La goccia e la pietra rovente. Cartoline dall’estate pugliese(copertina di federico manzone)
Riproponiamo a due anni di distanza queste cartoline dall’estate pugliese, dal
numero 11 (novembre 2023) de Lo stato delle città. Nel frattempo la svendita del
territorio procede di emergenza in emergenza: la xylella degli ulivi, lo
spopolamento, l’assalto a terre e coste per impianti eolici e fotovoltaici, il
consumo di suolo per resort di lusso, la crisi idrica, la devastazione degli
incendi. Mentre gli amministratori locali sembrano agiti da forze estranee e i
sedicenti intellettuali fomentano lo storytelling dominante, due vicende
esemplari su tutte.
Lo scorso maggio i comuni attraversati dal gasdotto Tap hanno ratificato un
accordo con la multinazionale che prevede il ritiro della costituzione di parte
civile nel processo contro Tap, la rinuncia alle compensazioni per la
costruzione dell’opera (e per il suo previsto raddoppio) e la rinuncia a
qualsiasi diritto nei confronti dell’azienda e dei suoi dirigenti, in cambio di
otto milioni da parte di Tap, spiccioli per comprare il consenso del territorio,
delegittimando le ragioni di chi ha lottato contro il gasdotto. La svendita
continua con la sponsorizzazione da parte di Tap di festival culturali e
rassegne di eventi estivi.
In un paese del basso Salento, la sindaca ha emesso un’ordinanza con cui vieta
iniziative politiche, manifestazioni e volantinaggi nel centro storico per la
stagione estiva. Ha giustificato il divieto sottolineando l’importanza di non
creare disagi ai turisti “interessati alle attività di puro svago” e di
preservare la reputazione del paese, che farebbe parte dei “borghi più belli
d’Italia”.
La pietra è sempre più rovente, le poche sparute gocce evaporano senza tempo di
scorrere.
* * *
la prima volta che ho sentito dire in salento ero ragazzina e ascoltavo una
canzone di biagio antonacci che passava in ogni radio quell’estate. si era
sempre usato nel salento, e nemmeno così spesso come adesso, una decina di anni
dopo, che sembra un marchio registrato quando chiedo al bar del mio paese un
caffè in ghiaccio col latte di mandorla e mi sento rispondere “ah, un caffè
salentino!” e ritrovo lo stesso marchio in un autogrill lontano dalla puglia.
anche se la musica cavalcava la moda della “vacanza in salento” a noi non
importava di avere turisti tra i piedi, perché sceglievamo gli scogli più
inaccessibili per passare le giornate al mare senza adulti nei paraggi. sempre
in quegli anni, in viaggio a parigi trovo un enorme padiglione nella piazza
della tour montparnasse con una mappa della mia regione e la scritta
#weareinpuglia, e ingenuamente col mio primo smartphone scatto una foto. estate
dopo estate spuntano sempre più lidi privati, alberghi, lounge bar e cocktail
bar sul mare, bistrot, bancarelle di souvenir, eventi musicali invischiati in
una falsa coscienza che li spaccia per rituali arcaici. negli anni quell’hashtag
ha scolpito un salento ridotto a “terra del rimorso” fuori dalla storia, un
non-luogo dove non c’è altro che tamburelli, balli e taralli.
IL MONDO DEI (CON)VINTI
riemergo come sputata dalla risacca delle pagine di recita estiva di christa
wolf, libro che da qualche giorno ho finito ma continuo a riaprire, quasi che
impastarmi a parole e immagini possa farmi capacitare che quello che ho letto è
ancora lì. un gruppo di amici abbandona la città per cercare nella campagna
isolata un rifugio alla delusione per un mondo in cui non si riconosce. alle
prime pagine sono pronta a difendermi dalla nausea per la retorica della vita
campestre come idillio della pienezza esistenziale, del margine come ultimo
presidio di resistenza. invece lo scudo non serve, il loro non è un ritirarsi,
un ripiegamento, è più una dislocazione per non lasciar opacizzare l’utopia ma
senza clemenza per se stessi e gli altri. “adesso! così ci urlavano le cose
pretendendo la liberazione. con la stessa intensità con cui esse erano costrette
a essere se stesse, dovevamo essere noi stessi”, e mi sembra che la storia venga
a stanarmi nell’interstizio dove cercavo di nascondermi. è una domenica di fine
luglio, le stesse strade che fino a pochi mesi fa erano vuote ora sono un
ingorgo di auto con targhe straniere, mentre palchi per spettacoli e tavolini
dei ristoranti corrodono lo spazio pubblico. la campagna che domina appena fuori
i piccoli nuclei abitati potrebbe essere la stessa del libro, ma qui è costretta
a fare da sfondo a b&b, masserie tradite e convertite in resort di lusso, ville
da affittare e sentieri da percorrere a piedi seguendo gli itinerari di qualche
guida turistica che investe i passi di un significato artefatto (come se per
camminare sullo sterrato servisse un animo sensibile e nobile).
nelle pagine di recita estiva ricorre la foga dei figli dei contadini di
sbarazzarsi di quello che resta nelle case che ereditano. utensili, vasellame,
mobili che hanno accompagnato i lavori e le vite dei padri sono tracce di un
mondo con cui i figli non vogliono mai più avere a che fare. mi torna in mente
una scena minima che ho spiato qualche sera prima tra le stanze del museo della
civiltà contadina di calimera. ascolto una signora che guida la compagna turista
attraverso l’esposizione leggendo i nomi sulle targhette e traducendo il
dialetto (con la pronuncia esotica volutamente marcata di chi quello stesso
dialetto lo scansa come gergo volgare). davanti a un telaio antico per tessere a
mano aggiunge “a casa di mia madre ne avevamo uno così, poi non so che fine ha
fatto”, ma un po’ se ne vergogna e aspetta in bilico di scorgere nello sguardo
dell’interlocutrice tracce di disprezzo per le origini umili o di ammirazione
per le radici autentiche. come se la rimozione e la negazione di essere
appartenuti a una cultura subalterna siano stati una tappa ineludibile per
accedere al benessere (decenni più tardi che altrove). barattare tutto quello
che avevano per emanciparsi alle novità e riguadagnare in fretta i gradini verso
la vera civiltà. come una scena di lazzaro felice in cui il ragazzo riconosce
delle erbe spontanee commestibili (che oggi troneggiano nei menu gourmet) ai
margini delle rotaie di una periferia metropolitana, ma gli ex contadini memori
delle condizioni di sfruttamento a cui erano costretti per lavorare la terra non
vogliono saperne di raccoglierle, a costo di sfamarsi con patatine scadute
rubate in una stazione di servizio.
oltre ad aver dimenticato, qui gli “autoctoni” hanno presto introiettato la
condizione di abitanti di un’enclave turistica elitaria e si sono prodigati
(alcuni inconsapevolmente) ad aggiungere tinte pittoresche alle narrazioni
fasulle di turismo e folklore, mentre le foto di scontrini sui social per
lamentarsi dei prezzi assurdi di un caffè o di un rustico restano campo di
commenti atrofici. intorno alle reti che hanno creduto di lacerare con
l’emancipazione e il progresso se ne sono annodate di nuove: dallo sfruttamento
dei latifondisti e delle manifatture di tabacco a quello mercificante della
monocultura turistica.
TURISMO O TERRORISMO
cerco di non ascoltare le voci che dalla televisione ammoniscono di bere acqua e
stare all’ombra, ma in uno di quei programmi saturi di già-detto che riempiono
le fasce orarie in cui la gente in vacanza non vuole essere ammorbata coi tg mi
capita un’intervista amichevole a massimo bray (il suo nome non mi suona vuoto
perché bray è leccese e ha una casa vacanze nel mio paese; a fine intervista non
manca di confessare il suo amore nostalgico per “la vecchia bottega alimentare
di un paesino in provincia di lecce, marittima”). dopo gli orpelli di ministro
presidente direttore, bray intraprende una crociata in difesa dei borghi e della
gestione che l’italia ne fa. “l’italia è il paese che ha inventato i festival,
abbiamo creato comunità grazie alla cultura”. poi stizzito reclama che “questa
forma di pessimismo che ci assale deve finire, noi dobbiamo essere orgogliosi
che si venga in italia”, perché “di fronte a una vita frenetica noi siamo capaci
di far stare centinaia di persone in un piccolo borgo, farlo rivivere e creare
quel senso di comunità”.
li chiamano borghi per omologare sotto un’unica etichetta centinaia di paesi,
negando a ognuno il suo carattere, la storia, la voce, il dialetto, i canti, le
tradizioni che gli appartengono, schiacciando sotto una parola sola tutto quello
che suona bene chiamare identità. la chiamano comunità come se la prossimità
fisica di troppe persone nello stesso posto implicasse la vicinanza d’animo. poi
chi l’ha detto che il borgo voglia una seconda vita da terra colonizzata? meglio
morire di incuria e abbandono che schiavo della religione del marketing. non che
ci sia tanto da vantarsi per il dilagare di festival, happening, performance,
che incarnano il paradigma della transitorietà, dello straordinario contro
l’ordinario, grandi eventi che attraggono turisti e fanno da alibi a
privatizzazioni spietate invece che manutenzione sul territorio e assunzioni
permanenti delle persone che quei luoghi li vivono (e che i festival sfiorano
appena). forse il senso di comunità che sbandierano non è riuscito a
sopravvivere all’emigrazione e allo spopolamento perché a questi paesi è stata
negata l’ovvietà di immaginare un futuro. senza un orizzonte, condivisione,
solidarietà, convivialità restano slogan per guide turistiche e costumi rigidi
entro cui i paesani vengono relegati finendo per recitare se stessi.
penso al ciclo di isteresi, un grafico di una curva chiusa su un libro di fisica
all’università: certi materiali sottoposti all’azione di un campo magnetico non
tornano più allo stato vergine quando l’azione cessa, restano magnetizzati anche
in assenza di corrente, e ogni sostanza ha una temperatura critica oltre cui
perde le proprietà che la caratterizzano. guardo le spiagge e le strade che si
gonfiano fino a esplodere di corpi e auto, poi tornano sventrate e deserte per
un po’ di mesi in un ciclo che si ripete. non riesco a convincermi che viviamo
solo in funzione della stagione (come se l’estate fosse l’unica che conta in
tutto l’anno, il resto è letargo), che siamo un posto per villeggiatura, che le
case se ne stanno vuote aspettando di essere invase senza risentire
dell’oltraggio che subiscono. non riesco a convincermi che non sappiamo più cosa
vuol dire abitare, creare abiti, abitudini, forme di vita comune. davvero
abitare è sinonimo di consumare? che cosa sono i paesi se li pensiamo a partire
dall’abitare? penso ad antonio neiwiller che proprio in un paese della provincia
di lecce nell’estate del 1991 diceva “io appartengo a questa terra, a questa
parte della terra che ora non riconosco più. io voglio difendere differenze,
particolarità, gesti, atti, io voglio ancora difendere questa parte del mondo.
chi l’ha detto che tutto questo debba essere violentato così”.
SE MI SVENDO NON COLLASSO
a giugno una scuola di melendugno, insieme al comune e all’azienda tap (ancora
sotto processo per inquinamento ambientale e contaminazione della falda
acquifera), comunica di voler dedicare ai ragazzi alberi che saranno piantati
nei terreni dell’impianto della multinazionale per raggiungere obiettivi di
sostenibilità. dopo l’arte pubblica asservita a riqualificazioni che pretendono
di risanare gli spazi urbani mentre li convertono in luoghi a uso e consumo del
turismo, il capitalismo si appropria di pratiche virtuose svuotandole di senso e
piegandole a scopi altri. e noi a testa bassa raccogliamo le noccioline che
l’invasore ci lancia tra le sbarre dello zoo.
se c’è una costante, è il salento che si vergogna di se stesso. la musica abiura
le sue radici povere, travisa la funzione del canto e camuffa le condizioni
bestiali di lavoro dei braccianti con un contesto bucolico in cui la miseria è
ridotta a feticcio che incipria di esotico il panorama. ciò che doveva curare e
salvare (il canto e la musica come terapia per il tarantismo) accelera la
distruzione di un territorio e della sua storia violentata dal marketing. le
contraddizioni annichilite (non è poi lo stesso meridione che tacciano di
corruzione, mafia e arretratezza?), le complessità appiattite a “un’immagine
dimezzata”, diceva gianni bosio: “il buon selvaggio, l’uomo che è buono in
quanto dimensione astorica, l’uomo folklorico. è questa la sola misura lecita
per l’uomo storico contemporaneo e subalterno per partecipare al festino della
cultura politica della classe dominante. l’uomo storico, l’uomo politico, l’uomo
della fabbrica e dei campi, viene semplicemente ignorato”.
l’istituto carpitella, fondato nel ’97 per difendere e diffondere la cultura
orale del salento, tradisce radicalmente i propri scopi un anno dopo con il
festival della notte della taranta che ha monopolizzato tutte le energie e i
soldi nella sua organizzazione, e ogni sforzo per ricerca, studio e
archiviazione della memoria tradizionale è stato stroncato (già dal palco di
melpignano nella prima notte della taranta uccio aloisi ammoniva, prima ancora
di battere sui tamburi, “nu s’ave perdere tiempu”, non si deve perdere tempo).
schiere di assessori e di esperti usano la “pizzica” come strumento per
costruirsi carriere in politica, tanti mitridate che hanno ceduto passano dalla
critica totale alla collaborazione con la notte della taranta contendendosi
palchi e cachet, dando l’impressione che l’interesse personale e il ritorno di
immagine contino sempre più di ogni altra cosa. sembrano i protagonisti di una
ballata di brecht, “oggi mi hanno fatto vedere il loro mondo, ho visto solo il
dito, tutto insanguinato, allora in fretta ho detto che era di mio gusto”.
roberto raheli degli aramirè, editore illuminato e unico difensore incorrotto di
quella cultura, che abbandonato da tutti ha abbandonato tutto nel 2007,
denunciava la “deliberata manipolazione della realtà storica a uso pubblico,
attraverso la creazione di una serie di icone, come quella del ragno e del
tamburello, o quella del salento edonistico-dionisiaco dove tradizionalmente i
contadini al termine del lavoro si riunivano nell’aia della masseria a ballare
sfrenatamente la pizzica”.
pasolini sperava che gli uomini avrebbero risperimentato “il loro passato, dopo
averlo artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di
frenetica incoscienza”. ma ora che la sintesi linguistica della modernità ha
abolito il passato prossimo e l’imperfetto, non ci resta che dissotterrare un
passato remoto. un passato che, oltre ad aver dimenticato, abbiamo tradito: i
canti che si ascoltano dai concerti restano solo “quello sforzo ingrato di dirsi
vivi in una lingua morta”, per dirla con gabriele frasca; il dialetto
mortificato nei ritornelli in bocca ai “grandi” nomi dello spettacolo chiamati a
partecipare al festival e a distogliere ogni tentativo di scorgere il marcio
delle cose, le ragazzine che credono di conoscere il ballo tradizionale del loro
territorio e invece copiano le movenze seducenti del corpo di ballo sul palco
disegnate da qualche coreografo, ignare che la pizzica si ballava forse due
volte l’anno con una serie di restrizioni, con garbo e pudore. abbiamo tradito
tutto il possibile, non c’è più niente e nessuno da tradire. che fare allora, se
“tutto è in armonia nel modo sbagliato e ogni cosa va in frantumi nel modo
giusto” (ancora recita estiva)? che fare dei paesi una volta che la cultura che
li ha animati si è estinta con i suoi abitanti? che fare della cultura popolare,
delle tradizioni, dei riti, una volta che è venuto meno il mondo che li ha
generati?
ATROCE PAESE CHE AMO
partecipo alla presentazione di un libro di poesie in un giardino appartato
dagli odori dei ristoranti e dalla musica dei locali. mi ritrovo a voler
scappare tra una platea che sembra aver eletto se stessa a casta superiore. si
riconoscono al primo sguardo i turisti in abiti da vacanza (e i non-turisti ne
imitano lo stile): camicie di lino, cappelli panama, lunghi vestiti e caftani
che cercano di apparire frugali ma so troppo bene quanti empori vendono quei
tessuti spacciandoli per opere di tessitrici locali che conservano l’arte del
telaio (mentre gli unici telai superstiti sfornano tessuti per dior e lecce
conferisce cittadinanze onorarie a fashion designer che scelgono il salento come
vetrina) per abboccare all’umiltà apparente. sono gli stessi turisti che
strisciano con innaturale lentezza dentro auto troppo grosse per attraversare
indenni le stradine dei paesi non progettate per il grande traffico estivo.
assistono alle letture di versi come a una liturgia consolatoria che celebra il
loro status di cittadini edotti all’arte, civili, che il massimo picco di
adattamento all’habitat lo raggiungono mangiando la frisa con le mani e non con
le posate. li riconosci mentre vagano alla ricerca di tipicità: la pasta fatta
in casa diventa esclusiva dei ristoranti, il grano arso una ricercatezza
culinaria e solo cinquant’anni fa l’emblema della miseria, ottenuto dalle ultime
spighe bruciate sfuggite alla mietitura manuale. però loro si autoassolvono
eleggendo franco arminio a profeta della nostra epoca quando canta il “bisogno
di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, di gente che ama gli
alberi e riconosce il vento”. eppure gli risponde decenni prima errico
malatesta: “se tu leggi i poeti li trovi tutti pieni di entusiasmo per la vita
campestre. ma la verità è che i poeti che stampano libri, la terra non l’hanno
zappata mai, e quelli che la zappano davvero si ammazzano di fatica, muoiono di
fame, vivono peggio delle bestie, e sono calcolati come gente da nulla”.
quando non c’è più un punto dove posso volgere lo sguardo senza che si facciano
incontro con il loro carico pensieri caustici mi arrendo a fare un giro in
campagna, anche se questo si traduce in attraversare ettari di rami secchi e
tronchi sgozzati quando va bene, odore di bruciato e residui di roghi quando va
male. stavolta il suono delle campane di capre e pecore mi anticipa i passi, il
pastore che conosco bene quando mi vede spegne la radiolina con l’antenna che si
porta nella tracolla per farsi compagnia nella desolazione dei campi. senza
preamboli di circostanza mi racconta delle sanzioni di un controllo asl per
piccole falle nel laboratorio in cui lavora il latte. lo aveva piastrellato e
messo a norma quando uno dei figli ha deciso di continuare il suo mestiere
nonostante lui lo scoraggiasse di continuo, anche con rabbia, perché “non deve
fare ‘sta vita, con il mondo di oggi esci pazzo”. eppure il controllo ispettivo
si incaglia per l’assenza di un certo formato specifico di trappole per topi,
così ai soldi spesi per sistemare il laboratorio si aggiungono i soldi per la
sanzione e le altre modifiche imposte. ormai il prezzo dei prodotti detta gli
standard di lavorazione, una piccola azienda zootecnica ha le stesse spese di
un’impresa di allevamento a prescindere dalla dimensione, per il mercato cinque
capre o cinquecento è la stessa cosa. penso ai villani di donpasta, a santino
galasso di taranto che sorride mentre dice “t’ha mettre ‘a cape ssott’ e ha sce
‘nnanz”, devi abbassare la testa e andare avanti, a totò fundarò di alcamo che
fa la conserva di pomodoro a casa e si incazza perché secondo la legge quella
conserva non può esistere, è illegale, ma è impossibile produrre cibi genuini
rispettando le regole. penso che anche la cultura genuina può essere solo
clandestina. penso a civitonia, un festival per civita di bagnoregio che in
clandestinità esiste senza essere accaduto. “sappiamo bene quanto il mantra
dell’accumulazione capitalistica, insidioso e colonizzante, spazzi via ogni
parola dissenziente”, scrive giovanni attili sul libro che dà un supporto fisico
all’immaginare di civitonia. “sappiamo bene di avere una lingua logora e stanca”
(una volta in una traduzione di guido ceronetti avevo letto “si stanca qualsiasi
parola, di più non puoi fargli dire”). eppure attili insiste, “la consapevolezza
della devastazione in atto dovrebbe obbligarci a ricaricare parole ormai
atrofizzate con l’obiettivo di far tracimare lo stagno paludoso che ci
immobilizza”.
“riscrivere la fine o dell’arte del capovolgimento”, leggo sotto il titolo del
libro, e infatti civitonia è anche un affronto al pensiero di chi governa quel
territorio, è un festival che rinunciando al suo accadere si è salvato
dall’essere fagocitato dall’industria turistica o dalle politiche urbane che
piegano l’arte a progetti di presunta riqualificazione buoni solo per ingrassare
coi fondi pubblici.
“ad accendersi ancora è il segnale che dovrei fare qualcosa. ogni giorno.
insomma io sono come un quadro segnaletico dove si accendono continuamente
lampadine di diversi colori. sicuramente produce un bel fregio luccicante. solo
che non serve a niente”, sottolineo tra le pagine di recita estiva. in
matematica essere impossibilitati a eseguire operazioni è la molla per
immaginare, per costruire domini numerici più ampi: dai numeri naturali agli
interi negativi, dai numeri reali agli immaginari, domini che contengono
ciascuno il precedente e dai loro spalti si ha una vista sempre più ampia e
sfaccettata. se x2+1 resiste alla possibilità per i polinomi di essere scomposti
in monomi lineari, si può scomporre abbandonando il campo dei reali e
sollevandosi nel dominio degli immaginari.
cosa serve allora? ammettere che i nostri mezzi sono difettati e monchi, e
quindi cercare scarti, biforcazioni possibili, non soluzioni miracolose ma
indizi minuti per scardinare l’inerzia e scommettere su un futuro differente.
ammettere che il buio ci soffoca e cercare barlumi, intermittenze, una
ricomparsa delle lucciole, forse destinate a morire travolte dalla luce sporca
delle stelle di un hotel. presidiare le trasformazioni urbane, rivendicare
processi condivisi, farsi carico del mostruoso ma cercare angoli da cui
guardarlo senza esserne assuefatti. cercare di arrivare a un risultato per vie
traverse mi riporta alla matematica, al metodo dimostrativo per assurdo: si
ottiene il vero facendo scaturire l’impossibile a partire dal falso, ci si situa
in ciò che si ritiene essere falso e si mostra come questo conduca a una
conclusione impossibile.
per assurdo si dimostra un teorema fondamentale di cantor che dice che dato un
insieme ci sono sempre più parti di quanti siano i suoi elementi (si dimostra
che non ci possono essere tante parti quanti elementi e si sa che non possono
essercene meno). il teorema di cantor confuta il dilagare dell’individualismo:
il fatto che in un insieme qualunque ci siano più parti che elementi significa
che la profonda risorsa di ciò che è collettivo prevale su quella dei singoli,
come il coro prevaleva nelle esecuzioni musicali spontanee. fa eco il barone
rampante: “le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti
migliori delle singole persone, e danno la gioia che raramente s’ha restando per
proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale
la pena di volere cose buone”. allora organizzarsi, agitarsi, frantumare la
cappa del disincanto, distogliere lo sguardo dai fari del treno in corsa che sta
per travolgerci. brecht incalza: “vi accontenterete del cielo che splende?
sarete sfamati? sarete consolati? il mondo guarda a voi con la sua ultima
speranza. più a lungo voi non potete essere contenti di una goccia simile sulla
pietra rovente”.
mi illudo che scrivere possa far sopravvivere qualcosa, strappare qualche
brandello al vuoto che si scava, tracciare da qualche parte un solco. ma suona
amaro il monito di rina durante, “tu capisci che in questa provincia senza fine
rimani solo tu ultimo cavaliere senza né briglia né staffe a portare il peso di
una storia che finisce”. mi illudo che cucire insieme parole che mi stagnano
dentro possa avvicinarmi a una realtà che non so comprendere né contenere (e
quando riesco mi lacera, perché la stessa vanga può scavare solchi dove seminare
o sotterrare cadaveri). ma di fatto sto scrivendo per prendere le distanze, per
espellere la materia scottante ingabbiandola in queste cartoline. allora se pure
il racconto brucia la sua materia per alimentarsi, almeno che produca fiamma
anziché riscaldare le ceneri. (chiara romano)