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Quel depistaggio che risale alle “radici che non gelano” della destra italiana
BOLOGNA, 45 ANNI DI TRAME E DEPISTAGGI PER NASCONDERE LA VERITÀ [PAOLO BOLOGNESI] IL TESTO INTEGRALE DELLA COMUNICAZIONE LETTA, IL 2 AGOSTO DEL 2025, DAL PRESIDENTE PAOLO BOLOGNESI A NOME DELL’ASSOCIAZIONE TRA I FAMILIARI DELLE VITTIME DELLA STRAGE ALLA STAZIONE DI BOLOGNA DEL 2 AGOSTO 1980 A 45 anni da quel 2 agosto del 1980, dal governo di destra è stato inferto un ennesimo schiaffo alla memoria storica e alla verità giudiziaria. Ad aprire le danze il discorso della premier: nessun riferimento alla matrice neofascista nonostante quello che dicono le sentenze passate in giudicato. La leader di FdI ha adoperato il termine terrorismo nella più generica e inutile delle accezioni. E quella frase: “Ci uniamo alla richiesta di giustizia”. Come se nulla fosse stato mai analizzato e  provato, nonostante i depistaggi e fino ad essere fissato nelle sentenze della Corte di Cassazione. Particolarmente volgari l’intervento e le dichiarazioni successive della ministra Bernini, la stessa che sta smantellando l’Università, intervenuta soprattutto per contestare Paolo Bolognesi, presidente dei familiari delle vittime. Molto insidiose le prese di posizioni di altri ras del partito post-fascista di maggioranza relativa a favore di una commissione di inchiesta parlamentare che dovrebbe servire a manipolare la storia. Per questo la pubblicazione del discorso tenuto da Bolognesi assume la guisa di un documento storico (redazione). Anche 45 anni fa era un sabato, il primo sabato di agosto. In una giornata assolata, che avrebbe dovuto scorrere spensierata per l’inizio delle vacanze estive, la nostra città e l’intero Paese furono scaraventati nell’orrore. 85 morti e oltre 200 feriti; tra loro molti bambini. Una strage, la peggiore che abbia mai colpito l’Italia. Il male assoluto. Un male però non isolato: altri attentati terroristici di stampo fascista avevano già insanguinato il nostro Paese, da Piazza Fontana a Gioia Tauro; da Peteano alla Questura di Milano, da Piazza della Loggia al treno Italicus. Tutti, allora, rimasti impuniti. Hannah Arendt scriveva:“Il male è banale quando si perde la capacità di interrogarlo”. Il rischio che anche questo male assoluto diventasse banale, che anche questa ennesima strage rimanesse non solo senza colpevoli, ma soprattutto senza risposte, era più che concreto nell’Italia delle stragi impunite. Per questo, nel 1981 noi parenti delle vittime e feriti della strage del 2 agosto 1980, ci siamo uniti in associazione. Distrutti dal dolore, ma non rassegnati, abbiamo così voluto porci l’obiettivo di ottenere con tutte le iniziative possibili la verità e la giustizia, per far sì che i nostri cari non fossero morti invano. Nel manifesto di quest’anno abbiamo scritto: 45 ANNI DI TRAME E DEPISTAGGI PER NASCONDERE LA VERITA’ LA DETERMINAZIONE DELL’ASSOCIAZIONE DEI FAMILIARI LO HA IMPEDITO Ci sono voluti anni, decenni, e il cammino che ha fatto emergere in modo sempre più nitido il quadro delle responsabilità non è stato semplice. È stato difficile, lungo e faticoso il percorso, ma l’abbiamo fatto insieme ed è anche grazie a questo che, con le ultime sentenze, si sta finalmente delineando la verità completa. Oggi sappiamo chi è stato e ne abbiamo anche le prove. La strage del 2 agosto 1980, già ideata nel febbraio 1979, fu concepita e finanziata dai vertici della famigerata loggia massonica P2, protetta dai vertici dei Servizi Segreti italiani iscritti alla stessa loggia P2 , eseguita da terroristi fascisti. Contiguità che sembrano ancora oggi salde e inconfessabili, se pensiamo che fino a ieri le inchieste sulla strage del 2 agosto sono state ostacolate in ogni modo con depistaggi e intossicazioni che, seppur smascherate e smontate in sede processuale, hanno portato a ritardi di anni e anni nell’accertamento dei fatti. E se ci sono voluti così tanti anni perché si arrivasse a svelare il quadro completo di chi ha voluto ed eseguito la strage del 2 agosto 80, è perché tutti, a parole, affermano di volere la verità, ma nei fatti sono moltissimi coloro che, pur avendone la possibilità, hanno fatto e fanno qualunque cosa per nasconderla, ritardarla e dissimularla. L’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga definì gli stragisti Mambro e Fioravanti giovani spontaneisti armati, così da evitare il collegamento coi vertici dei Servizi Segreti italiani. Poi arrivò la pista palestinese: un depistaggio! Che si trascinò però per almeno trent’anni e, ancora oggi, nonostante le sentenze, gode di alcuni seguaci ignoranti o depistatori a loro volta. Quando emisero la prima sentenza d’appello 18 luglio 1990 che assolse tutti per l’esecuzione della strage, Cossiga la definì una sentenza coraggiosa. La sentenza però fu poi annullata dalla Corte di Cassazione a sezioni unite perché illogica e arrivò Parisi, il Prefetto già Capo della Polizia e vice del servizio segreto civile che voleva tenacemente depistare unendo la strage di Ustica a quella di Bologna. Lo stesso Parisi che da Capo della Polizia, consegnò nel 1987 all’allora Ministro dell’Interno, Amintore Fanfani, il cosiddetto documento “Artigli” in cui veniva riportato il ricatto che Licio Gelli (tramite il suo avvocato) aveva recapitato allo Stato per garantirsi l’impunità per la strage di Bologna. Nel 1995 alla vigilia della sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite, uscirono una serie di note critiche, formulate rispetto alle varie sentenze che condannavano i terroristi Mambro e Fioravanti, confezionate da un folto gruppo trasversale riunito sotto lo slogan E SE FOSSERO INNOCENTI? Le note critiche erano state sottoposte e discusse nelle aule dei tribunali e tutte interamente confutate, ma vennero sorrette dal clamore mediatico imponente di giornali, televisioni e radio che crearono grande confusione e sbandamento. Nel 2002 il Governo Berlusconi, anche lui iscritto alla famigerata loggia massonica P2, istituì la commissione bicamerale d’inchiesta denominata “Commissione Mitrokhin”, un vero e proprio depistaggio istituzionale voluto dal Governo di destra dell’epoca: tra i suoi compiti c’era quello di avallare in modo definitivo la pista palestinese. La relazione finale non fu votata nemmeno dalla maggioranza. Di recente sono state rese note alcune chat tra due attuali esponenti della maggioranza parlamentare, l’Onorevole Frassinetti e il Ministro Lollobrigida, in cui riferendosi al processo relativo al 2 agosto, parlano di “sentenza sbagliata” e il ministro Lollobrigida invita a tenere un basso profilo sulla strage alla stazione, cosicché una volta al Governo avrebbero potuto provvedere a diffondere la “verità con la V maiuscola”. In effetti, bisogna riconoscere che certi personaggi hanno un solo modo per uscire bene da questa triste vicenda: non parlarne, fare finta di niente, sperare che ci si dimentichi. Perché, se se ne parla invece, bisogna dire che per anni gli esecutori materiali della strage alla stazione, camerati amici di gioventù, sono stati furbescamente dipinti come ingenui spontaneisti armati, laddove invece erano stati ben preparati e addestrati militarmente e sono state inequivocabilmente provate le loro coperture in seno ai Servizi Segreti. Perché, se se ne parla, bisogna dire che sono incredibili i trattamenti di favore riservati agli stessi esecutori materiali dell’eccidio del 2 agosto che, pur essendo pluriergastolani mai pentiti, sono da anni in libertà, in barba al principio di certezza della pena sbandierato nelle campagne elettorali. Sappiamo bene che gli amici degli stragisti non si collocano solo a destra, perché il partito dei nemici della verità è trasversale, così come era trasversale la famigerata loggia massonica P2. È però un fatto che tutti gli stragisti italiani passarono dal Movimento Sociale Italiano, partito costituito nel 1946 da esponenti della REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (allora in gran parte latitanti perché ricercati dalla nuova giustizia della Repubblica democratica), CHE FINO ALL’ULTIMO AVEVANO COMBATTUTO CON I TEDESCHI CONTRO I PARTIGIANI, PARTITO CHE SI COLLOCAVA APERTAMENTE CONTRO LA NASCENTE COSTITUZIONE NATA NEL 1947 ISPIRATA DALLA LOTTA DI LIBERAZIONE. Elenco qui solo alcuni dei casi più gravi di uomini del MSI direttamente coinvolti o condannati per fatti eversivi e di strage: Paolo Bellini ha affermato in aula a Bologna, senza mai essere smentito, che dal 1972 era “infiltrato in Avanguardia Nazionale per conto di Almirante”. Insieme a lui le carte del processo hanno individuato Mario Tedeschi, senatore del MSI, come uno dei depistatori/mandanti dell’eccidio alla stazione. Carlo Maria Maggi, esponente di Ordine Nuovo, rientrò nel 1969 nel MSI seguendo il suo capo Pino Rauti. Fu membro del Comitato centrale del partito e candidato al parlamento nelle elezioni del 1972. È stato condannato in via definitiva per la strage di Brescia del 28 maggio 1974. Anche Paolo Signorelli seguì Rauti e tornò nel MSI nel Comitato Centrale. Vi rimase fino al 1976. È stato condannato per Associazione sovversiva e banda armata. Suo nipote, omonimo del nonno, è stato il capo ufficio-stampa del ministro Francesco Lollobrigida, incarico da cui si è dimesso dopo il caso delle telefonate con Fabrizio Piscitelli (ultras e narcotrafficante ucciso il 7 agosto 2019) insieme al quale si produceva in insulti antisemiti e in esaltazioni di Fioravanti e Ciavardini. Carlo Cicuttini era il segretario della sezione del MSI di Manzano in Friuli al momento della partecipazione alla strage di Peteano che uccise tre carabinieri. Cicuttini li aveva attirati sul luogo dell’attentato con una telefonata alla locale caserma. Il MSI, lo mostrano le carte dell’inchiesta del giudice Casson, raccolse 32.000 dollari per farlo operare alle corde vocali nel timore che venisse identificato dalla voce registrata dai militari. Dal MSI provenivano figure chiave della stagione eversiva come Stefano Delle Chiaie (fondatore di Avanguardia Nazionale), oppure come Franco Freda il riconosciuto capo del gruppo ordinovista veneto responsabile della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Giuseppe Dimitri fu dirigente di Avanguardia Nazionale e Terza Posizione (TP). Responsabile di un deposito di armi a Roma condiviso con i NAR di Fioravanti e Mambro. Fu condannato per banda armata. Divenne, negli anni 2000, consulente del Ministro per l’agricoltura Gianni Alemanno. E infine: cosa dire del fatto che nel gennaio 2007, l’allora senatore Ignazio La Russa (oggi presidente del Senato) presenziò ai funerali del terrorista Nico Azzi che il 7 aprile 1973 tentò una strage sul treno Torino-Roma e fornì le bombe a mano che cinque giorni dopo due missini usarono per uccidere il poliziotto Antonio Marino durante un corteo del MSI a Milano? Sono queste le «radici che non gelano». E con queste ci si deve fare i conti. E allora la verità con la “V” maiuscola di cui parla il Ministro Lollobrigida sembra assomigliare a una mistificazione più che alla realtà, a una menzogna più che alla verità. E alla Presidente del Consiglio, che ci ha accusato di volerla esporre a ritorsioni, nel ricordare il passato da cui proviene, come quello da cui provengono gli esecutori delle stragi, vogliamo dire che una cosa è il rispetto per le Istituzioni, un altra cosa è l’accettazione di riscritture interessate della storia, cosa che non siamo in alcun modo disposti a far passare. Perché, Presidente Meloni, condannare la strage di Bologna senza riconoscerne e condannarne la matrice fascista è come condannare il frutto di una pianta velenosa, continuando ad annaffiarne le radici. In questi lunghi e faticosi anni, la nostra battaglia non è mai stata né mai sarà una battaglia ideologica: quando più di 40 anni fa, noi parenti delle vittime e feriti della strage del 2 agosto ’80 ci siamo uniti in associazione, lo abbiamo fatto col puro intento di esercitare pienamente il nostro diritto di sapere come sono realmente andate le cose. Dopo di noi, altri cittadini vittime di stragi e attentati precedenti hanno deciso di seguire il nostro esempio, costituendo altre associazioni per ottenere giustizia e verità e insieme a loro abbiamo potuto far sentire più forte la nostra voce in comuni battaglie di civiltà che avrebbero dovuto vedere in prima fila, sempre, le Istituzioni e i Governi. Nel “PIANO DI RINASCITA DEMOCRATICA”, progetto golpista della famigerata loggia massonica P2 figurava “LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE DEI MAGISTRATI”, preludio ad un controllo dell’esecutivo sulla magistratura; operazione che il Governo attuale vuole pervicacemente attuare spacciandola come riforma. Da ultimo, esprimiamo grave preoccupazione per l’articolo 31 del DDL “Sicurezza”, che assegna ai Servizi di Sicurezza una sorta di “licenza di delinquere” piuttosto preoccupante, data la storia del nostro Paese. In Pratica con l’articolo 31 si stabilisce che d’ora in poi nessun uomo dei Servizi potrà essere inquisito per depistaggi, esecuzioni e incitamento alle stragi ecc. Sembra un tributo pagato a coloro che avevano sì giurato fedeltà alla Costituzione, ma nei fatti ne hanno preso le distanze cercando di abbattere la democrazia. E alle stesse associazioni di familiari, insieme a numerosi cittadini ed esponenti della società civile, abbiamo chiesto giustamente di non lasciarci soli e sono stati al nostro fianco anche qualche mese fa, quando abbiamo qui organizzato un presidio democratico, in risposta alla squallida sfilata di camicie nere organizzata da Casapound, definendola composta da Patrioti. Quel presidio lo abbiamo organizzato dopo il periodo elettorale per non sovrapporci ulteriormente alla campagna elettorale per le regionali, perché la nostra è una battaglia di civiltà e di democrazia e non ha colore politico. Una battaglia lunga e faticosa, spesso portata avanti nel silenzio quasi assoluto dei mass media che, per convenienza, censurano le ultime risultanze processuali sull’eccidio del 2 agosto 80, sperando nell’oblio e nell’ignoranza diffusa. Lo scorso gennaio la Corte di Cassazione ha condannato in via definitiva Gilberto Cavallini quale esecutore della strage alla stazione. Il 1°luglio scorso la Corte di Cassazione ha condannato Paolo Bellini all’ergastolo in via definitiva, nell’ambito del processo mandanti per aver partecipato alla strage; Piergiorgio Segatel a 6 anni per depistaggio e Domenico Catracchia a 4 anni per false dichiarazioni ai giudici. Un cerchio che si chiude e dopo 45 anni possiamo dire che conosciamo i retroscena della strage!! In quella sentenza sono passate in giudicato altre vicende molto interessanti: 1 – La pista Palestinese è un palese depistaggio, 2 – È provato il collegamento organico dei Servizi Segreti italiani con i terroristi dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari) e coi gruppi Avanguardia Nazionale, Terza Posizione e Ordine Nuovo, collegati ai primi. 3 – È provato che nel covo dei NAR di via Monte Asolone a Torino, tra svariati documenti trovati, tra cui tesserini dei carabinieri firmati dal comandante della legione di Brescia, il Colonnello Giuseppe Montanaro anche lui iscritto alla famigerata loggia massonica P2, c’erano gli spezzoni rimanenti delle targhe dell’auto usati dagli esecutori dell’omicidio del Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Questi spezzoni ci consentono di mettere in stretto collegamento quell’omicidio con la formazione dei terroristi neofascisti i NAR. 4 – I NAR non erano degli spontaneisti armati come voleva far credere l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ma erano persone ben addestrate militarmente. 5 – È provato che il Sisde, Servizio Segreto Civile, tramite il Prefetto Parisi concedeva in suoi appartamenti i covi delle Brigate Rosse e dei Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari). 6- Anche alcuni vertici dell’Arma dei Carabinieri conoscevano prima della strage ciò che sarebbe successo il 2 agosto. Questo splendido risultato è merito anche del nostro collegio di difesa composto dagli avvocati Lisa Baravelli, Alessia Merluzzi, Alessandro Forti coordinati dall’avvocato Andrea Speranzoni che con grande dedizione e impegno hanno condotto in porto questa impresa processuale che possiamo definire storica. I processi svolti e le relative sentenze, ci consentono oggi di leggere insieme, come diceva il giudice Mario Amato, questi fatti e capire le trame criminali che hanno attraversato il nostro Paese per sovvertire l’ordinamento democratico. Questi documenti però sono di difficile accesso, comprese le sentenze che sono atti pubblici. Il Direttore della Direzione Generale Archivi, Antonio Tarasco, ha emanato una circolare che limita la consultabilità delle sentenze che, ripeto, sono atti pubblici. Le resistenze alla verità non mutano quindi! Anzi, per evitare ulteriori passi avanti, aumentano. Abbiamo nel frattempo dato vita ad un coordinamento tra le associazioni di vittime delle stragi storiche degli anni 70 -80 e quelle relative al periodo del 92- 93, perché vi sono molti punti di contatto tra vecchi elementi che hanno concorso ad eseguire le vecchie stragi e i Servizi Segreti. Figure come quella di Paolo Bellini risultano coinvolte anche nelle stragi del 92-93, svelando un filo nero che collega terroristi fascisti agli episodi più sanguinosi della storia del nostro Paese. Su questi ricorrenti intrecci avrebbe dovuto indagare la Commissione Antimafia approfondendo la commistione criminale fra terrorismo nero, mafia e Servizi Segreti. La Commissione Antimafia che invece sta limitando il proprio spettro di azione ad operazioni che riguardano Mafia e appalti. Questa impostazione porterà sicuramente ad un clamoroso nulla di fatto. E chi vuole la verità si vedrà sottratti altri 5 anni, tanti quanti una intera legislatura. Da questo palco, confermo la mia contrarietà alla nomina a presidente della commissione Antimafia dell’On. Colosimo; ho già espresso questo mio giudizio nell’intervista pubblicata, all’indomani della nomina, sul giornale La Repubblica il 25 maggio 2023 “Colosimo? Tanto valeva Messina Denaro a capo della Commissione”. Ovviamente, il titolo non è stato scelto dal sottoscritto e l’On. Colosimo non è Matteo Messina Denaro né mi riferisco alla qualità della persona che nulla c’entra con Matteo Messina Denaro, ma alla scelta politica non condivisa, tenuto conto della FOTO CHE LA RITRAE CON IL TERRORISTA condannato quale esecutore della strage di Bologna LUIGI CIAVARDINI, DIFFUSA E DISCUSSA AMPIAMENTE SU GIORNALI E TELEVISIONI: ciò ci induce a ritenere quella nomina politicamente inopportuna al massimo livello. Pochi mesi fa ci ha lasciati un grande amico: Gianni Flamini. Lo vogliamo ricordare perché è stato un grande giornalista dallo spirito libero che ha approfondito come pochi altri le vicende eversive di mezzo secolo di storia non soltanto italiana. Flamini è stato un ricercatore appassionato e instancabile. Più volte i risultati della sua straordinaria capacità di ricerca hanno offerto alla nostra Associazione un contributo fondamentale nella ricerca della verità e della giustizia. Contro il diffondersi interessato di superficialità, omissioni, indifferenza e più o meno grossolane falsità, la nostra associazione ha sempre dato primaria importanza al rapporto con le scuole e le giovani generazioni. Quei giovani che quest’anno, nella ricorrenza del 9 maggio, Giorno della Memoria delle Vittime e delle stragi di tale matrice, sono stati gli unici a parlare di terrorismo nero e neofascismo in quell’aula della Camera dei Deputati che aveva blindato la cerimonia scegliendo come moderatore addirittura Bruno Vespa, giornalista che – ricordiamolo – all’indomani della strage di Piazza Fontana e dell’arresto dell’anarchico Pietro Valpreda, non esitò a definirlo acriticamente colpevole. Pietro Valpreda era innocente e quella strage fu commessa dal gruppo di Ordine Nuovo veneto. Non è una banalità: i giovani sono il futuro di tutti noi e per loro e con loro possiamo costruire una società in cui nessuno sia più costretto a subire quello che, noi e il Paese, abbiamo subito. A questi ragazzi che ci guardano con occhi intelligenti e curiosi, spieghiamo la nostra storia. Diciamo loro che la ricerca di giustizia e verità nei casi migliori è un risultato, ma soprattutto è un processo, è un percorso, come il nostro, lungo e pieno di ostacoli con grandi sacrifici anche familiari. E a chi fra loro ci chiede come abbiamo fatto a rimanere saldi in tutti questi anni, rispondiamo che abbiamo fatto come gli alberi: abbiamo cambiato le foglie, ma conservato le nostre radici. Il primo presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime è stato Torquato Secci: un grande uomo, che qui aveva perso suo figlio, è stato per noi come un padre. Con lui abbiamo affrontato e superato tanti ostacoli, e molte delle vittorie ottenute dopo la sua scomparsa sono maturate grazie ai semi piantati con lui: gli accertamenti nelle aule giudiziarie, il reato di depistaggio, il coinvolgimento artistico con “Il Concorso internazionale di composizione “2 Agosto” che è uno dei maggiori concorsi di composizione d’Italia, nato nel 1994. Il prossimo anno, a parlare da questo palco sarà un nuovo presidente, eletto dall’assemblea odierna dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage del 2 agosto 1980, che nominerà Paolo Lambertini, attuale vicepresidente, carica che ricopre da nove anni, figlio di Mirella Fornasari, una dipendente della CIGAR, perita nella strage. Da parte mia continuerò il mio impegno e darò il mio contributo come presidente onorario dell’Associazione. Cambieranno le foglie, conserveremo le radici. Cambieranno le persone rimarranno i nostri principi di giustizia e verità. E come ogni albero robusto, avremo ancora bisogno di un terreno fertile e un sano nutrimento: il vostro sostegno e supporto, la vostra partecipazione che dà forza e significato alle nostre battaglie. Mi piace passare il testimone con alcune parole di Aldo Moro: “Quando si dice la verità non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi.”. Il coraggio non ci è mai mancato e non ci mancherà. La verità e la giustizia saranno sempre il nostro faro. Dal profondo del cuore GRAZIE a tutti Voi. The post Quel depistaggio che risale alle “radici che non gelano” della destra italiana first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Quel depistaggio che risale alle “radici che non gelano” della destra italiana sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Trump tra bluff e mazzate
DOPO LA GUERRA DEI DODICI GIORNI, LA TREGUA SALVAMONDO. L’ENNESIMO BLUFF DOPO LA SPACCONATA SPARIGLIA LE CARTE MA NON CAMBIA IL GIOCO Ebbene sì, abbiamo scherzato. Anche nel mondo nuovo la tempesta precede la calma, e così dopo le bombone di Big Don e le bombette d’Alì, è calma piatta tra i contendenti, con Bibi che se la ride sotto ai baffi.  Diciamolo subito. Se avessi avuto un dollaro da giocare sulla presidenza Trump come fattore di pace o di guerra, l’avrei puntato su di lui. Che, aldilà delle fanfaronate dell’uomo e della vocazione imperiale dell’America a stelle & strisce e alla frutta, il bispresidente pareva meno manovrabile e rincoglionito del suo predecessore, assai meno legato di Rimbam Biden al complesso militare. E invece. Il 22 giugno 2025 forse resterà nei libri di storia come il 24 febbraio di tre anni fa. Allora Putin decise di mettere un freno all’espansionismo statunitense e della Nato a Est, alzando la posta di un conflitto in atto in Ucraina da un decennio. Tre anni di guerra non sono bastati all’uno o all’altro dei contendenti che a divaricare le posizioni, spingendo l’ex repubblica sovietica, culla della Russia moderna, a una guerra fratricida e l’Europa a una sudditanza economica e militare sempre più cieca agli Usa. Tre anni dopo, e dopo la promessa di Trump di mettere fine al conflitto, questo non solo ristagna, ma sul tavolo da poker della geopolitica globale la posta raddoppia e in gioco non c’è solo il destino dell’Europa orientale o dell’Europa tout court, ma del mondo. Se a Est i servizi inglesi si danno da fare per assestare duri colpi all’orso russo – vedi l’operazione dei droni contro i bombardieri strategici russi che ha messo alla berlina Mosca una volta di più – come dall’inizio della guerra e da sempre, altrove Trump ha pensato di riprendersi la scena nel modo a lui più congeniale. La forza bruta e le chiacchiere a vanvera, il colpaccio mediatico dopo le botte da orbi. Tutto è iniziato con un discorso breve, intenso, degno d’un leader se non fosse solo un prestigiatore di bassa lega che gioca coi destini del mondo. Dietro – davanti? – a lui Bibi, debitamente citato e ringraziato nel discorso presidenziale che formalizza l’entrata in guerra degli Usa, senza dichiarazione formale, ringrazia e passa all’incasso. India e Cina restano a guardare, ma all’aprirsi delle cateratte il Kashmir e Taiwan – meglio, Formosa – non resteranno all’asciutto. Ma riepiloghiamo i fatti che avvicinano il mondo all’abisso della terza guerra mondiale come mai prima d’ora, al netto delle pagliacciate mediatiche, vagliamo gli sviluppi. Le questioni sul tappeto sono tre. Perché Israele ha deciso d’aprire il sesto fronte di guerra – dopo Gaza, Siria, Libano, Cisgiordania, Yemen e Iran, il più letale – mentre è tutt’ora in corso il genocidio palestinese ben oltre la Striscia. Perché gli Usa sono intervenuti a dara man forte all’attacco israeliano al regime degli ayatollah che da decenni è sotto botta dell’arcinemico sionista. Infine, cosa succederà a breve e nel medio termine, dopo la farsa dei bombardamenti preannunciati e della tregua annunciata. Israele ha deciso di lanciare un attacco preventivo ai siti iraniani alla viglia dei colloqui sul nucleare in corso a Washington per boicottarli una volta per tutte e chiarire, una volta di più, che la bomba atomica in Medio Oriente possono averla solo loro, sola potenza regionale per non dire mondiale e i soli, insieme agli Usa, che non hanno sottoscritto alcun accordo di non proliferazione atomica. I sionisti ne hanno tra le novanta e le 200 stoccate nei loro magazzini “supersegreti” a Dimona e loro sì sono pronti a usarle alla peggio e senza scrupoli: muoia Sansone con tutti i Filistei, cioè i palestinesi del tempo, come raccomanda la Bibbia. Tutti lo sanno, è un segreto di Pulcinella che nessuno vede, tantomeno l’occhiuto servo sciocco di Rafael Grossi, direttore dell’Aiea che balbetta le sue accuse agli altri. Gli altri, specie l’Iran che pretende di menomare lo strapotere di Tel Aviv, stiano a cuccia. Ma non è solo questione d’atomica o di rovesciare il regime degli ayatollah, com’è nei desiderata di tel Aviv e dell’Occidente da sempre. Dopo l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia e, buon ultima, la Siria, il destino della Persia è quello d’essere spezzonata e ridotta a enclavi, per meglio essere dominata e sfruttarne le risorse, con buona pace del diritto internazionale e delle anime belle che piangono sulle atrocità dei pasdaran. Reza Pahlavi, l’erede dello scià già spodestato fa sapere che lui non si tirerà certo indietro davanti al compito d’onore e di libertà. Che magnifico futuro s’apparecchia per gli orfani degli ayatollah. A tanta bellezza il regime sunnita può opporre chiacchiere e poco altro. Israele vede e prevede, ha creato Hamas contro l’Olp, come molti dimenticano cianciando sul massacro del 7 ottobre, e l’ha usato per poi stritolarlo alla menoma occasione, in una strategia dell’infiltrazione che fa impallidire quella della tensione. Lo stesso dicasi per Hezbollah sotto comando iraniano, infiltrato del pari, come gli aggeggi esplosivi che hanno stroncato i suoi militanti hanno mostrato. Eretz Israel, la grande Israele, non è mai stata così vicina al suo farsi, e che a realizzarla sia Netanyahu, un macellajo che se smettesse d’appiccare fuoco al mondo blaterando di pace sarebbe gettato nelle patrie galere per i suoi intrallazzi è un paradosso del tutto marginale nella partita in gioco. Però neanche le formidabili risorse d’intelligence e militari d’Israele bastano. Il serpentone iraniano è un boccone troppo grosso anche per la gracidante ranocchia di Bibi. Dopo mesi di campagne militari senza soluzione di continuità e undici giorni di guerra i missili continuavano a cadere sul sacro suolo di Sion e allora serve l’amico buono, quello che ti leva dagl’impicci anche se lo svegli in piena notte. Così entra in gioco Trump il pacificatore. Manda nottetempo, dal Missouri, sei bombardieri Stealth a sforacchiare con una dozzina di bombe di profondità il bunker sotterraneo superprotetto di Fordow dove i cattivi iraniani stavano costruendo la bomba – verità che tra qualche tempo scopriremo fondata quanto i famosi gas di Saddam – e chiede la resa senza condizioni a Khamenei. Arrendersi o perire. Nel gioco delle parti a Gerusalemme gongolano, a Washington gonfiano il petto come tacchini per la riuscita dell’impresa e a Teheran strillano, qualche missile casca a vuoto nelle basi Usa in Qatar. Prima i soliti comploanalisti, poi tutto il circo mediatico dicono che è tutta una macchietta, spettacolo buono per il pubblico della balconata, come avrebbe detto il grande Céline: tanto gli uni che gli altri hanno preavvisato il nemico e i danni sono minimi. Restano i tanti morti ammazzati sul terreno, inutili. Tant’è, giocare col fuoco non ha mai portato bene, nella calura estiva. Fatto è che dopo le mazzate arriva l’offerta di pace e tutti ci stanno, fingono di crederci. Fino al prossimo missile. Di reale – non di vero, per carità – c’è che il mondo è un posto un tantino meno sicuro dopo la guerra dei dodici giorni che l’ha portato sull’orlo dell’abisso come ai tempi della crisi di Cuba. L’ennesimo bluff dopo la spacconata spariglia le carte ma non cambia il gioco. La repubblica islamica dovrà cadere, bomba o non bomba, perché così vuole il macellajo di Tel Aviv e la superpotenza lo segue, obbediente. L’Europa segue a ruota e riarma, vagisce come una creatura nella culla, neppure consapevole di quel che l’attende, dominata com’è da elite burocratiche al servizio dei poteri davvero forti e succubi a chi ne ha deciso il crollo. Teheran è la via di passo per Pechino, come Damasco lo era per Teheran, i tempi stringono prima che lo scontro si faccia globale e davvero letale, con l’inciampo di Mosca nel mezzo che però ha già mollato la partita mediorientale. Colpi di scena e spacconate non salveranno gli Usa dal suo declino, tantomeno un tristo pagliaccio dal cappellino rosso renderà l’America – gli Stati Uniti, please – di nuovo grande. Il Maga è uno spot, al massimo un programma, non sarà mai una realtà. La guerra infinita per impedire un futuro policentrico all’umanità, il caos globale che ne verrà, è già scritto nel vaticinante saggio di Jacques Attali, ex consigliere dell’imbelle Macron: Breve storia del futuro. Il resto è cronaca, bomba o non bomba. Che, parafrasando Vecchioni, non ci porterà a Roma ma a fare un bel botto, all’inferno in terra. I guerrafondaj da salotto, gli ignavi della geopolitica, gli orfani del buonsenso e i partigiani delle opposte sponde lo sappiano: salteranno tutti, e primi fra tutti i grilli parlanti. Senza più un dollaro in tasca. The post Trump tra bluff e mazzate first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Trump tra bluff e mazzate sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
L’eredità in chiaroscuro di Bergoglio
PERCHÉ È IMPORTANTE LA MORTE DI QUESTO PAPA E PERCHÉ UN SITO WEB SOCIALISTA DOVREBBE OCCUPARSENE? [DAVE KELLAWAY] Qui in Italia la notizia della morte di Papa Francesco è stata ripresa da un sito all’altro, con un’immensa quantità di dettagli sul suo pontificato e discussioni su quanto abbia cambiato o meno la Chiesa cattolica. Tutti i canali televisivi statali e privati hanno più o meno sospeso la loro normale programmazione.  Non c’è dubbio che Papa Francesco abbia suscitato una reazione positiva simile a quella di un altro riformatore del Vaticano, Papa Giovanni XXIII, che era molto popolare.  Egli organizzò il riformista Concilio Vaticano II all’inizio degli anni Sessanta, che modernizzò il rito e diede più potere ai laici. Anche la natura della sua morte lo ha reso famoso all’opinione pubblica. Nonostante fosse prossimo alla morte durante il suo recente ricovero in ospedale, ha insistito per andare in piazza San Pietro e impartire la tradizionale benedizione pasquale.  È morto per un ictus e un attacco di cuore il giorno dopo. Perché è importante e perché un sito web socialista dovrebbe occuparsene? Tanto per cominciare, nel mondo ci sono circa 1,4 miliardi di cattolici e gli attivisti probabilmente combatteranno fianco a fianco con persone di questa fede nei loro luoghi di lavoro, nelle loro comunità e nelle loro campagne. Inoltre, il Papa ha una piattaforma globale. I media tradizionali riportano le sue dichiarazioni e discutono le sue argomentazioni.  Allo stesso tempo, la Chiesa cattolica come istituzione e congregazione ha una grande influenza in molti Paesi.  Di recente ha parlato molto chiaramente contro il trattamento disumano dei migranti da parte di Trump.  Lo ha scritto anche in una lettera critica ai vescovi statunitensi. Le sue parole positive a sostegno dei migranti legittimano e sostengono il clero e i laici cattolici che lavorano attivamente per accogliere i rifugiati in opposizione a governi reazionari come quello della Meloni in Italia o di Orban in Ungheria.  Ho assistito in prima persona a questo attivismo locale quando i cattolici di Vietri, sulla costiera amalfitana, hanno organizzato la deposizione di una corona di fiori per ricordare le decine di migliaia di migranti annegati nel Mediterraneo.  Questa azione ha coinvolto persone del posto che non erano particolarmente attive politicamente su altre questioni.  Spesso i sacerdoti radicali sono migliori dell’opposizione ufficiale di centro sinistra su questo tema. Di fronte al fascismo strisciante a cui stiamo assistendo in tutto il mondo, anche le parole di un leader religioso patriarcale possono aiutare tutti coloro che cercano di resistere.  I socialisti dovrebbero sempre costruire la più ampia unità possibile nell’azione contro le destre. Non possiamo scegliere da dove partire. Dipende sempre da un rapporto più ampio di forze politiche e sociali che di solito è fuori dal nostro controllo.  Questioni come la difesa delle libertà fondamentali, l’estrema disuguaglianza o la salvaguardia del nostro pianeta riguardano milioni di credenti e non credenti.  I neofascisti di oggi hanno riconosciuto un nemico quando lo hanno visto. Milei, il nuovo leader dell’ultradestra del suo Paese, l’Argentina, ha definito Papa Francesco un “lurido uomo di sinistra”. Papa Francesco ha spostato il quadrante Dobbiamo ricordare il contesto. Papa Francesco è arrivato subito dopo Ratzinger (Benedetto) che è stato giustamente battezzato come il rottweiler dell’ala reazionaria della Chiesa, desideroso di difendere la tradizione e di tenersi alla larga da qualsiasi intervento pastorale socialmente progressista.  Anche Giovanni Paolo II, suo predecessore, era un conservatore.  Eletto nel 2013 in Argentina, Jorge Mario Bergoglio è stato il primo Papa del Sud globale. Le sue visite papali e le sue politiche riflettono un’attenzione molto meno eurocentrica. Nonostante si sia opposto all’originale Teologia della Liberazione, emersa negli anni Sessanta quando molti sacerdoti combatterono e morirono nelle lotte armate di liberazione in America Latina, in seguito si è evoluto facendo propri alcuni dei principi fondamentali di quella teologia. Francesco ha dedicato due delle sue encicliche – le dichiarazioni papali di più alto rango – a questioni esplicitamente politiche. Laudato si’ (2015) ha affrontato la crisi ambientale, mentre Fratelli tutti (2020) si è concentrata sulla giustizia sociale. La scelta del nome Francesco riflette anche una scelta consapevole di seguire il modello del leader dell’ordine francescano che viveva in modo austero al servizio dei poveri. Papa Francesco ha persino aperto un dialogo con un gruppo di marxisti e socialisti europei chiamato Gruppo Dialop. È stato detto molte volte e la mia risposta è sempre stata che, semmai, sono i comunisti a pensare come i cristiani. Cristo ha parlato di una società in cui i poveri, i deboli e gli emarginati hanno il diritto di decidere. Non i demagoghi, non Barabba, ma il popolo, i poveri, che abbiano o meno fede in un Dio trascendente. Sono loro che devono aiutare a raggiungere l’uguaglianza e la libertà. Michael Lowy, collaboratore di questo sito, è un membro di questo gruppo; nella foto è il quarto da sinistra. Il defunto Papa ha chiesto una maggiore tassazione dei ricchi e un reddito universale per i poveri. Quali sono i limiti della sua eredità? LBGTQ Francesco era disposto ad accogliere i cattolici LBGTQ e a offrire loro una sorta di inclusione. Nel 2013, il suo commento “se una persona è gay e cerca Dio e ha buona volontà, chi sono io per giudicare?” ha offerto speranza ed entusiasmo a molti cattolici LGBTQ. Ma c’erano dei limiti a questa accettazione: ad esempio, non si arrivava ad accettare il diritto degli omosessuali di sposarsi all’interno della Chiesa. Nel 2023, la dichiarazione Fiducia Supplicans ha permesso ai sacerdoti cattolici di benedire le coppie non sposate in armonia con gli insegnamenti della Chiesa, comprese le coppie dello stesso sesso. Molti leader della Chiesa hanno ancora atteggiamenti omofobi. I diritti dei trans sono ancora più lontani dall’essere accettati. Le donne Nonostante le campagne dei progressisti cattolici, Papa Francesco ha fatto ben poco per cambiare la posizione sull’ordinazione di donne sacerdote o per modificare il veto sull’aborto o sulla contraccezione.  È arrivato persino a definire “sicari” i medici che praticano l’aborto. Queste ultime politiche sono particolarmente importanti nei Paesi in cui le donne sono ancora culturalmente costrette ad avere famiglie numerose e possono limitare il sostegno delle organizzazioni umanitarie cattoliche ai bisogni delle donne. Abusi sessuali da parte del clero Il Papa ha intrapreso un’azione più decisa dei suoi predecessori su questo tema, scrive Pablo Castano su Jacobin: Francesco ha cercato di porre fine all’impunità dei colpevoli con misure forti, come dimostra la destituzione del cardinale statunitense Theodore McCarrick, riconosciuto colpevole nel 2019 di aver commesso e coperto abusi sessuali. Sempre nel 2019, il Vaticano ha tenuto un vertice sulla pedofilia, che ha stabilito nuovi protocolli per la denuncia degli abusi. Brian Casey in un altro articolo di Jacobin aggiunge: Una delle questioni ricorrenti all’interno della Chiesa è stata quella degli abusi sessuali sui minori da parte dei chierici. Francesco ha istituito la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori nel 2013. Questo ufficio ha incontrato un muro di resistenza o indifferenza all’interno del Vaticano e tra alcuni membri della gerarchia. Un importante esperto di tutela, il gesuita tedesco Hans Zollner, si è dimesso dalla commissione, citando difficoltà con la burocrazia vaticana e carenze in termini di “responsabilità, conformità, responsabilità e trasparenza”. Una sopravvissuta irlandese agli abusi sessuali dei chierici, Marie Collins, ha lasciato la commissione per ragioni simili nel 2017. Uno dei presunti abusatori di più alto profilo è stato il gesuita slovacco, teologo e artista di mosaici Marko Rupnik, la cui scomunica è stata revocata da Bergoglio nell’ottobre 2022. L’indagine contro Rupnik, accusato di abusi spirituali e sessuali da diverse donne, è stata riaperta nell’ottobre 2023. Le sue vittime si sono sentite tradite dalla lentezza delle indagini contro Rupnik e hanno criticato Francesco per la sua risposta tardiva alle accuse contro una figura influente. Il suo ruolo sotto il regime militare argentino Durante la giunta militare della fine degli anni ’70 era già a capo dell’ordine locale dei gesuiti.  Si sostiene che abbia esposto due sacerdoti gesuiti al rischio di repressione da parte del regime. Uno dei sacerdoti ha dichiarato di aver aiutato i militari a rapirli e torturarli, l’altro è giunto alla conclusione che non è così.  Non ho trovato fonti che forniscano prove definitive in entrambi i casi. Non c’è dubbio che Bergoglio abbia tenuto la testa bassa durante questo periodo, anche se afferma di non poter parlare anche se avrebbe voluto.  Ci si chiede se il senso della sua precedente timidezza lo abbia reso un po’ più progressista nel corso del suo papato. Un’eredità contraddittoria Papa Francesco ha suscitato l’ira del governo israeliano per la sua ferma presa di posizione contro ciò che sta facendo a Gaza e in Cisgiordania. Ha definito con precisione l’azione dell’IDF “terrorismo”, il che lo pone a sinistra di Kier Starmer, che ha impiegato tre mesi di massacri quotidiani prima di chiedere un cessate il fuoco “bilaterale”. Il primo ministro si rifiuta ancora di chiamarlo genocidio e ha messo al tappeto Lammy, il suo ministro degli Esteri, per aver osato suggerire la violazione delle leggi internazionali.  Il Papa ha anche contribuito a riparare le relazioni diplomatiche tra Cuba e l’America – successivamente interrotte da Trump, ovviamente. Nessuno sa veramente come viene gestita l’immensa ricchezza del Vaticano. È stato infiltrato dal denaro della mafia – il film Il Padrino III era proprio su questo. Utilizza anche paradisi fiscali, come è stato evidenziato dalle rivelazioni dei Panama papers. Papa Francesco ha fatto degli sforzi per ripulire le cose e lui stesso ha vissuto in modo molto semplice e ha incoraggiato un uso diverso del denaro della Chiesa, ma alla fine la bizantina gerarchia e burocrazia vaticana ha soffocato anche lui, dato che sono emerse nuove rivelazioni su loschi affari finanziari. Sono stati fatti dei progressi per mitigare il peggio delle politiche della Chiesa sugli abusi sessuali e sulla comunità LBGTQ, ma sono ancora limitati.  Le donne sono ancora il secondo sesso nel mondo cattolico. Alcuni degli elogi a cui abbiamo assistito sono esagerati, come se fosse un vero e proprio “game changer”, o ipocriti, come le dichiarazioni di Trump o Vance.  Come socialisti e materialisti abbiamo una visione più obiettiva, misurando la sua eredità in termini di impatto sull’opinione pubblica e sulla politica nel mondo reale e di come possa giovare o danneggiare la lotta dei lavoratori e degli oppressi. Alcuni commentatori, come ad esempio Castano, suggeriscono che, data la marcia della destra a livello globale e la tendenza della Chiesa ad autocorreggersi storicamente su posizioni meno progressiste, possiamo aspettarci un successore meno radicale.  Tuttavia, i conclavi sono molto difficili da prevedere. Oltre due terzi dei cardinali sono stati nominati da Papa Francesco e questo potrebbe far pensare che la sua linea possa continuare. Come alcuni hanno detto, le pareti della Cappella Sistina sono spesse ma non abbastanza da impedire l’influenza delle forze politiche globali. Ciò che è improbabile è un esito simile a quello che abbiamo visto nel film premio Oscar Conclave. Ciò che risulta molto chiaro dalla foto di uno dei suoi ultimi incontri diplomatici è l’atteggiamento del defunto Papa nei confronti dello spregevole vicepresidente J. T. Vance. Guardate il volto e il linguaggio del corpo del Papa. Dave Kellaway fa parte del comitato editoriale di Anti*Capitalist Resistance, è membro del partito laburista di Hackney e Stoke Newington e collabora con International Viewpoint e Europe Solidaire Sans Frontieres. The post L’eredità in chiaroscuro di Bergoglio first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo L’eredità in chiaroscuro di Bergoglio sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Bergoglio è morto, ma le sue contraddizioni restano nella Chiesa
IL BILANCIO CONTRASTANTE DEL PRIMO PAPA SUDAMERICANO: DIFENSORE DEI MIGRANTI MA ANTIABORTISTA, ECOLOGISTA MA OMOFOBO [LÉNAÏG BREDOUX] La sua elezione nel 2013 è stata apprezzata all’unanimità dai politici progressisti. La sua morte, avvenuta lunedì 21 aprile, è l’occasione per una valutazione molto più contrastante. E la sua prossima successione fa temere una nuova offensiva da parte dei più reazionari. Jorge Mario Bergoglio, divenuto Papa Francesco, è morto all’età di 88 anni il lunedì di Pasqua, un giorno altamente simbolico per gli 1,4 miliardi di cattolici del mondo. Il pontefice argentino era stato molto debole negli ultimi anni, a causa di una serie di problemi di salute. È stato dimesso dall’ospedale il 23 marzo dopo aver trascorso 38 giorni in ospedale con una polmonite bilaterale, il suo quarto e più lungo ricovero dall’inizio del pontificato nel 2013. Domenica, durante le celebrazioni pasquali, è apparso molto debole, ma si è goduto una passeggiata in papamobile tra migliaia di fedeli in Piazza San Pietro a Roma. Visibilmente molto esausto, è stato tuttavia costretto a delegare la lettura del suo testo a un collaboratore, incapace di pronunciare più di qualche parola, con la voce affannata. La tradizione prevede un funerale di nove giorni e un periodo di 15-20 giorni per organizzare il conclave, durante il quale i cardinali elettori, quasi l’80% dei quali scelti da Francesco stesso, avranno il gravoso compito di eleggere il suo successore. Nel frattempo, il cardinale camerlengo, l’irlandese Kevin Farrell, fungerà da cardinale ad interim. Alla fine del 2023 Francesco ha rivelato di voler essere sepolto nella Basilica di Santa Maria Maggiore, nel centro di Roma, anziché nella cripta della Basilica di San Pietro, per la prima volta dopo più di tre secoli. A novembre, il Vaticano ha anche pubblicato un rituale semplificato per i funerali papali, che prevede la sepoltura in una semplice bara di legno e zinco, segnando la fine delle tre bare a incastro in cipresso, piombo e quercia. UN RECORD MISTO Queste decisioni simboliche, persino astruse per i non cattolici, illustrano il ruolo che Francesco ha svolto in Vaticano durante i suoi 12 anni di pontificato. Ha incarnato un’apparente rottura con i vecchi riti, come la Messa in latino, e con le frange più tradizionaliste della Chiesa – che non hanno mai sopportato questo Papa argentino e lo hanno combattuto ad oltranza – e ha adottato uno stile di vita più sobrio (rispetto all’immenso sfarzo del Vaticano). In questa vecchia cornice, preferire un monolocale di 70 m2 a Roma alla doratura del palazzo apostolico è valso a Francesco accuse di eccessiva profanazione dell’ufficio… Si può immaginare il clamore conservatore suscitato dalla sua decisione, alla fine di marzo 2013, di andare in prigione per eseguire la cerimonia della lavanda dei piedi… Ma si è anche adattato alle strutture tradizionali di questa Chiesa. Come abbiamo scritto nel 2017, “Papa Francesco sta giocando una partita ambigua. A tratti progressista e conservatore. Il volto di una Chiesa aperta e tollerante di giorno, l’architetto della riabilitazione della frangia cattolica fondamentalista di notte”. Questo doppio discorso è particolarmente evidente nel caso della Società San Pio X. Insieme alla rivista d’inchiesta svedese Uppdrag granskning su SVT1, abbiamo rivelato che Papa Francesco, che all’epoca era ancora arcivescovo di Buenos Aires, si era personalmente adoperato per far riconoscere la Società in Argentina. “Armato di potere temporale e spirituale, questo Papa ha la suprema abilità di giocare sempre su entrambi i fronti: collegiale e autoritario, supremo custode di dogmi ieratici ma buon pastore attaccato all’odore delle sue pecore, vuole essere inafferrabile perché è in movimento”, scriveva il nostro giornalista Antoine Perraud il 31 dicembre 2014…. ECOLOGIA, MIGRANTI: LA PRINCIPALE EREDITÀ DEL PAPA In realtà, l’eredità principale del Papa è il ruolo politico che ha assunto appena eletto – quell’anno è stato addirittura eletto Persona dell’anno dalla rivista Time. Francesco ha incarnato un discorso molto più progressista rispetto ai suoi predecessori su ecologia, diritti dei migranti, giustizia sociale e dialogo interreligioso. Ha affrontato la mafia e l’ha scomunicata, ponendo fine ad anni di ambiguità e persino di complicità tra alcuni prelati e i killer. Nello stesso anno, in un’omelia pronunciata al Congresso ecclesiastico della diocesi di Roma, il Papa disse addirittura: “Oggi, un cristiano che non è un rivoluzionario non è un cristiano! Francesco è stato un critico feroce degli eccessi del capitalismo. Ma il Papa è un leader religioso e il capo di uno Stato che ha operato a lungo nel modo più opaco: nonostante il suo sostegno al riavvicinamento tra Cuba e gli Stati Uniti, non è mai stato un socialista nascosto che lavora per la rivoluzione mondiale… Il suo testo più famoso è stato pubblicato nel 2015, con un’enciclica sul clima nota come “Laudato Si’” – una prima volta per la Chiesa. Si trattava di un appello alla solidarietà globale per agire insieme per proteggere l’ambiente. Nel 2023, il Papa ha pubblicato un nuovo documento intitolato “Laudate Deum” (“Lodate Dio”), denunciando le “opinioni sprezzanti e irragionevoli” degli scettici del clima, “anche all’interno della Chiesa cattolica”. Il Papa ha sottolineato ancora una volta i danni causati dall’“intervento sfrenato dell’uomo sulla natura” e ha criticato lo “stile di vita irresponsabile del modello occidentale”, puntando il dito contro gli Stati Uniti e la Cina in particolare per l’“aumento senza precedenti delle emissioni di gas serra”. Nel 2015, dalla Bolivia allora guidata da Evo Morales, Francesco inveì contro l’economia che “uccide”, contro “lo sterco del diavolo”, quel “desiderio sfrenato del denaro che comanda”. Il Papa, che ha privilegiato i viaggi (e le nomine di vescovi) ai quattro angoli del mondo, abbandonando i vecchi prelati d’Europa, ha avuto parole dure anche nei confronti delle frontiere erette dal vecchio continente contro i migranti in fuga dalla guerra o dalla miseria. Il suo primo viaggio da Papa è stato sull’isola italiana di Lampedusa, simbolo dell’egoismo e della xenofobia europea. È stato lì che Francesco ha usato la sua ormai famosa frase “la globalizzazione dell’indifferenza”. Come spiegava Antoine Perraud già nel 2021, il Papa difende un concetto raramente compreso, ma da sempre tenuto alto dalla Chiesa cattolica (con l’eccezione della sua frangia fondamentalista, asservita all’estrema destra): la figura del migrante non è altro che quella di Cristo. La sua venuta è redentrice e richiede un’accoglienza tanto rispettosa quanto misericordiosa. Nel 2023, Papa Francesco ha scelto Marsiglia – e “non la Francia”, ha tenuto a precisare – per una visita di due giorni, a sostegno di una chiesa locale impegnata nella difesa dei migranti. Criticando il “nazionalismo arcaico e bellicoso”, ha chiesto ancora una volta “un risveglio delle coscienze” per “evitare un naufragio della civiltà” e ha avvertito che il futuro “non sarà nella chiusura, che è un ritorno al passato”. L’11 febbraio ha nuovamente condannato le espulsioni di massa di migranti pianificate dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, attirando le ire della Casa Bianca. Il vicepresidente J.D. Vance è l’incarnazione della battaglia che si sta scatenando: convertito al cattolicesimo, appartiene a una delle correnti più dure della Chiesa, i post-liberali, che uniscono politiche reazionarie alla difesa di regimi autoritari. È stato in Vaticano questo fine settimana di Pasqua… Nel suo ultimo messaggio, letto domenica da un assistente dal balcone della Basilica di San Pietro a Roma, il Papa ha denunciato la “drammatica e spregevole situazione umanitaria” a Gaza, mettendo in guardia dal “crescente clima di antisemitismo”. ABORTO, DIRITTI LGBTQI+ Per il resto, Francesco ha perseguito fino all’ultimo un’ideologia profondamente reazionaria sulle questioni di genere, facendo commenti omofobi e paragonando l’aborto all’uso di un “sicario” nel 2018. Nel 2020, le Chiese e il Papa si sono opposti allo storico voto dell’Argentina a favore dell’aborto. Nel 2019, il Vaticano ha anche pubblicato un documento di 26 pagine dedicato a quella che definisce “ideologia del gender” e intitolato “Li creò maschio e femmina”. Con la scusa di un appello al dialogo, si limita a menzionare le nozioni di “queer”, “transgender”, “fluidità” o “genere neutro” per revocarle, in quanto portano a “una società senza differenze di genere” e minano “il fondamento antropologico della famiglia”. In 12 anni, Francesco non ha mai messo in discussione la dottrina della Chiesa sull’omosessualità, che considera “intrinsecamente disordinata” rispetto al disegno di Dio. L’anno scorso si è scusato per aver usato un termine del dialetto romano, difficile da tradurre. Durante un incontro a porte chiuse con 250 vescovi della Conferenza episcopale italiana (CEI), il Papa li ha invitati a non accogliere persone apertamente gay nei seminari religiosi, sostenendo che ci fosse già troppa “frociaggine”. Questa parola deriva da “frocio”, un insulto che in romano significa “omosessuale”. Tuttavia, il Pontefice ha fatto anche qualche gesto. Nel 2013 ha dichiarato alla stampa: “Se qualcuno è gay e cerca il Signore, chi sono io per giudicarlo? Nel dicembre 2023, il Papa ha fatto un ulteriore passo avanti aprendo la benedizione (non il matrimonio) alle coppie dello stesso sesso. Coppie descritte nel gergo vaticano come “coppie irregolari”. Questa ambivalenza papale può essere riassunta in una frase contorta, pronunciata nel gennaio 2023 in un’intervista all’Associated Press, sul tema dell’omosessualità. “Non è un crimine. Sì, ma è un peccato.  Bene, ma prima distinguiamo tra un peccato e un crimine”, ha detto Papa Francesco. È un peccato anche la mancanza di carità verso il prossimo”. LO SCANDALO DELLA VIOLENZA SESSUALE Lo stesso si potrebbe dire della violenza sessuale, uno dei principali scandali che ha scosso il suo regno: il pontefice ha profondamente deluso e ferito le associazioni delle vittime, in particolare in Sud America. Nel 2018 è scoppiata una crisi all’interno della Chiesa dopo che Francesco ha appoggiato un vescovo cileno vicino a uno dei maggiori criminali pedofili del Paese, l’ex sacerdote Fernando Karadima. Il Papa si è poi scusato. Lo stesso anno, durante una visita in Irlanda, il Papa ha osato dire “non ne avevo mai sentito parlare”, riferendosi allo scandalo delle “lavanderie Madeleine”, collegi cattolici dove, tra il 1922 e il 1996, più di 10.000 donne irlandesi sono state ridotte in schiavitù, separate dai loro bambini appena nati e talvolta abusate sessualmente. Eppure i crimini commessi nelle lavanderie Madeleine sono ampiamente conosciuti e documentati, anche dallo stesso Stato irlandese, che nel 2013 ha pubblicato un rapporto (il rapporto McAleese) e ha riconosciuto la propria responsabilità per gli abusi inflitti a migliaia di giovani donne. Sempre in Irlanda, alla domanda specifica di un sacerdote francese che chiedeva le dimissioni del cardinale Barbarin, egli ha preferito rispondere ricordando alla stampa il dovere di presumere l’innocenza. Di fronte allo scandalo, il Papa ha contemporaneamente pubblicato una lettera “al popolo di Dio”, riconoscendo una “cultura dell’abuso” all’interno della Chiesa. Ha convocato un vertice dedicato alla pedocriminalità nella Chiesa all’inizio del 2019. “Dobbiamo essere chiari: l’universalità di questo flagello, pur confermando la sua estensione nelle nostre società, non attenua la sua mostruosità all’interno della Chiesa”, ha ammesso Francesco. Su questo tema, il Papa ha tolto il segreto pontificio e ha obbligato religiosi e laici a segnalare i casi alla propria gerarchia. Ma non si è mai spinto fino a quanto richiesto da molte associazioni di vittime… The post Bergoglio è morto, ma le sue contraddizioni restano nella Chiesa first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Bergoglio è morto, ma le sue contraddizioni restano nella Chiesa sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Il colonialismo 2.0 di Donald Trump & Co
TRUMP E I SUOI STANNO RINNOVANDO QUELLO CHE LENIN CHIAMAVA “LO STADIO SUPREMO DEL CAPITALISMO”: L’IMPERIALISMO [ANTOINE PERRAUD] Conosciamo i termini del ricatto estorsivo praticato da Donald Trump e dalla sua banda della Casa Bianca nei confronti dell’Ucraina: dateci le vostre ricchezze affinché possiamo sfruttarle per proteggervi, perché Putin non oserà più attaccare il vostro Paese. I negoziati sono ben avviati, con Washington che esercita una pressione sfrenata su Kyiv. La sera di sabato 12 aprile, grazie all’agenzia di stampa Reuters e al quotidiano londinese Guardian, è trapelata una nuova richiesta americana: sequestrare un gasdotto cruciale che attraversa l’Ucraina, tra Soudja (regione di Kursk) e Oujhorod (Transcarpazia). Gli emissari yankee hanno persino commesso il sintomatico errore di attribuire il gasdotto in questione alla società russa Gazprom nella loro lettera di messa in mora – anche se in realtà appartiene all’Ucraina, pur rifornendo l’Europa di gas russo. Citato dal Guardian, l’economista ucraino Volodymyr Landa non ha usato mezzi termini, forse a nome delle autorità politiche di Kiev, che hanno ricevuto l’ordine di tacere dagli scagnozzi di Trump dopo l’insulto del presidente Zelensky, il 28 febbraio scorso, nello Studio ovale della Casa Bianca: «Intimidazione di stampo coloniale». Per l’opinione pubblica occidentale, il colonialismo, nella sua versione più implacabile, sembrava un’anticaglia scomparsa per sempre, sulla scia del discorso radiotelevisivo di Charles de Gaulle che seppelliva “l’Algeria di papà” il 14 giugno 1960: «È perfettamente naturale provare nostalgia per quello che era l’impero, così come potremmo rimpiangere la dolcezza delle lampade a olio, lo splendore dei velieri, il fascino del tempo degli equipaggi. Ma che cos’è? Non c’è politica che valga qualcosa se non la realtà!». Ma le realtà non sono eterne, bensì dialettiche e cicliche. Al Congresso di Vienna del 1815, la Francia fu privata delle sue colonie, la Spagna non aveva più un Impero e il Regno Unito era un’eccezione che non sarebbe durata a lungo. Jean-Baptiste Say, nel suo Traité d’économie politique (1825), disse che: “Le vere colonie di una nazione commerciale sono i popoli indipendenti di tutte le parti del mondo. Ogni nazione commerciale deve desiderare che siano tutte indipendenti, in modo che diventino tutte più industriose e più ricche; perché quanto più sono numerose e produttive, tanto più offrono opportunità e possibilità di commercio”. E continuava: “Verrà il tempo in cui ci vergogneremo di tanta stoltezza, e in cui le colonie non avranno altri difensori se non quelli a cui offrono lucrosi posti per dare e ricevere, tutto a spese del popolo”. Ciò non significa che il colonialismo sia passato di moda per sempre, come testimoniano la conquista dell’Algeria e dell’India. Per non parlare del Tonchino. Infine, ma non meno importante, la corsa all’Africa e la sua spartizione nell’ultimo quarto del XIX secolo. La situazione di allora non era diversa da quella di oggi: quando il progresso tecnico facilita l’espansione alimentata dal nazionalismo e motivata dalle rinnovate esigenze del capitalismo. L’avidità territoriale sfacciatamente rivendicata dall’orco imperialista Donald Trump si rifà a questa storia, rinnovandola. La fine del “fardello dell’uomo bianco”, per usare il titolo della poesia di Rudyard Kipling, che nel 1899 scriveva: “Le vostre ricompense sono misere”. Nel 2025, il premio sarà amaro e totalizzante. L’avidità americana all’opera intende bramare solo l’essenziale, cioè l’unico interesse che deriva dal possesso, senza ingombrarsi di ciò che l’ha appesantita: l’amministrazione diretta e la cosiddetta “missione civilizzatrice”. Alla faccia del colonialismo 2.0 brandito da Donald Trump. Tra il 1898 e il 1909, mentre William McKinley e Theodore Roosevelt occupavano la Casa Bianca, ci fu l’annessione delle Hawaii, la colonizzazione totale di Porto Rico e Guam, la presa di possesso (momentanea) delle Filippine e la sottomissione di Cuba. Ora tocca a Panama, Groenlandia e Ucraina! Sempre con l’unico obiettivo di far fruttare il “paese utile”. Da qui il vergognoso, delirante ma caparbio progetto dei sodali del 47° Presidente degli Stati Uniti, relativo alla “Riviera” di Gaza: un lungomare debitamente ammortizzato dopo essere stato svuotato della sua popolazione. Donald Trump, grazie ai moderni mezzi di comunicazione sociale che governano il pianeta, si sta comportando come un governatore o un generale residente di Washington. Direttamente. Senza questi organi intermedi, questa macchinosa e complessa amministrazione coloniale che, nel secolo scorso, doveva costituire la base per la decolonizzazione, non ha mai smesso di incarnare l’arbitrio e l’ingiustizia. “DOMINAZIONE E COLONIZZAZIONE” Basta leggere Domination et Colonisation, pubblicato nel 1910 (Flammarion) da Jules Harmand, medico ed ex commissario generale nel Tonchino: “Per essere applicata con successo, la dominazione richiede la costituzione in ogni Stato coloniale di un corpo d’élite, un personale civile soggetto a regole speciali di reclutamento, preparazione e promozione, investito di un’autorità indiscussa su tutti i servizi provinciali, che esercita o si prepara a esercitare funzioni di comando, direzione e controllo che sono, per loro natura, vietate e inaccessibili alle gerarchie indigene”. ” Il colonialismo trumpiano si sta liberando degli orpelli del passato che ostacolavano il dominio che pensavano di esercitare. Il colonialismo trumpiano si sta liberando degli orpelli del passato, che ostacolavano il dominio che pensavano di esercitare. Il colonialismo trumpiano è interamente dedicato al solo profitto delle materie prime, estratte da chi non ne ha diritto. Per farlo, si affida a un vile atteggiamento di laissez-faire: una forma di “complicità coloniale” occidentale. Questo sentimento, diffuso nell’emisfero settentrionale, equivale a un tacito accordo, visti i legami indissolubili tra l’immaginario coloniale e le attuali esclusioni etniche, dagli Stati Uniti d’America alla Russia e all’Europa. Secondo questo pregiudizio, Panama è piena di “rastaquouères” (un termine peggiorativo che è stato usato per troppo tempo, per indicare dei parvenu di origine latino-americana). Quanto alla Groenlandia, sempre secondo questa prospettiva, sarebbe piena di popoli primitivi. E gli ucraini non potrebbero mai appartenere a una nazione degna di questo nome e parlerebbero solo una lingua a lungo definita “piccolo russo”. Per non parlare dei palestinesi, vittime della maggior parte dei luoghi comuni stigmatizzanti che infestano l’opinione pubblica occidentale. La legge del più forte è diventata suprematista. Al diavolo la superiorità! Per cogliere questo tipo di mentalità, che rivela una parte di umanità trionfante, occorre leggere uno studio essenziale che non è stato tradotto in francese: Complying with colonialism. Genere, razza ed etnia nella regione nordica (2009). Il libro sviluppa questo concetto di “complicità coloniale” in relazione a Finlandia, Svezia e Norvegia. Alla periferia del progetto coloniale europeo, ma parte dell’ideologia “universale” del colonialismo e delle sue implicite gerarchie razziali, questi Paesi dell’Europa settentrionale sono stati partecipanti impliciti ma reali di un ordine mondiale indicibile basato sulla legge del più forte, che divenne suprematista. Dal Mediterraneo al Baltico, eravamo tutti – e forse lo siamo ancora – potenziali colonizzatori. E ora questa tendenza perniciosa si sta nuovamente diffondendo, avvolta da una modernità sconcertante. Piuttosto che non credere ai nostri occhi, costruiamo collettivamente un rifiuto consapevole, unito e offensivo di questo tipo di agitazione imperialista, predatoria e in definitiva bellicosa. The post Il colonialismo 2.0 di Donald Trump & Co first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Il colonialismo 2.0 di Donald Trump & Co sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
La motosega di Milei cancella la storia
ABBATTUTO UN MONUMENTO A OSVALDO BAYER NELLA PROVINCIA DI SANTA CRUZ. PER LE AUTORITÀ È “PULIZIA DELL’INDOTTRINAMENTO KIRCHNERISTA” Di lui sappiamo che viso avesse e anche come si chiamava: viso aperto, occhi vispi e sorridenti, barba folta; si chiamava Osvaldo Bayer, nato il 18 febbraio 1927 a Santa Fe. Di origine tedesca, aveva studiato storia all’Università di Amburgo tra il 1952 e il 1956 e, una volta tornato in Argentina, si era dedicato alla ricerca, al giornalismo e alla scrittura di sceneggiature cinematografiche. Bayer era un intellettuale anarchico, professore ordinario della Cattedra Libera dei Diritti Umani presso la Facoltà di Filosofia e Lettere dell’Università di Buenos Aires, impegnato nelle lotte dei lavoratori e dei popoli indigeni. La sua indagine principale riguarda gli eventi accaduti a Santa Cruz tra il 1920 e il 1921, noti come Patagonia Ribelle, quando 1.500 lavoratori e dirigenti sindacali in sciopero contro gli allevatori e i proprietari terrieri locali furono repressi e fucilati per ordine dell’allora presidente democratico Hipólito Yrigoyen. L’intera indagine, che gli è costata 10 anni di lavoro, ha prodotto un libro in quattro volumi intitolato La Patagonia rebelde conosciuta anche come la Patagonia trágica, tradotto poi in molte lingue – tra cui in italiano per le edizioni Eleuthera nel 2009-, e da cui è stato tratto un film vincitore dell’Orso d’Argento al Festival Internazionale del Cinema di Berlino del 1974. Poco dopo, a causa del suo libro e del film, Bayer è stato perseguitato nella “guerra sporca”, nell’ambito della Operazione Condor, nel 1975 fu costretto a lasciare il Paese, Peron presidente.  È vissuto in esilio a Berlino fino al 1983, alla fine della dittatura. Un’altra delle indagini da lui condotte in difesa dei popoli indigeni aveva l’obiettivo di demistificare la figura di Julio Argentino Roca, due volte presidente della Repubblica, che riteneva che l’unica soluzione possibile contro gli indigeni fosse quella di “estinguerli, sottometterli o espellerli”.  Per il suo progetto di unire la Patagonia cilena e quella argentina è stato dichiarato persona non gradita dal Senato argentino durante la presidenza di Eduardo Menem. Fedele alla sua ideologia, ha sostenuto e difeso le lotte operaie come quella dell’allora Zanon, oggi Fabbrica senza padroni (FaSinPat) o Madygraf. Entrambe le aziende sono riuscite a trasformarsi in cooperative grazie alla lotta instancabile dei loro lavoratori. È stato anche giornalista Bayer. Nel 1958, aveva fondato insieme a Juan Carlos Chayep La chispa, il “primo giornale indipendente in Patagonia”, il cui motto era: “Contro il latifondo, contro l’ingiustizia e contro la fame”. Nella prima edizione di La chispa sono state pubblicate note investigative che spiegavano l’espropriazione delle terre di Cushamen attraverso trucchi commerciali che coinvolgevano commercianti e politici locali, terre che la comunità Mapuche continua a rivendicare dal suo nuovo proprietario, Benetton (sì, il nostro Benetton), e che si sono concluse nel febbraio 2017 con una brutale repressione da parte della gendarmeria contro i membri della comunità. Bayer aveva anche uno stretto rapporto con le Madri e le Nonne di Plaza de Mayo, promuovendo la lotta contro l’impunità per i responsabili dei crimini contro l’umanità perpetrati dalla dittatura di Videla. Bayer è morto il 24 dicembre 2018 all’età di 91 anni, ma perché ne parliamo ora? Perché due giorni fa, il 25 marzo 2025, Beyer è ri-morto. Ucciso da Milei e dagli amministratori di Santa cruz attraverso la cancel culture. Un passo indietro: il 24 marzo di due anni fa, è stato inaugurato a Río Gallegos, nella provincia di Santa Cruz, un monumento in onore di Bayer. Situato sulla Route 3, all’ingresso della città, il volto del maestro saluta: “Benvenuti. State entrando nella terra della Patagonia ribelle”. E ora, dopo due anni dall’erezione del monumento, l’attuale governo liberticida ha demolito la statua per riportare la “limpieza del adoctrinamiento kirchnerista”. Uomini armati di martelli pneumatici mandati dalla Società Nazionale delle Autostrade hanno distrutto la base del monumento mentre un escavatore ha piegato e rotto l’immagine dell’intellettuale impegnato per i diritti. La prima scusa è stata “il monumento non aveva un permesso ed era mal posizionato, poiché ostacolava la costruzione di un’importante opera idraulica”, ma nel pomeriggio l’amministrazione del Dipartimento delle Strade Nazionali del Distretto di Santa Cruz ha sottolineato che si trattava di una “pulizia dell’indottrinamento kirchnerista” di “una struttura che non solo rappresentava un omaggio militante, ma comprendeva anche un cartello con la scritta ‘Benvenuti’, riflesso del linguaggio inclusivo promosso dal kirchnerismo”. Questo atto non è un episodio isolato, ma fa parte di una escalation politica di negazione e odio. La distruzione della statua di Bayer rappresenta una “pulizia ideologica” volta a cancellare la sua eredità, di mettere a tacere la sua denuncia dell’ingiustizia e di imporre l’oblio. L’uso degli apparati statali per cancellare la memoria storica riflette la dottrina ufficiale di perseguitare qualsiasi espressione associata ai diritti umani o a prospettive critiche. Questo atto apre la strada a un’ulteriore censura dell’arte, dell’istruzione e dei simboli delle lotte sociali, un fatto che consolida un progetto autoritario di cancellazione culturale e di persecuzione ideologica. E la cosa è ancor più grave perché è avvenuta il giorno dopo il “Día por la Memoria, la Verdad y la Justicia” che si celebra il 24 marzo, un giorno di riflessione sulla Memoria, la Verità e la Giustizia, nella data del colpo di stato civico-militare da parte di Jorge Rafael Videla, del 1976, che ha portato al terrorismo di Stato, alla scomparsa di circa 30.000 persone, alla tortura di migliaia e ad altri crimini contro l’umanità, tra cui stupri, parti in cattività e furti di neonati, oltre che alla repressione di ogni dissenso e della libertà. E adesso, ci risiamo? È questo che il governo di Milei vuole? La strada verso la dittatura è lastricata dalla cenere dei libri bruciati, dai vetri degli edifici distrutti, dalle macerie delle statue abbattute.     The post La motosega di Milei cancella la storia first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo La motosega di Milei cancella la storia sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
L’accusa di antisemitismo come una clava contro la verità
COME LA DESTRA PRO-ISRAELE PROVA A SCHIACCIARE LA SOLIDARIETÀ CON LA PALESTINA. I SENTIMENTI ORA HANNO LA MEGLIO SULLA VERITÀ [ASH SARKAR] La storia vi è già nota. Il 7 ottobre 2023, i militanti di Hamas sono usciti dal territorio palestinese di Gaza (chiuso da una barriera costruita da Israele a nord e a est, da un confine con l’Egitto a sud e dal Mar Mediterraneo a ovest). Ribattezzati Operazione Al-Aqsa Flood, gli attacchi hanno ucciso circa 1.200 persone e hanno coinvolto circa 250 persone prese in ostaggio. In una risposta rapida e indiscriminata, Israele ha tagliato elettricità, cibo, medicine e carburante a tutti i due milioni di persone che vivono a Gaza. Scuole, università, ospedali, case e infrastrutture sono state distrutte. Al momento in cui scriviamo, il bilancio delle vittime a Gaza ha superato i 40.000 palestinesi. Altre migliaia giacciono sepolte sotto le macerie, non ancora contate. Dal 7 ottobre, una media di dieci bambini palestinesi al giorno hanno perso una o entrambe le gambe a Gaza, con amputazioni che spesso avvengono senza anestesia. Studiosi dell’Olocausto, esperti di diritti umani e gli Stati del Sudafrica e della Spagna hanno sostenuto che la guerra in corso a Gaza soddisfa la definizione legale di genocidio. Sono d’accordo con loro*. L’immensa perdita di vite umane a Gaza non avviene nel vuoto: dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948, e prima degli attacchi del 7 ottobre, centinaia di migliaia di palestinesi sono stati sfollati con la forza, milioni sono stati soggetti all’occupazione militare israeliana e decine di migliaia sono stati uccisi. Tra il 2000 e il 2014, secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, i palestinesi sono stati artefici di tredici morti su quindici nel conflitto. Ma in Occidente è successa una cosa strana. Nonostante gli evidenti crimini di guerra commessi durante l’offensiva militare di Israele a Gaza, i media negli Stati Uniti e nel Regno Unito si sono concentrati senza sosta sul fatto che le proteste contro queste atrocità fossero antisemite. Ore di trasmissione e interminabili colonne di giornale sono state dedicate alla questione se lo slogan “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera” fosse un appello allo sterminio degli ebrei che vivono in Israele. L’American Jewish Committee ha condannato la frase come “un grido d’appello per i gruppi terroristici e i loro simpatizzanti” nel suo glossario “Translate Hate”; nel Regno Unito, il Board of Deputies, il Jewish Leadership Council e il Community Security Trust hanno denunciato lo slogan per “la sua insinuazione di atti di omicidio contro il popolo ebraico”. Anche quando è stato esplicitamente inquadrato come un appello per una soluzione a due Stati, il semplice uso delle parole “dal fiume al mare” è stato condannato come antisemita: un deputato laburista, Andy McDonald, ha subito la censura per aver detto: “Non ci fermeremo finché non avremo giustizia, finché tutti i popoli, israeliani e palestinesi, tra il fiume e il mare non potranno vivere in libertà pacifica”. Lo slogan “dal fiume al mare” richiede intrinsecamente l’eliminazione del popolo ebraico in Israele o minacce alla più ampia diaspora? In un contesto di protesta, lo slogan “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera” è generalmente inteso come una richiesta di pieni diritti politici per i palestinesi della Cisgiordania occupata, di Israele e di Gaza. È incredibilmente comune nelle manifestazioni pro-palestinesi vedere un blocco ebraico, dove i manifestanti ebrei cantano le parole insieme ai loro compagni di marcia. Anche interpretandola nel senso, come fa l’AJC, che simboleggia “il controllo palestinese sull’intero territorio dei confini di Israele”, non significa che sia un appello al genocidio – a meno che non si creda che ebrei e palestinesi non possano esistere alla pari nello stesso Paese. Né condona gli atti di omicidio contro gli ebrei della diaspora. Come sostiene Noah Zatz, professore di diritto e studi sul lavoro alla UCLA School of Law, è “bizzarro leggere un appello a rovesciare la supremazia ebraica sancita dallo Stato in Israele/Palestina come un’approvazione del genocidio contro gli ebrei israeliani; è necessario un ulteriore salto per raggiungere gli ebrei come me che vivono negli Stati Uniti, a più di un oceano di distanza in un contesto geopolitico completamente diverso”. In effetti, nell’agosto del 2023, un tribunale olandese ha stabilito che lo slogan “si riferisce allo Stato di Israele ed eventualmente alle persone con cittadinanza israeliana, [ma non] agli ebrei per la loro razza o religione”. In breve, non è antisemita, né un invito alla violenza di alcun tipo. Ma la verità non ha importanza quando l’“esperienza vissuta” fa capolino. L’esperienza vissuta è una di quelle idee che sono diventate particolarmente in voga negli ultimi anni. In breve, si riferisce alla conoscenza personale del mondo acquisita attraverso l’esperienza diretta. Non è una cosa negativa ed è una fonte di informazioni preziose. Il ricorso a esperienze vissute e di prima mano del mondo ha portato a lavori importanti in diversi campi. L’esperienza vissuta è stata il punto di partenza per la ricerca sugli impatti sulla salute fisica dei rilassatori chimici per capelli sulle donne nere, per la centralità dell’esperienza del paziente nella cura della salute mentale, e probabilmente il movimento #MeToo è stato il prodotto di donne che hanno condiviso le loro esperienze vissute di molestie e violenze sessuali. Ma il modo in cui questo spesso si traduce nella pratica è che l’esperienza vissuta viene presentata come una forma inattaccabile di autorità morale: quando una persona fa un’affermazione sul mondo e dice che si tratta della sua “esperienza vissuta”, non si può mettere in dubbio che ciò che sta dicendo sia effettivamente vero. Se per la vostra “esperienza vissuta” un attivista per il clima che dice la parola “fregna (cunt, nel testo inglese)” è minaccioso, o che una lezione di yoga per soli bianchi è traumatica, chi può dire che non lo sia? E se ci si identifica come vittime in qualche modo, chi può dire che non sia così? Il Board of Deputies, il Jewish Leadership Council e il Community Security Trust hanno incolpato “dal fiume al mare” di aver contribuito “all’attuale senso di paura e intimidazione delle nostre comunità”, e hanno chiesto che la polizia e il Crown Prosecution Service esaminino se “questo canto raggiunge la soglia di un reato penale”. Nel momento in cui queste organizzazioni sostenevano che lo slogan aveva creato un clima di paura e intimidazione nel Regno Unito, a Gaza erano stati uccisi 3.785 palestinesi dal 7 ottobre – più di tre volte il bilancio delle vittime dei crimini di guerra commessi da Hamas all’inizio di quel mese, e un bilancio che da allora è decuplicato. Non ho alcun dubbio che alcune persone – in particolare quelle che considerano Israele come una garanzia di sicurezza per gli ebrei nella diaspora – siano messe a disagio dal canto. Potrebbero persino sentirsi minacciati, e queste emozioni sono sincere. Ma questo non significa che debbano avere l’ultima parola sulla criminalizzazione di un discorso del genere. Inoltre, la rilevanza di questo dibattito in un periodo di bombardamenti militari indiscriminati su uno dei territori più densamente popolati del mondo ci dice qualcosa di inquietante: che l’esperienza vissuta di una comunità minoritaria può essere strumentalizzata da attori politici per nascondere ingiustizie brutali e sanguinose. A volte, le affermazioni di essere minacciati sono così sproporzionate che è difficile prenderle sul serio. Prendiamo ad esempio quello che è successo in un prestigioso istituto di ricerca scientifica di Londra. Nel marzo 2024, il personale del Francis Crick Institute ha organizzato una vendita di torte per raccogliere fondi a favore dell’associazione Medical Aid for Palestinians. Quello che ne è seguito è stata una guerra con i mezzi delle risorse umane: la direzione ha ricevuto una serie di reclami da parte di persone che sostenevano che la “presunta vendita pacifica di torte” li aveva fatti sentire insicuri. Non sono state segnalate minacce specifiche il giorno della vendita. A meno che non si soffra di una forma particolarmente aggressiva di diabete, nessuna persona di buon senso dovrebbe sentirsi intimidita da una fetta di torta al limone. Ma se la sostanza delle lamentele era sciocca, le conseguenze sono state molto più gravi. Al personale della Francis Crick è stato inizialmente vietato di raccogliere fondi per Gaza e gli è stato detto che condividere informazioni su Gaza costituiva una violazione del codice di condotta dei dipendenti. Non è la prima volta che i sostenitori di Israele prendono in prestito dal manuale della politica identitaria liberale per reprimere le espressioni di solidarietà con i palestinesi. In effetti, presentare il vittimismo palestinese come una minaccia o un insulto al vittimismo ebraico è una tattica fondamentale per promuovere la causa. Nel febbraio 2023, le denunce presentate da UK Lawyers for Israel (UKLFI) hanno fatto sì che il Chelsea and Westminster Hospital rimuovesse una mostra di opere d’arte create da bambini palestinesi. L’UKLFI ha affermato che la mostra di piatti decorativi – che includeva raffigurazioni di rami d’ulivo, pescatori e vita quotidiana a Gaza – ha fatto sentire i pazienti ebrei “vulnerabili, molestati e vittimizzati”. Non so voi, ma io non so cosa sia più deprimente: che le persone si siano davvero sentite “vittimizzate” dalle opere d’arte dei bambini, o che un’organizzazione lobbistica faccia cinicamente leva sull’antisemitismo per cancellare l’esposizione pubblica di un progetto che umanizza i palestinesi. In entrambi i casi, si tratta di una mossa resa possibile dall’abbandono di ciò che consideriamo dannoso, dall’impatto materiale alla sensazione di essere una vittima. Alcuni direbbero che non ho il diritto di dire nulla di tutto ciò, che spetta ai gruppi emarginati definire la propria oppressione. Ma come hanno dimostrato i sostenitori di Israele, l’oppressione può essere definita in modi politicamente vantaggiosi. La definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (adottata dal partito laburista del Regno Unito, da diverse città degli Stati Uniti e, secondo la stessa IHRA, da trenta Stati a livello internazionale) ne è un esempio. Quasi la metà degli esempi di antisemitismo riportati nella definizione di lavoro riguarda la critica allo Stato di Israele. Secondo la definizione, è inaccettabile dire che “l’esistenza di uno Stato di Israele è un’impresa razzista”, anche se si è ampiamente contrari all’ideologia degli etnostati. Più di venti organizzazioni della società civile palestinese hanno condannato la definizione come un tentativo di “cancellare la storia palestinese, demonizzare la solidarietà con la lotta palestinese per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza, sopprimere la libertà di espressione e proteggere il regime di estrema destra di occupazione, colonialismo e apartheid di Israele da misure efficaci di responsabilità”. Quale minoranza, dunque, può definire i parametri di una critica accettabile a Israele? A un certo punto, dobbiamo ammettere che l’identità è una forma di autorità peggiore della verità. Il modo in cui le persone si sentono è importante. Ma non è importante quanto un genocidio, una pulizia etnica o i crimini di guerra in corso. Non è importante quanto ciò che sta realmente accadendo. Il problema della sinistra è che, assorbendo gran parte dell’ossessione del liberalismo per la soggettività e l’individuo, abbiamo reso difficile sostenere che esiste una gerarchia del danno – e che la realtà materiale al di fuori della nostra esperienza conta più di come la interpretiamo. Questo è un estratto di Minority Rule: Adventures in the Culture War di Ash Sarkar (Bloomsbury). In uscita in Gran Bretagna. *Nota a piè di pagina: in Minority Rule, definisco le azioni di Israele a Gaza dal 7 ottobre 2023 un genocidio. Al momento in cui scrivo, almeno 1.410 famiglie palestinesi sono state cancellate dal registro civile di Gaza. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, altre 3.463 famiglie di Gaza hanno perso tutti i loro membri tranne uno. Le Nazioni Unite definiscono il genocidio come “un crimine commesso con l’intenzione di distruggere un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in tutto o in parte”. Ritengo che la “politica concertata di Israele per distruggere il sistema sanitario di Gaza” (si veda il Rapporto della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sui Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, e Israele, p. 18), l’uso da parte di Israele della “fame come arma da guerra” (si veda il Rapporto della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sui Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, e Israele, p. 18). ), l’uso da parte di Israele della “fame come arma di guerra” contro i civili palestinesi (si veda il Rapporto del Comitato speciale per indagare sulle pratiche israeliane che incidono sui diritti umani del popolo palestinese e degli altri arabi dei territori occupati, p. 2) e gli attacchi aerei israeliani sulle zone umanitarie designate (si veda qui e qui), costituiscono atti di genocidio. Inoltre, è mia opinione (e del team legale del Sudafrica, nella presentazione del loro caso contro Israele alla Corte internazionale di giustizia) che le dichiarazioni del presidente israeliano Isaac Herzog, del primo ministro Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant dimostrino l’intento genocida: vedi qui, p. 60. Sono d’accordo con la relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese che un’analisi delle politiche di Israele, dei modelli di violenza e del loro impatto sul popolo palestinese di Gaza raggiunge la soglia del genocidio (vedi Anatomia di un genocidio: Rapporto del relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967. Ma al di là del procedimento legale, credo che tutti noi abbiamo l’obbligo morale di chiamare ciò che sta accadendo con il suo giusto nome, anche se i tribunali internazionali devono ancora emettere il loro verdetto finale. Non c’è bisogno del permesso di nessuno per parlare secondo la propria coscienza. Ash Sarkar è redattore di Novara Media. The post L’accusa di antisemitismo come una clava contro la verità first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo L’accusa di antisemitismo come una clava contro la verità sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Perché El Salvador vuole diventare una prigione degli Stati Uniti
IL PRESIDENTE HA PROPOSTO A TRUMP DI ESTERNALIZZARE LE PRIGIONI USA, UN NUOVO MODELLO ECONOMICO DOPO L’ADDIO AI BITCOIN [ROMARIC GODIN] Nayib Bukele è determinato a sfruttare al meglio l’era Trump. Il presidente di El Salvador, un piccolo Paese dell’America centrale con una popolazione di 6,3 milioni di abitanti, si è fatto conoscere in tutto il mondo per i suoi sforzi violenti per spezzare la morsa delle gang e per aver reso il suo Paese il primo ad adottare il bitcoin come moneta legale. Rieletto trionfalmente con l’84,7% dei voti un anno fa, sta ora cercando di risollevare le sorti di un’economia traballante conquistando le grazie del nuovo presidente degli Stati Uniti. All’inizio di febbraio, Nayib Bukele, che ama definirsi “il dittatore più cool della storia”, ha fatto una sorprendente offerta al Segretario di Stato americano Marco Rubio, in visita a San Salvador, la capitale del Paese. Il presidente salvadoregno si è offerto di accogliere sul suo territorio e nelle sue carceri i criminali condannati negli Stati Uniti, compresi i cittadini statunitensi. Marco Rubio ha accolto “un’offerta molto generosa” e ha promesso di esaminarla. Anche se oggi sembra che tali deportazioni non siano legalmente possibili, la proposta di Nayib Bukele deve essere presa sul serio. In primo luogo, perché ora sappiamo che l’amministrazione Trump potrebbe cambiare le regole per rendere possibili tali trasferimenti. In secondo luogo, perché questa proposta è un tentativo del Presidente di El Salvador di ridefinire il modello economico del suo Paese. UNA STELLA DELL’ESTREMA DESTRA Attualmente El Salvador dipende fortemente dalle rimesse degli emigranti, molti dei quali vivono negli Stati Uniti. Secondo le stime del FMI, 1,4 milioni di salvadoregni vivono nel grande vicino settentrionale del Paese, pari al 22% della popolazione. Nel 2021, le loro rimesse rappresenteranno circa il 26% del PIL di El Salvador. Senza di esse, il Paese non sarebbe in grado di mantenere il dollaro statunitense come unica valuta legale e, per dirla in modo semplice, sarebbe completamente in bancarotta. Ma la logica di questo modello economico è particolare: la maggior parte della sua crescita e della sua salute finanziaria si basa sull’esportazione di persone negli Stati Uniti. Con questa logica, i rapporti con Donald Trump non potevano che essere difficili. Certo, Nayib Bukele, portando El Salvador dal Paese con il più alto tasso di criminalità al mondo a quello con il più alto tasso di incarcerazione (quasi l’1,7% della popolazione del Paese è in carcere), è diventato una star dell’estrema destra globale. Ha anche forti legami con ambienti favorevoli alle criptovalute, in particolare in Florida, che sono vicini alla nuova amministrazione. Ma la politica migratoria di Trump minaccia i salvadoregni che vivono negli Stati Uniti e, di conseguenza, l’economia salvadoregna. Durante la sua campagna elettorale del luglio 2024, il nuovo presidente ha addirittura attaccato frontalmente Nayib Bukele, accusandolo di aver mandato negli Stati Uniti “i suoi criminali”. “Sta cercando di convincere tutti che sta facendo un ottimo lavoro nel gestire il Paese. Beh, non sta facendo un ottimo lavoro”, ha concluso Donald Trump. L’arrivo del miliardario alla Casa Bianca prometteva quindi di essere pericoloso per Nayib Bukele che, allo stesso tempo, stava attraversando un periodo economico difficile. Il Paese ha pagato a caro prezzo la mania del presidente per le criptovalute. Nel 2021 ha annunciato con grande clamore che il bitcoin sarebbe diventato la valuta legale del Paese insieme al dollaro. I suoi piani erano ambiziosi: fare di El Salvador un centro per lo sviluppo delle criptovalute con la creazione di una “Bitcoin City” alimentata dal calore di un vulcano. Nayib Bukele sognava di essere un “nuovo Alessandro Magno” e di creare città per diffondere la cultura delle criptovalute. Ma queste divagazioni hanno avuto conseguenze. Nonostante l’introduzione di un “crypto wallet” sovvenzionato da 30 dollari, l’uso del bitcoin da parte della popolazione è rimasto marginale, mentre gli investitori internazionali hanno apertamente rifiutato questa politica suscettibile di indebolire le finanze pubbliche e il settore bancario del paese. El Salvador ha quindi perso l’accesso ai mercati finanziari e si è dovuto rivolgere al Fondo Monetario Internazionale, che ha logicamente richiesto l’abbandono della politica sulle criptovalute del Paese. Mentre il miracolo degli investimenti legati alle criptovalute non si è concretizzato e Bitcoin City è rimasta sul tavolo da disegno, Nayib Bukele si è trovato in una situazione difficile. Non avendo accesso al mercato, ha dovuto attingere alle sue riserve di valuta estera per pagare i debiti in dollari in scadenza. Il problema era che più le riserve si riducevano, più El Salvador perdeva la capacità di rimborsare le rate successive. Secondo il FMI, il Paese spende ogni anno circa 2 miliardi di dollari per il suo debito. All’inizio del 2024, le riserve erano scese a 2,5 miliardi di dollari. Il paese rischiava la bancarotta. PRESENTAZIONE AL FMI Nell’aprile del 2024, Nayib Bukele ha deciso di “fare un colpo di mano”, come era sua abitudine, inventando una storia di ritorno al mercato finanziario del Paese. Ma il bond da 1 miliardo di dollari emesso in sei anni aveva un prezzo enorme. Il tasso di interesse era del 12%, con un rimborso parziale previsto a partire dal 2028. Per attirare gli investitori, El Salvador ha anche promesso di pagare una maggiorazione degli interessi del 4% se il suo rating non fosse stato migliorato dalle agenzie di rating o se non avesse raggiunto un accordo con il FMI. Il Financial Times calcola poi che il costo di questo prestito tra il 2028 e il 2030 è di 333,3 milioni di dollari all’anno, un terzo in più rispetto a quello che il paese avrebbe dovuto pagare per il suo finanziamento, un terzo in più dei fondi raccolti in tre anni. Questo debito “assurdo”, per usare l’espressione del giornale, preannunciava senza dubbio una capitolazione nei confronti del FMI: El Salvador stava salvando le sue riserve a breve termine, ma non poteva far fronte a tali obblighi a lungo termine. All’inizio di ottobre, il Paese ha evitato per un pelo il default grazie a un “debt-for-nature swap”, un meccanismo finanziario che consente di rimborsare il debito pubblico a un prezzo ridotto in cambio dell’impegno a perseguire una politica di protezione ambientale. Nel caso di El Salvador, la banca statunitense JPMorgan Chase ha concesso al Paese 1,35 miliardi di dollari per rimborsare un miliardo di dollari di debito e destinare 350 milioni di dollari al ripristino di un fiume fondamentale per l’accesso all’acqua della popolazione. Questo accordo è stato sostenuto e finanziato dal governo di Washington. Ma anche in questo caso, la sua conclusione sembrava preannunciare la necessità di un accordo con il FMI. Alla fine Nayib Bukele ha dovuto cedere. Il 18 dicembre 2024, il FMI annunciò che era stato raggiunto un accordo con il governo salvadoregno. Si trattava di un accordo drastico. El Salvador ha dovuto intraprendere una politica di severa austerità per ridurre il deficit primario di 3,5 punti di PIL in tre anni. All’ordine del giorno c’erano tagli agli stipendi dei dipendenti pubblici, agli appalti pubblici, ai trasferimenti ai comuni e alla riforma delle pensioni. Nel settembre dello stesso anno, Nayib Bukele aveva già dato il via libera annunciando un bilancio complessivo in pareggio per il 2025. Ma soprattutto, il presidente ha dovuto abbandonare i suoi progetti sul bitcoin. Il FMI ha ottenuto un emendamento alla legge del 2021 per rendere “volontaria” l’accettazione della criptovaluta da parte del settore privato, la fine dei portafogli sovvenzionati, la riduzione degli acquisti governativi di bitcoin e il pagamento esclusivo delle tasse in dollari. In altre parole: il bitcoin non è più, di fatto, una valuta legale in El Salvador. La legge è stata approvata dal Parlamento a gennaio. In cambio di queste concessioni, il Fondo Monetario Internazionale concederà al Paese un prestito di 1,4 miliardi di dollari, che lo proteggerà temporaneamente dalla bancarotta. Nayib Bukele spera che questo accordo ripristini il normale accesso del Paese ai mercati. Il premio per il rischio si è certamente ridotto, ma ci vorrà sicuramente del tempo prima che il Paese sia pienamente reintegrato nel circuito finanziario internazionale. UN RITORNO ALL’ESTRATTIVISMO L’accordo con il FMI ha indubbiamente salvato Nayib Bukele, ma al prezzo di una doppia sconfitta: economica e ideologica. Il suo sogno di diventare l’hub dei cripto-asset dell’emisfero occidentale si è infranto proprio nel momento in cui Donald Trump minaccia di compromettere il reddito generato dai migranti. Per il governo salvadoregno era quindi urgente salvaguardare le relazioni con Washington, costruendo al contempo un nuovo modello economico. Per raggiungere questo obiettivo, Nayib Bukele, che a ottobre si era vantato che il prestito concesso da JPMorgan Chase aveva portato alla “più ambiziosa e impattante iniziativa ambientale nella storia” del Paese, sta ora cercando di rilanciare l’attività mineraria nel Paese, in particolare l’estrazione dell’oro. A fine dicembre, il Parlamento, ampiamente favorevole a Nayib Bukele, ha posto fine al divieto di estrazione mineraria imposto nel 2017, prima dell’arrivo al potere dell’attuale presidente. Tale divieto era rivolto in particolare alle miniere d’oro nel nord del Paese, che avevano inquinato con il cianuro il fiume Lempa, lo stesso che verrà “risanato” con il sostegno di JPMorgan Chase. Nonostante l’opposizione di gran parte della popolazione e della Chiesa cattolica, Nayib Bukele ha deciso di rilanciare l’attività estrattiva con, come al solito, promesse grandiose: si dice che nel sottosuolo di El Salvador ci siano 3.000 miliardi di dollari di oro, anche se nel 2017 la miniera principale aveva riserve stimate di 3,6 miliardi di oro ai prezzi di oggi. “L’oro trasformerà El Salvador”, ha promesso il presidente, che ha assicurato che questa volta le miniere saranno ‘moderne e sostenibili’. Nayib Bukele potrebbe voler credere di aver trovato la soluzione a tutti i suoi problemi, ma nel frattempo dovrà trovare un modo per accelerare la crescita economica che è ancora insufficiente per far fronte ai suoi impegni finanziari a lungo termine, in un momento in cui l’austerità sta per colpire il Paese. LA REPRESSIONE DELLA POLIZIA COME BASE DEL POTERE È qui che si inserisce la proposta fatta a Trump. Nayib Bukele si è fatto un nome per la repressione delle bande nel modo più duro. Dal 2021, il Paese è stato sottoposto a un regime di emergenza continua che è stato rinnovato trentaquattro volte. Più di 100.000 persone sono state arrestate e sono ancora detenute, spesso senza processo. Solo 8.000 di loro sono state rilasciate e la stampa internazionale è piena di testimonianze di famiglie che non hanno notizie dei loro cari scomparsi dopo l’arresto. In passato, le bande salvadoregne usavano le carceri come basi operative per le loro attività. Per porre fine a queste pratiche, Nayib Bukele ha optato per la militarizzazione delle carceri e l’isolamento dei detenuti. La vetrina di questa politica è il carcere di “massima sicurezza” di Tecoluca. Questo “centro di confino per terroristi” (Cecot) può contenere 40.000 persone e attualmente ne ospita 18.000. Dietro le sue alte mura, il gigantesco carcere è un inferno per i suoi detenuti, che subiscono regolarmente violenze da parte delle guardie. “Ho ancora gli incubi per la mia visita a Cecot”, ha dichiarato un funzionario straniero citato dal Financial Times. Il Paese è pieno di prigioni meno impressionanti, ma costruite sullo stesso modello. Per Nayib Bukele, questa politica di repressione ha prodotto un chiaro dividendo politico. È il capo di Stato più conosciuto nel mondo del suo Paese. I salvadoregni, che vivevano nella costante paura della violenza delle bande, hanno ritrovato la calma nelle strade e sono grati al loro Presidente per questo. Ma questa situazione non durerà per sempre. La politica ultra-repressiva presenta alcuni svantaggi. La detenzione dell’1,7% della popolazione in condizioni estreme è costosa in termini di infrastrutture e personale. In un momento in cui i cordoni della borsa si stringono, il governo dovrà fare delle scelte. Inoltre, man mano che la popolazione si abituerà al ritorno alla calma, chiederà di più, in particolare il progresso economico, ma anche il diritto di contestare alcune decisioni. Nayib Bukele è quindi in bilico perenne, ed è per questo che compensa la sua incapacità di garantire un futuro economico con sogni folli di bitcoin una volta, oro adesso. LA SPECIALIZZAZIONE ECONOMICA NELLA DETENZIONE DEI CRIMINALI Per raccogliere fondi, il presidente salvadoregno ha deciso di trasformare le sue politiche ultra-repressive in un vero e proprio business. Si offre di subappaltare parte della sua politica di sicurezza agli Stati Uniti di Donald Trump, in cambio di un compenso. Come spiega Nayib Bukele, “non sarà molto per gli Stati Uniti, ma sarà molto importante per [El Salvador]”. Fino all’ultimo miliardo di dollari è vitale per il Paese. Il Presidente di El Salvador propone che il suo Paese si specializzi nell’esportazione di servizi di detenzione per criminali pericolosi. La politica di repressione si trasformerebbe così in un posto nella divisione internazionale del lavoro. Per Nayib Bukele, questo gli permetterebbe di mantenere la sua politica di sicurezza per garantire il suo potere nel Paese. A gennaio ha pagato le bollette dell’acqua e dell’elettricità delle famiglie salvadoregne per far passare i suoi annunci di tagli al bilancio. Il Presidente può anche sperare che, se l’esperimento sarà positivo, altri Paesi vicini all’estrema destra internazionale ricorrano ai suoi servizi. Vengono in mente l’argentino Javier Milei e l’ecuadoriano Daniel Noboa, grande ammiratore di Nayib Bukele, anch’egli afflitto dalla violenza delle bande mafiose. Il salvadoregno cerca un posto nella nuova organizzazione libertaria reazionaria che sta nascendo a Washington. La proposta è anche un modo per Donald Trump di fare buona impressione su di lui. Con un’ambizione immediata: che ai salvadoregni negli Stati Uniti venga inizialmente risparmiata la deportazione. Finora sta funzionando. Nonostante il ritorno alla calma nel Paese, i concittadini di Nayib Bukele hanno visto mantenere il loro “status temporaneo protetto” fino al settembre 2026. È un sistema che impedisce le espulsioni sulla base della situazione interna del Paese di origine, che Donald Trump minaccia di abolire per i venezuelani, ad esempio. In breve, Nayib Bukele sta cercando di diventare un perfetto vassallo di Washington. Intende trarre profitto dalla completa sottomissione agli Stati Uniti e dal sostegno attivo alle loro politiche. Per lui, questo è l’unico modo per mantenere un regime che rischia di crollare sotto i suoi errori economici. Ma il rischio è che il Paese diventi non tanto una destinazione per i cripto-appassionati quanto una gigantesca prigione. The post Perché El Salvador vuole diventare una prigione degli Stati Uniti first appeared on Popoff Quotidiano. 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