con blocchi di cemento, inghiottendo così ampie zone della Striscia occidentale di Gaza, e il ministro della Difesa Israel Katz si è apertamente vantato di aver autorizzato l’apertura del fuoco su chiunque si avvicini alla barriera, anche solo per cercare di raggiungere la propria casa. Alcuni rapporti suggeriscono inoltre che Israele stia pianificando di espandere ulteriormente la Linea Gialla nella Striscia occidentale di Gaza, ma l’amministrazione Trump sembra voler ritardare questa mossa per il momento. In una conferenza stampa della scorsa settimana, l’inviato di Trump Jared Kushner ha annunciato che la ricostruzione avverrà solo nelle aree attualmente sotto il pieno controllo dell’esercito israeliano, mentre il resto di Gaza rimarrà in macerie e cenere fino a quando Hamas non si disarmerà completamente e non porrà fine al suo dominio. Queste divisioni sempre più nette tra Gaza orientale e occidentale fanno presagire quella che il ministro israeliano degli Affari strategici Ron Dermer ha definito “la soluzione dei due Stati… all’interno della stessa Gaza”. Israele consentirebbe una ricostruzione simbolica nelle zone di Rafah governate dalle sue bande proxy, mentre il resto di Gaza orientale diventerebbe probabilmente una zona cuscinetto rasa al suolo e una discarica per Israele. In questo scenario, Gaza occidentale rimarrebbe in uno stato perpetuo di guerra, devastazione e privazioni. Non si tratta di una ricostruzione postbellica, ma piuttosto di una disperazione orchestrata, imposta attraverso muri, la costante minaccia della violenza militare e reti di collaboratori. Gaza viene ricostruita non a beneficio della sua popolazione, ma per consolidare il controllo permanente di Israele e promuovere il suo obiettivo di lunga data: costringere i palestinesi ad abbandonare la Striscia. HAMAS RIAFFERMA IL CONTROLLO Da parte sua, Hamas ha cercato di riaffermare il proprio controllo nella Striscia occidentale di Gaza per invertire il collasso sociale causato da Israele in due anni di genocidio. Non appena è entrato in vigore il cessate il fuoco, Hamas ha avviato una campagna di sicurezza per perseguire i criminali e disarmare i clan e le milizie sostenute da Israele. La campagna ha raggiunto il culmine con l’esecuzione pubblica di otto presunti collaboratori e con violenti scontri con il clan Daghmoush: una dimostrazione di forza calcolata, intesa a intimidire i gruppi rivali. La strategia è apparsa efficace: diverse famiglie hanno presto consegnato le armi a Hamas senza opporre resistenza. Con questa campagna, Hamas mira anche a comunicare, sia a livello nazionale che internazionale, che non è stata sconfitta nonostante le perdite sostanziali subite durante la guerra e che non può essere messa da parte nei dibattiti sul futuro di Gaza. Allo stesso tempo, il gruppo sta cercando di ripristinare una parvenza di ordine civile e di vendicarsi dei membri delle bande e dei criminali che hanno approfittato del caos della guerra per saccheggiare e depredare i civili. Ciò fa anche parte di uno sforzo per recuperare legittimità dopo aver perso gran parte del sostegno popolare a causa della vasta distruzione di Gaza. Nel frattempo, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha cercato disperatamente di persuadere Trump a consentire a Israele di riprendere il genocidio, sfruttando incidenti isolati a Rafah per giustificare una nuova azione militare. In un caso, due soldati israeliani sono stati uccisi dopo aver investito ordigni inesplosi; in un altro, i soldati sono stati attaccati da da quella che sembrava essere una piccola cellula di Hamas, ignara del cessate il fuoco e senza alcun legame con la catena di comando del gruppo. Netanyahu ha anche strumentalizzato la repressione di Hamas, descrivendola come una serie di omicidi contro civili, e ha accusato il gruppo di rifiutarsi di restituire i corpi degli ostaggi o di disarmarsi, il tutto nel tentativo di persuadere Washington a dare il via libera a una nuova offensiva a Gaza con il pretesto di esercitare pressioni su Hamas. Il presidente degli Stati Uniti, ancora euforico per la rara ondata di copertura mediatica positiva che ha circondato il cessate il fuoco a Gaza, ha finora tenuto a freno Israele, anche se non è chiaro quanto questo durerà. Il presidente del Joint Chiefs of Staff è il prossimo a occuparsi di Netanyahu, dopo le visite di Trump, del vicepresidente J.D. Vance e del segretario di Stato Marco Rubio. Per ora, il presidente è determinato a preservare il cessate il fuoco, anche se solo nominalmente, per evitare la percezione di un fallimento o di essere stato preso in giro da Netanyahu. Ma il primo ministro israeliano scommette che, con il tempo, Trump sarà distratto dalla prossima grande novità, perderà interesse per Gaza e gli darà ancora una volta carta bianca. “NUOVA RAFAH” Ma se non è in grado di tornare a un assalto su vasta scala, il piano di riserva di Israele è stato quello di persuadere la Casa Bianca a limitare la ricostruzione alla Gaza orientale controllata da Israele, a partire da Rafah, convenientemente lungo il confine con l’Egitto, dove sono già fuggiti oltre 150.000 abitanti di Gaza (la ricostruzione nel nord, in zone come Beit Lahiya, è notevolmente assente da questi piani). Secondo quanto riportato dai media israeliani, la città ricostruita – che includerebbe “scuole, cliniche, edifici pubblici e infrastrutture civili” sarebbero circondati da una vasta zona cuscinetto, che costituirebbe di fatto una “‘kill zone’”. Alla fine, Israele potrebbe consentire o addirittura incoraggiare i palestinesi a trasferirsi nelle aree ricostruite a Rafah, come “zona sicura” a Gaza dove i civili possono fuggire da Hamas – un’idea che le voci filo-israeliane nei media americani stanno cercando di vendere. Poiché Hamas non può essere completamente eliminato da Gaza, come ha recentemente ammesso il giornalista politico israeliano e alleato di Netanyahu Amit Segal, l’unico “futuro” per i palestinesi nell’enclave sarà nella zona demilitarizzata orientale sotto il controllo israeliano. “Una nuova Rafah… questa sarebbe la Gaza moderata”, ha detto Segal a Ezra Klein del New York Times. “E l’altra Gaza sarebbe quella che giace in rovina nella città di Gaza e nei campi profughi nella parte centrale di Gaza. Attualmente, gli unici abitanti palestinesi a Rafah sono i membri della milizia di Yasser Abu Shabab, un gruppo legato all’ISIS armato, finanziato e protetto da Israele. Sembra altamente improbabile che molti palestinesi accetterebbero di vivere sotto il dominio di un signore della guerra, trafficante di droga condannato e collaborazionista che ha sistematicamente saccheggiato le scorte di cibo e imposto la fame a Gaza per conto di Israele. Inoltre, chiunque attraversi il confine con la Striscia di Gaza orientale controllata da Israele rischia di essere considerato un collaboratore, come è successo al noto attivista anti-Hamas Moumen Al-Natour, che è fuggito dalla recente repressione di Hamas nel territorio di Abu Shabab ed è stato successivamente ripudiato dalla sua famiglia. Anche se alcuni abitanti di Gaza disperati accettassero di trasferirsi a Rafah, Israele non li lascerebbe semplicemente attraversare in massa da Gaza occidentale a Gaza orientale, invocando il pretesto di impedire l’infiltrazione di Hamas tra la folla. Il piano delle “bolle di sicurezza” – presentato per la prima volta dall’allora ministro della Difesa Yoav Gallant nel giugno 2024 – che prevedeva la creazione di 24 campi chiusi in cui la popolazione di Gaza sarebbe stata gradualmente trasferita, fornisce un modello: l’esercito israeliano probabilmente ispezionerebbe e controllerebbe ogni singola persona autorizzata ad attraversare il confine con Gaza orientale, dando inevitabilmente vita a un lungo e invadente processo burocratico basato sull’intelligenza artificiale che renderebbe i richiedenti vulnerabili al ricatto da parte delle agenzie di sicurezza israeliane, che potrebbero esigere la collaborazione in cambio dell’ingresso. Israele ha chiarito abbondantemente che chiunque attraversasse quella “sterile area” a Rafah non sarebbe stato autorizzato a tornare dall’altra parte di Gaza, trasformando Rafah in un “campo di concentramento”, come ha affermato l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert. Molti palestinesi eviterebbero quindi di entrare a Gaza Est per paura che, se Israele riprendesse il genocidio con la stessa intensità di prima, potrebbero essere spinti in Egitto. Infatti, anche mentre elabora piani per consentire la ricostruzione a Rafah, l’esercito israeliano continua a demolire e far saltare in aria le case e gli edifici rimasti in quella stessa zona. In definitiva, la “Nuova Rafah” di Israele fungerebbe da villaggio Potemkin, una facciata esterna per far credere al mondo che la situazione sia migliore di quanto non sia in realtà, offrendo solo un riparo di base e una sicurezza leggermente maggiore ai palestinesi che vi si rifugiano. E senza una ricostruzione completa o alcun orizzonte politico, questo piano sembra assomigliare a quanto promesso a maggio dal ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich: «I cittadini di Gaza saranno concentrati nel sud. Saranno completamente disperati, consapevoli che non c’è speranza e nulla da cercare a Gaza, e cercheranno di trasferirsi per iniziare una nuova vita in altri luoghi». IL DISARMO COME TRAPPOLA Indipendentemente dal fatto che la ricostruzione proceda nella Striscia di Gaza orientale, Israele la indicherà sempre più come una zona “libera dal terrorismo” e “deradicalizzata” e continuerà a bombardare l’altra parte con il pretesto di disarmare e deporre Hamas. Il gruppo islamista ha già accettato di consegnare Gaza a un comitato tecnico amministrativo e di consentire il dispiegamento nell’enclave di una nuova forza di sicurezza palestinese addestrata da Egitto e Giordania, insieme a una missione di protezione internazionale. Netanyahu, tuttavia, ha categoricamente rifiutato l’ingresso di 5.500 poliziotti palestinesi a Gaza, ha rifiutato di consentire l’ingresso nella Striscia alle forze di stabilizzazione turche o qatariote e ha ostacolato la creazione del comitato amministrativo. Allo stesso modo, il disarmo è un’area di ambiguità che fornisce a Israele un pretesto quasi infinito per impedire la ricostruzione nella parte occidentale di Gaza e mantenere il controllo militare. Hamas ha segnalato che accetterebbe di smantellare le sue armi offensive (come i razzi) e ha già accettato di rinunciare al resto delle sue armi leggere difensive (comprese armi da fuoco e missili anticarro) come risultato di un accordo di pace, piuttosto che come prerequisito. Hamas è anche aperta a un processo simile a quello dell’Irlanda del Nord, in base al quale le sue armi difensive verrebbero chiuse in magazzini e si impegnerebbe a una completa cessazione reciproca delle ostilità per un decennio o due, o fino alla fine dell’occupazione illegale da parte di Israele. In tal caso, le armi leggere rimanenti fungerebbero da garanzia che Israele non rinnegherà le sue promesse di ritirarsi da Gaza e porre fine al genocidio. Sia il governo britannico che quello egiziano, insieme all’Arabia Saudita e ad altre potenze regionali, stanno attualmente spingendo per l’adozione del modello di smantellamento dell’Irlanda del Nord, segno che riconoscono la delicatezza e la complessità della questione del disarmo. L’insistenza di Israele sul disarmo immediato e totale è una trappola deliberatamente irrealizzabile che richiede la resa completa dei palestinesi. Anche se la leadership di Hamas a Doha fosse in qualche modo costretta ad accettare questa capitolazione, molti dei suoi membri e altri gruppi militanti a Gaza sarebbero destinati a disobbedire. Ciò sarebbe simile all’accordo di disarmo della Colombia, in cui molti militanti delle FARC hanno disertato e creato nuove milizie o si sono uniti a bande criminali. E finché l’esercito israeliano rimarrà all’interno di Gaza, senza alcuna prospettiva reale di porre fine all’assedio e al regime di apartheid di Israele, ci sarà sempre un incentivo per alcuni attori a prendere le armi. Israele potrà allora puntare il dito contro quei gruppi scissionisti o singoli militanti per giustificare la continuazione del bombardamento e dell’occupazione di Gaza. Israele ha impiegato oltre 740 giorni, quasi 100 miliardi di dollari e ha perso circa 470 soldati per ridurre Gaza in polvere. Come si è vantato Netanyahu a maggio, Israele ha “distrutto sempre più case [a Gaza, e di conseguenza i palestinesi] non hanno un posto dove tornare”, aggiungendo: “L’unico risultato ovvio sarà che i gazawi sceglieranno di emigrare fuori dalla Striscia”. Anche dopo aver fallito nel tentativo di ottenere un’espulsione di massa attraverso un attacco militare diretto, la leadership israeliana sta ora perseguendo lo stesso risultato attraverso l’attrito e la disperazione orchestrata, utilizzando le macerie, l’assedio e i bombardamenti periodici come strumenti di ridisegno demografico. La prospettiva di una pulizia etnica non è scomparsa con il cessate il fuoco, ma si è semplicemente evoluta in una nuova politica, mascherata e normalizzata attraverso la pianificazione burocratica. Muhammad Shehada è uno scrittore e analista politico di Gaza, ricercatore ospite presso il Consiglio europeo per le relazioni estere. The post Perché Israele vuole dividere Gaza in due first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Perché Israele vuole dividere Gaza in due sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.