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Un ricordo di Enrico Pugliese
(disegno di cyop&kaf) Enrico Pugliese ci ha lasciati la scorsa settimana. Oggi sarà ricordato alle 11:30 alla Sala della Promoteca del Campidoglio. Anche noi vogliamo ricordarlo, riproponendo questo articolo da lui pubblicato sul Manifesto esattamente trent’anni fa, nel dicembre 1995, in un periodo molto delicato, nel pieno della discussione politica su una possibile sanatoria e di una mobilitazione dai tratti chiaramente razzisti incentrata sul legame tra immigrazione e criminalità che iniziava a sfondare anche a sinistra. Leggendolo si possono ritrovare tutte le tracce che hanno fatto di Enrico una figura radicale e autorevole, capace di coniugare attività scientifica e impegno militante senza fare sconti a nessuno. Formatosi alla scuola di Portici, sociologo inizialmente concentrato soprattutto sugli studi sul mercato del lavoro, l’agricoltura e l’emigrazione, ha poi allargato molto le attività, avviando cantieri di ricerca sulle politiche sociali, sulle trasformazioni del mondo produttivo, sull’immigrazione straniera, che ha letteralmente “scoperto”, tra i primissimi, già alla fine degli anni Settanta. Pugliese è stato negli anni Settanta tra i fondatori del Centro di coordinamento campano, con Fabrizia Ramondino e Giovanni Mottura, ha sostenuto le lotte dei disoccupati, ha contribuito ad avviare negli anni Novanta un ciclo dirompente di mobilitazione antirazzista, culminato nel 1995 nella nascita della Rete antirazzista nazionale. *     *     * Strano paese, l’Italia. Sembra passata una vita dall’ossessione della grande stampa per la criminalità degli immigrati, mentre è passato sì e no un mese. Ora l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa si è spostata – e ringraziamo la Madonna – sulle difficoltà di vita degli immigrati e sull’irrazionalità di molte norme del decreto sull’immigrazione. Gli stessi giornali che ora riportano interviste sul decreto e sui suoi difetti, prima pareva non vedessero altro che prostituzione e sporcizia. Al martellare continuo sulle nefandezze di spacciatori e lenoni neri (esistenti o immaginari, poco importa) si è sostituita la pietà e la commozione per la bambina rom alla quale un qualche buon padre di famiglia ha deciso di spaccare le braccia. Le brave persone che a Torino fiaccolavano contro la criminalità straniera saranno state finalmente contente: qualcuno ha avuto il coraggio di usare le maniere forti. Non bisogna dimenticare infatti che la bambina poco prima di essere massacrata aveva – pare – tentato un furto. C’era stata – pare – flagranza. Roba da espulsione, se straniera. Una buona lezione da piccoli insegna a vivere. O no? Pensiero debole e maniere forti: ci voleva poco a capire che quell’insistere continuo sulla criminalità degli stranieri come se fosse l’unica questione di rilievo nelle grandi città italiane avrebbe favorito un orientamento contrario agli immigrati in quanto tali. I compagni pidiessini e gli intellettuali non-di-destra che andavano a fiaccolare avrebbero potuto fare un qualche pensiero sul come le loro iniziative avrebbero favorito un’immagine falsata e negativa degli immigrati. In quei giorni si andava determinando in Italia l’identità immigrato=criminale. Naturalmente non mancavano i distinguo basati soprattutto sulla fondamentale distinzione sociologica tra buoni e cattivi. E i fiaccolatori di Torino o gli opinionisti di Repubblica se la prendevano – per carità – solo con i secondi. Ma questi diventavano sempre di più; i buoni si riducevano a un’astrazione. Quando poi si propose di considerare crimine anche la condizione di clandestinità si raggiunse il colmo. Questo avveniva ieri. Le cose sono cambiate con velocità impressionante. Ho ancora nelle orecchie la lettura mattutina su Rai Tre dell’articolo di Gianni Vattimo, credo sulla Stampa, con l’irritante racconto delle sue emozioni di fiaccolatore. E l’orrore di quei giorni non è certo passato. Ma devo dire – non per raccontare anch’io le mie emozioni – che avverto una nuova fiducia e una nuova speranza. GENTE CHE LAVORA È come se d’improvviso in Italia ci si fosse resi conto di un fatto ovvio ed evidente: cioè del fatto che, innanzitutto, gli immigrati sono gente che lavora. Anzi, gente che lavora molto e guadagna poco; gente che non fa parte di eserciti della camorra (la quale dispone di ben altre truppe). Comincia a farsi strada sulla stampa e anche nel senso comune un fatto che pareva dimenticato nei mesi scorsi: cioè che le immigrate non fanno in generale le prostitute (come sembrava dall’Espresso e da Panorama), bensì semplicemente le donne, le lavoratrici, le madri di famiglia, le figlie, le scolare ecc. La stampa e il senso comune sembrano aver scoperto che quasi mai gli immigrati riescono a godere dei diritti (pochi) che le leggi dello stato stabiliscono per loro. Insomma, sembra che stia cambiando l’aria. Lo so, sembra. E il clima delle istituzioni non è certo dei migliori: il voto del Senato (Pds compreso) sulla costituzionalità dell’articolo 7 non è certo un buon segno. Ma c’è qualcosa di meno greve nell’umore della gente. Torino avrà pure avuto le fiaccolate dei giannivattimi e le ronde dei mazzieri. Ma ha avuto anche la manifestazione del 19. E a Firenze il sindaco Primicerio è sceso in piazza non contro gli immigrati, ma per i loro diritti. Questo abominevole decreto, poi, è esso stesso pieno di contraddizioni. E di questo ha mostrato di rendersi progressivamente conto la grande stampa, compresa – anche se più tardivamente – l’Unità. La penosa difesa d’ufficio del decreto da parte del Pds e del suo giornale sta mutandosi in un dibattito più o meno pubblico sulla questione, nonostante il voto al Senato. La situazione è in movimento e la matassa è difficile da sbrogliare. SCAMBIO TRA DIRITTI Per capire qualcosa anche sul possibile futuro del decreto è bene forse partire dalla sua storia. Esso doveva nascere come intervento punitivo contro gli immigrati criminali, sulla base delle sollecitazioni dei fiaccolatori di Torino e loro alleati. Poi qualcosa è cominciato a muoversi nella società e nella politica. Non sappiamo la “storia nascosta” del decreto. Ma è come se a un certo punto fossero entrate in gioco una serie di pressioni, anche progressiste e solidaristiche, e come se alla fine si fosse determinata una sorta di scambio tra area dei diritti e dei principi costituzionali e area dei diritti sociali: insomma, “uno scambio tra espulsioni e regolarizzazioni”. Non è certo una bella cosa, e d’altronde tutto questo è un po’ fantapolitica. Ma la mostruosità economico-giuridico-sociale del decreto, e la sua contraddittorietà – cioè il suo carattere “benevolo” su qualche punto (si pensi all’articolo sulla sanità) e al contempo lepenista oltre ogni limite su altri – mostra che il suo estensore – vorrei conoscere la sua faccia – ha dovuto contentare molti partiti, molti gruppi di pressione, molti umori. Ci sono poi i “si dice”, che come tutti i “si dice” vanno presi con le pinze, ma non tutti sono improbabili. Per esempio pare che la Lega sia riuscita a far cancellare un articolo relativo alla regolarizzazione dei lavoratori autonomi (questione essenziale, soprattutto nel sud). Se non è vero, c’è stata una distrazione imperdonabile del “legislatore”, il quale ha lasciato fuori una parte significativa degli interessati. Se invece è vero, si è trattato di un episodio di indubbio squallore. SCHIZOFRENIE ANTISANATORIA Passiamo al lato positivo. Devo riconoscere innanzitutto che non mi aspettavo una apertura sul tema della regolarizzazione. La regolarizzazione è un’operazione di buon senso necessaria anche dal punto di vista della legge e dell’ordine. E quelli che sono contrari – il partito antisanatoria – sono a mio avviso un po’ schizofrenici: da un lato tendono a raccontare un’improbabile avvenuta invasione di oltre un milione di clandestini; dall’altro sostengono che l’immigrazione clandestina è essa stessa crimine da punire, per cui non resta che la deportazione di massa. E vorrei vedere come si fa: manco la Bosnia! Tuttavia su questo aspetto la chiusura in passato era netta. Non entro nel merito delle espulsioni e della loro incostituzionalità (oltre che ingiustizia). Il voto del Senato è un punto a svantaggio della civiltà, ma ancora ci sono la Corte costituzionale e altre istanze. Trovo ora importante la questione della regolarizzazione e delle impossibili condizioni richieste per ottenerle. Qui la contraddittorietà del decreto è sublime. In primo luogo non è chiarito quanto tempo sia stato necessario lavorare presso un padrone per aver diritto alla regolarizzazione come lavoratore dipendente. In generale, sembra difficile che, allo stato, possano regolarizzarsi la maggior parte dei lavoratori immigrati occupati al nero in attività precarie. Si dice che le regolarizzazioni non devono incentivare il lavoro nero. Ma è proprio questo il punto: solo permettendo al lavoratore occupato al nero di regolarizzarsi gli si concede anche la possibilità di difendere i propri diritti sul lavoro. E qui entra l’altra questione veramente irritante, quella del risparmio. La penalità finanziaria prevista riguarda tutti, anche quelli con un lavoro stabile. L’ineffabile “legislatore” deve aver subìto pressioni diverse. Per esempio è entrato in campo il partito del risparmio. Non so quali malaccorti consiglieri hanno suggerito di far spendere ai datori di lavoro quelle cifre per regolarizzare i propri dipendenti. Sei mesi di contributi arretrati sono davvero un’enormità. Una punitività del genere, in un’occasione volta peraltro a fare emergere il lavoro nero, non si era davvero mai vista. Non sono storie quelle che si raccontano su datori di lavoro che licenziano i loro dipendenti per non regolarizzarli. Idea davvero disumana è stata quella di far pagar caro un doveroso atto di civiltà qual è quello di ufficializzare rapporti di lavoro già al nero. L’idea di imporre un costo finanziario così grave non è stata solo crudele: è stata anche stupida. In questo modo l’Inps non incasserà i soldi degli immigrati e dei loro datori di lavoro, giacché rischia di esserci lo sciopero dei padroni che impedirà le regolarizzazioni. A volte però questi sono brave persone (o delle brave famiglie nel caso delle colf) che non hanno potuto in passato regolarizzare la posizione dei propri dipendenti a causa della chiusura delle norme finora vigenti. Insomma, il furbacchione che molto voleva far avere all’Inps rischia di non fargli avere nulla. E poi, proprio sugli immigrati bisognava andare a risparmiare? Si è trattato, secondo me, di una miscela di rigorismo, crudeltà e scarsa conoscenza del problema espressa trasversalmente da gentiluomini di varia fede. Queste cose le sanno bene gli immigrati che si stanno mobilitando dappertutto in Italia. Essi capiscono come il decreto funzionerà (e ovviamente che implicazioni avrà per la loro vita) ben più di chi lo ha stilato. Dai tempi della legge Martelli non si vedevano tante mobilitazioni con contenuti concreti e con grande scambio di informazioni. Dopo gli anni della crisi dell’associazionismo, si vedono di nuovo insieme immigrati di varie nazionalità discutere all’interno dei loro gruppi e con gli altri. Le sedi sindacali vedono assemblee affollate di immigrati e personale competente (volontari, avvocati). OBIETTIVI PRIORITARI Insomma, si è venuto formando un movimento con l’obiettivo che il decreto faccia il minor male possibile. Ora, affinché questo obiettivo venga in qualche modo raggiunto, credo che ci si debba mobilitare secondo due direzioni prioritarie. La prima riguarda i criteri di attuazione del decreto nel periodo in cui resterà in vigore, quindi già da oggi. A questo proposito c’è molto da fare e molto si sta facendo. Bisogna controllare che non vengano date interpretazioni restrittive sia per quel che riguarda le regolarizzazioni che per quel che riguarda i ricongiungimenti familiari o le forme di assunzione dei lavoratori. L’altra direzione è la mobilitazione contro il decreto così come è ora affinché lo si possa cambiare con pochi e mirati emendamenti. La messa in luce delle incongruenze e della estrema selettività del decreto deve servire a questo scopo. Il decreto decadrà molto probabilmente, a prescindere dalle mobilitazioni, per i motivi tradizionali per cui i decreti, almeno quelli importanti, spesso decadono. Bisogna però evitare che esso venga reiterato nella sua forma originaria. Bisogna approfittare di questo periodo di parziale rinsavimento dell’opinione pubblica e di forte impegno dei gruppi di pressione in materia di immigrazione perché quel mostro che è ora il decreto diventi qualcosa di più organico. Bisogna innanzitutto che l’obiettivo della regolarizzazione non venga vanificato, come ora, da norme e vincoli che lo rendono impraticabile. Per quel che riguarda gli immigrati il clima è leggermente migliorato nelle ultime settimane. Essi non godono più tanto di pessima stampa. Non sappiamo quanto questo nuovo clima possa durare. Tuttavia questa mi sembra una buona occasione per darsi da fare.
Armi e appalti: l’Italia mantiene aperto il canale con l’industria militare israeliana
Nonostante la campagna di sterminio contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza, Arma dei Carabinieri e Polizia di Stato continuano ad equipaggiare i propri reparti di pronto intervento rifornendosi presso le più importanti aziende israeliane. L’11 novembre 2025, in occasione di “Milipol”, l’esposizione internazionale delle attrezzature per le forze […] L'articolo Armi e appalti: l’Italia mantiene aperto il canale con l’industria militare israeliana su Contropiano.
Il caso di Ahmad Salem, giovane palestinese detenuto in Italia
Per i palestinesi in Italia la vita sta diventando difficile. Prima gli arresti di Anan Yaesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh, adesso la detenzione di un altro giovane palestinese. Invece di perseguire i genocidi, la magistratura italiana sembra più impegnata a perseguire chi vi si oppone. Ahmad Salem è un […] L'articolo Il caso di Ahmad Salem, giovane palestinese detenuto in Italia su Contropiano.
In Italia le “minacce alla democrazia” non esistebbero. Il Parlamento europeo si defila
Le istituzioni europee, come prevedibile, vanno sempre più a destra. A confermarlo è la notizia che fine anno la prevista missione del Parlamento europeo sul monitoraggio dello stato di diritto in Italia non si farà. La proposta era stata avanzata dalla commissione Libertà Civili (Libe) del parlamento di Strasburgo, ma […] L'articolo In Italia le “minacce alla democrazia” non esistebbero. Il Parlamento europeo si defila su Contropiano.
Non abbassare il tiro nella mobilitazione per la Palestina
Altri 34 palestinesi (tra cui 18 bambini) sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani su Gaza tra mercoledi e giovedi e nonostante il cessate il fuoco. Ma per i telegiornali italiani questa non è stata una notizia degna della dovuta attenzione. Altri 245 sono stati uccisi nelle settimane precedenti da quando […] L'articolo Non abbassare il tiro nella mobilitazione per la Palestina su Contropiano.
Oltre il banco degli imputati. La resistenza palestinese sotto processo a L’Aquila
(disegno di giancarlo savino) Quella di venerdì 31 ottobre doveva essere una semplice udienza tecnica: nessun testimone, né dell’accusa né della difesa, solo i periti linguistici convocati per il reintegro delle traduzioni all’interno dei fascicoli del processo che da mesi va avanti a carico di Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh. Per questo in aula siamo in pochi: i più affezionati al processo, che dopo le estenuanti tre giornate di udienza di fine giugno, che pure avevano segnato un’apparente accelerazione, ora procede a intermittenza. Approfittiamo di queste udienze di passaggio, apparentemente secondarie, per rimettere ordine negli appunti. Ci eravamo lasciati mentre tracciavamo una rotta tra traduzioni monche, trascrizioni spezzate, liste di ID telefonici, numeri che si rincorrevano e moltiplicavano, disegnando una geografia incerta, dove i riferimenti cambiavano di continuo, ritornando con nomi diversi anche quando parlavano delle stesse persone. E da lì riemergiamo, come dopo una lunga traversata, ancora storditi dalla confusione. La difficoltà vera, ancora oggi, è che di fronte a noi non si presenti una linea d’accusa chiara, coerente, dotata di un impianto che si sostenga su basi fattuali. Lascia attoniti il fatto che, a fronte della detenzione di Anan (da oltre diciannove mesi in regime di alta sicurezza) e di un’imputazione così pesante, quella di terrorismo internazionale (articolo 270-bis c. p.), che pesa sulla vita dei tre imputati, non ci sia ancora un impianto probatorio ben definito. Uno dei vulnus più importanti che ha segnato tutta la linea accusatoria, fin dalle prime udienze, è stata la totale mancanza di contesto geopolitico degli elementi portati in aula rispetto a ciò che accade da anni in Palestina, alla sua lunga storia genocidaria, alla realtà dei Territori Occupati e alla relativa struttura di apartheid e, soprattutto, al diritto alla resistenza del popolo palestinese. Eppure, nel frattempo, non possiamo non dire che fuori da quell’aula di tribunale non sia successo nulla. Anzi! Sul piano politico, più di un passaggio si è intrecciato direttamente con la storia stessa di questo processo. PASSAGGI MINORI Settembre è stato un mese chiave. Il 23 Anan Yaeesh viene trasferito all’alba dal carcere di Terni al penitenziario di Melfi, nella remota Basilicata. Un provvedimento apparso da subito come un tentativo di recidere la rete di solidarietà che, in oltre un anno, si era fatta sempre più visibile e ampia intorno alla figura del prigioniero politico. Una decisione che arrivava in un momento tutt’altro che neutro. Solo ventiquattr’ore prima, il 22 settembre, si era svolto uno sciopero nazionale promosso dai sindacati di base, lanciato su iniziativa dei portuali, al grido di “blocchiamo tutto”. Era il momento in cui il mondo guardava di nuovo a Gaza, ne riconosceva finalmente il genocidio, mentre seguiva la rotta della Global Sumud Flotilla che cercava di rompere il blocco navale israeliano. Il secondo passaggio riguarda il trasferimento della giudice a latere. Il decreto risale all’8 settembre, ma alla fine del mese nessuna comunicazione era ancora giunta al Consiglio superiore della magistratura per garantire la continuità del collegio. Un vuoto procedurale che ha causato un rinvio significativo: saltano le udienze del 19 e del 26 settembre, si torna in aula solo il 31 ottobre. Un rinvio che ha sollevato più di un sospetto che quei ritardi non fossero affatto casuali, ma calibrati per evitare udienze troppo scomode e troppo vicine a una data che si stava profilando all’orizzonte, quella della manifestazione nazionale del 4 ottobre a Roma contro il genocidio in Palestina. Nel clima incandescente di quei giorni, la Corte e l’intero impianto processuale si sarebbero trovati sotto i riflettori di un’opinione pubblica sempre più ampia, arrabbiata e determinata a richiedere la fine di ogni complicità dello Stato italiano con il genocidio in corso. È difficile immaginare, per quel momento, una situazione più carica di tensione di quella che avrebbe potuto generarsi in un’aula di tribunale dove lo Stato italiano, nella sua funzione giudiziaria, si fa braccio della repressione israeliana. RITORNO IN AULA Il 31 ottobre, dunque, si torna in aula. Il Collegio è stato ricomposto promettendo una continuità minima nel filo delle valutazioni. E non è poco, visto tutto il resto. L’inizio della mattinata è movimentato dal solito momento di bagarre tra il pubblico in aula e la pm, che intima la rimozione di una bandiera palestinese introdotta in aula e invoca, per le prossime udienze, il divieto di portare kefiah, in nome di una presunta “assenza di connotazioni politiche”. Si risponde con insofferenza aperta davanti alla riproposizione di un teatrino già visto mille volte che oggi appare soprattutto come un tentativo di deviare l’attenzione dall’approssimazione con cui, ancora una volta, si è arrivati fin qui, con traduzioni mancanti. È sul reintegro delle traduzioni dall’ebraico che si addensa il punto più delicato della giornata. Si torna su un documento già acquisito a luglio, sempre su richiesta della difesa. Si tratta di alcune immagini tratte dal profilo Facebook ufficiale del corpo logistico dell’IDF, che documentano interventi di ristrutturazione compiuti nel 2021 all’interno di una caserma militare situata nel perimetro di Avnei Hefetz. Una delle diciture riportate in quelle foto viene letta integralmente in aula: “Benvenuti ad Avnei Hefetz – campo militare”. Viene tradotto anche un secondo cartello, con la scritta “Menashe”, indicato come “brigata locale”, probabilmente riferita all’unità che prese parte ai lavori di ristrutturazione della base. Due immagini che, da sole, sono sufficienti a incrinare la narrativa dell’accusa, per cui Avnei Hefetz sarebbe un semplice insediamento civile. È a questo punto che la Procura gioca una carta pesante. Chiede l’acquisizione di un documento redatto da un ufficiale di collegamento tra l’ambasciata israeliana e il Sud Europa, in cui si definisce Avnei Hefetz come un insediamento civile. La Corte accoglie la richiesta in parte: non acquisisce il documento, ma decide comunque di convocare l’autore (o un suo delegato) alla prossima udienza del 21 novembre. Per la prima volta, in questo processo, sul banco dei testimoni salirà un funzionario diplomatico di uno Stato estero, che non è spettatore neutrale della storia che si racconta, ma parte in causa nel conflitto da cui tutto origina. L’ambasciatore, o chi parlerà al suo posto, sarà chiamato a rispondere a una domanda precisa, che è anche la domanda su cui pende il futuro di tre imputati: che cos’è Avnei Hefetz? La difesa, in controcanto, chiede l’audizione dell’architetto francese Léopold Lambert, esperto di urbanistica coloniale, che da anni studia le trasformazioni militari del territorio in Cisgiordania. Intanto, la tensione in aula è salita di qualche grado. Israele entrerà in tribunale. Non per farsi finalmente giudicare. Non per rispondere ai decenni di occupazione, di apartheid, di crimini contro la popolazione palestinese. No. Ancora una volta, siederà dal lato dell’accusa, con la voce autorevole di un ambasciatore incaricato di definire la natura di un luogo. Sarà lui, o chi per lui, a dire cos’è Avnei Hefetz. COS’È AVNEI HEFETZ? Il nome compare per la prima volta in aula il 25 giugno, durante la deposizione dell’ispettrice capo della digos, Alessia Fiordigigli, chiamata a illustrare i dati emersi dalle intercettazioni dei telefoni sequestrati ai tre imputati. Nei documenti dell’accusa torna spesso il nome di Avnei Hefetz, colonia israeliana nei pressi di Tulkarem, nei Territori Occupati. Secondo la Procura, sarebbe l’obiettivo presunto di un’azione pianificata dalle cosiddette Brigate di Risposta Rapida di Tulkarem, e fulcro di ipotetici legami con gli imputati. Capire la natura di Avnei Hefetz non è affatto un mero tecnicismo. Infatti, in  un processo che ruota intorno a ipotesi di associazione terroristica, messaggi intercettati e presunte finalità eversive, stabilire se quel luogo sia un obiettivo civile o militare diventa un nodo cruciale. Peccato che l’intero impianto accusatorio poggi su un fraintendimento: si continua a considerare Avnei Hefetz e a parlarne come se fosse un’area civile, ordinaria, situata in un contesto di pace. Quando non è così. Si sta, volutamento o meno, ignorando che quel territorio è occupato militarmente. Una realtà che cambia radicalmente il senso di tutto ciò che viene contestato. Quel fraintendimento fu, a giugno, il terreno di un serrato dibattimento tra l’avvocato Flavio Rossi Albertini e l’ispettrice capo della digos, Alessia Fiordigigli, durante il controesame della difesa che mirava a far emergere la superficialità e il metodo discutibile con cui era stata effettuata l’indagine. Dallo scambio tra l’avvocato Rossi Albertini e Fiordigigli, emergeva che al di là di una rapida consultazione di fonti aperte, le indagini non si erano mai spinte ad accertare la natura esatta di Avnei Hefetz. Mai, in sostanza, era stato verificato se si trattasse di un insediamento civile, militare o un check-point. Il documento Onu che Fiordigigli citava come conferma della natura civile dell’insediamento, in realtà, non supportava affatto quella tesi. Anzi, la smentiva. “The Question of Palestine” qualifica le colonie nei Territori Occupati, tra le quali Avnei Hefetz, come illegali ai sensi del diritto internazionale e le indica esplicitamente come uno degli ostacoli principali al conseguimento della pace. Chiunque abbia letto quel testo, anche solo per sommi capi, riconosce subito che è un testo di denuncia. Lacune di questo genere emergevano anche su altre questioni: prima di tutto sulle ricerche (o meglio le “non ricerche”) riguardo le modalità, le pratiche e le conseguenze dell’occupazione militare israeliana nel governatorato di Tulkarem, secondo Fiordigigli “non inerente” alle indagini di polizia; e ancora sull’eventualità che l’azione di cui l’imputato scrive in chat sia stata effettivamente consumata, per la quale non emerge dalle indagini nessun riscontro. Anche nel corso del controesame del 25 giugno nessuna prova documentale che attestasse l’effettiva realizzazione dell’azione è stata fornita. «Ma sappiamo cosa è avvenuto?», domandava in ultimo la difesa a Fiordigigli. «No». LE PIETRE DEL DESIDERIO Seguiamo il “metodo Fiordigigli” e proviamo a googlare Avnei Hefetz. In pochi secondi si apre davanti agli occhi un piccolo mosaico di fonti che monitorano la colonizzazione dei Territori Occupati: le mappe minuziose di Peace Now, i rapporti di POICA sulle trasformazioni dei villaggi palestinesi, le schede del Land Research Center. E poi, quasi nascosta tra i risultati, una pagina del rabbinato dell’insediamento che ci descrive l’intero complesso: “L’area dell’insediamento comprende la ‘montagna’ sulle sue due cime, tutti i quartieri dell’insediamento, la base militare fino oltre la porta dell’insediamento, la torre di osservazione militare – sono tutto un insieme, un unico insediamento”. Una frase così semplice e così trasparente da rivelare, più di molti report, la natura ibrida di Avnei Hefetz. Fondata nel 1987, Avnei Hefetz (il cui nome significa “le pietre del desiderio”) si arrampica su un’altura che domina la piana di Tulkarem e la rete di villaggi palestinesi – Shufa, Kafr al-Labad, Izbat Shufa, Al-Hafasa – che da generazioni coltivano quella terra fertilissima oggi inglobata dalla colonia. La posizione, scelta con cura, offre un controllo visivo e logistico sull’intero territorio. Durante la Seconda Intifada l’area sarà la base di partenza per incursioni verso i villaggi vicini, e nei tempi ufficialmente “ordinari” continua a funzionare come strategico punto di sorveglianza. L’espansione dell’insediamento si può seguire scorrendo gli ordini militari. Nel 2005 l’ordinanza T/77/05 espropria 418 dunum (42 ettari) di terreni coltivati per “costruire una nuova recinzione”, che di fatto amplia il perimetro coloniale inglobando campi, oliveti e sentieri di uso comunitario. Dieci anni più tardi un altro ordine autorizza la costruzione di una strada asfaltata riservata ai coloni che attraversa i terreni di Shufa e li divide in due, lasciando i contadini dall’altra parte di una barriera invalicabile presidiata da check-point fissi. Seguono, nel 2017 e nel 2018, ulteriori ordinanze che prevedono demolizioni e nuove confische di proprietà palestinesi. Nell’arco di poco più di un decennio Avnei Hefetz raddoppia la propria estensione e trasforma radicalmente la geografia dell’area. Tra i villaggi colpiti dall’espansione coloniale di Avnei Hefetz, Shufa è quello che ha pagato il prezzo più alto in termini di frammentazione, fino a trovarsi quasi tagliato fuori da qualsiasi collegamento. La sua strada principale verso Tulkarem viene chiusa nei primi anni Duemila con cumuli di terra e blocchi di cemento. Nel 2011 la comunità tenta di costruire una strada agricola per raggiungere i campi e mantenere un minimo di collegamento con i villaggi vicini, ma anche quel tracciato viene sigillato dall’esercito per ragioni di sicurezza legate alla colonia. Da allora una torre militare è piantata a guardia dell’ingresso del villaggio. Shufa vive letteralmente all’ombra di Avnei Hefetz, isolata dal resto della piana, con il suo territorio piegato e risagomato dalla colonia. OLTRE IL BANCO DEGLI IMPUTATI C’è un punto che continua a restare scoperto mentre ci avviciniamo alla prossima udienza. Non riguarda soltanto la cronaca del processo, ma il modo in cui scegliamo di guardare alla resistenza armata dentro un territorio occupato. Non si tratta semplicemente di stabilire se un atto rientri o meno nel diritto alla resistenza riconosciuto dal diritto internazionale, ma di comprendere che cosa viene messo a fuoco e che cosa invece scompare quando quella valutazione viene trasportata in un’aula di giustizia europea, lontana dal luogo in cui la violenza si produce. Con questo slittamento geografico e politico è proprio la parola “occupazione” a finire ai margini della scena, mentre è la risposta armata e violenta a occupare l’inquadratura con tutto il suo immaginario. Poi c’è quella parola, “terrorismo”, che appena entra in scena manda tutto in cortocircuito, perché non si poggia su una definizione unica e condivisa ma continua a oscillare tra convenzioni, risoluzioni, formule che non arrivano mai a sovrapporsi del tutto. In questa zona grigia si annida forse la confusione più pericolosa che finisce per accostare la resistenza di un popolo ad atti di terrorismo, mettendo sullo stesso piano chi si ribella a un regime di dominio e chi fa del terrore un metodo ordinario di governo. Le condotte attribuite ad Anan,Ali e Mansour vengono giudicate sotto il capo di imputazione dell’articolo 270-bis del codice penale, che nell’ordinamento italiano definisce il terrorismo, anche internazionale, seguendo il crinale delle intenzioni. Significa che non è rilevante la scena materiale in cui i fatti si producono a costituire il criterio principale della valutazione, ma il fine che viene  attribuito a queste azioni sul piano giuridico. La norma individua come terroristiche le azioni che mirano a intimidire gravemente la popolazione, a costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto, a destabilizzare o distruggere le strutture politiche, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale. Se per puro esercizio volessimo applicare quelle stesse parole – intimidire, costringere, destabilizzare – alla geografia dei Territori Occupati, vedremmo che descrivono in modo quasi letterale la maniera in cui colonie e coloni disciplinano lo spazio e chi lo abita. Nella Cisgiordania occupata, dove le colonie israeliane sono vietate dal diritto internazionale e tuttavia continuano a espandersi, chi è che usa l’intimidazione e la coercizione come strumenti ordinari di governo del territorio e di pressione sulla popolazione perché abbandoni la propria terra? Durante l’ultima stagione della raccolta degli ulivi, testate internazionali come Al Jazeera hanno documentato una sequenza di aggressioni a contadini palestinesi da parte di coloni con il volto coperto, armati di bastoni e fucili, che aggredivano chi raccoglieva, incendiavano intere file di alberi, davano fuoco alle auto e ai casolari ai margini dei campi. In alcune immagini si vedono distese di ulivi anneriti lungo pendii interi trasformati in cenere. L’altro elemento che il 270-bis indica tra i fini del terrore è la destabilizzazione dell’ordine politico e sociale, e difficilmente si potrebbe trovare qualcosa di più vicino a ciò che producono le colonie in Cisgiordania. La Cisgiordania è ormai un arcipelago di villaggi palestinesi disseminati tra blocchi di colonie e infrastrutture israeliane. Per chi abita questi luoghi l’accesso alla terra e alle risorse è limitato, la mobilità quotidiana è subordinata ai check-point, si vive tra permessi e deviazioni forzate, sotto la minaccia costante di demolizioni e sgomberi. La destabilizzazione incide anche sul piano psichico, simbolico e sociale: si interrompono i legami tra villaggi e città, si spezza la continuità tra scuola, lavoro e assistenza sanitaria, si incrina la trama di relazioni e di luoghi che teneva insieme memoria e senso di appartenenza. In una geografia come questa l’orizzonte di vita rimane sospeso, perché nulla (la casa, il campo, la strada che si percorre ogni giorno) può dirsi davvero garantito neppure nel domani più vicino. In questo quadro rientra Avnei Hefetz. È un luogo in cui tentare di applicare una distinzione netta tra civile e militare non regge, punteggiato com’è da case, torri, recinzioni, strade d’accesso e sistemi di sicurezza che formano un corpo unico senza soluzione di continuità. Questa fusione tra colonia e apparato militare viene definita da Francesca Albanese nel suo rapporto alle Nazioni Unite del 2023 con l’espressione militarised settler-colonial occupation: nelle colonie non si hanno due regimi distinti, uno “militare” e uno “civile”, che occasionalmente si toccano, ma un unico regime di potere che utilizza tanto la forza armata dello Stato quanto la violenza dei coloni come strumenti integrati dello stesso progetto. La separazione tra “coloni” e “soldati” è una distinzione utile al diritto, alla diplomazia e, infine, anche alla propaganda israeliana. Per chi l’occupazione la subisce, questa distinzione semplicemente non esiste: la violenza che gli arriva addosso è la stessa, sia che provenga dal civile armato che scende dalla colonia, sia che provenga dal soldato che lo accompagna. Nella sua esperienza, entrambi si confondono in un’unica figura di potere, che dispone della sua vita e della sua possibilità di restare su quella terra. Quando un soggetto armato, pur non arruolato, coopera stabilmente con le forze d’occupazione, svolge funzioni di sicurezza e partecipa direttamente ad azioni ostili, quale status assume in quel frangente? Una colonia può davvero essere esclusa dalla categoria di obiettivo militare, se si guarda alla sua struttura e al suo scopo di occupazione? Non va dimenticato che questi interrogativi si collocano dentro un quadro giuridico segnato da un doppio standard, che impedisce di riportare la violenza a una piazza comune del diritto. Tutto si poggia su un’asimmetria radicale sul piano legale: nei casi di violenza attribuita a palestinesi la condotta viene giudicata da tribunali militari israeliani, mentre per i coloni la giurisdizione resta sul piano civile, se e quando un procedimento viene effettivamente aperto. A questo punto, non è più importante soltanto stabilire che cosa sia lecito come atto di resistenza armata, ma anche capire chi sta usando il proprio potere per attribuire a quell’atto un significato di resistenza o, al contrario, di terrorismo, e da quale posizione lo sta facendo. Il 21 novembre in aula ascolteremo l’ambasciatore israeliano, chiamato dalla Corte d’assise dell’Aquila a descrivere la natura della colonia di Avnei Hefetz. La sua voce, con ogni probabilità, si aggiungerà a quelle che pronunceranno la parola “terrorismo” guardando unicamente verso il banco degli imputati. Eppure dovrebbe essere proprio lui, in quanto rappresentante dello Stato israeliano che ha voluto e protetto colonie come Avnei Hefetz, a essere chiamato a rispondere in aula: non con una definizione tecnica di che cos’è una colonia, né con l’ennesima lezioncina su quella che viene presentata come normalità insediativa nei Territori Occupati, ma assumendosi fino in fondo la responsabilità politica e giuridica della violenza che queste strutture esercitano sui palestinesi e sui loro territori. Una volta per tutte. (francesca di egidio)
“UNA LEGGE DI BILANCIO DI MATRICE CLASSISTA” QUELLA DEL GOVERNO MELONI. L’ANALISI DEL PROFESSOR ALESSANDRO VOLPI
Si accende il dibattito rispetto alla iniqua manovra del governo, in particolare su fisco e pensioni. Rispetto alla riforma IRPEF, stamattina il ministro Giorgetti ha sostenuto che i provvedimenti aiuterebbero “il ceto medio e chi ha uno stipendio intorno ai duemila euro netti”. In realtà ai redditi fino a 28 mila euro il risparmio sarà solo di circa 30 euro all’anno, mentre ai redditi di 200 mila euro saranno oltre 400 euro, come certificato da ISTAT e Banca d’Italia. “Nessuno vuole massacrare Giorgetti. Quelli che oggi sono massacrati sono gli italiani, sono i lavoratori dipendenti, sono i giovani, sono i precari, sono le donne. Questi sono quelli massacrati da questa crisi” ha detto stamattina il segretario Cgil Landini. Aumento della pressione fiscale, tranne che per le banche e per le imprese, vantaggi per i ceti medio alti, perfetto rispetto dei diktat europei, nessun aiuto per la casa, austerità per una fascia di popolazione sempre più ampia, privatizzazioni del sistema sanitario e pensionistico, tagli agli enti locali e aumento delle spese militari. Questa la legge di bilancio Meloni secondo Alessandro Volpi, docente presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa, ai nostri microfoni. Ascolta o scarica  
La Puglia alle urne tra bonapartismo e trasformismo
(disegno di escif) In un saggio del 1993 dal titolo Democrazia o bonapartismo, Domenico Losurdo si interrogava sul delicato equilibrio che regge le democrazie liberali, fondato su un suffragio universale fragile che rischiava uno svuotamento dall’interno della sua funzione principale: assicurare la rappresentanza di ogni faccia della società. Una deriva che Losurdo vedeva nella crescente concezione della politica come acclamazione di un leader carismatico e investito da una moltitudine variegata e con sempre meno riferimenti, in un mondo che di lì a poco avrebbe visto il pieno compimento della mediatizzazione della politica con l’avvento di Berlusconi al governo. Un bonapartismo soft che anche l’Italia avrebbe ereditato dagli schemi politici statunitensi, fondati su collegi uninominali e leadership riconoscibili, carismatiche ed espressione più di interessi organizzati che di ampie basi sociali. Questo dilemma si ripropone, oggi, proprio nella regione di provenienza del filosofo: la Puglia. La regione adriatica, ormai annoverata tra le roccaforti del centro-sinistra dopo vent’anni di governo regionale ininterrotto, è chiamata al voto il 23 e il 24 novembre. Un voto che la larga maggioranza dei commentatori ritiene dall’esito scontato, ma che nasconde al suo interno tutte le contraddizioni di una politica ormai sempre meno pratica pubblica e sempre più mera gestione. Una deriva manageriale che si esprime in primis nel candidato favorito alla presidenza: Antonio Decaro. Una carriera politica iniziata come assessore (in quota tecnica) alla mobilità e al traffico della città di Bari della giunta Emiliano, dopo un’esperienza in consiglio regionale, viene eletto sindaco del capoluogo pugliese per due mandati consecutivi. Una figura molto popolare che ha sempre saputo mobilitare un elettorato trasversale, convinto da una pratica amministrativa fondata sulle opere pubbliche, vuoi per una deformazione professionale – Decaro è ingegnere civile –, vuoi perché permettono di fornire una testimonianza materiale dell’operato amministrativo. Un cavalcavia o una strada sono indicatori molto più immediati, ma soprattutto concreti, che può apprezzare anche un elettorato disattento, come quello la cui massima espressione politica si riduce al voto ogni tot. anni. Decaro è l’espressione più riuscita di un modello ben preciso, quello dell’amministratore operoso, che controlla i cantieri in città, che informa la cittadinanza attraverso i suoi canali personali con video e foto, e che parla poco di politica. Una deriva, quella del disaccoppiamento tra politica e amministrazione che in Puglia ha contagiato non poche amministrazioni comunali. A tal proposito, rimane esemplare un’affermazione del sindaco di Conversano – cittadina a trenta chilometri dal capoluogo – che durante un consiglio comunale affermò come lui non facesse politica, bensì il suo lavoro. Un aspetto complementare a quello della spoliticizzazione delle cariche elettive è quello della formazione di un vero e proprio “blocco di amministratori” che si esprime in una ufficiosa formazione politica: il partito degli amministratori. Una formazione che si è rivelata fondamentale per chiunque abbia aspirazioni di governo in una regione sempre più sbilanciata verso il proprio capoluogo. Difatti, la probabile elezione di Decaro vedrebbe per la seconda volta consecutiva il passaggio dalla carica di sindaco di Bari a quella di presidente della Puglia – dopo l’elezione e i due mandati di Michele Emiliano prima sindaco di Bari fino al 2014 e poi presidente di regione fino al 2025. Ed è proprio il dualismo tra i due “baresi” Emiliano e Decaro quello che ha deciso negli ultimi anni le sorti politiche del resto della regione, specialmente nell’area della città metropolitana di Bari. Secondo uno schema sempre simile. In prossimità delle elezioni comunali nei vari territori, il notabile barese di turno – Emiliano o Decaro – prova a insediare un sindaco “amico”, espressione della propria corrente così da avere più peso con cui presentarsi sul palcoscenico regionale. Un processo che ha permesso a molti personaggi dal percorso politico “indeciso” e accidentato di riciclarsi come “espressione civica di centrosinistra”, nonostante a volte provenissero dal centrodestra. Così da innescare una certa dinamica di sostituzione tra politica e amministrazione, in cui il riferimento nel comune per il “centro” non era più la segreteria locale del principale partito di area, il Partito democratico, bensì l’amministratore – perché portatore di un pacchetto di voti sicuro e testato, e poco importa la sua provenienza politica. Insomma, il “vecchio” trasformismo. Solo che oggi si chiama “civismo”. Il risultato è una classe politica “poco politica” che ha ingrossato le fila del centrosinistra pugliese poiché assicurava loro un posto entro cui perpetuarsi; una “borghesia lazzarona” – definizione di Alessandro Leogrande – incastrata in giochi di potere stantii. Assistiamo pertanto ad agili cambi di casacca, come quello di Luciana Laera, ex sindaca di Putignano, in provincia di Bari, ed espressione della corrente decariana, ora candidata nelle liste di Fratelli d’Italia; oppure Stefano Lacatena, consigliere regionale uscente passato da Forza Italia alla maggioranza di centrosinistra, non riconfermato ed escluso dalle liste che sconsolato dichiara “probabilmente la mia casa è il centrodestra”. Il voto di novembre sembra sancire un passo ulteriore verso l’indebolimento della dialettica democratica pugliese, inaugurando una stagione di unanimità. La campagna elettorale e il voto sembrano essere contrattempi sconvenienti davanti a un esito che si preannuncia scontato e con differenze a due cifre tra le coalizioni principali. A destra, hanno temporeggiato fino all’ultimo nell’annuncio dell’agnello sacrificale da immolare sull’altare della certa sconfitta; scelta poi ricaduta su un anonimo tecnico la cui massima esperienza politica è stata perdere contro Emiliano nella corsa a sindaco di Bari nel 2004. Mentre nel centrosinistra – che accoglie un po’ tutti – c’è la corsa alla foto con il presidente in pectore Decaro, per posizionarsi velocemente nella scia del leader che torna nella sua regione dopo un anno “di Erasmus” a Bruxelles, dove il parlamento europeo è ormai appetibile solo per chi vuole poi candidarsi come presidente di regione, o l’ha già fatto e ha terminato i mandati. In tutto questo, ad ammutolire è la politica, la visione di quello che si vuol far diventare la Puglia, una regione al centro di vertenze decennali, come l’acciaieria di Taranto, che però sembra ormai devota solo al turismo, che dopo aver completamente mangiato la costa si sta rivolgendo verso l’interno. La “California d’Italia” che soddisfa sia la domanda di alloggi – sempre meno disponibili per chi risiede – che di stereotipo – con una cultura popolare masticata dalle agenzie di promozione territoriale e risputata in una versione digeribile per ogni visitatore e conforme alle sue aspettative. Davanti al dilemma posto da Losurdo, la regione più a est d’Italia sembra aver deciso che sentiero percorrere. (marco patruno)
SCIOPER(I) GENERAL(I) IN ITALIA: IL 28 NOVEMBRE IL SINDACALISMO DI BASE, IL 12 DICEMBRE LA CGIL.
Scioper(i) general(i) in Italia, a cavallo tra fine novembre e inizio dicembre 2025. L’appello del sindacalismo di base alla Cgil per convergere, come già venerdì 3 ottobre,  su una sola giornata di lotta – venerdì 28 novembre –  contro riarmo e finanziaria “con l’elmetto” del governo Meloni, per salari e diritti, oltre che per ribadire la solidarietà con la Palestina, non è stato raccolto dalla Cgil. Il sindacato di Corso d’Italia ha approvato la proposta del segretario generale Maurizio Landini, che all’assemblea di delegate e delegati di venerdì 7 novembre a Firenze ha messo sul piatto la data di venerdì 12 dicembre per “uno sciopero generale su salari, fisco, sicurezza, no al riarmo”. Bocciata invece la proposta dell’opposizione interna di sinistra alla Cgil, che con il documento “Convergere nel movimento” chiedeva di puntare invece sul 28 novembre. Al momento, quindi, due le date di astensione generale dal lavoro proclamate in Italia, a partire da quella di venerdì 28 novembre con tutto il sindacalismo di base. Seppur con sfumature differenti sulle piattaforme, la data è stata infatti ufficializzata da Usb, Cobas, Cub, Adl Cobas, Si Cobas, Sgb, Sial e Clap, per fermare il cammino di una manovra economica – la quarta dell’attuale esecutivo italiano di destra – segnata strutturalmente dalla guerra come orizzonte politico e strategico dei prossimi anni. Venerdì 12 dicembre, invece, la Cgil. In entrambi i casi previste manifestazioni territoriali in tutta Italia. Per quanto riguarda poi sempre il sindacalismo di base, Usb ha anche annunciato sabato 29 novembre una “grande manifestazione nazionale a Roma, che unirà lavoratori, giovani e movimenti sociali in un’unica voce: bloccare tutto per cambiare tutto”, in occasione della Giornata internazionale di solidarietà con la Palestina, indetta fin dal 1977 dalle Nazioni Unite. Radio Onda d’Urto ha realizzato una trasmissione speciale sugli scioperi generali in Italia. All’interno uno stralcio dell’intervento di Maurizio Landini dall’assemblea di delegate e delegati Cgil a Firenze; l’intervista a Eliana Como, portavoce nazionale dell’opposizione di sinistra interna alla Cgil, “Le radici del sindacato”; l’intervista a Piero Bernocchi, portavoce nazionale della Confederazione Cobas; uno stralcio dell’intervento di Guido Lutrario, Esecutivo nazionale Usb, dall’assemblea nazionale di delegate e delegati del 1 novembre a Roma. Ascolta o scarica Di seguito, invece, i singoli audio: * Piero Bernocchi, portavoce nazionale Confederazione Cobas. Ascolta o scarica * Eliana Como, portavoce nazionale “Le radici del sindacato”, l’opposizione interna di sinistra alla Cgil. Ascolta o scarica * Lo stralcio dell’intervento di Maurizio Landini, segretario generale della Cgil (qui l’intervento integrale) all’assemblea di delegate e delegati Cgil del 7 novembre a Firenze. Ascolta o scarica * Lo stralcio dell’intervento di Guido Lutrario, esecutivo nazionale dell’Unione Sindacale di Base (qui l’intervento integrale) all’assemblea di delegate e delegati Usb del 1 novembre a Roma. Ascolta o scarica