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Quando la destra si spara addosso
Odia, spara e poi fai la vittima è questo il credo della destra attuale che Giorgia Meloni interpreta sapientemente riprendendo l’antico adagio «chiagne e fotte». La nuova narrazione lanciata con forza dalla premier durante la festa nazionale dell’Udc e ripresa nel videomessaggio inviato alla kermesse EuropaViva di Vox, dove ha sostenuto […] L'articolo Quando la destra si spara addosso su Contropiano.
La barriera invisibile. Impressioni da La luna e i calanchi di Aliano
(disegno di sam3) Il tragitto da Conversano – mio paese natale – ad Aliano dura poco più di due ore. Si attraversa la bassa Murgia che sfiora la Valle d’Itria e poco prima di Taranto si svolta per raggiungere la costa jonica lucana fino a Scanzano Jonico. Da lì inizia un lento allunaggio. Non appena iniziamo a dare le spalle al mare per avventurarci verso l’interno della Basilicata, veniamo travolti da un paesaggio per noi inedito che ci sembra non abbia nulla di terrestre. I calanchi. Formazioni argillose percorse da venature che mostrano i canali prediletti dell’acqua quando scorre sui loro versanti, coperti da qualche sparuta formazione di vegetazione. Per arrivare ad Aliano si sale. Un’ascesa dopo la quale crediamo – io e i tre amici in macchina – di aver raggiunto un’altitudine ben maggiore dei quasi cinquecento metri della nostra destinazione. La ragione del nostro viaggio è semplice: assistere e prendere parte a La luna e i calanchi, iniziativa che da quasi quindici anni anima per diversi giorni il paese lucano nella seconda metà d’agosto. Aliano è un paese di dimensioni modeste, ma organizzato in tre parti collegate dalla strada principale. La prima ospita la casa del confino di Carlo Levi e qualche altra costruzione, nella seconda c’è il municipio e la piazza dedicata al partigiano Nicola Panevino; infine, proseguendo sempre sulla via principale, si raggiunge quella che sembra essere la parte più nuova del paese che finisce a ridosso del cimitero dove si trovano le spoglie dell’autore torinese. Mi reco a un infopoint e prendo un programma delle attività. Gli organizzatori definiscono La luna e i calanchi la festa della paesologia. Arresto la mia lettura già al sottotitolo. Cosa è la paesologia? Vado in cerca di risposte sul sito della Casa della paesologia, dove è presente un manifesto, firmato da Franco Arminio, ideatore e protagonista assoluto della “festa”. Lo stile di scrittura è lirico ma informale e cita temi enormi quali la morte, l’anima, il sacro, la comunità per poi nominare anche termini più economici quali la decrescita e il consumismo. La prima lettura del manifesto mi lascia perplesso. In particolare un passaggio cattura la mia attenzione, una specie di inno nichilista: “la paesologia è oltre la decrescita, è fuori dalla logica di costruire società e benessere, l’uomo non deve costruire niente, siamo qui nel mondo, siamo qui e non si può dire nient’altro, siamo nel tempo che passa, non c’è niente da risolvere, non c’è una meta da raggiungere”. Un inno individualista in cui il soggetto diventa una singolarità che trascende completamente la società. Siamo oltre il “ci si salva da soli”, perché non c’è niente da cui salvarsi dal momento che “non c’è niente da risolvere”. Piantiamo le tende in un appezzamento di terra nei pressi del cimitero e torniamo in paese ad assistere ai primi incontri. È già sera e riesco solo a sentire un concerto di organetto di un artista sardo – eccezionale – e poi uno spettacolo teatrale su Gramsci. In una piazza Panevino gremita riesco a ritagliarmi solo un posto dietro un angolo dove ascolto lo spettacolo come se fosse un podcast. Si tratta di un monologo senza grandi movimenti sulla scena. Il pubblico si mostra impaziente perché chi è sulle balconate sente poco, dal momento che l’amplificazione è al livello della piazza. Arminio si fa portavoce del malcontento e a spettacolo inoltrato irrompe sulla scena interrompendo l’attore, che si ritira nelle quinte – il retro della piazza – per ritrovare la concentrazione persa, sbuffando rumorosamente nel microfono rimasto aperto per pochi secondi. Quello che era un sospetto diventa praticamente certezza: Arminio è il centro assoluto di questa festa, introduce e conclude praticamente tutti gli incontri e ha potere assoluto sulla loro dinamica. La mattina dopo decido di girare un po’ in paese, guardarmi intorno e magari parlare con qualche alianese per capire meglio il contesto in cui si svolge la festa. Che percezione hanno de La luna e i calanchi gli alianesi? Che ne pensano dei fruitori della festa? Per puro caso incontro Rocco, un alianese trasferitosi al Nord da più di quarant’anni, ma ancora molto legato al proprio paese. Assieme a lui, intento a recarsi sul luogo di lavoro per iniziare la propria giornata, c’è Giacomo, uno dei pochi dipendenti comunali di Aliano. Gli chiedo se può spiegarmi meglio la percezione che gli alianesi hanno della festa. Mi risponde senza nascondersi che la popolazione è prevalentemente anziana e, pur rallegrandosi che il paese si riempia per qualche giorno, perlopiù rimane indifferente e non prende molto parte alle iniziative messe in campo. In seguito Giacomo lamenta la natura effimera della festa che nel corso degli anni non ha lasciato segni più duraturi della sua presenza. Ma a colpirmi di più è quello che dice dopo. Riferendosi alla popolazione più giovane di Aliano e dintorni, Giacomo mi spiega che questi “fanno i servi”, ovvero i volontari per il festival. Inizio a fare caso a un certo numero di persone con le maglie rosse con su scritto “staff”, tutte volontarie, che riempiono l’infopoint e vari luoghi di interesse. La sensazione è che tra il pubblico della festa – in maggioranza proveniente da fuori – e gli alianesi ci sia una barriera invisibile. Porosa, aperta agli scambi, ma eretta a partire dalla definizione di ruoli precisi nell’economia della scenografia che viene messa in atto nei giorni della festa. Trovo confermata questa mia impressione nelle parole di una giovane barista con cui mi fermo a parlare. Nella nostra discussione con il “noi” si riferisce ai suoi concittadini e impiega invece il “voi” per le persone che da fuori arrivano in paese per la festa. La barriera diventa meno virtuale e più reale. La nostra conversazione si chiude con una sua riflessione: «Noi [alianesi] dobbiamo offrirvi una bella esperienza a voi che venite, però se vuoi vedere davvero Aliano devi venire settimana prossima». La convinzione che questa festa possa esistere solo fuori dalla realtà, o meglio in una sospensione temporanea da essa, si rafforza. Proprio nel pomeriggio di quello stesso giorno, tuttavia, la festa prova ad affacciarsi sulla realtà affrontando il tema di più bruciante attualità: il genocidio messo in atto dall’entità sionista a Gaza. Non riesco a trovare posto nella sala e rimango fuori ingannando il tempo con altri amici arrivati nel frattempo ad Aliano. I racconti di chi ha partecipato all’evento sono inquietanti: persone (bianche) nelle prime file si commuovono per la tragedia – declinata in termini umanitari e non politici – a Gaza. Alla fine dell’incontro mi riferiscono di un alterco tra Arminio e una persona dal pubblico. Mi raccontano che in chiusura è stato mandato un videomessaggio di una persona gazawi che però è stato fermato proprio nel momento in cui questa chiamava all’azione, invocando manifestazioni e boicottaggi. Non è chiaro se il video fosse stato tagliato precedentemente o fermato per iniziativa di Arminio. Certo l’autore ha reagito in malo modo alle proteste di chi dal pubblico faceva notare che il video si fosse arrestato proprio in quello specifico punto. Il tutto si è concluso con il poeta campano che diceva a chi protestava di vergognarsi e di non azzardarsi a dire che lui non tiene alla causa palestinese. Mi appresto a seguire l’incontro seguente, la presentazione di un libro. Cerco informazioni sull’autore. Insegna policy analysis a Milano, alla Bocconi. Un’ora e mezza di bocconianesimo da sagra, con discorsi di mero senso comune e puro opinionismo senza uno straccio di riferimento concreto. Un’alluvione di dichiarazioni fatte con il piglio tipico dell’economista che considera i dati economici come dati naturali, ineluttabili e non come produzioni tutte umane. Non mancano anche accenni ispirati alla nauseante retorica meritocratica liberale, che condanna chi sta indietro a rimanere sempre più dietro. Il panel ruota attorno ai temi dello sviluppo locale, declinato in particolar modo per le aree interne, i cui abitanti dovrebbero aspettarsi meno servizi e stipendi minori. Il relatore, in uno slancio di fantasia degno di nota, afferma: «Magari le persone vogliono vivere in città per usufruire di servizi quali un bel ristorante o un aeroporto per andare in Indonesia!». Frastornato da quest’ultima affermazione, ci metto qualche minuto prima di riprendermi. Siamo davvero sulla luna. Una luna abitata da un ceto alto-borghese lontano centinaia di migliaia di chilometri dalla realtà, tra i cui bisogni principali c’è la vacanza a Bali. Persone che vengono qui per specchiarsi negli occhi delle altre che le guardano mentre leggono in pubblico poesie. Chiuse a chiave in un idillio che priva l’archetipo del paese contadino – rappresentato da Aliano – di ogni elemento di contraddizione. La politica esce di scena. Cosa rimane? Uno sterile esercizio di estetica, che non arricchisce nessuno se non gli ego già rigonfi di una classe che ormai tifa per lo status quo, perché sazia e sistemata. Un arroccamento che non è problematico di per sé. Il problema sorge nel momento in cui la paesologia, questa “disciplina” priva di metodo, apparato scientifico o critico si avventura in analisi sociologiche o politologiche sullo stato della realtà. Il risultato sono affermazioni perentorie formate a partire da un senso comune circa la società, in cui il ceto “riflessivo” alto-borghese è dominante. Un gruppo di persone che non riesce a guardare a un palmo dal proprio esorbitante privilegio e adopera le sue categorie particolari per dispensare consigli che crede di portata generale. Il riferimento alla luna accompagna Aliano da molto tempo, in una metafora materiale ma anche simbolica. L’argilla dei calanchi, che Carlo Levi descriveva come “piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare”, ospitavano un mondo contadino che doveva apparire alieno a Levi, così lontano dall’urbana Torino e retto da equilibri e consuetudini a volte inspiegabili. In Cristo si è fermato ad Eboli l’autore spinge la società contadina “sulla luna” raccontandola come se fosse fuori dalla storia, come una civiltà altra. Levi estetizza il mondo contadino, lo racconta attraverso il mito, la leggenda e il ricorso a un registro che insiste sulla dimensione ancestrale. In questi due giorni a La luna e i calanchi davanti a me si è manifestato un nuovo isolamento di questi luoghi. Uno cercato e uno imposto. Il primo è quello della classe alto-borghese in villeggiatura sulla luna per sfuggire alle brutture della realtà, alla ricerca di un rifugio nella poesia e nella paesologia; il secondo è quello di Aliano – e dei suoi abitanti – spinto a essere nuovamente solo una scenografia e non un luogo dove la gente vive ed esprime bisogni che la politica deve prendere in carico. I giovani volontari del festival svolgono un altro ruolo fondamentale: quello di figuranti che rendono verosimile la rappresentazione e la pornografia del sud Italia che si inscena nei giorni della festa. Oggi ad Aliano si consuma la sublimazione di un marketing territoriale che vuole rivestirsi di autenticità sfruttando i visi, le pose e le braccia delle persone lucane. Il tutto sfruttando finanziamenti che derivano dall’estrazione delle fonti fossili. Una ferita viva e pulsante nel cuore del territorio lucano. Durante l’incontro con il professore bocconiano una ragazza dal pubblico ha posto una domanda: come si risolve la contraddizione di assistere a un festival che esalta un territorio che però viene devastato dal petrolio, i cui proventi finanziano la stessa manifestazione culturale? Un circolo vizioso che scoperchia l’ipocrisia di questa classe dirigente. Il relatore ha risposto denunciando che il problema ormai è la mancata redistribuzione dei proventi ottenuti dall’estrazione delle risorse naturali e non la prevenzione dei danni ambientali, abilmente nascosti dalla classe politica ai tempi delle autorizzazioni. Una dimostrazione del pragmatismo cinico che i liberali vantano di avere per risolvere qualsiasi problema, a patto che non riguardi le disuguaglianze economiche. Al termine del suo intervento ha presentato una possibilità: «Una scelta è anche quella di non farlo, il festival». Sì, è una scelta. (marco patruno)
In Parlamento non passano le mozioni contro riarmo e spese militari
I risultati del voto sulle mozioni contro il riarmo e le spese militari hanno confermato due cose: la prima è che il governo, nonostante gli schiamazzi di Salvini, non intende deviare dalla strada del riarmo; la seconda è che Renzi e Calenda stanno sulle scatole a tutti. Infatti le mozioni […] L'articolo In Parlamento non passano le mozioni contro riarmo e spese militari su Contropiano.
La violenza e le figure del lavoro domestico dal Sudafrica al Brasile (e da noi)
Mentre il mondo intero ha dato molta attenzione al presunto genocidio bianco in Sudafrica, poco o quasi nulla viene detto della violenza contro le donne in Sudafrica. Una violenza che si manifesta non solo in atti di violenza fisica confermati dai più alti indici di stupro registrati nel mondo, ma anche da una violenza naturalizzata. Se la violenza fisica contro le donne, a volte, riceve forti denunce – come nel 2017, quando durante Afro Punk Joburg Thandiswa Mazwai, esibendosi con la band BLK JKS, prese il microfono per dichiarare «Men are trash» (gli uomini sono spazzatura), riferendosi alla tragica morte di Karabo Mokoena, scomparsa e poi ritrovata uccisa e bruciata dal suo compagno, dando così vita a una controversa campagna – altri tipi di violenza restano invece taciuti. > Se dal 2019, sulle buste di plastica di uno dei supermercati più popolari del > paese, si legge “END Gender-Based Violence” (fermiamo la violenza contro le > donne), nelle case della maggior parte dell’élite sudafricana — sia essa > bianca o nera — si consuma quotidianamente una “soft violence”. Secondo Amy Jo Murray e Kevin Durrheim, University of Johannesburg, in Sudafrica le lavoratrici domestiche rappresentano circa il 25% del settore informale non agricolo. Si tratta di donne nere, con bassa istruzione, che si prendono cura delle case e dei figli delle famiglie benestanti. È una scena familiare anche in Brasile. Ma se in Brasile ci sono stati progressi normativi significativi, in Sudafrica la maggior parte di esse continua a lavorare – appunto – in nero. Oggi la media dei salari è di circa 600 rand (meno di 30 euro al giorno), incluso il trasporto, un altro aspetto importante parlando della subalternità di queste persone. In entrambi i Paesi, queste donne devono percorrere lunghe distanze dalle periferie povere per soddisfare i bisogni dei suoi “padroni” che vivono, invece, nelle zone ricche della città. In Brasile “as patroas” è sempre al femminile, riflettendo una visione patriarcale che riserva alla donna qualsiasi funzione domestica. In Sudafrica, il tragitto è spesso insicuro: vecchi kombi non revisionate e sovraffollate. Siamo lontano dalle denunce per contatti fisici molesti in mezzi pubblici. La logistica del trasporto è rappresentativa della disumanità delle nostre società. Più povero sei, più lontano vivi, più paghi per spostarti per lavorare, meno tempo hai per vivere. Che sia riposare o goderti la vita. A Rio, durante il governo Bolsonaro, si sono messi in atto diversi provvedimenti per espellere i giovani dalle aree di divertimento della zona sud, riducendo le linee o, cosa che avviene anche a Cape Town, sospendendo il servizio pubblico diretto al mare nel weekend. Parlare di “trasporto pubblico” in Sudafrica è, comunque, irreale. La fine dell’apartheid nel 1994 ha portato al superamento – sulla carta – di differenze razziali e la garanzia di uguali diritti per tutte le cittadine e tutti i cittadini, anche sul lavoro. Ci sono stati miglioramenti nel salario minimo e l’introduzione di contratti. Questi progressi legislativi portarono ad alcuni miglioramenti nel salario minimo e all’uso di contratti di lavoro per i lavoratori domestici. Tuttavia pratiche radicate in una mentalità razzista, classista e paternalista permangono: straordinari non pagati, compensi in natura (es. alloggio). La questione dell’alloggio è un altro aspetto disumano. Mentre alle domestiche brasiliane viene riservata una stanza della dimensione di un letto singolo, localizzato sul retro della cucina, il “quarto de empregada”, lo stesso non esiste in Sudafrica dove le domestiche non entrano nello spazio della casa. A Sea Point, ricco quartiere di Cape Town, ogni palazzo ha un portinaio. Alcuni non sono visibili come nei palazzi di Copacabana a Rio, dove passano giorni e notti seduti all’ingresso. Essendosi i ricchi spostati dalle ville agli appartamenti, la donna continua nella sua funzione di cameriera, mentre l’uomo da giardiniere è stato adattato a tuttofare. Questi uomini vivono in microstanze, situate nei garage o solai o, se fortunati, in aree esterne. Comunque gli ingressi alle loro “celle dormitorio” sono spesso posizionate a lato alla raccolta dei rifiuti. Vengono però salutati affettuosamente per nome, con annesso sorriso, dai condomini. > In entrambi i Paesi, il modo in cui la classe media e ricca gestisce queste > relazioni lavorative è grottesco. I datori di lavoro sensibili agli stereotipi > razziali – forse per coscienza o per vergogna – cercano di mascherare il tutto > come una relazione neutrale. Tuttavia, ciò che li accomuna a chi invece non vede nulla di strano nella divisione di classe tra padrone/servo è l’idea condivisa che “la collaboratrice domestica è come parte della famiglia”. E in un certo senso lo è: passa più tempo con i figli dei datori di lavoro che con i propri. Nei voli Brasile-Italia, non è raro vedere queste donne (non bianche) accudire neonati le cui madri (bianche) non sanno come placarne il pianto. Le nannies, as babás, spesso poi dimenticate da questi bambini una volta raggiunta l’adolescenza. È necessario che ogni attività lavorativa sia disciplinata da regole oggettive e rispettose della dignità di ognuno. Senza addentrarci nell’analisi del lavoro domestico e riproduttivo (Federici, 2014) la relazione ambigua che regola il lavoro di cura delle donne a servizio della classe media e ricca sudafricana e brasiliana perpetua relazioni perverse basate su reciproche pretese che esulano normali rapporti di lavoro. Ad esempio, se da una parte la datrice di lavoro normalizza che la dipendente sia a sua disposizione (tempo extra e servizio), dall’altra la dipendente normalizza che la datrice di lavoro le garantisca (denaro extra e accesso) in caso di emergenza. Si instaura così un equilibrio implicito, non regolato da norme oggettive ma da aspettative basate su due opposte posizioni di potere: superiorità e subordinazione. Questa ambiguità consente pratiche di lavoro potenzialmente ingiuste, di sfruttamento e di paternalismo, sotto la maschera di relazioni “familiari”. Nel suo libro Maids and Madams (1980) la sociologa sudafricana Jacklyn Cock descrive il lavoro domestico come riflesso delle strutture oppressive dell’apartheid. Le gerarchie razziali erano visibili e brutali. Le lavoratrici domestiche affrontavano condizioni prossime alla schiavitù con i datori di lavoro che esercitavano un potere incontrollato sulle loro vite, rafforzando il ruolo subordinato della “maid” rispetto alla “madam”. Il lavoro domestico rafforzava una rigida gerarchia razziale, delimitando chiaramente i ruoli e lo status della “madam/signora” e della “maid/cameriera”. > Se la figura della domestica è nella società Italiana meno naturalizzata > rispetto a società con una diretta eredità schiavista (Brasile) e razzialmente > legalmente segregata (Sudafrica), forse quanto detto finora può aver > inorridito. I soliti selvaggi. Cosa succede se trasferiamo tutte le osservazioni e la conseguente indignazione alla figura di lavoro servile comune in Italia: la badante? Il nome fa inorridire tanto quanto as patroas, as nanies, as babás. Donne spesso giovani, immigrate, contrattate dalle famiglie per svolgere lavori domestici e mansioni infermieristiche nella cura di persone anziane o disabili a domicilio colmando le carenze dell’assistenza pubblica. Sono figure fondamentali per molte «famiglie italiane», praticamente parte della “famiglia”, si dice. Qualsiasi osservazione riguardo questa figura professionale riceve come risposta: «sono ben pagate». Come le donne di cui prima si parlava, spesso hanno un livello di istruzione basso, o in caso contrario non hanno avuto possibilità di inserimento lavorativo nei luoghi di origine. A volte lasciano Paesi in conflitto, spesso lasciano i loro figli e le loro figlie, sempre lasciano le loro famiglie. A volte sono più giovani delle figlie delle persone che le impiegano. Spesso sono celibi, e guarda caso finiscono per sposarsi con qualche uomo “parte o vicino alla famiglia”. In cambio di una casa e un salario, dànno disponibilità quasi che totale. Infatti in quanto domiciliare, significa includere la notte. Spesso si prendono cura di anziani e malati in condizioni estreme, spesso li accompagnano alla morte. Mentre abbondano saggi e analisi su queste condizioni, il lavoro di domestiche, portinai, e badanti continua a basarsi su un disequilibrio tra bisogno e potere. L’immagine di copertina è di International Domestic Workers Federation (flickr). Nella foto un gruppo di lavoratrici del South African Domestic Service and Allied Workers Union che manifestano di fronte all’Alta corte di Pretoria (Sud Africa) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo La violenza e le figure del lavoro domestico dal Sudafrica al Brasile (e da noi) proviene da DINAMOpress.
Per gli USA, il Ponte sullo Stretto non può andare tra le spese per la difesa
Il governo Meloni, che più volte ha rivendicato una certa vicinanza a Trump, continua a subire il ‘fuoco amico’ dall’inquilino della Casa Bianca. In un’intervista rilasciata a Bloomberg, l’ambasciatore USA alla Nato, Matthew Whitaker, ha messo bene in chiaro che gli Stati Uniti non sono disposti ad accettare il Ponte […] L'articolo Per gli USA, il Ponte sullo Stretto non può andare tra le spese per la difesa su Contropiano.
Malinconico agosto
(disegno di canemorto) Succede che nel cuore dell’estate uno torni “giù” per qualche giorno, nel posto in cui è cresciuto. Per noi meridionali che viviamo a Nord, questa espressione – tornare giù – è densa di significati. Si tratta spesso di un viaggio a ritroso in cui quella locuzione – giù – può alludere a stati mentali, a sentimenti, a roba dell’anima, più che della geografia. E succede che fai quattro passi in quei luoghi consueti, dove hai camminato milioni di volte e che ormai riconosci a stento; e più che passeggiare stai eseguendo un obbligo, un dovere verso la tua memoria; guardare e guardarsi intorno. Case, piazze, strade, si cammina in una specie di sonnambulismo torbido. Ma quando incroci qualcuno, uno sconosciuto, un passante qualsiasi e ti capita di guardare le facce della gente – i volti e le loro maschere provvisorie – quella è un’altra storia; quello è lo sguardo che conta, se vuoi capire davvero le cose. E infatti sono  le facce a parlarmi silenziosamente, in questa mia escursione in terra irpina. Facce di gente normale che incontri per strada; facce che senza volere comunicano, parlano, si lamentano o urlano senza aprire bocca; e ti muovono qualcosa dentro, una sensazione più forte della solita noia o delusione che questi ritorni mi provocano. Perché colgo un aura di malinconia che quei volti emanano – una tristezza profonda, insondabile, eppure evidente, irredimibile. Naturalmente nessuno evoca esplicitamente questo senso di malinconia, ognuno tiene coscienziosamente in piedi la rappresentazione della propria vita agostana, tra spezzoni di vacanze e complicate reunion familiari al capezzale di vecchi con l’Alzheimer. Ma il messaggio mi arriva dentro, diretto, potente; e mi sembra inequivocabile – frutto della misteriosa telepatia del quotidiano, quella per cui basta incrociare uno sguardo per indovinare un dolore o un pezzo di vita. È pur vero che di solito vediamo quello che vogliamo vedere. Riflettiamo quello che siamo. I luoghi, i contesti, persino le pietre sono specchi che parlano la nostra lingua e ci rispondono accordandosi col nostro umore. Eppure stavolta la tristezza che aleggia nelle piazzette, nei bar, negli androni, non mi sembra propriamente un illusione. È qualcosa che si tocca, quasi.  Qualcosa che irrancidisce sotto al sole agostano. E mentre sto lì a decifrare questa sensazione che aleggia nell’aria ferma, da qualche fondo di coscienza emerge un’altra parola chiave: sconfitta. E ci sta:  la sconfitta si accoppia bene alla tristezza. Forse sto cominciando a capire qualcosa di più. Le persone sembrano così tristi perché danno l’idea di aver perso qualcosa – come reduci di guerra, però sbarbati, ben vestiti e ben nutriti. Una guerra non convenzionale, combattuta a un altro livello, su altri campi di battaglia. Ecco: il concetto di “sconfitta” è un passo avanti; siamo dentro una malinconia da perdita irreversibile. Questo è ciò che vedo nelle facce della gente che si trascina sui marciapiedi sconnessi, dello scopino che la mattina presto pulisce i resti della miserabile movida in centro, dei padri di famiglia che tornano a casa con un sacchetto della farmacia strascinando i piedi, di qualche raro giovanotto laccato e disorientato che a mezzogiorno si è appena alzato dal letto; dei pensionati che cercano con lo sguardo le luminarie agostane e non le trovano perché il comune ha finito i soldi e per quest’anno nisba. E le facce delle famiglie obese: padre madre e figlio unico, tutte taglia XXL, che litigano stancamente strattonandosi l’uno con l’altro. Ah, l’obesità: anche quella sembra parlarmi. L’obesità mi sembra in aumento, ma non è una grassezza gaudente, di chi si abbuffa per onorare la vita; no, è un lasciarsi andare – soprattutto nella palude familiare –, uno scivolamento lento, una obesità interiore, potremmo dire, una pesantezza del cuore, perché tanto non c’è molto altro da fare che entrare e uscire da rosticcerie e pizzerie e pasticcerie e riempirsi l’anima di trigliceridi. A onor del vero non mancano, la mattina presto, camminatori e runner – in luccicanti e incongrui completini colorati alla moda; ma anche loro  sembra che con quello sforzo stiano più che altro aderendo a un dettame di religiosità civile: provare a tenersi in forma è l’adempimento di un obbligo, l’adesione a un modello social o televisivo; vanno a correre la mattina presto con lo stesso spirito con cui i loro genitori andavano in chiesa. Tristezza e sconfitta. Abbasso la testa pure io. Scanso le merde dei cani e continuo ad arrovellarmi. Passo attraverso luoghi consueti ma ormai estranei. La Galleria Mancini è diventata un antro buio e deserto. Quarant’anni anni fa era l’epicentro civile della città, la sede della gloriosa US Avellino, dove tutti gli sfaccendati soggiornavano cercando di afferrare qualche novità di mercato o di spogliatoio; in questo periodo dell’anno se eri fortunato potevi incrociare don Antonio Sibilia, il presidente, di ritorno dall’Hotel Sheraton di Milano – l’uomo di cui eravamo orgogliosissimi: quale altra squadra poteva vantare un patron accusato di tentato omicidio di un procuratore della Repubblica? Adesso, quel civico è diventato, chissà perché, un rifugio di dentisti – e non trovo nessun nesso tra calcio di provincia e odontoiatria. E del resto perché mi metto a cercare nessi misteriosi tra le cose, tra i ricordi e il presente? Credo ancora alle mappe occulte? Al Segreto celato nel quotidiano? E la modestissima zona industriale, rachitica come un ragazzino mal cresciuto. Un furgoncino scarica tre operai manutentori che entrano alla Fiat, simbolo di eterne promesse di riscatto che finiscono in cassa integrazione e incentivi all’esodo. E anche l’esodo potrebbe acquisire la maiuscola e diventare l’Esodo! E assurgere finalmente a figura biblica: l’uscita da un lavoro di merda verso la terra promessa della precarietà (di merda), dei lavoretti col cognato, dell’orticello di famiglia per risparmiare sulla spesa. Perdita, sconfitta, tristezza. E a forza di rimuginare, finalmente mi si accende una lampadina di razionalità: è tutta colpa di Orhan Pamuk se sono così cupamente meditabondo. Ho in valigia Il libro nero – sono alla duecentesima lettura – e mi sono semplicemente autosuggestionato.  È lui, Pamuk, il cantore della malinconia del Bosforo, della decadenza della vecchia Istambul della sua adolescenza. La tristezza della sua prosa è contagiosa, come una scoria radioattiva. Era il  protagonista del suo libro che – moderno Hurufi inconsapevole – leggeva le lettere sui volti dei suoi concittadini, quelle lettere spaventose che definivano destini futuri e malinconie struggenti. È Pamuk che racconta del senso di sconfitta che tutti i turchi della sua generazione si portavano dietro: violentemente occidentalizzati dal terribile padre Ataturk, pieni di sensi di colpa sia per non essere riusciti a diventare davvero occidentali adempiendo al comando paterno,  sia per averci provato tradendo le glorie arcaiche – persi per sempre nel limbo struggente dei vinti, degli incompiuti. Si ma che diavolo c’entra l’Irpinia con l’Anatolia? Questa correlazione, per quanto stramba, non mi abbandona. Di quale sconfitta è portatrice la giovane ragazza che sistema nella sua vetrina mutande, calzini e capi di abbigliamento da quattro euro e cinquanta? E il vecchio barista scocciato che raccatta i giornali unti e guarda l’orologio alle sei di sera e non vede l’ora di tirare giù la serranda e andarsi a chiudere in casa? E gli anziani che deambulano come piccioni frastornati alla ricerca di un cornicione che li ripari dal sole. Che sconfitta storica stanno portando sulle loro spalle inconsapevoli, tutti costoro – bravi cristiani, innocenti, stanchi e sudati? Il Comune è in dissesto cronico permanente. Non ci sono soldi per fare nulla, neanche le mediocri  feste di paese che negli anni scorsi servivano a sollazzare il popolino – sempre pronto a lamentarsi dell’ospedale o delle strade, ma altrettanto pronto a lanciarsi nei karaoke più pacchiani. Il quadro politico è all’insegna della improvvisazione più dilettantesca, dopo l’esaurimento del vecchio ceto democristian-piddino che aveva gestito il passaggio alla seconda repubblica. Agosto in Irpinia è tradizionalmente il mese della festa, quella del rientro dei migranti, il periodo in cui le famiglie si riuniscono e si scambiano auspici e speranze per l’autunno che arriva. Ma quest’anno non mi pare vibri nessun tipo di allegria in giro. Probabilmente quando muoiono gli anziani, anche i ritorni di massa si diradano. La ricostruzione è completata – con frequenti buchi che resteranno tali per l’eternità, come la bocca sdentata di un vecchio o di un infante. Il centro storico mi sembra sempre vuoto e il generoso tentativo degli urbanisti di “riprodurlo” a tavolino, mi lascia una sensazione di tristezza ancora più devastante, come un allestimento scenico che alla millesima replica non convince più nessuno. Il 23 novembre del 1980 poche pietre erano rimaste in piedi, in quella parte antica della città. Hai voglia a ricostruire, a salvare gli archi o ricreare le topografie. La città aveva perso il suo cuore e nessun trapianto glielo avrebbe restituito. Passo davanti alla Torre dell’Orologio, anch’essa ricostruita. Mi ricordo che proprio là sotto c’era la vecchia sede di Dp; l’avevano sgomberata nell’83, mi pare, spostando le poche suppellettili col biroccio di Mandulino, che guidava a colpi di bestemmie un cavallo più anziano di lui. Intorno era tutto pericolosamente in bilico. La Torre spezzata a metà aveva troneggiato per anni su quel panorama di rovine, diventando forse il vero simbolo della città. Avrebbero dovuto lasciarla così. Adesso la nuova versione se ne sta lì, anonima, inutile, nessuno la guarda – mentre il moncone spezzato era monito, memoria, persino bellezza.  Poco più in là un brutto monumento  celebra le centinaia di caduti di quella notte  fatale, la nostra Laylatul Qadr, la nostra notte del Destino. Ma i vivi? Chi li celebra? Chi ne ascolta i lamenti sommessi? Piano piano mi si schiarisce il quadro. Si, effettivamente anche questi luoghi sono reduci da una guerra persa. Un conflitto a bassa intensità durato decenni. Anche qui la malinconia è quella di una occasione sfuggita per sempre, di un qualche tipo di tradimento. La festa è finita. I soldi sono arrivati, sono passati e non si è riusciti a usarli per dare un profilo, un volto, un anima, una vocazione nuova a questi luoghi. E sono rimasti in sospeso  tra l’antica storia di tufi sbriciolati  ed una malamodernizzazione che non porta futuro, lavoro, speranze. I fondi di coesione, il Pnrr, i progetti europei, il super-bonus e i fondi regionali: Godot attende le ultime gocce di droga che possono tenere in piedi il corpaccione esausto della provincia. Ecco la malinconia pervasiva e infettante: gli irpini, a cominciare dal capoluogo, sono in eterna transizione, come congelati dentro un lungo estenuante dopoguerra. E il terremoto è il trauma originario da cui non si guarisce – e la gente è consapevole che il meglio (se così si può dire) è ormai alle spalle. L’età delle speranze, dei progetti, dei ragazzini per strada a giocare a pallone tra barracane e tubi innocenti, dei morti seppelliti in fretta per cullare l’utopia di un riscatto, di un salto in avanti della storia. Ne parlo col mio amico Giovanni Marino, davanti alla vecchia prefettura, nella speranza che la sua saggezza diradi queste nebbie di pessimismo. Giovanni è un agitatore culturale instancabile, pubblica libri sulla memoria civile dell’Irpinia povera, lancia scrittori di periferia, organizza convegni e feste dell’Unità, legge e studia come un ventenne anche se ormai ne ha più di settanta. Giovanni è una nemesi vivente: è il cugino basso, frenetico e comunista del grande Ciriaco De Mita e prima o dopo dovrò decidermi a romanzare la  sua storia familiare. Ne verrebbe un bel racconto di queste terre e dell’Italia. Mentre il grande statista cresceva, alto, serafico, scalatore nato, nutrendosi nel brodo primordiale della Dc irpina, il cuginetto più giovane e ribelle, figlio del ramo povero della tribù, diventava attivista, sindacalista, entusiasta e velleitario prefiguratore di un altra idea di Irpinia e di cultura. Una specie di confronto a distanza tra due mondi dentro la stessa famiglia, lo stesso paese, le stesse piazzette dissestate, la stessa storia. E chiacchierando con lui – l’intellettuale di provincia pieno di ardori e buone intenzioni e proprio per questo trascurato e negletto, come nelle sceneggiature di Ettore Scola – mi viene fuori la più scontata delle conclusioni: il clima di sconfitta e tristezza che si respira qui è quello dell’Italia intera; Avellino è la metafora della nazione (e De Mita buonanima ne sarebbe stato orgoglioso); un paese senza sfide, senza speranze, senza rivolte. Dove non ci sono neanche più i soldi per festa/farina/forca e le badanti in giro sono più numerose dei giovanotti, che appena possono tagliano la corda verso l’estero o rosicchiano la rendita familiare aspettando chissà quale svolta che non arriverà. I turchi sotto Erdogan hanno avuto la loro botta adrenalinica: venti anni di bolla immobiliare, di tsunami di calcestruzzo e farlocche suggestioni neo-ottomane.  E anche la vicina Napoli emette sussulti al ritmo della macarena turistica, inseguendo disperate speranze di ricchezza, di rinascita, di emancipazione (ma quando mai un popolo si è riscattato vendendosi e friggendo zeppole e panzerotti?). Qua invece, in mezzo al verde suntuoso delle “zone interne”, nessuno reagisce più a niente. Il malato sembra rassegnato al peggio. I beati anni del terremoto. La modernità che arrivava a stanarci; non avevamo  vecchi minareti anatolici  da contemplare – i nostri, di minareti erano tutti crollati; e i tronconi rimasti ci facevano vergognare, come anche le pezze, gli stracci, i tufi senza intonaco, i cani liberi per strada, e i ragazzotti a mettersi in fila per farsi ammazzare dall’ amianto dell’Isochimica. E nessun runner  girava allora ad autoconsolarsi con una corsetta – eravamo gente seria, pia e incattivita. Meglio anticipare il rientro a Nord. Un salto al camposanto e la promessa silenziosa di non tornare – i buoni propositi che durano sempre pochi mesi. (giovanni iozzoli)
Sullo Stretto il ponte non lo vogliono. Cronaca di un corteo a Messina
(fotografia di nm) Il 9 agosto un fiume di gente ha attraversato le strade di Messina per dire no al ponte. Più di diecimila persone sono scese in strada lanciando una sfida al ministro Salvini che, qualche giorno prima, durante l’approvazione del progetto definitivo del ponte da parte del Cipess, si era precipitato in città – accolto da una decina di sostenitori tra cui il sindaco della città Basile – per presentare in pompa magna il progetto, con l’avvio dei  cantieri che avverrà entro la fine del 2025, e che prevede l’inizio dei lavori a fine 2025 e soprattutto a fine degli espropri. Al termine dell’incontro, con un fare provocatorio, Salvini aveva lanciato dei bacini ai manifestanti “No ponte” che lo aspettavano fuori dal luogo in cui si teneva l’evento. La manifestazione, partita alle diciotto da piazza Cairoli, ha attraversato le principale arterie del centro, giungendo due ore dopo a piazza Duomo. Sul camion con le bandiere della Palestina e dei No ponte, campeggiava la fotografia di Santino Bonfiglio, militante morto qualche mese fa, a cui è stato dedicato il corteo. Appena dietro il camion, uno striscione con la scritta No ponte, e un pugno chiuso che spezza in due il ponte che unisce le due sponde dello Stretto. Tra i manifestanti tanta gente comune e qualche volto noto, come Antonio Mazzeo, membro dell’equipaggio della Freedom Flotilla che ha provato a rompere l’assedio a Gaza. Il corteo, sebbene sia stato circondato da un numero enorme di agenti in tenuta antisommossa – evidente il clima di intimidazione, nella nuova cornice securitaria sublimatasi con l’approvazione del ddl sicurezza – è riuscito ad affrontare con maturità le diverse provocazioni ricevute, a cominciare dal volo basso dell’elicottero della polizia al momento della partenza del corteo, e alcuni spostamenti anomali di contingenti verso una parte di manifestanti in alcuni tratti della manifestazione. Un altro elemento da sottolineare è stata la decisione di eliminare qualsiasi caratterizzazione partitica, collocando a inizio corteo le bandiere No ponte, e spostando in coda tutti i militanti con le bandiere dei propri partiti e gruppi politici. Nei primi interventi i manifestanti denunciano il tentativo di colonizzazione del progetto ponte promosso dal governo Meloni, la Società Stretto di Messina e Webuild, che alimentano la macchina ponte. In particolare il ruolo di WeBuild (ex Salini-Impregilo), a cui vengono appaltati diversi cantieri in Italia, che ha visto schizzare verso l’alto le azioni in borsa dopo l’annuncio della costruzione del ponte del 2023. Il progetto di WeBuild si realizzerà attraverso un utilizzo di tecniche invasive, cantierizzazione diffusa e alimentando criticità legate allo smaltimento di materiali tossici, come quella già verificatasi per la costruzione del raddoppio ferroviario sulla Messina-Catania, che ha inquinato di arsenico l’area di Contesse, alla periferia sud della città. (fotografia di nm) Tutte criticità che preoccupano la popolazione, visto che le aree di cantiere, tra stoccaggio di materiali e costruzione dei cavi, interesseranno tutta la città, compresi i quartieri che si trovano a più di venti chilometri di distanza rispetto a dove sorgeranno i pilastri del ponte. Il tutto verrà facilitato dal decreto infrastrutture, che per accelerare la costruzione prevede la possibilità di cantierizzazione per fasi. Dopo circa trenta minuti dalla partenza del corteo, mentre una signora esce dal proprio balcone di casa sventolando una bandiera della Palestina, un altro intervento dal camion ricorda che i territori sono di chi li abita e se ne prende cura. Un riferimento è alla legge 2001, che come avvenuto con la Tav in Val di Susa, per la costruzione delle opere pubbliche non prevede alcuna consultazione con le popolazioni locali. Tra i quattordici miliardi che serviranno per la costruzione di questa grande opera, una buona parte delle risorse potrebbe essere utilizzata invece per intervenire sulla gestione idrica o sul dissesto idrogeologico. Messina registra perdite della rete idrica che costringono la popolazione ad avere l’acqua solo per alcune ore al giorno. O la sanità, con la sua crisi economica strutturale che impedisce l’incremento dei posti letto negli ospedali, e le  assunzioni di ausiliari, Oss, infermieri e medici specializzati. (fotografia di nm) Altrettanto menzognera resta la manovra del governo di far passare il ponte come un’infrastruttura militare che rafforza i sistemi di mobilità in una regione piena di basi Nato, come emergerebbe dalla recente delibera Iropi che giustificherebbe la costruzione del ponte per facilitare lo spostamento di truppe militari nel Mediterraneo. Secondo Antonio Mazzeo a oggi non esiste alcun documento ufficiale che consideri il ponte funzionale allo spostamento di truppe, mezzi e armamenti. Eppure il dispositivo ponte continua ad essere alimentato non solo dal governo ma anche dalla magistratura, come dimostrato dalla sentenza del tribunale di Roma che ha condannato i militanti No ponte – che avevano presentato un ricorso contro la costruzione da parte della Società Stretto di Messina – al pagamento di 340 mila euro di spese legali. Ed è per questo che appena il corteo arriva a piazza Duomo, un ultimo intervento dal camion ricorda come il movimento No ponte non può fare affidamento su nessun soggetto istituzionale, consigliere o partito, ma solo sulle forze degli stessi militanti che con passione e energia continuano a sostenere la mobilitazione, da più di venti anni. Gli stessi manifestanti ricordano ai reparti mobili schierati davanti e in coda al corteo che i militanti continueranno la battaglia, sia nei cantieri dove partiranno i lavori, che davanti a ogni casa dove verrà eseguito lo sfratto per l’esproprio. Prima di entrare in piazza un ultimo coro arriva dalla folla: “Lo stretto di Messina non si tocca, lo difenderemo con la lotta!” (giuseppe mammana)
La goccia e la pietra rovente. Cartoline dall’estate pugliese
(copertina di federico manzone) Riproponiamo a due anni di distanza queste cartoline dall’estate pugliese, dal numero 11 (novembre 2023) de Lo stato delle città. Nel frattempo la svendita del territorio procede di emergenza in emergenza: la xylella degli ulivi, lo spopolamento, l’assalto a terre e coste per impianti eolici e fotovoltaici, il consumo di suolo per resort di lusso, la crisi idrica, la devastazione degli incendi. Mentre gli amministratori locali sembrano agiti da forze estranee e i sedicenti intellettuali fomentano lo storytelling dominante, due vicende esemplari su tutte. Lo scorso maggio i comuni attraversati dal gasdotto Tap hanno ratificato un accordo con la multinazionale che prevede il ritiro della costituzione di parte civile nel processo contro Tap, la rinuncia alle compensazioni per la costruzione dell’opera (e per il suo previsto raddoppio) e la rinuncia a qualsiasi diritto nei confronti dell’azienda e dei suoi dirigenti, in cambio di otto milioni da parte di Tap, spiccioli per comprare il consenso del territorio, delegittimando le ragioni di chi ha lottato contro il gasdotto. La svendita continua con la sponsorizzazione da parte di Tap di festival culturali e rassegne di eventi estivi. In un paese del basso Salento, la sindaca ha emesso un’ordinanza con cui vieta iniziative politiche, manifestazioni e volantinaggi nel centro storico per la stagione estiva. Ha giustificato il divieto sottolineando l’importanza di non creare disagi ai turisti “interessati alle attività di puro svago” e di preservare la reputazione del paese, che farebbe parte dei “borghi più belli d’Italia”. La pietra è sempre più rovente, le poche sparute gocce evaporano senza tempo di scorrere. *     *     * la prima volta che ho sentito dire in salento ero ragazzina e ascoltavo una canzone di biagio antonacci che passava in ogni radio quell’estate. si era sempre usato nel salento, e nemmeno così spesso come adesso, una decina di anni dopo, che sembra un marchio registrato quando chiedo al bar del mio paese un caffè in ghiaccio col latte di mandorla e mi sento rispondere “ah, un caffè salentino!” e ritrovo lo stesso marchio in un autogrill lontano dalla puglia. anche se la musica cavalcava la moda della “vacanza in salento” a noi non importava di avere turisti tra i piedi, perché sceglievamo gli scogli più inaccessibili per passare le giornate al mare senza adulti nei paraggi. sempre in quegli anni, in viaggio a parigi trovo un enorme padiglione nella piazza della tour montparnasse con una mappa della mia regione e la scritta #weareinpuglia, e ingenuamente col mio primo smartphone scatto una foto. estate dopo estate spuntano sempre più lidi privati, alberghi, lounge bar e cocktail bar sul mare, bistrot, bancarelle di souvenir, eventi musicali invischiati in una falsa coscienza che li spaccia per rituali arcaici. negli anni quell’hashtag ha scolpito un salento ridotto a “terra del rimorso” fuori dalla storia, un non-luogo dove non c’è altro che tamburelli, balli e taralli. IL MONDO DEI (CON)VINTI riemergo come sputata dalla risacca delle pagine di recita estiva di christa wolf, libro che da qualche giorno ho finito ma continuo a riaprire, quasi che impastarmi a parole e immagini possa farmi capacitare che quello che ho letto è ancora lì. un gruppo di amici abbandona la città per cercare nella campagna isolata un rifugio alla delusione per un mondo in cui non si riconosce. alle prime pagine sono pronta a difendermi dalla nausea per la retorica della vita campestre come idillio della pienezza esistenziale, del margine come ultimo presidio di resistenza. invece lo scudo non serve, il loro non è un ritirarsi, un ripiegamento, è più una dislocazione per non lasciar opacizzare l’utopia ma senza clemenza per se stessi e gli altri. “adesso! così ci urlavano le cose pretendendo la liberazione. con la stessa intensità con cui esse erano costrette a essere se stesse, dovevamo essere noi stessi”, e mi sembra che la storia venga a stanarmi nell’interstizio dove cercavo di nascondermi. è una domenica di fine luglio, le stesse strade che fino a pochi mesi fa erano vuote ora sono un ingorgo di auto con targhe straniere, mentre palchi per spettacoli e tavolini dei ristoranti corrodono lo spazio pubblico. la campagna che domina appena fuori i piccoli nuclei abitati potrebbe essere la stessa del libro, ma qui è costretta a fare da sfondo a b&b, masserie tradite e convertite in resort di lusso, ville da affittare e sentieri da percorrere a piedi seguendo gli itinerari di qualche guida turistica che investe i passi di un significato artefatto (come se per camminare sullo sterrato servisse un animo sensibile e nobile). nelle pagine di recita estiva ricorre la foga dei figli dei contadini di sbarazzarsi di quello che resta nelle case che ereditano. utensili, vasellame, mobili che hanno accompagnato i lavori e le vite dei padri sono tracce di un mondo con cui i figli non vogliono mai più avere a che fare. mi torna in mente una scena minima che ho spiato qualche sera prima tra le stanze del museo della civiltà contadina di calimera. ascolto una signora che guida la compagna turista attraverso l’esposizione leggendo i nomi sulle targhette e traducendo il dialetto (con la pronuncia esotica volutamente marcata di chi quello stesso dialetto lo scansa come gergo volgare). davanti a un telaio antico per tessere a mano aggiunge “a casa di mia madre ne avevamo uno così, poi non so che fine ha fatto”, ma un po’ se ne vergogna e aspetta in bilico di scorgere nello sguardo dell’interlocutrice tracce di disprezzo per le origini umili o di ammirazione per le radici autentiche. come se la rimozione e la negazione di essere appartenuti a una cultura subalterna siano stati una tappa ineludibile per accedere al benessere (decenni più tardi che altrove). barattare tutto quello che avevano per emanciparsi alle novità e riguadagnare in fretta i gradini verso la vera civiltà. come una scena di lazzaro felice in cui il ragazzo riconosce delle erbe spontanee commestibili (che oggi troneggiano nei menu gourmet) ai margini delle rotaie di una periferia metropolitana, ma gli ex contadini memori delle condizioni di sfruttamento a cui erano costretti per lavorare la terra non vogliono saperne di raccoglierle, a costo di sfamarsi con patatine scadute rubate in una stazione di servizio. oltre ad aver dimenticato, qui gli “autoctoni” hanno presto introiettato la condizione di abitanti di un’enclave turistica elitaria e si sono prodigati (alcuni inconsapevolmente) ad aggiungere tinte pittoresche alle narrazioni fasulle di turismo e folklore, mentre le foto di scontrini sui social per lamentarsi dei prezzi assurdi di un caffè o di un rustico restano campo di commenti atrofici. intorno alle reti che hanno creduto di lacerare con l’emancipazione e il progresso se ne sono annodate di nuove: dallo sfruttamento dei latifondisti e delle manifatture di tabacco a quello mercificante della monocultura turistica. TURISMO O TERRORISMO cerco di non ascoltare le voci che dalla televisione ammoniscono di bere acqua e stare all’ombra, ma in uno di quei programmi saturi di già-detto che riempiono le fasce orarie in cui la gente in vacanza non vuole essere ammorbata coi tg mi capita un’intervista amichevole a massimo bray (il suo nome non mi suona vuoto perché bray è leccese e ha una casa vacanze nel mio paese; a fine intervista non manca di confessare il suo amore nostalgico per “la vecchia bottega alimentare di un paesino in provincia di lecce, marittima”). dopo gli orpelli di ministro presidente direttore, bray intraprende una crociata in difesa dei borghi e della gestione che l’italia ne fa. “l’italia è il paese che ha inventato i festival, abbiamo creato comunità grazie alla cultura”. poi stizzito reclama che “questa forma di pessimismo che ci assale deve finire, noi dobbiamo essere orgogliosi che si venga in italia”, perché “di fronte a una vita frenetica noi siamo capaci di far stare centinaia di persone in un piccolo borgo, farlo rivivere e creare quel senso di comunità”. li chiamano borghi per omologare sotto un’unica etichetta centinaia di paesi, negando a ognuno il suo carattere, la storia, la voce, il dialetto, i canti, le tradizioni che gli appartengono, schiacciando sotto una parola sola tutto quello che suona bene chiamare identità. la chiamano comunità come se la prossimità fisica di troppe persone nello stesso posto implicasse la vicinanza d’animo. poi chi l’ha detto che il borgo voglia una seconda vita da terra colonizzata? meglio morire di incuria e abbandono che schiavo della religione del marketing. non che ci sia tanto da vantarsi per il dilagare di festival, happening, performance, che incarnano il paradigma della transitorietà, dello straordinario contro l’ordinario, grandi eventi che attraggono turisti e fanno da alibi a privatizzazioni spietate invece che manutenzione sul territorio e assunzioni permanenti delle persone che quei luoghi li vivono (e che i festival sfiorano appena). forse il senso di comunità che sbandierano non è riuscito a sopravvivere all’emigrazione e allo spopolamento perché a questi paesi è stata negata l’ovvietà di immaginare un futuro. senza un orizzonte, condivisione, solidarietà, convivialità restano slogan per guide turistiche e costumi rigidi entro cui i paesani vengono relegati finendo per recitare se stessi. penso al ciclo di isteresi, un grafico di una curva chiusa su un libro di fisica all’università: certi materiali sottoposti all’azione di un campo magnetico non tornano più allo stato vergine quando l’azione cessa, restano magnetizzati anche in assenza di corrente, e ogni sostanza ha una temperatura critica oltre cui perde le proprietà che la caratterizzano. guardo le spiagge e le strade che si gonfiano fino a esplodere di corpi e auto, poi tornano sventrate e deserte per un po’ di mesi in un ciclo che si ripete. non riesco a convincermi che viviamo solo in funzione della stagione (come se l’estate fosse l’unica che conta in tutto l’anno, il resto è letargo), che siamo un posto per villeggiatura, che le case se ne stanno vuote aspettando di essere invase senza risentire dell’oltraggio che subiscono. non riesco a convincermi che non sappiamo più cosa vuol dire abitare, creare abiti, abitudini, forme di vita comune. davvero abitare è sinonimo di consumare? che cosa sono i paesi se li pensiamo a partire dall’abitare? penso ad antonio neiwiller che proprio in un paese della provincia di lecce nell’estate del 1991 diceva “io appartengo a questa terra, a questa parte della terra che ora non riconosco più. io voglio difendere differenze, particolarità, gesti, atti, io voglio ancora difendere questa parte del mondo. chi l’ha detto che tutto questo debba essere violentato così”. SE MI SVENDO NON COLLASSO a giugno una scuola di melendugno, insieme al comune e all’azienda tap (ancora sotto processo per inquinamento ambientale e contaminazione della falda acquifera), comunica di voler dedicare ai ragazzi alberi che saranno piantati nei terreni dell’impianto della multinazionale per raggiungere obiettivi di sostenibilità. dopo l’arte pubblica asservita a riqualificazioni che pretendono di risanare gli spazi urbani mentre li convertono in luoghi a uso e consumo del turismo, il capitalismo si appropria di pratiche virtuose svuotandole di senso e piegandole a scopi altri. e noi a testa bassa raccogliamo le noccioline che l’invasore ci lancia tra le sbarre dello zoo. se c’è una costante, è il salento che si vergogna di se stesso. la musica abiura le sue radici povere, travisa la funzione del canto e camuffa le condizioni bestiali di lavoro dei braccianti con un contesto bucolico in cui la miseria è ridotta a feticcio che incipria di esotico il panorama. ciò che doveva curare e salvare (il canto e la musica come terapia per il tarantismo) accelera la distruzione di un territorio e della sua storia violentata dal marketing. le contraddizioni annichilite (non è poi lo stesso meridione che tacciano di corruzione, mafia e arretratezza?), le complessità appiattite a “un’immagine dimezzata”, diceva gianni bosio: “il buon selvaggio, l’uomo che è buono in quanto dimensione astorica, l’uomo folklorico. è questa la sola misura lecita per l’uomo storico contemporaneo e subalterno per partecipare al festino della cultura politica della classe dominante. l’uomo storico, l’uomo politico, l’uomo della fabbrica e dei campi, viene semplicemente ignorato”. l’istituto carpitella, fondato nel ’97 per difendere e diffondere la cultura orale del salento, tradisce radicalmente i propri scopi un anno dopo con il festival della notte della taranta che ha monopolizzato tutte le energie e i soldi nella sua organizzazione, e ogni sforzo per ricerca, studio e archiviazione della memoria tradizionale è stato stroncato (già dal palco di melpignano nella prima notte della taranta uccio aloisi ammoniva, prima ancora di battere sui tamburi, “nu s’ave perdere tiempu”, non si deve perdere tempo). schiere di assessori e di esperti usano la “pizzica” come strumento per costruirsi carriere in politica, tanti mitridate che hanno ceduto passano dalla critica totale alla collaborazione con la notte della taranta contendendosi palchi e cachet, dando l’impressione che l’interesse personale e il ritorno di immagine contino sempre più di ogni altra cosa. sembrano i protagonisti di una ballata di brecht, “oggi mi hanno fatto vedere il loro mondo, ho visto solo il dito, tutto insanguinato, allora in fretta ho detto che era di mio gusto”. roberto raheli degli aramirè, editore illuminato e unico difensore incorrotto di quella cultura, che abbandonato da tutti ha abbandonato tutto nel 2007, denunciava la “deliberata manipolazione della realtà storica a uso pubblico, attraverso la creazione di una serie di icone, come quella del ragno e del tamburello, o quella del salento edonistico-dionisiaco dove tradizionalmente i contadini al termine del lavoro si riunivano nell’aia della masseria a ballare sfrenatamente la pizzica”. pasolini sperava che gli uomini avrebbero risperimentato “il loro passato, dopo averlo artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di frenetica incoscienza”. ma ora che la sintesi linguistica della modernità ha abolito il passato prossimo e l’imperfetto, non ci resta che dissotterrare un passato remoto. un passato che, oltre ad aver dimenticato, abbiamo tradito: i canti che si ascoltano dai concerti restano solo “quello sforzo ingrato di dirsi vivi in una lingua morta”, per dirla con gabriele frasca; il dialetto mortificato nei ritornelli in bocca ai “grandi” nomi dello spettacolo chiamati a partecipare al festival e a distogliere ogni tentativo di scorgere il marcio delle cose, le ragazzine che credono di conoscere il ballo tradizionale del loro territorio e invece copiano le movenze seducenti del corpo di ballo sul palco disegnate da qualche coreografo, ignare che la pizzica si ballava forse due volte l’anno con una serie di restrizioni, con garbo e pudore. abbiamo tradito tutto il possibile, non c’è più niente e nessuno da tradire. che fare allora, se “tutto è in armonia nel modo sbagliato e ogni cosa va in frantumi nel modo giusto” (ancora recita estiva)? che fare dei paesi una volta che la cultura che li ha animati si è estinta con i suoi abitanti? che fare della cultura popolare, delle tradizioni, dei riti, una volta che è venuto meno il mondo che li ha generati? ATROCE PAESE CHE AMO partecipo alla presentazione di un libro di poesie in un giardino appartato dagli odori dei ristoranti e dalla musica dei locali. mi ritrovo a voler scappare tra una platea che sembra aver eletto se stessa a casta superiore. si riconoscono al primo sguardo i turisti in abiti da vacanza (e i non-turisti ne imitano lo stile): camicie di lino, cappelli panama, lunghi vestiti e caftani che cercano di apparire frugali ma so troppo bene quanti empori vendono quei tessuti spacciandoli per opere di tessitrici locali che conservano l’arte del telaio (mentre gli unici telai superstiti sfornano tessuti per dior e lecce conferisce cittadinanze onorarie a fashion designer che scelgono il salento come vetrina) per abboccare all’umiltà apparente. sono gli stessi turisti che strisciano con innaturale lentezza dentro auto troppo grosse per attraversare indenni le stradine dei paesi non progettate per il grande traffico estivo. assistono alle letture di versi come a una liturgia consolatoria che celebra il loro status di cittadini edotti all’arte, civili, che il massimo picco di adattamento all’habitat lo raggiungono mangiando la frisa con le mani e non con le posate. li riconosci mentre vagano alla ricerca di tipicità: la pasta fatta in casa diventa esclusiva dei ristoranti, il grano arso una ricercatezza culinaria e solo cinquant’anni fa l’emblema della miseria, ottenuto dalle ultime spighe bruciate sfuggite alla mietitura manuale. però loro si autoassolvono eleggendo franco arminio a profeta della nostra epoca quando canta il “bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, di gente che ama gli alberi e riconosce il vento”. eppure gli risponde decenni prima errico malatesta: “se tu leggi i poeti li trovi tutti pieni di entusiasmo per la vita campestre. ma la verità è che i poeti che stampano libri, la terra non l’hanno zappata mai, e quelli che la zappano davvero si ammazzano di fatica, muoiono di fame, vivono peggio delle bestie, e sono calcolati come gente da nulla”. quando non c’è più un punto dove posso volgere lo sguardo senza che si facciano incontro con il loro carico pensieri caustici mi arrendo a fare un giro in campagna, anche se questo si traduce in attraversare ettari di rami secchi e tronchi sgozzati quando va bene, odore di bruciato e residui di roghi quando va male. stavolta il suono delle campane di capre e pecore mi anticipa i passi, il pastore che conosco bene quando mi vede spegne la radiolina con l’antenna che si porta nella tracolla per farsi compagnia nella desolazione dei campi. senza preamboli di circostanza mi racconta delle sanzioni di un controllo asl per piccole falle nel laboratorio in cui lavora il latte. lo aveva piastrellato e messo a norma quando uno dei figli ha deciso di continuare il suo mestiere nonostante lui lo scoraggiasse di continuo, anche con rabbia, perché “non deve fare ‘sta vita, con il mondo di oggi esci pazzo”. eppure il controllo ispettivo si incaglia per l’assenza di un certo formato specifico di trappole per topi, così ai soldi spesi per sistemare il laboratorio si aggiungono i soldi per la sanzione e le altre modifiche imposte. ormai il prezzo dei prodotti detta gli standard di lavorazione, una piccola azienda zootecnica ha le stesse spese di un’impresa di allevamento a prescindere dalla dimensione, per il mercato cinque capre o cinquecento è la stessa cosa. penso ai villani di donpasta, a santino galasso di taranto che sorride mentre dice “t’ha mettre ‘a cape ssott’ e ha sce ‘nnanz”, devi abbassare la testa e andare avanti, a totò fundarò di alcamo che fa la conserva di pomodoro a casa e si incazza perché secondo la legge quella conserva non può esistere, è illegale, ma è impossibile produrre cibi genuini rispettando le regole. penso che anche la cultura genuina può essere solo clandestina. penso a civitonia, un festival per civita di bagnoregio che in clandestinità esiste senza essere accaduto. “sappiamo bene quanto il mantra dell’accumulazione capitalistica, insidioso e colonizzante, spazzi via ogni parola dissenziente”, scrive giovanni attili sul libro che dà un supporto fisico all’immaginare di civitonia. “sappiamo bene di avere una lingua logora e stanca” (una volta in una traduzione di guido ceronetti avevo letto “si stanca qualsiasi parola, di più non puoi fargli dire”). eppure attili insiste, “la consapevolezza della devastazione in atto dovrebbe obbligarci a ricaricare parole ormai atrofizzate con l’obiettivo di far tracimare lo stagno paludoso che ci immobilizza”. “riscrivere la fine o dell’arte del capovolgimento”, leggo sotto il titolo del libro, e infatti civitonia è anche un affronto al pensiero di chi governa quel territorio, è un festival che rinunciando al suo accadere si è salvato dall’essere fagocitato dall’industria turistica o dalle politiche urbane che piegano l’arte a progetti di presunta riqualificazione buoni solo per ingrassare coi fondi pubblici. “ad accendersi ancora è il segnale che dovrei fare qualcosa. ogni giorno. insomma io sono come un quadro segnaletico dove si accendono continuamente lampadine di diversi colori. sicuramente produce un bel fregio luccicante. solo che non serve a niente”, sottolineo tra le pagine di recita estiva. in matematica essere impossibilitati a eseguire operazioni è la molla per immaginare, per costruire domini numerici più ampi: dai numeri naturali agli interi negativi, dai numeri reali agli immaginari, domini che contengono ciascuno il precedente e dai loro spalti si ha una vista sempre più ampia e sfaccettata. se x2+1 resiste alla possibilità per i polinomi di essere scomposti in monomi lineari, si può scomporre abbandonando il campo dei reali e sollevandosi nel dominio degli immaginari. cosa serve allora? ammettere che i nostri mezzi sono difettati e monchi, e quindi cercare scarti, biforcazioni possibili, non soluzioni miracolose ma indizi minuti per scardinare l’inerzia e scommettere su un futuro differente. ammettere che il buio ci soffoca e cercare barlumi, intermittenze, una ricomparsa delle lucciole, forse destinate a morire travolte dalla luce sporca delle stelle di un hotel. presidiare le trasformazioni urbane, rivendicare processi condivisi, farsi carico del mostruoso ma cercare angoli da cui guardarlo senza esserne assuefatti. cercare di arrivare a un risultato per vie traverse mi riporta alla matematica, al metodo dimostrativo per assurdo: si ottiene il vero facendo scaturire l’impossibile a partire dal falso, ci si situa in ciò che si ritiene essere falso e si mostra come questo conduca a una conclusione impossibile. per assurdo si dimostra un teorema fondamentale di cantor che dice che dato un insieme ci sono sempre più parti di quanti siano i suoi elementi (si dimostra che non ci possono essere tante parti quanti elementi e si sa che non possono essercene meno). il teorema di cantor confuta il dilagare dell’individualismo: il fatto che in un insieme qualunque ci siano più parti che elementi significa che la profonda risorsa di ciò che è collettivo prevale su quella dei singoli, come il coro prevaleva nelle esecuzioni musicali spontanee. fa eco il barone rampante: “le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone, e danno la gioia che raramente s’ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose buone”. allora organizzarsi, agitarsi, frantumare la cappa del disincanto, distogliere lo sguardo dai fari del treno in corsa che sta per travolgerci. brecht incalza: “vi accontenterete del cielo che splende? sarete sfamati? sarete consolati? il mondo guarda a voi con la sua ultima speranza. più a lungo voi non potete essere contenti di una goccia simile sulla pietra rovente”. mi illudo che scrivere possa far sopravvivere qualcosa, strappare qualche brandello al vuoto che si scava, tracciare da qualche parte un solco. ma suona amaro il monito di rina durante, “tu capisci che in questa provincia senza fine rimani solo tu ultimo cavaliere senza né briglia né staffe a portare il peso di una storia che finisce”. mi illudo che cucire insieme parole che mi stagnano dentro possa avvicinarmi a una realtà che non so comprendere né contenere (e quando riesco mi lacera, perché la stessa vanga può scavare solchi dove seminare o sotterrare cadaveri). ma di fatto sto scrivendo per prendere le distanze, per espellere la materia scottante ingabbiandola in queste cartoline. allora se pure il racconto brucia la sua materia per alimentarsi, almeno che produca fiamma anziché riscaldare le ceneri. (chiara romano)
Tutti in fila per i fondi per il riarmo europeo. Indebitarsi per la guerra
Sono diciotto gli stati della Ue che hanno presentato richieste di prestiti emessi dalla Commissione europea (Safe) per finanziare i progetti di riarmo: tra questi figura, ovviamente, l’Italia e questo nonostante fino a poco tempo fa il ministro dell’economia Giorgetti storcesse il naso davanti alla prospettiva di indebitarsi ulteriormente per […] L'articolo Tutti in fila per i fondi per il riarmo europeo. Indebitarsi per la guerra su Contropiano.
La guerra cercata
Nel momento in cui l’Unione Europea annuncia ai quattro venti un piano di riarmo epocale e la NATO incassa la promessa di un aumento delle spese militari al 5% del PIL per gli stati membri, sta mostrando l’arma ai suoi avversari ma soprattutto al suo pubblico, quello che la dovrà pagare. Il copione prevede che queste armi dovranno essere usate, se non altro a scopo deterrente, in futuri conflitti con nemici sempre più potenti. L’antagonista è fondamentale nello sviluppo di una narrazione, non se ne può fare a meno. L’antagonista è essenziale anche nella costruzione dell’identità, le guerre rinsaldano la comunità nazionale attorno ai leader, anche ai peggiori. Continua a leggere→