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Tutti in fila per i fondi per il riarmo europeo. Indebitarsi per la guerra
Sono diciotto gli stati della Ue che hanno presentato richieste di prestiti emessi dalla Commissione europea (Safe) per finanziare i progetti di riarmo: tra questi figura, ovviamente, l’Italia e questo nonostante fino a poco tempo fa il ministro dell’economia Giorgetti storcesse il naso davanti alla prospettiva di indebitarsi ulteriormente per […] L'articolo Tutti in fila per i fondi per il riarmo europeo. Indebitarsi per la guerra su Contropiano.
La guerra cercata
Nel momento in cui l’Unione Europea annuncia ai quattro venti un piano di riarmo epocale e la NATO incassa la promessa di un aumento delle spese militari al 5% del PIL per gli stati membri, sta mostrando l’arma ai suoi avversari ma soprattutto al suo pubblico, quello che la dovrà pagare. Il copione prevede che queste armi dovranno essere usate, se non altro a scopo deterrente, in futuri conflitti con nemici sempre più potenti. L’antagonista è fondamentale nello sviluppo di una narrazione, non se ne può fare a meno. L’antagonista è essenziale anche nella costruzione dell’identità, le guerre rinsaldano la comunità nazionale attorno ai leader, anche ai peggiori. Continua a leggere→
Lavrov torna ad attaccare l’Italia per la censura contro gli artisti russi
Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov è tornato a condannare l’annullamento del concerto in Italia del direttore d’orchestra russo Valerij Gergiev, definendolo una decisione ‘scandalosa’. Gergiev, come noto, avrebbe dovuto esibirsi a Caserta il 27 luglio con l’Orchestra Filarmonica Verdi di Salerno e i solisti del Teatro Mariinskij, ma […] L'articolo Lavrov torna ad attaccare l’Italia per la censura contro gli artisti russi su Contropiano.
PALESTINA: CRESCE IL MOVIMENTO BDS IN ITALIA “SERVE UN AZIONE URGENTE PER FERMARE IL GENOCIDIO A GAZA”
Mentre a Gaza continua il genocidio per mano israeliana, in Italia si intensificano le iniziative della campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) contro l’apartheid israeliana. Dall’appello per chiudere i porti italiani al transito di armi, alle adesioni in costante aumento alla rete degli Spazi Liberi dall’Apartheid Israeliana (SPLAI), la mobilitazione dal basso si ferma. Negli ultimi mesi, la campagna ha registrato un coinvolgimento crescente da parte di collettivi, associazioni, realtà culturali e cittadini comuni, sempre più decisi a chiedere la fine della complicità dell’Italia. La richiesta è chiara: fermare ogni forma di sostegno, diretto o indiretto, al regime israeliano e agire subito. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto, Raffaele Spiga di BDS Italia. Ascolta o scarica.
BRESCIA: FLASH MOB AL CARCERE DI CANTON MOMBELLO PER CHIEDERE DI “LIBERARE TUTTO IL PERSONALE SANITARIO PALESTINESE”
Si è svolto questo pomeriggio alle ore 18 un flash mob davanti al carcere di Canton Mombello, a Brescia, in solidarietà con i detenuti palestinesi. Attivisti e attiviste di Sanitari per Gaza, Associazione di amicizia Italia Palestina e Palmed Italia chiedono la scarcerazione immediata di tutto il personale medico e sanitario rinchiuso nelle carceri israeliane, oltre che la liberazione di tutti i palestinesi detenuti ingiustamente da Israele. In particolare l’attenzione si concentra sulla situazione riguardante il dottor Abu Safya e il direttore dell’ospedale di Gaza Kamal Adwan, detenuti illegalmente da Israele in condizioni disumane. Sono rinchiusi nel carcere israeliano di Ofer, vengono torturati e sono rinchiusi in isolamento. Il collegamento con Marina Corti e Gabriele Pellegrini dei Sanitari per Gaza e con Alfredo Barcella dell’associazione di amicizia Italia Palestina. Ascolta o scarica
Dalla giustizia alla forza, il mosaico dell’impunità nelle istituzioni totali
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese) Sembra un mosaico in accurata composizione, tassello dopo tassello per rafforzare il potere di chi lo esercita e silenziare la voce di chi lo subisce. Nelle carceri italiane, il tasso di sovraffollamento ha superato il 133 per cento nel giugno 2025: Milano San Vittore ha raggiunto il 220 per cento, Foggia il 212. Secondo il ministero della giustizia, tra gennaio e giugno si sono registrati trentasei suicidi, cui si sommano i novantuno del 2024, triste record assoluto nella storia penitenziaria. È il segno di un sistema al collasso, dove i corpi diventano esuberi amministrativi e la dignità si riduce a statistica. Di fronte a tutto ciò, l’istituzione deputata a garantire trasparenza nei luoghi di privazione della libertà è oggi muta. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, istituito a seguito della sentenza Torreggiani nel 2013, è attualmente presieduto da Riccardo Turrini Vita: magistrato e dirigente di lungo corso del ministero della giustizia, con una carriera soprattutto nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Turrini Vita è stato nominato nell’ottobre 2024 su proposta del ministroNordio, con delibera del consiglio dei ministri, affiancato da Irma Conti e Mario Serio. Tuttavia, la relazione annuale al parlamento non è ancora stata presentata dall’attuale collegio, anzi l’ultima risale addirittura al 2023 (sotto la gestione di Mauro Palma). Il garante non effettua inoltre ispezioni non annunciate ed è stato segnalato da avvocati e associazioni come difficilmente raggiungibile dai detenuti, i quali inviano istanze e comunicazioni senza ricevere risposta. A giugno 2025 Michele Passione, storico legale del garante, e le avvocate Maria Brucale, Antonella Calcaterra e Giovanni Rossi, psichiatra e membro esperto, hanno lasciato il loro incarico. La decisione è maturata, da parte di tutti, di fronte a un contesto sempre più impermeabile all’ascolto e al confronto. Passione ha motivato così la sua scelta, in una dichiarazione pubblica: “Se non entri nei luoghi della detenzione, se non guardi, non puoi nemmeno vedere cosa sta succedendo. Io mandavo report, segnalavo, ma nessuno rispondeva. Quando il garante smette di ascoltare, è finita”. Sempre Passione ha rilevato come, dall’inizio del mandato, l’attuale garante “non abbia mai effettuato visite nei centri per migranti in Albania, né svolto alcun monitoraggio dei voli di rimpatrio”. Per quanto riguarda le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture che ospitano persone sottoposte a misure detentive per motivi psichiatrici, risulta che nel primo semestre del 2025 sia stata effettuata soltanto una visita ufficiale, il 30 gennaio, a Rieti. Un dato che lascia perplessi sulla continuità e sull’effettiva incisività dell’attività di monitoraggio in luoghi tanto delicati. Anche il governo, intanto, posizionava i suoi tasselli. Il Decreto sicurezza (Dl 48/2025), convertito in legge il 9 giugno 2025, prevede all’articolo 22 un fondo per coprire le spese legali degli agenti di polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine indagati per atti commessi durante il servizio. Il rimborso può arrivare fino a diecimila euro per ciascuna fase del procedimento penale, comprese le indagini preliminari: un vero e proprio scudo legale a favore degli imputati pubblici ufficiali. Contestualmente, il decreto introduce il reato di “rivolta carceraria”, estendendo la resistenza passiva (incluse la battitura delle sbarre e lo sciopero della fame) a una fattispecie punibile con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Si aggiungono aggravanti per le manifestazioni “dentro e fuori le stazioni ferroviarie e della metropolitana”, una nuova disciplina sulla detenzione di materiale “propedeutico al terrorismo” punita con reclusione da due a sei anni anche in assenza di reati collegati, e restrizioni all’accesso a misure alternative per le detenute madri. La Corte di Cassazione, nella Relazione n. 33/2025 (23 giugno 2025), ha mosso critiche durissime al provvedimento. Ha rilevato l’assenza dei presupposti di necessità e urgenza per il ricorso al decreto legge, denunciandone l’eterogeneità, l’approccio repressivo e la vocazione simbolica, definendolo una forma di “ipertrofia penalistica” che rischia di criminalizzare anche le proteste non violente. Secondo la Suprema Corte, il decreto non solo punisce l’intenzione più che l’atto, ma compromette anche l’equilibrio tra accusa e difesa, il principio di proporzionalità, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, e il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Pochi giorni dopo, il 25 giugno 2025, Matteo Salvini ha annunciato in conferenza stampa alla Camera l’intenzione di proporre una modifica dell’articolo 613 bis del Codice Penale, che disciplina il reato di tortura, introdotto con la legge 110/2017 dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per i fatti del G8 di Genova, in particolare per le violenze alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Salvini ha dichiarato che il reato di tortura dovrebbe essere modificato per permettere alla polizia penitenziaria di svolgere il proprio lavoro senza rischiare accuse ingiustificate. Ha sottolineato che gli agenti penitenziari sono spesso etichettati come “aguzzini e torturatori” senza motivo. Se Mario Serio, componente del collegio del garante nazionale, ha dichiarato che “il garante continuerà a costituirsi in giudizio contro le forze di polizia accusate di maltrattamenti e tortura”, Michele Passione, a cui è stato richiesto un commento sul punto, ha precisato: “Quanto alla volontà dichiarata di proseguire nell’attività processuale del garante, a oggi non posso affermare con certezza che siano stati nominati nuovi avvocati. Posso solo rilevare che, dopo la mia rinuncia, ho continuato a ricevere notifiche dalle autorità giudiziarie presso le quali ero parte civile. Sembrerebbe quindi che non sia stata ancora depositata una nuova nomina: per legge, infatti, il difensore della parte civile è domiciliatario. Alle date in cui ho ricevuto le notifiche, quindi, un nuovo difensore non era stato probabilmente nominato”. Il 6 aprile 2020, a Santa Maria Capua Vetere, telecamere interne all’istituto riprendevano un vero e proprio raid punitivo condotto da quasi trecento agenti penitenziari. Durante questo raid centosettantasette detenuti furono pestati, insultati, denudati e umiliati. L’inchiesta ha indagato su centoventi persone e portato all’emissione di cinquantadue misure cautelari, ma l’attenzione pubblica si è velocemente dissolta. A Foggia, l’11 agosto 2023, dieci agenti aggredivano e picchiavano due detenuti per oltre mezz’ora: uno di loro soffriva di una grave patologia psichiatrica. L’indagine, supportata da video e testimonianze interne, ha portato a quattordici ordinanze cautelari nel marzo 2024. Nel 2025, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per tortura, concussione e falsità ideologica, evidenziando coperture sanitarie e tentativi di insabbiamento. Non si tratta di episodi isolati. A San Gimignano, il 9 marzo 2023, il Tribunale di Siena ha condannato cinque agenti della polizia penitenziaria a pene tra cinque anni e dieci mesi e i sei anni e sei mesi per tortura, falso e minaccia aggravata. I fatti risalivano all’ottobre 2018, quando un detenuto tunisino era stato brutalmente pestato. La sentenza ha riconosciuto non solo la violenza sproporzionata, ma anche il tentativo sistematico di copertura dell’accaduto. La Corte d’Appello di Firenze ha successivamente confermato tutte le condanne, sebbene cinque imputati abbiano ricevuto uno sconto di pena. Ancora – ma si potrebbe andare avanti a lungo – nel febbraio 2025 il Gup di Reggio Emilia ha condannato dieci agenti di polizia penitenziaria per il pestaggio di un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nel carcere della Pulce. In quel caso il reato di tortura non è stato riconosciuto, e le condanne per abuso di autorità, lesioni e falso ideologico sono variate da quattro mesi a due anni (nonostante ciò, l’impianto accusatorio ha mostrato pratiche di violenza istituzionale reiterata, perseguibili solo grazie alla legge 110/2017, oggi sotto attacco).  Alla violenza fisica si accompagna una crescente medicalizzazione della custodia. Il XXI Rapporto di Antigone (Senza Respiro, presentato il 29 maggio 2025) ha rilevato che il quarantaquattro per cento dei detenuti assume sedativi o ipnotici, mentre il venti per cento fa uso di stabilizzanti dell’umore, antidepressivi o antipsicotici, spesso in assenza di una diagnosi psichiatrica formale. Il fenomeno è particolarmente allarmante nelle carceri minorili, dove il consumo di psicofarmaci è aumentato drasticamente (del sessantaquattro per cento all’istituto di Torino e del trecento cinquantadue per cento a Nisida, rispetto al 2022) Nei reparti per l’“osservazione psichiatrica” sono state documentate prassi come l’isolamento prolungato per settimane, la sedazione forzata e la contenzione meccanica. Secondo le linee guida delle Nazioni Unite e le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), tali pratiche possono configurare trattamenti inumani o degradanti. In istituti come Poggioreale e Vigevano il Cpt ha segnalato la totale assenza di monitoraggio esterno, l’uso di farmaci senza consenso informato e gravi lacune nella documentazione degli episodi di contenzione, compromettendo ogni forma di trasparenza e tutela. L’approccio segregativo e le pratiche torturatorie si estendono sempre più anche all’esterno dei luoghi carcerari “tradizionali”. Da gennaio 2025, l’Italia ha avviato i primi trasferimenti di migranti irregolari nei Cpr albanesi costruiti a Shëngjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale del 6 novembre 2023. Queste strutture, gestite con appalti diretti e contratti blindati, sono collocate fuori dal territorio nazionale: secondo la narrazione governativa, ciò le escluderebbe dalla giurisdizione italiana.  La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23105 del 20 giugno 2025, ha stabilito che i centri albanesi sono “formalmente e sostanzialmente sottratti alle garanzie giurisdizionali italiane”, in violazione della Direttiva 2008/115/CE e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La Suprema Corte ha inoltre sollevato due questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affermando che il trattenimento nei Cpr albanesi rappresenta “una forma di detenzione extragiudiziale in territorio straniero, priva delle tutele minime previste dal diritto europeo”. Secondo quanto riportato dall’Asgi, nei primi sei mesi del 2025 oltre centoventicinque migranti sono stati trasferiti nei Cpr albanesi di Shengjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale siglato tra Italia e Albania. Diverse autorità giudiziarie italiane, tra cui i giudici di pace di Roma, Bologna e Catania, hanno successivamente disposto il rilascio immediato di alcuni richiedenti asilo, ritenendo il trattenimento “giuridicamente nullo” per l’assenza di tutele legali e giurisdizionali. Il 3 luglio 2025 la Corte Costituzionale (con la sentenza n. 96/2025) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina del trattenimento nei Cpr, per violazione dell’articolo 13 della Costituzione. La Consulta ha rilevato che la privazione della libertà personale nei centri per il rimpatrio avviene sulla base di una norma, l’articolo  14, comma 2 del Testo Unico Immigrazione, che non definisce con sufficiente precisione i modi del trattenimento, rinviando a fonti secondarie e a prassi amministrative, in violazione della riserva assoluta di legge in materia di libertà personale. La Corte ha inoltre sottolineato che l’attuale disciplina non garantisce un controllo giurisdizionale effettivo e continuo, come imposto dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che tutela ogni persona da forme di detenzione amministrativa arbitrarie. In assenza di una normativa primaria che disciplini condizioni, durata e modalità del trattenimento, questo si configura come un assoggettamento fisico all’altrui potere, potenzialmente lesivo della libertà personale e privo delle necessarie garanzie di legge. Sono state inoltre sollevate (anche se dichiarate inammissibili) questioni relative alla violazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione, in particolare per la mancata effettività del diritto alla difesa, l’assenza di informazioni chiare sui diritti del trattenuto e le difficoltà nell’accesso a un avvocato e nel ricorso contro il trattenimento. La Corte ha ritenuto inoltre non scrutinabili le questioni relative alla violazione dell’articolo 3 della Costituzione, che denunciavano una disparità di trattamento rispetto al regime carcerario ordinario. Nel merito, va sottolineato, non ha fornito una disciplina sostitutiva, ma ha rivolto un preciso monito al legislatore: in mancanza di un intervento normativo che regolamenti in modo chiaro il trattenimento nei Cpr quanto a modalità, durata, condizioni materiali e garanzie giurisdizionali, la misura risulta costituzionalmente inammissibile. È chiaro, tuttavia, che un intervento meramente giurisdizionale non può essere sufficiente davanti a un mosaico che si compone e ricompone di continuo. Un garante che non parla, una legge che protegge chi picchia, un decreto che finanzia la difesa degli imputati in divisa, una riforma che sterilizza il reato di tortura, una giurisdizione che si dissolve verso strutture extraterritoriali: tutto è coerente con l’obiettivo di silenziare la denuncia, ridurre al minimo le garanzie, garantire l’impunità e normalizzare l’eccezione. È il passaggio dalla giustizia alla gestione, dal diritto alla forza, e non è solo una crisi: è una precisa scelta politica. Di fronte a un sistema che si regge sulla paura e sull’opacità, il rischio non riguarda solo i detenuti, i migranti o i marginali: è un rischio per tutti, e per gli equilibri democratici generali, perché quando il potere si protegge dalla legge e non con la legge, la libertà smette di essere un principio, e diventa un privilegio. (luna casarotti – yairaiha ets)
La contenzione come violazione dei diritti fondamentali. La sentenza della Corte Costituzionale sui Tso
(disegno di canemorto) Con la sentenza n.76 del 2025 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 35 della legge 833/1978, che norma il Trattamento sanitario obbligatorio, ex articolo 3 della legge 180/78, cosiddetta “legge Basaglia”. In particolare, la sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 35 in relazione alla mancata previsione di tre garanzie fondamentali: il diritto all’informazione e comunicazione del provvedimento alla persona interessata o al suo legale rappresentante (avvocato, amministratore di sostegno, tutore o curatore); il diritto della persona a essere sentita prima della convalida; la notifica del provvedimento di Tso alla persona interessata o al suo legale rappresentante. Il giudizio di legittimità costituzionale era stato sollevato dalla Corte di Cassazione nel settembre 2024, nell’ambito di una controversia promossa da una donna sottoposta a Tso a Caltanissetta. La donna, tramite il suo avvocato, aveva presentato opposizione lamentando di non aver ricevuto alcuna notifica, di non essere stata ascoltata dal giudice e di non avere avuto strumenti effettivi per difendersi. La Cassazione, valutando il ricorso, aveva posto in evidenza una serie di gravi lacune nel procedimento, affermando che “la mancata audizione della persona da parte del giudice tutelare prima della convalida rende il controllo giudiziale meramente formale”. I giudici della Corte Costituzionale, in seguito al ricorso presentato dalla donna in Cassazione, hanno rilevato come l’articolo 35 della legge 833 non garantisca in effetti adeguate tutele, evidenziando che “il sindaco e il giudice tutelare comunicherebbero tra loro, ma nessuno dei due comunicherebbe con il paziente”. La sentenza della Corte Costituzionale dovrebbe avere da ora effetto immediato su tutti i procedimenti in corso e su quelli futuri. I sindaci, in qualità di autorità sanitarie locali, dovranno garantire, ai sensi del pronunciamento, che il provvedimento sia notificato alla persona o al suo legale rappresentante. I giudici tutelari saranno obbligati quindi ad ascoltare l’interessato prima di convalidare il trattamento e la mancata osservanza di tali garanzie potrà determinare l’illegittimità del Tso. Di prassi, il legislatore dovrebbe inoltre intervenire per adeguare il testo normativo al nuovo orientamento costituzionale. LA SENTENZA Abbiamo ritenuto opportuno approfondire i meccanismi interni della sentenza. Secondo la Corte Costituzionale l’assenza della tempestiva informazione sulle modalità di opposizione costituisce “un ostacolo rilevante all’esercizio del diritto a un ricorso effettivo alla difesa e, in ultima istanza, a un giusto processo”, anche se la 833 preveda la possibilità di chiedere la revoca del provvedimento di Tso e di proporre successiva opposizione. La Corte ha sostenuto che la non comunicazione, la mancata audizione del giudice tutelare e la mancata convalida del provvedimento rappresentino “una violazione del diritto al contraddittorio e alla difesa, dunque un deficit costituzionalmente rilevante”. Ha fatto appello in particolare ad articoli fondamentali della Costituzione: il 13, sulla libertà personale, il 24, sul diritto di difesa in giudizio, e il 111, sul giusto processo. La Consulta ha stabilito che la persona sottoposta a Tso deve essere messa a conoscenza del provvedimento restrittivo della libertà personale e deve partecipare al procedimento di convalida, in quanto titolare del diritto costituzionale di agire e di difendersi in giudizio, anche nel caso in cui si trovi in stato di “incapacità naturale”. Nella sentenza è scritto inoltre che l’audizione della persona sottoposta a Tso da parte del giudice tutelare debba avvenire prima della convalida “presso il luogo in cui la persona si trova – normalmente un reparto del servizio psichiatrico di diagnosi e cura”, perché questo incontro tra paziente e giudice “è garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale (articolo 13, quarto comma, della Costituzione) e nei limiti imposti dal rispetto della persona umana (articolo 32, secondo comma, della Costituzione)”. L’audizione per la convalida – che deve avvenire entro quarantotto ore – rappresenta un primo contatto che consente al giudice tutelare di conoscere le condizioni della persona, compresa “l’esistenza di una rete di sostegno familiare e sociale”. La sentenza ha fatto anche riferimento al rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che nel 2023 aveva evidenziato come il Tso in Italia segua un “formato standardizzato e ripetitivo” in cui il giudice tutelare “non incontra mai i pazienti che rimangono disinformati sul loro status legale”. La Corte non si è limitata alla questione Tso, mettendo giustamente in discussione l’analogo dispositivo amministrativo restrittivo della libertà personale che riguarda i migranti senza documenti: “L’accompagnamento coattivo alla frontiera e il trattenimento dello straniero nei centri di permanenza per il rimpatrio devono essere assistiti dal diritto di essere ascoltati dal giudice in sede di convalida, sicché sarebbe irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza l’omessa previsione di analogo adempimento nel trattamento sanitario coattivo”.  QUARANTASETTE ANNI SENZA COSTITUZIONE Se il Tso è stato costituzionalmente illegittimo finora, chi ci garantisce che le cose cambieranno? Con che modalità queste persone saranno ascoltate? Verranno tutelate la libertà e il diritto di difesa della persona che la sentenza della Corte Costituzionale, in maniera precisa, definisce? Malgrado la sentenza abbia riportato a chiare lettere che l’audizione debba avvenire nello stesso luogo in cui la persona si trova, il tribunale di Milano ha già chiesto l’attivazione di un numero per fare le audizioni in videochiamata. Il rischio è dunque che questa nuova procedura venga risolta aggirando i dispositivi più tutelanti, in barba alla stessa sentenza. Quale tutela, quale salvaguardia di diritti potrebbe assicurare una videochiamata, magari in presenza di personale sanitario, con un paziente già sedato? In queste condizioni immaginiamo i giudici tutelari convalidare i Tso come un atto meramente burocratico: tutt’altro che come garanzia di controllo sul divieto di violenza fisica e morale indicato nella sentenza. Se la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e nel rispetto rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la subisce è ben diversa. Chi scrive sa bene – dopo vent’anni di esperienza accumulata attraverso lotta dura contro le pratiche manicomiali – che il protocollo della procedura di imposizione di Tso molto spesso non è applicato, e che il trattamento non è affatto un provvedimento di extrema ratio. Troppo spesso le procedure giuridiche e mediche durante il Tso vengono aggirate: nella maggior parte dei casi i ricoveri coatti sono eseguiti senza rispettare le norme che li regolano e seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti della persona. Uno degli inganni del sistema psichiatrico sta nel far credere che un Tso duri in fondo solo sette giorni, o quattordici nel caso peggiore. La verità è che il Tso implica una coatta presa in carico della persona da parte dei servizi di salute mentale del territorio che può durare per decenni. Una volta entrato in questo meccanismo infernale, una volta bollato con lo stigma della “malattia mentale”, il paziente vi rimane invischiato a vita, costretto a continue visite psichiatriche e, soprattutto, alla somministrazione obbligatoria di psicofarmaci, pena un nuovo ricovero coatto. Per i ricoverati in Tso si ricorre ancora spesso all’isolamento e alla contenzione fisica, mentre i cocktails di farmaci somministrati mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere. Il grado di spersonalizzazione e alienazione che si può raggiungere durante una settimana di Tso ha pochi eguali, anche per il bombardamento chimico a cui si è sottoposti. L’obbligo di cura non significa più necessariamente e solamente reclusione in una struttura, ma si trasforma nell’impossibilità di modificare o sospendere il trattamento psichiatrico, sotto costante minaccia di ricovero coatto, sfruttato come strumento di ricatto, punizione e repressione. IL TSO COME VIOLAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI Come Collettivo riteniamo però che ci sia una seconda, ulteriore, considerazione di cui tenere conto. La sentenza n.76, pur non menzionando esplicitamente la contenzione meccanica, offre, a nostro avviso, un forte potenziale interpretativo critico. Il nucleo della pronuncia è il rafforzamento del controllo giurisdizionale sul Tso, tramite l’audizione preventiva e in loco della persona da parte del giudice tutelare. La Corte esplicita, ed è questo l’elemento che vorremmo sottolineare, che tale audizione è “garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale” (articolo 13, comma 4 della Costituzione) e “nei limiti imposti dal rispetto della persona umana” (articolo 32, comma 2 della Costituzione). La sentenza parla inoltre di “audizione”, e quindi di ascolto. Deducendo da ciò: la contenzione meccanica, essendo una limitazione fisica diretta e potenzialmente lesiva della dignità, rientra a pieno titolo nelle “violazioni fisiche e morali” e nel mancato “rispetto della persona umana”. Difficilmente si può pensare che, ascoltando la persona in stato di malessere si possa poi procedere a legarne gli arti o a limitarne la mobilità in modo pesantemente coercitivo. La sentenza, esigendo un controllo giudiziale non più formale ma sostanziale sulla concreta esecuzione del trattamento, rende ogni ricorso alla contenzione immediatamente sindacabile e, riteniamo, censurabile sotto il profilo di questi inderogabili principi costituzionali. La sua applicazione, pertanto, è ora direttamente e immediatamente riconducibile a una possibile violazione dei diritti fondamentali della persona, richiedendo una strettissima aderenza ai criteri di necessità ed eccezionalità per sfuggire alla qualificazione di violenza costituzionalmente illegittima. (collettivo antipsichiatrico antonin artaud)
L’Italia ha spedito in Israele tonnellate di esplosivi. Il governo tace
Una inchiesta della rivista Altreconomia ha svelato le forniture Israele da parte di aziende italiane di prodotti cosiddetti dual use, destinati formalmente a usi civili, ma impiegabili in ambito militare. Secondo i dati rivelati da Altreconomia nel database del commercio mondiale Comotrade, “nel 2024 l’Italia ha iniziato a esportare cordoni […] L'articolo L’Italia ha spedito in Israele tonnellate di esplosivi. Il governo tace su Contropiano.
La democrazia è anche questione di metri quadri. Un ricordo di Franco Marescotti
(disegno di cyop&kaf) Disegni, modellini, progetti su carta lucida, fotografie, libri, riviste e una grande collezione di conchiglie. Tutto nel suo camper fino a Catania, per costruire un corso di architettura nella facoltà di ingegneria. Franco Marescotti, si è trasferito in Sicilia con sua moglie Rosabella nel 1971, ed è rimasto lì fino al 1991, anno della sua scomparsa. Dagli anni Trenta del secolo scorso, Marescotti ha partecipato attivamente al dibattito sulla costruzione della città e delle periferie, con importanti scritti e pubblicazioni sulla casa per tutti e sulla prefabbricazione, collaborando a varie edizioni della Triennale di Milano e alla stesura di vari numeri della rivista Casabella. Negli anni Cinquanta ha fondato uno studio di architettura sociale dopo aver collaborato a diversi progetti per i Centri sociali cooperativi, primi esempi di progettazione partecipata. Qui insieme all’abitazione erano previsti i luoghi collettivi per il libero sviluppo della persona dove esprimere socialità e creare comunità: biblioteche, piscine, sale giochi e sale per il ballo. Il Centro sociale cooperativo Grandi e Bertacchi sul Naviglio a Milano, è un ottimo esempio di quella stagione in cui per Marescotti “la democrazia è anche una questione di metri quadri”. GLI ALLIEVI Due anni fa a Catania ho conosciuto Sabina Zappalà, un’architetta che ha lavorato nel quartiere di Librino, progettato a sud-ovest di Catania dall’architetto giapponese Kenzo Tange, per gran parte della sua vita professionale. La sua passione per l’architettura è legata a Franco Marescotti di cui è stata allieva e amica, amicizia condivisa fin dagli anni Ottanta con due giovani studenti di ingegneria Roberto De Benedictis ed Enzo Fazzino. I tre sono stati testimoni del periodo siciliano, nonché coloro che Marescotti ha scelto come eredi del suo lavoro. Un’amicizia e una frequentazione che negli anni ha unito profondamente i tre. Catania è un pezzo di terra scura affacciata sul mare, col monte Etna a fare da coronamento. Negli anni Ottanta Marescotti si stabilisce in una cittadina sul fianco del vulcano, a pochi chilometri dal comune di Valverde, dove grazie a Sabina incontro Enzo e Roberto arrivati da Siracusa. Una struttura comunale ospita il piccolo Museo delle conchiglie, una preziosa collezione appartenuta a Marescotti e venduta al Comune negli ultimi anni della sua vita. «Le conchiglie non vengono tutte dalla Sicilia – racconta Sabina –, ovunque è andato Marescotti ha raccolto conchiglie, coralli; il suo studio della casa per l’uomo mirava all’essenzialità». La ricerca teorica sulla casa moderna risale all’inizio del secolo scorso, quando diversi studi, soprattutto tedeschi, si pongono il problema dell’eccezionale sviluppo economico e del conseguente aumento demografico. Importanti urbanisti e architetti, come Hilberseimer, Mies van der Rohe e Le Corbusier, tra gli altri, compresero la necessità di ricercare una coerenza tra estetica e funzionalità nell’architettura moderna, piuttosto che la ricerca di uno stile unitario. «Marescotti – continua Sabina – aveva memoria della Sicilia già nell’immediato dopoguerra, perché faceva immersioni e conosceva le sue coste perfettamente. In fondo nelle conchiglie lui trovava l’ideale della casa per l’uomo. La conchiglia è perfetta, essenziale, autocostruita, ogni animale ha esattamente dentro di sé la matrice di ciò che è la sua casa. Probabilmente era questo uno dei motivi per cui ne era così attratto». Dopo questo passaggio presso il Museo, insieme a Sabina, Enzo, Roberto e sua moglie, ci sediamo a un bar nelle vicinanze. L’ingegnere Enzo Fazzino, tornato in Sicilia dopo molti anni di lavoro presso l’Unesco, racconta: «Ero attratto da questa figura e mi sono trovato in aula con gli studenti degli ultimi anni, si insegnava composizione architettonica. Eravamo negli anni Settanta, e si parlava di cose che non avevo mai ascoltato da nessun altra parte, sembrava non avesse niente a che fare con l’architettura. Sulla lavagna aveva disegnato una linea, l’equazione sessuale, e interrogava gli studenti su quanto si sentissero uomo o donna: tutto ciò in una facoltà di ingegneria! Credo che il messaggio di Marescotti sia sul lungo termine. Sono convinto che il suo lavoro continuerà a parlare alle persone, ben oltre l’architettura, perché parla di umanità e di impegno». L’altro amico e allievo è Roberto De Benedictis, anche lui ingegnere, deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana per tre legislature fino al 2012. «La speranza di costruire ambienti urbani che fossero a misura d’uomo – dice –, doveva essere sorretta da una politica. Marescotti nutriva, o meglio, si era formato un’idea in cui era possibile coltivare questa illusione sulla scorta degli esempi che stavano fuori dall’Italia». Il dibattito sull’architettura moderna vede uno dei momenti cruciali nell’Esposizione di Stoccarda del 1927, in cui architetti di fama internazionale si misurano con la progettazione di un quartiere residenziale. Da quell’esperienza, molti furono i dibattiti sul futuro della città, che vennero poi ripresi nei Ciam (Congressi internazionali di architettura moderna): teorici, architetti, urbanisti, proposero la loro idea di sviluppo delle città, attraverso lo studio di tipologie edilizie e sistemi di prefabbricazione. A Milano, Marescotti, in sodalizio con Irenio Diotallevi, costruirà uno dei più importanti riferimenti teorici per le nuove generazioni di architetti italiani. «Dopodiché questa stagione si è conclusa, ma lui continuava a fare “casette” – continua Roberto –; progettava tipologie edilizie, quando ormai il tema non era più attuale. Negli Istituti autonomi delle case popolari ancora resisteva un barlume di studio sulle tipologie e sulle abitazioni, e fino alla metà degli anni Ottanta c’era ancora la concezione che l’edilizia popolare fosse un servizio per la società, ma di questo oggi non c’è più traccia. Marescotti credeva che l’azione degli individui potesse cambiare le cose. La politica è questo, persone che si mettono insieme e fanno cambiare le cose. E con quale strumento? Ciascuno con il suo. Lui partecipava con l’architettura, altri partecipavano con la scrittura, con la poesia, con l’arte, o con la politica in senso stretto». L’EREDITÀ  Roberto de Benedictis continua a parlare di Marescotti e del suo lascito: «Sì, noi abbiamo avuto una lettera di consegna, in cui ci ha lasciato tutto il suo lavoro, il suo materiale. Non per farne necessariamente qualcosa, ma perché non gli era rimasto molto. L’accademia lo ha rifiutato. Non era laureato e questo in Italia contava moltissimo. Negli ultimi anni ha sofferto molto perché non aveva una pensione. Ricordo che una volta lo abbiamo trovato che provava a bruciare parte del suo lavoro nel camino. Sono stati anni molto difficili per lui, di solitudine. Lo abbiamo supportato e probabilmente siamo stati gli unici. Dall’Università non l’ha cercato più nessuno, è rimasto solo, anche per il suo carattere difficile». Sabina, Enzo e Roberto, dopo svariati tentativi di consegnarli all’Università di Catania, nel 2015 hanno affidato il suo archivio all’Accademia Nazionale di San Luca a Roma, uno storico e importante istituto dove sono conservati molti archivi di artisti e architetti degli ultimi quattrocento anni. Proprio quest’anno, a dieci anni da quell’affidamento, l’Accademia è riuscita a digitalizzare l’archivio rendendolo pubblico lo scorso 15 maggio sul sito ufficiale. Già Francesco Moschini nel maggio 2016, all’epoca segretario generale dell’Accademia, parlava della complessità di questa figura: “Franco Marescotti ha una centralità nel dibattito architettonico che in qualche modo non viene resa pubblica e non viene resa spendibile, c’è sempre una condizione di marginalità dovuta all’integerrima e ferrea sua volontà di mantenere la dimensione etica […]. Questo forse gli ha precluso una diffusione ulteriore del proprio portato teorico e realizzativo nonostante le straordinarie esperienze e operazioni: come quella di Grandi e Bertacchi, esempi straordinari che hanno segnato in fondo una sconfitta rispetto quello che poi è successo dell’intero paese. […] Il suo archivio è composto da oltre millecinquecento disegni, un centinaio di plastici, molti materiali di documentazione fotografica, raccolte editoriali di libri e di riviste”. L’Accademia di San Luca ha messo l’archivio a disposizione degli studiosi: «Io penso che esistano autori, architetti o pensatori che sono assolutamente ignorati in vita, e poi anni, secoli dopo vengono capiti, rivalutati», chiosa EnzoFazzino. (daniele balzano)